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Autore: CaptainKonny    24/01/2017    13 recensioni
"Quando hai accettato la tua vita e sei pronta ad affrontare il tuo futuro.
Quando ti senti abbastanza forte, credendo che il passato non potrà mai tornare a farti del male.
...E poi arriva uno psicopatico a smontare il tutto."
***
Mi chiamo Serena Brooks e Aaron Hotchner è mio padre...e si è appena fatto rapire dal mio prossimo S.I.
Il vero problema è che io non voglio avere niente a che fare con mio padre.
***
[Dal testo della canzone "Daddy's little girl": Daddy, daddy, don't leave/I'll do anything to keep you right here with me/I'll clean my room, try hard in school/I'll be good, I promise you/Father, Father, I pray to you]
***
Un ringraziamento speciale ad una persona molto importante che ha contribuito alla revisione della storia una volta ultimata.
Genere: Azione, Drammatico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Aaron Hotchner, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: Missing Moments, Movieverse, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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3

Capitolo 1

 
“Amo te,
niente di più semplice
amo te,
niente in più da chiedere”
 
POV. HOTCH
Il jet atterrò che era mezzanotte passata. Eravamo tutti stanchi. Ad eccezione mia e di David, gli altri si erano addormentati sui sedili in pelle dell’aereo. Per fortuna non avrei dovuto restare in pensiero che arrivassero a casa integri, ci pensò la gelida aria di Novembre a ridestare tutte le nostre cellule, pizzicandoci piacevolmente il viso. Era bello poter tornare a casa sapendo che un altro delinquente era dietro le sbarre, che delle persone innocenti erano in salvo e che le vittime avevano trovato giustizia. Ogni volta che ci pensavo mi sentivo orgoglioso della mia squadra, eravamo tutti degli ottimi profiler e, a mio parere non da meno, delle brave persone. Ciascuno di noi aveva alle spalle un passato più o meno doloroso e forse questo era il motivo per cui ci mettevamo tanta passione; impedivamo che le persone subissero quello che noi avevamo provato sulla nostra pelle. Ognuno di noi era diverso dall’altro e questo ci rendeva complementi di un gigantesco puzzle.
Salutai i miei colleghi, di lì a poche ore ci saremmo visti di nuovo, e salii sul suv nero che avevo parcheggiato in uno dei posti al coperto. L’abitacolo era relativamente meglio rispetto all’esterno, come temperatura. Appoggiai la testa al sedile, chiudendo gli occhi e espirando profondamente dal naso. A differenza degli altri lavori, il nostro non finiva al termine di una giornata, bensì quando rientravamo a casa. Il che voleva dire poter rimanere svegli ben più di 24h. Poco importava se ci venivano messe a disposizione delle camera d’albergo, in tal caso il più delle volte dormivo sì e no un paio d’ore, non mi sono mai trovato bene a dormire fuori casa. Problema che a quanto pare non ha mai toccato i miei colleghi. Così, ogni volta che tornavano da una missione, prima di continuare a far scorrere il tempo lo bloccavo, prendendomi un attimo per me. Ero il capo di un’unità speciale, non potevo dimostrare tentennamenti davanti ai miei sottoposti. Ecco perché l’opinione generale mi reputava serio, austero, severo, privo di umorismo; ma anche capace e affidabile. I miei uomini si sono sempre fidati di me e io di loro. Così, bloccai il tempo ancora una volta, mettendo da parte l’agente speciale e facendo emergere dagli abissi della mia mente Aaron Hotchner. L’essere umano, l’uomo, capace di sacrificare tutto per il bene degli altri. Quello tormentato dagli incubi di tutto quello che gli occhi del federale in lui hanno visto. Può sembrare crudele, ma provare quel misto di senso di colpa e fallimento mischiati all’orgoglio e alla gioia di essere tornati può farti sentire vivo.
Respirai con calma un paio di volte, nel buio sotto le mie palpebre si muovevano ombre che però in quel momento non potevano nuocermi. Rilassai i muscoli dalla tensione accumulata in quelle ore e non mi stupii di trovarli doloranti, un altro fattore a testimoniare che ero ancora vivo e che la mia psiche non era stata compromessa. Restai lì immobile per un periodo di tempo imprecisato, poco male, non c’era nessuno ad aspettarmi a casa. Aprii gli occhi di scatto. Il mio cuore prese a pompare velocemente. Accadeva ogni volta che pensieri del genere sfioravano anche solo lontanamente la mia mente. E come sempre mi sentii subito in colpa. Strinsi le labbra in una riga sottile, mentre portavo la mano destra sotto al cappotto, all’altezza del petto, per afferrarne il portafoglio. Lo aprii lentamente, assaporando il rumore del tessuto che scricchiola dopo un lungo periodo di tempo di immobilità. Sollevai il tesserino dell’FBI, il battito cardiaco mi rimbombava nelle orecchie, infilai due dita in una taschina talmente stretta che nessuna tessera ci era voluta entrare; ed eccolo. I polpastrelli tastarono un quadratino di cartone perfettamente liscio. Non senza difficoltà riuscii ad estrarlo e i miei occhi ne incontrarono un paio dello stesso colore di quelli di mia moglie. Un intenso azzurro/verde frastagliato di minuscoli cristalli bianchi. I capelli invece erano talmente scuri da tendere al nero, come i miei. Quanto mi mancava quel sorriso, una volta lo potevo vedere ogni volta che tornavo a casa, ogni volta che riuscivo ad esserci. Ricordo ancora quando tutti insieme andammo dal fotografo, servivano le fototessere per l’asilo. Quello scricciolo dal caschetto scuro, seduto sullo sgabello al centro della stanza illuminata mi sorrideva a trentadue denti, o meglio trenta viste le due “palette” davanti crollate dopo un burrascosa caduta dallo scivolo. Così buffa da farmi ridere e lei rideva a sua volta del mio divertimento.
Tornando alla realtà mi resi conto di avere gli angoli delle labbra piegati all’insù.  In un mare di incubi, per fortuna c’è ancora qualche ricordo felice che torna a salvarci. Ancora una volta la realtà ebbe la meglio e il senso di colpa prese il sopravvento. Quella fototessera non era solo un bel ricordo, ma anche il promemoria del mio passato, di quello che non sono stato in grado di impedire. Era il mio esame, ho fallito, e la mia famiglia ne ha pagato le conseguenze. Quel sorriso non mi è stato tolto, sono stato io a scegliere di privarmene.
Non tiravo quasi mai fuori quella foto, quindi non capii perché l’avevo fatto, forse un momento di debolezza. La riposi al suo posto. La prova del mio passato e la promessa che lei avrebbe avuto un futuro migliore. Perfetto, era decisamente giunto il momento di andare, seppellire il passato da dove era venuto.
Girai la chiave nel quadro e il motore rispose con decisione. Accesi la radio per il tragitto aeroporto/casa, non che la ascoltassi però mi faceva compagnia, teneva lontani i pensieri, indistintamente: quelli del lavoro e quelli privati. Le strade erano quasi del tutto deserte nel mio quartiere, giusto qualche giovane che rientrava o che andava a ballare. Parcheggiai la macchina in garage, chiusi la saracinesca e mi avviai verso casa. Anche se non c’era nessuno ad aspettarmi era sempre bello potersi chiudere la porta alle spalle, chiudere fuori i criminali con due giri di chiave; almeno per un po’. Mi tolsi il cappotto e lo appesi all’attaccapanni sulla parete dell’entrata. La luce illuminava il corridoio e le scale, lasciando le stanze laterali quasi nella più completa oscurità. Stavo tirando fuori dalle tasche portafoglio e chiavi, quando i miei sensi di profiler si attivarono all’improvviso. Sentivo i peli sulla nuca pizzicare, come quando sai che qualcuno ti sta osservando. La cosa peggiore era che, non essendoci finestre in quel punto della casa, la risposta era una: chiunque fosse era in casa. Rimasi immobile per alcuni istanti, valutando velocemente il da farsi. Non potevo telefonare ai ragazzi, sarei stato aggredito dall’intruso immediatamente e non avevo idea di che arma avesse, se ne aveva una. Per non contare che mi sarei privato di un mano per difendermi. L’unica era sperare che l’intruso non si fosse accordo del mio comportamento, scoprire dove fosse e metterlo all’angolo. Uscire? Fuori discussione. Avevo chiuso la porta con due giri di chiave, mi sarei fatto prendere alle spalle senza la possibilità di difendermi, senza contare che uscendo avrei anche potuto mettere degli innocenti in pericolo.
Posi chiavi e portafoglio nel portaoggetti sul mobile e con disinvoltura mi apprestai ad allungare un braccio oltre la soglia della sala, con l’intento di illuminarla prima di entrarci, contemporaneamente portai la mano destra ad afferrare la pistola al mio fianco. L’intruso si dimostro audace ben oltre le mie aspettative. Sentii qualcosa di rigido e sottile smuovere l’aria prima di colpirmi con violenza il braccio proteso. Estrassi la pistola con l’intento di puntarla contro la sagoma in movimento davanti a me. Tuttavia, ancora una volta, questa si dimostrò più preparata di me. Mi afferrò per il polso del braccio leso, tirandomi verso di sé. La ginocchiata al fianco destro mi fece piegare e con un altro colpo persi la pistola. A quel punto sfruttai la mia altezza per sovrastarlo, bloccargli le braccia e spingerlo tra i divani. Ormai i miei occhi si erano adattati all’oscurità e riuscivo a seguire l’intruso in ogni sua mossa. Mi avvicinai per colpirlo di nuovo, ma le sue gambe si intrecciarono alle mie in un abile groviglio, mandandomi al tappeto e portando con me il tavolino di legno e tutto ciò che vi stava sopra. Il dolore passò in secondo piano, me l’ero cavata con cose ben peggiori, ma il mio assalitore doveva essere non solo più veloce di me, ma anche più agile. Me lo ritrovai sopra e mi colpì forte lo stomaco e il petto, sentivo chiaramente il sapore del sangue sulla lingua. Toccai qualcosa con la mano, l’afferrai e la scagliai contro la sua testa con tutta la forza che riuscii a radunare in quei pochi attimi. Frastornato, riuscii a togliermelo di dosso, dovevo raggiungere la pistola sul pavimento, illuminata in pieno dalla luce del pianerottolo. L’arma che aveva usato prima sul mio braccio, si abbatté con forza sulla mia schiena. Crollai in ginocchio con un gemito; la pistola a pochi metri da me. Lui mi sorpassò e la calciò via, poi tornò a guardarmi. Mantenni il mio glaciale autocontrollo, ma un brivido freddo mi percorse da capo a piedi. Mi sporsi a prendere la pistola alla caviglia, mi arrivò un colpo in piena regola in faccia, tanto da mandarmi a sbattere dalla parte opposta rispetto a dove mi ero proteso.
-Chi diavolo sei?- riuscii a sputargli in faccia.
Non mi rispose, si avvicinò, accucciandosi in parte a me puntandomi quell’arma contro il petto.
-Che cosa vuoi?-
-Te agente Hotchner.- e un altro colpo partì, ravvicinato. Mi sentii andare a terra, la testa tramortita con violenza da non riuscire a vedere. Si susseguirono altri colpi, poi tutto divenne inesorabilmente buio.
 
“Sei tu il mio re,
io la tua regina”
  
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