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Autore: Denebola__Ives    25/01/2017    18 recensioni
# Storia Interattiva # Iscrizioni aperte #
Dal primo capitolo.
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« Miei cari ragazzi, il nostro Oracolo ha parlato. La profezia è stata pronunciata. Ci attendono tempi duri. Una guerra, se non riusciremo ad evitarla,» annunciò grevemente l’antico addestratore, osservandoli uno ad uno. Quando gli occhi di corteccia incontrarono i suoi, Penelope sostenne lo sguardo con l’affetto smisurato di una figlia diligente. Vi lesse stanchezza, preoccupazione, forse rimpianto, ma soprattutto dolore, una speranza tradita.
« Se i romani vogliono la guerra, l’avranno,» tuonò Ben con lo sguardo accesso, come se la prospettiva di una carneficina lo esaltasse sino all’inverosimile. Sun scosse il capo, disgustata, quasi non credendo alle proprie orecchie. Penny avrebbe avuto la medesima reazione se non si fosse congelata sul posto al sentire la parola romani. Ed ecco di nuovo la montagna russa dei sogni. Fammi scendere, pensò.
Genere: Guerra, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash | Personaggi: Gli Dèi, Le Parche, Nuova generazione di Semidei, Semidei Fanfiction Interattive
Note: What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Primo capitolo
Bad Moon Rising
 
 
 
Ecco dove accadde. Lei è stata qui. Questi leoni di pietra, ora senza testa, l'hanno fissata. Questa fortezza, una volta inespugnabile, cumulo di pietre ora, fu l'ultima cosa che vide. Un nemico da tempo dimenticato e i secoli, sole, pioggia, vento, l'hanno spianata. Immutato il cielo, un blocco d'azzurro intenso, alto, distante. Vicine, oggi come ieri, le mura ciclopiche che orientano il cammino: verso la porta dal cui fondo non fiotta più sangue. Nelle tenebre. nel macello. E sola.
Con questo racconto vado nella morte.
Cassandra, Christa Wolf.
 
Il fuoco lambiva le mura come un serpente che si attorcigliava intorno alla sua preda, soffocandola, facendola morire lentamente. Sembrava gustarsi la sensazione di terrore che imperversava per le strade ciottolate della città che ne contenne dieci.
Gli dei contribuirono a renderla immortale e gli dei l’abbatterono.
Strepiti di donne e sibili si spada si rincorrevano nell’aria satura di fumo nocivo, nella notte striata di rosso, mentre urla più belluine sentenziavano morte e distruzione al loro passaggio.  Ansiti rochi di violenza, gemiti soffocati, mute preghiere a divinità che aveva volto lo sguardo, dall’alto dei loro troni. Era una guerra che loro stessi avevano provocato, ma della quale s’erano lavati le mani. La carneficina doveva essere troppo mortale, bieca e riprovevole per loro. Troppo rossa per i loro icori dorati.
Julius riusciva a sentire i rumori roboanti della battaglia, ma da lontano, come se fossero echi portati dal mare, attenuati dalla distanza e dall’acqua scura. In quel luogo di pace tutto era ovattato, come se appartenesse a un altro mondo. Un universo in cui la violenza non esisteva.
Era un tempio meraviglioso, di marmo bianco striato di grigio, come gli occhi della dea della saggezza. Il pavimento liscio, interrotto da regolari e possenti colonne, conduceva sino a un altare e a una maestosa statua dalle candide vesti e dagli occhi intelligenti.
Julius l’avrebbe riconosciuta anche senza il gufo appollaiato sulla sua spalla destra. Lo sculture doveva essere stato particolarmente ispirato nei giorni della sua opera perché gli occhi astuti e intelligenti sembravano rifulgere in quel mare candido che era il suo bel volto giovane. Le labbra erano strette in una posa di controllo e giudizio, come se la dea stesse decretando la sorte dei suoi supplici. Il chitone le fasciava il corpo come una seconda pelle, con le sue mille pieghe.
Sembrava talmente viva che il ragazzo si domandò perché non parlasse.
Non si era reso conto di non essere solo sino a quando non sentii un fruscio di vesti in avvicinamento. Si volse di scatto e per poco non boccheggiò. La giovane era indubbiamente splendida. Né il peplo coperto di cenere né le bionde ciocche strappate sminuivano l’avvenenza di quella che aveva l’aria di essere una principessa. Aveva gli occhi da cerbiatta, come il manto di uno scoiattolo, punteggiato di nero e dorato. Le guance erano striate di sangue rappreso come se un falco l’avesse assalita per punirla. Tremava da capo a piedi, ma non piangeva. Sembrava troppo sconvolta persino per abbandonarsi alle lacrime.
Julius tese la mano tentando di sfiorarla e rassicurarla, ma era solo un sogno e la mano le passò attraversò come se fosse uno spettro.
Era sola.
Fu tutto quello che Julius riuscì a pensare in quel momento: che fosse sola, abbandonata, lasciata a se stessa, al proprio destino, come qualcosa di non voluto, di maledetto.
Si inginocchiò al suo fianco, sotto la statua di Minerva, ma non osservava la dea. La giovane invocava preghiere mute, le labbra che sussurravano parole troppo antiche perché il pretore romano potesse conoscerle. Aveva gli occhi chiusi e le mani artigliavano le caviglie della statua. Il petto ansante si sollevava sino a sfiorare il marmo come se volesse fondersi con la pietra.
Julius conosceva bene la disperazione: erano amici di lunga data. Aveva convissuto per anni con la terribile colpa di aver causato la morte dell’unica persona che avesse mai amato, unita al disprezzo nei confronti di se stesso. Però in quella fanciulla la sofferenza era più pura, autentica, non sporcata dalla rabbia. Era un dolore che trascendeva l’umano.
Un rumore sordo lo strappò da quei pensieri.  
L’uomo che avanzava non sembrava nemmeno umano. Era una belva di due metri, coperta di muscoli e dalle mani callose, sicuramente un graecus. Il viso crudele mostrava tracotanza e una risata roca gli proruppe dalla gola quando notò la giovane ai piedi della statua.
In un attimo seppe cosa stava per accadere e la bile gli risalì  lungo l’esofago mentre una rabbia cieca gli infiammava le viscere. La destra corse a cercare il gladius, non trovandolo. L’uomo aveva artigliato il braccio destro della giovane, forzandola ad allontanarsi dalla statua.
Julius si ritrovò a pregare Nettuno con tanto ardore che da isolarsi dal resto del mondo, ma suo padre rimase muto, inerte, come se le sue suppliche non lo sfiorassero neanche. 
La giovane donna non urlava, forse non ne aveva la forza, forse sapeva bene che nessuno sarebbe accorso in suo aiuto, mentre quel mostro le strappava le vesti, costringendola ad allontanarsi dal marmo. Tentare di colpirlo sarebbe stato inutile. Il pretore non era davvero lì, non era inginocchiato ai piedi del Palladio, non poteva far nulla per la principessa dalle labbra maledette.
Uno strattone più violento degli altri fece oscillare pericolosamente la statua che cadde, frantumandosi e sollevando un cumulo di polvere candida, sulla fanciulla distesa a terra, sanguinante e spezzata, gli occhi vuoti e spenti di chi, ormai, aveva perso tutto.
               
Julius bofonchiò un’imprecazione colorita che avrebbe reso orgoglioso qualsiasi marinaio fenicio e scostò le coperte, appena in tempo da non vomitare la cena sulle lenzuola.
L’unica cosa positiva di essere un pretore erano gli appartamenti personali. Perlomeno non c’era anima viva che gli chiedesse cosa gli stava succedendo.
Avanzò verso la sala principale e si lasciò cadere a capotavola, ciondolano per il corridoio e aggrappandosi al muro per non cadere, come un mozzo ubriaco che arrancava sul ponte di una nave nel bel mezzo di una tempesta. Solo che Julius non era un mozzo. Lui era il capitano di quella nave chiamata Nuova Roma e non aveva alcuna voglia che la tempesta la inghiottisse.
Il tavolo dinanzi a lui era ricolmo di fogli e cartine, puntine, matite e vecchi tomi dall’aria antica, consunti e sfilacciati, che aveva trovato nella biblioteca centrale e che sperava potessero aiutarlo a comprendere cosa stava accadendo. In realtà erano riusciti solo a procurargli degli incubi orrendi e orripilanti su mostri ed eroi del passato. In cui gli eroi aveva lo stesso volto dei mostri. Il ragazzo dagli occhi di giada sospirò e si passò entrambe le mani tra i capelli neri, tentando di scacciare quei pensieri burrascosi.
Lupa, dove sei?
Lupa l’aveva trovato a sette anni mentre vagava senza meta, solo e confuso, tra le vie più malfamate di Sacramento. L’aveva preso con sé, nel suo branco, crescendolo come cresceva i suoi cuccioli. L’aveva reso un uomo. Alla dea doveva la vita, le doveva tutto.
E i greci gliel’avevano portata via. Almeno a sentire l’augure.
Tra le file del Senato risuonava una sola parola, qualcosa che Julius aborriva e desiderava allo stesso tempo: guerra.
« Padre mio,» sospirò il diciottenne, la voce impastata e il cuore pesante, « non ti ho mai chiesto nulla, ma ora sono costretto a rivolgermi a te. Fa’ che la tempesta inghiottisca me e non la mia nave.»
 
 
«Ti avverto, chiunque tu sia. Oh tu che desideri sondare gli arcani della Natura, se non riuscirai a trovare dentro te stesso ciò che cerchi non potrai trovarlo nemmeno fuori. Se ignori le meraviglie della tua casa, come pretendi di trovare altre meraviglie? In te si trova occulto il Tesoro degli Dei. Oh Uomo, conosci te stesso e conoscerai l’Universo e gli Dei».
Oracolo di Delfi
 
Quando Penelope Storm si svegliò quella mattina di fine Luglio, non sapeva ancora che la sua vita sarebbe irrimediabilmente cambiata, rovinata dal peso di parole sussurrate millenni prima, deturpata da chi, invece, avrebbe dovuto proteggerla.
Aveva sognato di una fanciulla, quella notte, una fanciulla il cui padre aveva un volto fiero, ma crudele, quello di un guerriero temprato da mille battaglie, quello di un monarca che governava con il pugno di ferro. Quell’uomo somigliava straordinariamente a suo padre, ma Penelope non era come la fanciulla del sogno. Non v’era amore nei suoi occhi blu né fiducia, solo un senso di timore ancestrale nei confronti della propria sicurezza.
I sogni non erano mai soltanto allucinazioni dettate dal sonno. Non per i semidei. Erano visioni e le visioni erano spesso uno spettacolo mortale, come viaggiare sulle montagne russe, sparato a tutta velocità, su una vettura difettosa.
L’immensa statua di suo padre in versione hippie sembrava ammonirla con i suoi occhi di fumo e la sua espressione implacabile, da giudice e boia insieme. Per quanto la ragazzina avesse voluto detestarlo, non riusciva a smettere di sperare.
Penelope gli gettò contro quello stupido braccialetto che le aveva donato tre anni prima quando si era degnato di riconoscerla come sua figlia. Era un cerchio d’oro zecchino, semplice e sobrio, che all’occorrenza poteva trasformarsi in una versione meno potente della folgore autentica. Un dono abbastanza utile, doveva concederglielo. Offertole da qualcuno che, però, non aveva mai visto né sentito.
Qualcuno bussò timidamente, interrompendo la sfilza di insulti in greco antico che dedicava ogni giorno a suo padre, il grande Re dell’Olimpo, sovrano dei padri assenti. Era un ottimo rimedio contro il rancore che provava nei confronti dell’unica famiglia che le era rimasta, se così poteva definirla.
« L’ispezione,» borbottò tra sé, maledicendosi per la sua scarsa memoria, scostando le coperte candide e scattando in piedi, come se fosse pronta ad affrontare un nemico.
Si guardò intorno, sconsolata e arrabbiata insieme, gli Dei solo sapevano per cosa. Penelope Storm era perennemente arrabbiata, un uragano pronto a scatenarsi al minimo accenno di nuvole. La Cabina era un disastro di dimensioni abnormi. Vestiti sparsi per terra, tinte per capelli aperte che perdevano i loro contenuti sul marmo candido, macchiandolo irrimediabilmente con i colori dell’arcobaleno, cartacce di cibo da fast-food un po’ ovunque e raccolte di poesie, le uniche cose davvero in ordine, impilati ai piedi della statua.
Sebbene ci fosse soltanto lei, sapeva renderla davvero una discarica degna di quelle del suo fratellastro divino Efesto.
« Penny, sei sveglia?» chiamò qualcuno dall’esterno. La sedicenne ci mise un secondo a riconoscere la voce femminile, da soprano. Sun Bow, capo-cabina della Casa di Apollo.
Sibilò un insulto contro se stessa perché non sarebbe mai riuscita a rimettere in ordine neanche se avesse avuto i venti al suo servizio. Avanzò scalza verso l’uscita e spalancò la porta pesante, non preoccupandosi di indossare una vestaglia sopra il pigiama azzurro che ben si sposava con buona parte della sua nuova acconciatura.
Dinanzi a lei c’era una ragazza smilza, una specie d’incrocio tra una bagnina di Baywatch e un medico di Grey’s Anatomy, dai capelli biondi e cotonati, la pelle abbronzata e l’aria serena di un gatto ronfante e soddisfatto.
« Buongiorno, Sun,» esclamò la ragazza, con un sorriso smagliante, tentando di non farle notare il caos che occupava la sua Cabina. Voleva rimandare la punizione il più possibile.
La figlia di Apollo la osservava con uno sguardo dubbioso, la fronte aggrottata e gli occhi azzurri che brillavano di confusione mentre guardava i suoi caleidoscopici capelli.  
« Chirone ha indetto una riunione con tutti i capo-cabina,» le comunicò, decidendo saggiamente di soprassedere. Non era raro che Penelope si tingesse i capelli dei colori più improbabili. Trovava il nero davvero triste, inadatto a lei, e poi, nella sua versione naturale, somigliava a suo padre in un modo che giudicava quasi inquietante.
« Non è il giorno dell’ispezione?» domandò speranzosa la giovane semidea, vedendo le cucine allontanarsi sempre più dal suo orizzonte.
« Rimandato a domani. C’è un’emergenza.»
« Che tipo di emergenza?» chiese sull’attenti, un brivido gelido che le risaliva lungo la schiena, gli occhi blu che per un attimo divennero di tempesta.
« Adhara,» esclamò Sun come se spiegasse tutto e, in certo senso, quel nome diceva già moltissimo.
Adhara Stevenson, figlia di Astreo, Oracolo di Delfi, chiromante nel tempo libero. La ragazzina che le aveva salvato la vita anni prima quando la capra magica di suo padre aveva deciso di voler finire in pasto ad un ciclope e Penelope era stata costretta a correre in suo soccorso, quasi rimettendoci la pelle. Una storia che non raccontava mai molto volentieri.
« Dammi un minuto e sono subito alla Casa Grande,» le assicurò con tono gentile, prima di fiondarsi all’interno della cabina e afferrare il primo paio di shorts che le capitò dinanzi agli occhi. Lo indossò di fretta, inciampando in una bottiglietta d’acqua piena per metà e quasi rovinando al suolo, bofonchiando insulti per le resistenze del bottone. Doveva darsi una regolata se non voleva ritrovarsi come il signor D.
Indossò una maglietta del Campo e notò il braccialetto rifulgere, uno scintillio quasi impercettibile. Sembrava dicesse:  prendimi. Sono la tua unica possibilità.
La sedicenne scosse il capo, ma si avvicinò ugualmente alla statua. Era un dono di un dio e suo padre non era conosciuto per il suo buon carattere.
Si assicurò il braccialetto al polso destro e alzò lo sguardo a incontrare quello di Zeus. Si morse il labbro inferiore, poi scosse di nuovo il capo e si affrettò a uscire dalla Cabina, gli occhi che bruciavano per le lacrime trattenute.
La Casa Grande era una splendida costruzione dalle pareti verniciate di fresco con una splendida sfumatura smeraldina che le ricordava l’Oceano. Penelope sorrise al pensiero. L’Oceano era il suo segreto luogo di pace, così distante dalle responsabilità del cielo, dai suoi drammi e dalle sue nubi. Tra i flutti poteva essere se stessa, e non più la figlia di Zeus. I suoi amici avevano un’immagine falsata di lei, qualcuno con delle risposte sempre pronte per ogni problema, quando l’unica certezza che aveva era il suo nome, il suo amore per la poesia e per il mare.
Dentro si sentivano gli strepiti e le urla di Benjamin Harras, un ragazzone alto, ben piazzato e con gli occhi porcini e cattivi. Ben sembrava un cinghiale con le gambe, il volto sempre rosso di rabbia e quel taglio a spazzola che le faceva accapponare la pelle ogni volta che incrociava il suo cammino. Era in piedi, pesantemente poggiato con la destra sul tavolino da ping-pong che minacciava di crollare da un momento all’altro sotto il suo peso, mentre agitava un pugnale con la mancina come per scuoiare un nemico invisibile. Si stava rivolgendo a un’imbronciata Elizabeth Wilson che lo stava fulminando con i suoi occhi grigi e intelligenti, le braccia incrociate sotto il seno e la posa di chi è pronto a scagliare qualche malcapitato nel Tartaro. Sun si teneva a debita distanza dal ragazzo, lanciando occhiate preoccupate verso Chirone. Il vecchio centauro era concentrato sulla ragazzina alla sua sinistra, acciambellata sulla sedia come un gattino spaventato. Le fece immediatamente tenerezza e si avvicinò alla sua amica. Adhara aveva il capo chino e si mangiucchiava le unghie, i lunghi capelli castani che le coprivano il volto come una tenda, celandolo dallo sguardo esterno.
Penny si lasciò cadere sulla sedia libera al suo fianco e le scostò una ciocca dal viso per poterla guardare negli occhi di zaffiro. Era evidente che avesse pianto, ma ora le sue gote piene e rosee erano asciutte. Profonde occhiaie le segnavano la pelle chiara come l’alabastro, quasi cancellando le efelidi, e le labbra tremavano come se stesse trattenendo dei singhiozzi.
« Adhara,» la chiamò con quanta dolcezza le riuscì. La sua giovane e sfortunata amica la meritava tutta, meritava la Penny del mare e non quella del cielo.
« Mi dispiace, Penny. Mi dispiace così tanto,» esclamò costernata, scuotendo il capo come se avesse compiuto un terribile crimine.
Chirone batté il calice sul tavolo da ping-pong per tre volte e persino Ben si acquietò, sedendosi riluttante e piantando il coltello nel tavolo.
Un silenzio di tomba scese tra i capo-cabina, frementi d’attesa. Penny si ritrovò a stringere le mani di Adhara, della sua sorella di vita, mentre lanciava la prima invocazione a suo padre da quando l’aveva riconosciuta.
Ti prego, proteggili. Proteggili tutti.
« Miei cari ragazzi, il nostro Oracolo ha parlato. La profezia è stata pronunciata. Ci attendono tempi duri. Una guerra, se non riusciremo ad evitarla,» annunciò grevemente l’antico addestratore, osservandoli uno ad uno. Quando gli occhi di corteccia incontrarono i suoi, Penelope sostenne lo sguardo con l’affetto smisurato di una figlia diligente. Vi lesse stanchezza, preoccupazione, forse rimpianto, ma soprattutto dolore, una speranza tradita.
« Se i romani vogliono la guerra, l’avranno,» tuonò Ben con lo sguardo accesso, come se la prospettiva di una carneficina lo esaltasse sino all’inverosimile. Sun scosse il capo, disgustata, quasi non credendo alle proprie orecchie. Penny avrebbe avuto la medesima reazione se non si fosse congelata sul posto al sentire la parola romani. Ed ecco di nuovo la montagna russa dei sogni. Fammi scendere, pensò.
« Stupido idiota di un cinghiale riottoso,» lo riprese Elizabeth sporgendosi verso di lui come se volesse prenderlo a schiaffi. Probabilmente l’avrebbe fatto sul serio se Celina non l’avesse trattenuta, intossicandola con il suo profumo costoso.
« Molti greci sono a Nuova Roma. Cosa pensi che farebbero loro se dichiarassimo guerra?» incalzò Sun prima che Ben potesse reagire alla provocazione.
« Richiamiamoli al Campo allora,» propose Nate prima afferrare una manciata di popcorn.
« Cosa recita la profezia esattamente?» chiese Penny, a nessuno in particolare, tentando di trattenere il timore.
Nate si sporse verso di lei dalla fine del tavolo, gli occhi azzurri e furbi che scintillavano sul suo volto da monello, con quei tratti elfici che l’avevano sempre intrigata.
« Una nuova guerra di Troia.»
 

 
Antro dell’autrice
Amici, romani, concittadini, prestatemi le vostre orecchie…
Okay, suppongo di dover lasciare la poesia a Shakespeare. Prima di tutto vi ringrazio di essere arrivati sin qui. È già una gran cosa per me.
Questa storia è ambientata circa settant’anni dopo le vicende di Percy e dei nostri eroi preferiti e, come annunciato, sarà una novella guerra di Troia. Il titolo è ripreso dal proemio dell’Iliade infatti.
Vi lascio al regolamento.
 
Regole
  1. Le iscrizione saranno aperte sino al 10 Febbraio. Se avete bisogno di una proroga, non avete che da chiedere.
  2. Ho bisogno di tre personaggi romani e tre personaggi greci. Saranno loro i protagonisti della storia e gli eroi della profezia. Gli altri avranno un ruolo meno importante, ma non saranno marginali.
  3. Potete mandarmi un massimo di tre personaggi. Molto probabilmente verrà fatta una selezione. Non offendetevi se il vostro non verrà scelto. Devo pensare alla trama.
  4. Non accetto figli di Zeus/Giove, Poseidone/Nettuno, Era/Giunone, Artemide/Diana, Estia/Vesta. Non accetto cacciatrici né sacerdotesse né amazzoni.
  5. Questa è una storia interattiva, quindi potrei farvi delle domande circa il vostro personaggio. Non è necessario che recensiate ogni capitolo. Comprendo bene che ognuno di noi ha degli impegni, ma dovrete rispondere altrimenti la trama non avanzerà. Non abbandonate i vostri semidei o potrebbero fare una brutta fine.
  6. Non accetto figli di Giganti e Titani.
  7. Accetto figli di divinità minori e concetti personificati.
  8. Non voglio vedere Mary Sue, Gary Stu, personaggi perfetti, melensi come la melassa.
  9. Se volete partecipare, potete scrivermi anche per messaggio privato. Mi piacerebbe leggere recensioni sul capitolo e anche delle critiche. Sono molto benaccette.
 
Scheda.
 
Nome e cognome:
Soprannome*:
Età:
Descrizione fisica (con prestavolto):
Descrizione caratteriale (ben curata, per favore):
Discendenza divina e rapporti con essa:
Discendenza mortale e rapporti con essa (inclusa una descrizione sulla storia del personaggio):
Arma:
Poteri:
Debolezze:
Difetto mortale:
Cosa ama:
Cosa odia:
Amicizia (con chi farebbe amicizia più volentieri?):
Inimicizie:
Amore con orientamento sessuale (da chi potrebbe essere attratto?):
Altro (hobby, passioni, segreti, tutto quello che volete):
 
E questi due ragazzuoli sono i POV del capitolo.
 
Julius Chandler , 18 anni, figlio di Nettuno. Pretore di Nuova Roma.
L'orrore del reale è nulla contro l'idea dell'orrore. I miei pensieri, solo virtuali omicidi, scuotono la mia natura di uomo; funzione e immaginazione si mescolano; e nulla è, se non ciò che non è.
Macbeth, William Shakespeare.
 
 
Penelope Storm, 16 anni, figlia di Zeus.
 
Liberami da me. Voglio uscire dalla mia anima.
 Io sono questo essere che geme, che brucia, che soffre.
 Io sono questo essere che attacca, che urla, che canta.
 No, non voglio essere così.
 Aiutami a rompere queste porte immense.
Pablo Neruda

 
Un bacio e a presto.
   
 
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