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Autore: Sarah M Gloomy    24/01/2017    0 recensioni
Ultimo capitolo della serie The Exorcist.
Gli esorcisti sono tornati in vita e devono fare i conti con la loro nuova natura. Hanno un nuovo obiettivo, quello di distruggere il loro vecchio Ordine, ma qualcosa non va come dovrebbe.
Genere: Sentimentale, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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            Nessuno parla. Cosa dire? Ho minacciato Susan e il pugnale è segnato con il suo sangue. Ho paura dei giuramenti di sangue, perché c’era un tempo in cui valevano più di un contratto scritto. Era vincolante. E io ho legato la vita di Susan alla mia. In un certo senso, l’anima di Malachite mi appartiene.
Usciamo dalla cattedrale, un brivido mi percorre la schiena. Chase mi passa un braccio sulla spalla, obbligandomi a camminare al suo fianco. Io non sono così. Ho davvero bisogno di trovare me stessa.
Mi siedo in auto. Mi trovo da sola con Chase. E i nostri vizi, ma quelli sono solo parti di noi, quindi in effetti siamo soli. Mette in moto con calma. Nessuna urgenza nello scappare, perché noi abbiamo finito. Abbiamo finito di fuggire, abbiamo compiuto la nostra mossa. Johannes cercherà di portarci via le anime questa notte? No. Ha visto che siamo vivi, per quanto questa parola non rispecchi più la nostra natura. Può aspettare. Possiamo permettere di goderci questa misera vittoria. I suoi subordinati, perché di questo si tratta, avranno un po’ più di giudizio. Strappare un’anima a persone che vivono è sempre un omicidio.
Appoggio la testa al finestrino. Il mio fiato appanna il vetro. La mia immagine velata è la visione di come sono. È così che mi sento. So che ci sono io, da qualche parte, ma ho bisogno di sapere. Sto facendo la scelta giusta? Perché continuare a lottare contro Johannes?
   «Ho bisogno …» Di cosa? Di più tempo? Di stare sola? O che lui non mi lasci? Di cosa ho bisogno in questo momento? Cosa non posso assolutamente perdere? Chiudo gli occhi.
   «È difficile.» Riassume lui.
No. Il compito di algebra è difficile. Fare una gara di corsa senza essersi allenati in modo appropriato è difficile. Quello che mi sta chiedendo è impossibile. Mi inumidisco le labbra. «Devo dirgli addio.»
   «I morti non devono farsi vedere.»
Che brutto. Ed è vero. Sono morta. Non posso andare da mamma e mio fratello, salutarli come niente fosse e scomparire dalla loro vita. Non posso. Eppure non voglio che tutto finisca così, che di me non rimanga altro che una tomba vuota e un segnaposto con solo il mio nome a tavola. «Chase, ti fidi di me?»
Sospira e fingo di aspettare una risposta che so non arriverà. Gioco male le mie carte. Non è una questione di fiducia o di altro. Non posso chiedergli una cosa del genere eppure ho la speranza che lui mi dica che sì, si fida di me. Fidarsi della bugiarda è un po’ come dire che lui non si farà condizionare dal suo orgoglio. Certo. E guarderà ognuno di noi come un suo pari, senza l’obbligo di doverci proteggere. Ovviamente no.
Un altro sospiro e la macchina si ferma. Apro gli occhi. Sono nella mia via, davanti alla porta del mio condominio. Hanno messo il recipiente del vetro fuori dal cancello, per aiutare i netturbini nella loro opera di raccolta. Un mazzo di fiori è appoggiato per terra. Ci sono dei peluche e quello che sembra un cartellone. Guardo Chase. Ha le mani strette sul volante e mi sta fissando. «Sì. Mi fido di te.»
Mi lascia andare. Lui sta combattendo contro la sua natura di controllo e mi lascia via libera. Gli accarezzo con la mano la guancia, appoggiando la fronte alla sua. È un contatto intimo, fronte contro fronte, naso contro naso. Casualmente ci diamo un bacio sulle labbra, esplorandoci lentamente e ignorando i conati di vomito alle nostre spalle. Respiro il suo fiato. «I morti non si fanno vedere.»
Annuisce, scoccandomi un bacio sul naso. È il suo modo di dirmi di andarmene. Sa che tornerò da lui. Lo faccio sempre. Esco dall’auto, sbattendo la portiera alle mie spalle. Di risposta, lui accende il motore e si allontana. Lie borbotta. «Da qualunque punto di vista lo metti, è una cretinata.»
Lo so, ma devo ritrovare qualcosa di me.
Mi avvicino al cartellone, immobilizzandomi alla vista delle foto. Sono molte. Sono troppe. Sono parti della mia vita che avevo dimenticato. C’è la foto del primo giorno di scuola, io, Mary e Julia insieme. Non sapevamo che saremmo state migliori amiche. I nostri occhi sono troppo grandi per dei visi ancora troppo fanciulleschi. Una foto della recita scolastica di quando andavo all’asilo, in cui mi hanno vestito da girasole. Abbozzo un sorriso. Beh, potevano risparmiarsela. E poi altre, in classe. Alcune so che sono state scattate con il cellulare, come quella in cui ho fatto una smorfia per una domanda della docente. Mi avevano sempre detto che facevo facce buffe con lei. Non gli avevo dato retta.
Poi le foto di gruppo, compagni che non rivedrò mai più. Ce n’è pure una in cui io e Chase siamo insieme, vicini. Infilo le dita sotto, strappandola. Ce ne sono così tante e ognuno ha scritto una sua dedica che non si accorgeranno che ne ho rubata una. In realtà, vorrei prenderle tutte. Sorrido, avvicinandomi a un’altra foto. C’è tutta la classe a una gita. La voglio. È un desiderio così lacerante che mi lascia così, a sfiorare il bordo. La voglio. Voglio ricordarmi ognuno di loro, non voglio essere un posto vuoto in classe, a tavola, nella mia stessa vita. Ho preso in bordo, l’ho quasi strappata quanto lascio la presa e l’appiattisco sul cartellone. No. Non sarò un posto vuoto a scuola. Non sarò neppure un nome scritto su una lapide, una bara senza un corpo. Vedo i miei compagni e lo so. Io sono stata qualcosa. Forse una scheggia nella loro vita, una cometa che da anziani dimenticheranno di aver conosciuto. Eppure qualcuno saprà che sono esistita. Se mi porto via una foto, non avrò ottenuto quel posto che mi spetta. All’opposto. Avrò creato una voragine nel mio cuore perché non potrò mai essere come loro.
Guardo la foto con Chase. Non so chi ha fatto la foto, ma deve essere recente. Siamo entrambi seduti sull’erba, in una giornata soleggiata, e stiamo parlando. Deve essere stata una delle prime volte che parlavamo durante gli allenamenti. Posso portarmi via qualcosa, però. Porto con me solo il ricordo di qualcosa che ho già. Non mi dovrebbe fare troppo male.
Spingo il cancello e mi addentro nel giardino. Potrebbe essere l’ultima volta. Lie mi ha preceduto e ha aperto la porta d’ingresso. Salgo le scale, con il cuore in trepidazione. Di nuovo mi ritrovo la porta di casa aperta e Lie che aspetta nel buio, oltre la soglia. L’appartamento è silenzioso. Chiudo gli occhi il tempo necessario per assaporare il profumo di cinese che aleggia nell’aria. Mamma. Proprio non ti va di cucinare, eh?
Mi incammino nel buio, proprio come un’ombra. Ora che sono lì, il pugnale che ho in tasca lo getterei via. Mi vorrei intrufolare nel lettone grande e dire a mamma che ho fatto un incubo. Sarebbe bello. E sarebbe crudele. La porta della mia stanza è aperta. È una fortuna che quel giorno io abbia buttato a lavare le lenzuola coperte di sangue. Ho mascherato fino all’ultimo la mia vera natura.
È esattamente come l’ho lasciata, con la tenda in parte aperta per vedere l’esterno. Mi avvicino alla finestra, guardando la tranquillità di quella via. Apro un cassetto, dove ho sempre nascosto un piccolo pupazzo. Prima di quel dannato giorno, papà mi ha portato a casa un giocattolo. Gli ho detto che ero troppo grande per quei tipi di giochi. Poi c’è stato l’incidente. L’ho supplicato di aprire gli occhi, che non era vero. Ero piccola. E poi, inevitabilmente, è arrivata la rabbia cocente, il desiderio di non vedere più il mio peccato. Sapevo della sua esistenza, ma ho cercato di ignorare dove l’avevo messo.
Passo una mano su quel piccolo panda. Esco dalla mia stanza. Ed entro in quella di Edward. Mio fratello è rannicchiato sul letto, come un piccolo animale che cerca il calore. È scosso da piccoli singhiozzi e ha stretto le coperte con un pugno. Mi ricorda un po’ Malachite. La parte migliore di lei, in ogni modo, quando è morto nostro padre. Forse avremmo potuto avere un rapporto più limpido, meno rancore tra di noi. Forse Edward è il modo di espiare le mie colpe come sorella. Gli passo il pupazzo in una mano. Lo prende senza indugi, tirando su con il naso. Mi inginocchio vicino a lui. «Edward, mi prometti che diventerai grande? E che vivrai questa vita pienamente? Sbaglia, fratellino. Sbaglia anche per me, così poi non ti pentirai di nulla.»
Gli schiocco un bacio leggero sulla fronte e lo sento mugugnare qualcosa di simile al mio nome. «Amabel»
No. Mi dispiace. Un pupazzo che a me ricordava papà è l’unico oggetto che posso lasciarti.
Mi alzo, dirigendomi verso la camera dei miei. Sono più cauta, perché mamma potrebbe svegliarsi. Lie mi sta osservando. Sento i suoi occhi seguire ogni movimento, la sua mente confusa. C’è un bel po’ di subbuglio e di sentimenti da fare impazzire chiunque.
La porta di mamma è aperta. Mi fermo sulla soglia, il cuore in gola. È quasi più dura di entrare nella stanza di Edward. Mi immobilizzo. Ci sono due sagome sul letto, anche se una è stranamente goffa. Quando respira fa una specie di gorgoglio rauco. Mi avvicino di un passo, accucciandomi. Inclino la testa.
Qualcosa di buono l’ho fatto, no?
Mi metto una mano sulla bocca per trattenere un gemito, osservando il mio papà dormire a fianco della mia mamma. Si è svegliato. Mi ha ascoltato. Gli avevo chiesto di tornare, perché mamma non avrebbe retto senza noi due. L’ha fatto. È tornato indietro. E l’unica cosa che si ricorderà di me è una bambina capricciosa che gli ha detto che era troppo grande per un pupazzo. Vicino al letto, ora che i miei occhi si stanno abituando, ha ancora quell’odiosa pappetta, una carrozzina ma lui è vivo. Se lo toccassi, lui si sveglierebbe. Sono così vicina che posso contargli le ciglia. «Grazie, papà.»
Mugugna nel sonno anche lui, obbligandomi ad alzarmi. Vorrei ancora di più introdurmi nel lettone, piangere e chiedere scusa, chiedere di essere una bambina, ma non posso. Non sono più solo loro figlia. Mamma è rannicchiata, il volto verso la parete. Ha il volto umido dal pianto. Non posso portare foto di voi, perché non posso portare il ricordo di cosa vi ho fatto. «Mi dispiace, mamma.»
Un’altra lacrima le scende, io arretro. Vorrei svegliargli, ma sarebbe troppo doloroso, troppo inutile e troppo pericoloso. Già sul comodino sto per appoggiare il mio piano, e mi ricordo appena in tempo di quanto in realtà li sto facendo soffrire. Prima di desistere, esco da casa. Chiudo gli occhi contro la porta, respirando l’aria come se fosse la prima volta. La mia idea era quella di scrivere una lettera, nasconderla tra gli abiti e sperare che, un giorno, la trovassero. Come fai a spiegare alla tua famiglia che non volevi lasciarli? Che l’incidente non è stato un caso fortuito? Che qualcuno ci voleva morti? Come fai senza sollevare altro dolore, altro rancore, e portando con te altre domande che non potrai mai rispondere?
Lie storce il naso. «I mortali sono strani. Noi siamo indipendenti da certi sentimentalismi.»
   «Se io morissi …» Abbozzo un sorriso, per quanto il cuore mi faccia dannatamente male. «Scusa. Quando sono morta, cosa hai sentito?»
   «Io sono te, Dalila. È chiaro che ho sentito la tua perdita.»
   «Loro lo provano ogni volta. È questo che è bello, di noi. Per quanto sei solitario, c’è sempre qualcuno la cui morte ti porta via qualcosa di te. Dei piccoli frammenti della tua anima.»
   «Insomma, i mortali fanno come il rituale delle anime di Johannes.»
Il dolore al petto si è un po’ allentato, mentre abbasso lo sguardo per incrociare Lie. Stupido idiota. Scuoto la testa. «Mi ostino a spiegarti i sentimenti, quando so che non li comprendi. E, comunque … grazie.»
Sottintendo un sacco di cose. Lo ringrazio per avermi permesso di tornare, per avermi fatto rientrare in casa e, sì, anche perché la sua scarsa conoscenza dei sentimenti mi ha fatto sorridere. Forse lo ringrazio anche per quello che so che farà, se la mia anima fosse a rischio di essere strappata. Dovevo fargli delle domande, volevo delle spiegazioni sul rapporto tra i vizi e gli esorcisti, ma per cosa? Sospiro, scendendo le scale. «Credi che sia folle?»
   «Sì.»
Sorrido. «E sei con me?»
   «Bambina, sono sempre con te.»
Già. Solo che a volte lo dimentico.
   
 
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