Anime & Manga > Ranma
Segui la storia  |       
Autore: InuAra    25/01/2017    5 recensioni
ULTIMO CAPITOLO ONLINE!
Con due bellissime fanart di Spirit99 (CAP. 4 e 13)
------
Cosa succede se il mondo di Ranma incontra il mondo di Shakespeare? Rischia di venirne fuori una storia fatta di amori, avventura, amicizia, gelosia, complotti. Tra fraintendimenti e colpi di scena, ne vedremo davvero delle belle!
DAL CAPITOLO 2
Ranma alzò lo sguardo verso il tetto. “Akane. Lo so che sei lì” “Tu sai sempre tutto, eh?” A Ranma si strinse il cuore. Ora che era lì, ora che l’aveva trovata, non sapeva cosa dirle. Soprattutto, non poteva dirle nulla di ciò che avrebbe voluto. “Beh, so come ti senti in questo momento” “No che non lo sai” “Si può sapere perchè non sei mai un po’ carina?” “Ranma?” “Mmm…”  “Sei ancora lì?” “Ma certo che sono qui, testona, dove pensi che vada?” Fece un balzo e le fu accanto, sul tetto. “Sei uno stupido. So benissimo che sei qui perchè te l’ha chiesto mio padre” “E invece la stupida sei tu”, si era voltato a guardarla, risentito e rosso in viso, “E’ vero, me l’ha chiesto, ma sono qui perchè lo voglio io! Volevo… vedere come stai…ecco…”
Genere: Avventura, Drammatico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Akane Tendo, Ranma Saotome, Un po' tutti
Note: AU, Lime, OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Un piccolo riassunto per riportarvi nel vivo della storia:

Medioevo giapponese - Akane, figlia di Soun-sama, signore delle terre dell'ovest, non è mai uscita dal palazzo, dove è cresciuta accanto a Ranma, un giovane orfano che lavora come paggio al servizio di Soun Tendo. A vegliare su di loro ci sono i due anziani consiglieri, Obaba e Happosai, e gli immancabili confidenti, Ryoga, amico, nonchè servo, di Ranma, e Ukyo, ancella di Akane. Soun si risposa con una giovane nobildonna, Kodachi, e al fratello di lei, Kuno Tatewaki, promette in sposa la principessa Akane, che rifiuta categoricamente i suoi corteggiamenti. A poco a poco Ranma e Akane si accorgono di essere innamorati e, sfidando i problemi di classe, si dichiarano. Decidono quindi di sposarsi di nascosto e scappare in Cina, in attesa di tempi migliori, ma immediatamente dopo il matrimonio e la prima notte di nozze vengono scoperti e divisi. Ranma viene prima imprigionato e poi esiliato e Akane è tenuta sotto stretta sorveglianza, pur con un discreto raggio di azione. Partendo per la Cina, Ranma promette ad Akane che le scriverà spesso e che farà di tutto per ricongiungersi a lei. Tra una lettera e l’altra, passano i giorni. In Cina, Ranma viene accolto dalla signora Nodoka, una donna Giapponese che gestisce una locanda, dove lavora come cameriera Shan Pu, che tenta invano di sedurre Ranma. Durante una festa, uno degli ospiti, un giovane guerriero di nome Mousse, provoca Ranma e lo istiga a scommettere sull’onore di Akane: sarà Mousse stesso a provare l’infedeltà della giovane principessa recandosi in Giappone e tentando di sedurla. Una volta a Palazzo Tendo, Mousse fallisce ogni tentativo di fronte alla fedeltà di Akane. Nottetempo si intrufola quindi, nascosto in un baule, nella sua stanza e le ruba un bracciale che Ranma le aveva donato prima dell’esilio, portandolo come prova dell'infedeltà della ragazza. Al ritorno di Mousse, complice un filtro di Shan Pu che ha il potere di farlo letteralmente "impazzire" di gelosia, Ranma crede alle bugie sulla fedeltà di Akane e scrive a Ryoga chiedendogli di ucciderla. Ranma poi sviene e rimane privo di sensi per circa una settimana. Nel frattempo scoppia la guerra tra Cina e Giappone. Prima Mousse e poi Shan Pu si arruolano e partono per il Giappone. Ryoga riceve la lettera di Ranma in cui gli viene chiesto di portare Akane fuori dal palazzo e ucciderla. Una volta fuori, Ryoga risparmia la ragazza, a cui non aveva pensato neanche per un istante di fare del male, e si ferisce a un braccio per macchiare un pezzo di stoffa dello yukata di Akane da mandare a Ranma come prova dell'uccisione. Akane si traveste da uomo con lo scopo di raggiungere gli amici Hiroshi e Daisuke presso il villaggio di Hakata e lì attendere tempi migliori. Non arriverà mai a destinazione, incappando nell'abitazione di un montanaro e delle due nipoti, che la accolgono con affetto, credendola un ragazzo. Si tratta però di Genma, vecchio amico del padre di Akane, il quale circa dodici anni prima, in seguito alla presunta perdita del figlio Ranma durante una delle guerre dichiarate da Soun, ha deciso di vendicarsi rapendo le sue due figlie maggiori ancora in fasce: Kasumi e Nabiki. Nel frattempo Ranma si sveglia e alla notizia della morte di Akane, affranto e pentito, prende la prima nave per il Giappone, dove spera di trovare la ragazza ancora viva. A palazzo Soun scopre che la figlia è fuggita e decide di dare la falsa notizia della sua morte. Kuno capisce che dietro la sua fuga ci sono Ryoga e Ukyo. Dopo averli minacciati si lancia all'inseguimento della ragazza, deciso a prenderla con le cattive e ad abusare di lei con indosso gli abiti di Ranma, per offenderla più crudelmente. Nei boschi troverà invece Nabiki e dopo una colluttazione rimane ucciso in un  incidente in cui viene decapitato. Nel frattempo Akane ingoia quella che crede essere una medicina e che altro non è che un veleno di Kodachi, per fortuna non mortale. Akane perde i sensi e appare, tuttavia, priva di vita. Genma, Nabiki e Kasumi piangono la sua morte e nel momento in cui stanno per seppellire il suo corpo e quello di Kuno sono costretti a fuggire per l'arrivo dei soldati. Nottetempo Akane si sveglia sul corpo senza testa di Kuno, e nel buio e nell'angoscia del momento pensa di trovarsi di fronte al corpo senza vita di Ranma, caduto in una terribile e ingegnosa trappola. Ormai sola, ancora in abiti maschili decide di seguire Shinnosuke, un giusto e onesto generale dell'esercito cinese. Arrivato in Giappone Ranma riceve la notizia ufficiale della morte di Akane e decide di gettarsi nella battaglia per trovare la morte che si merita.



 
In peace there's nothing so becomes a man
As modest stillness and humility:
But when the blast of war blows in our ears,
Then imitate the action of the tiger;
Stiffen the sinews, summon up the blood,
Disguise fair nature with hard-favour'd rage;
Then lend the eye a terrible aspect.
 
Nella pace nulla di meglio per diventare un uomo
che la tranquillità e l'umiltà;
 ma se tu senti il soffio della guerra, allora imita la tigre,
 indurisci i tuoi muscoli, eccita il tuo sangue,
nascondi la tua lealtà sotto la fredda rabbia
e infine dà al tuo sguardo l'orribile splendore.
 
Henry V- W. Shakespeare
 
 
 
To be worst,
The lowest and most dejected thing of fortune,
Stands still in esperance, lives not in fear.
 
Chi si trova ridotto al peggio,
ed è la cosa più meschina e più avvilita dalla fortuna,
sta sempre nella speranza, e non vive nella paura.
 
King Lear - W. Shakespeare
 
 


 
 
“Nooooo! Aiko, Ryuji…Kei..!! I miei bambini..! I miei bambini sono là dentro!”
 
Era necessaria la forza di due uomini adulti per frenare la furia della donna che straziava l’aria con le sue urla. Non c’erano parole né lacrime per consolarla, mentre si dimenava per gettarsi tra le fiamme di quella che doveva essere stata una delle case di un piccolo villaggio. Intorno a loro c’era un movimento inarrestabile, si udivano richiami, e centinaia di  braccia si passavano secchi colmi d’acqua, nel tentativo di spegnere gli incendi. Una pioggia di fuoco aveva colto quella gente nel sonno, a poche ore dal tramonto, e una serie di esplosioni l’aveva gettata nel panico.
Dove non arrivava l’esercito cinese arrivava la polvere da sparo. I villaggi venivano rasi al suolo e la guerra entrava in luoghi in cui non era attesa, dove non c’erano i mezzi per combatterla.
 
“Si sarà fatto ammazzare”, sibilò tra i denti uno dei due uomini, il più vecchio, mentre sorreggeva la donna che stava piangendo esausta.
 
“Di chi stai parlando?”, chiese il più giovane.
 
“Di quel ragazzo, non l’hai visto? Il ragazzo che si è buttato tra le fiamme”
 
“Non ho visto niente, c’è un tale fumo”, tossì l’altro, senza allentare la presa sulla donna, una mano ferma sulla schiena di lei.
 
“E’ comparso dal nulla e come un forsennato si è messo a correre verso casa di tua cognata”, con un cenno indicò la donna che continuava a singhiozzare, tesa, a cui il dolore spezzava il respiro. “Avresti dovuto guardarlo negli occhi. Gli bruciavano più di tutto questo fuoco! Si sarà di certo fatto ammazzare, povero disgraziato”
 
Ma non fece in tempo a terminare la frase.
 
La sua espressione parlò per lui. Gli occhi splancati, la bocca aperta e senza fiato, non riusciva a credere a quello che vedeva.
 
La sagoma di quello stesso ragazzo si stagliava nella polvere dell’incendio, mentre si faceva largo tra le persone per allontanarsi rapidamente dal calore soffocante.
 
“Ce… ce l’ha fatta! E ha qualcosa… Ha qualcosa in braccio…!”, fece l’uomo più giovane. “Sì… Non è solo!”
 
La donna sollevò il capo, improvvisamente attenta.  “Aiko! Ryuji! Kei!!!!”
 
Distante non più di una manciata di passi, le vesti logore e bruciacchiate, la pelle annerita dalla cenere e due occhi di uno spaventoso blu cupo, il ragazzo teneva stretti a sé con uno e con l’altro braccio due bambini avvolti in stracci, mentre sulla schiena, aggrappata a lui con tutte le sue forze, c’era una ragazzina che non aveva ancora sette anni, le palpebre strette per la paura e naso e bocca riparati da un pezzo di stoffa bagnato, legato alla veloce. Lui stesso ne aveva uno simile.
 
“Aiko!”
 
La bambina aprì gli occhi. “Mamma!”
 
Saltò giù dalla schiena di lui e corse incontro alla donna che correva a sua volta e inciampava, frastornata dalla gioia che aveva rubato il posto al dolore in così breve tempo.
 
“Mamma, mamma! Ho avuto tanta paura”, piangeva e si stringeva a lei, “… e credevo che non ti avrei mai più rivista”, e la donna si accucciava e la prendeva tra le braccia tremanti, “Ero lì con Ryuji e Kei e tutto crollava intorno a noi”, ansimava la bambina, e la madre la abbracciava più forte, “E questo signore è arrivato e mi ha dato questo e me l’ha messo sulla bocca, e ci ha presi e ci ha portati via da lì, più veloce del vento. Mammina, mammina!”
 
La donna alzò lo sguardo interrogativo sul giovane uomo che le si era fermato davanti, e si fece aiutare dalla figlia ad alzarsi.
Lui non la fece aspettare oltre e le mise tra le braccia i due bambini, uno appena neonato, l’altro che ancora non aveva l’età per camminare. Piangevano entrambi e la mamma non fu mai così felice di sentire quel baccano. Erano vivi!
I due uomini nel frattempo si erano avvicinati, increduli, grati.
 
Il ragazzo si abbassò il fazzoletto. Stava sorridendo. “Stanno bene, signora. Per fortuna stanno bene”, soffiò fuori sollevato.
 
Lei non disse niente. Lo abbracciò.
 
Lasciò che fossero le lacrime a dirgli grazie, e una risata felice, disordinata, fuori di sé.
 
“Ragazzo”, intervenne il cognato della donna, “Ma da dove…?”
 
“Sapevo che l’esercito cinese avrebbe attaccato questo villaggio”, lo interruppe risoluto, stringendo i pugni, “Ma non sono arrivato in tempo per avvertirvi” Si guardò intorno, con sguardo colpevole. “Non verranno qui, non ne hanno nessuna intenzione, ma si fanno terra bruciata attorno…”
 
L’uomo gli mise una mano sulla spalla: “Se non fosse stato per te, ragazzo, oggi avrei perso non solo la mia casa ma anche i miei nipoti”
 
Il ragazzo non lo contraddisse. Si limitò a sorridere nuovamente, ma un po’ più stanco e svuotato.
 
“Resta, ti prego. Il fuoco sembra domato. Resta”
 
“Devo andare”, si divincolò l’altro, allarmato, “Non posso fermarmi”
 
L’uomo parve capire. Colse una certa inquietudine in quello sguardo. Gli fu subito chiaro che il giovane si portava dentro un qualche terribile tormento.
 
“Non ti tratterremo allora. Ma dicci almeno il tuo nome”
 
“Il mio nome ha poca importanza…”
 
“Vorrei sapere il nome dell’uomo a cui devo la vita dei miei figli” La voce ferma e cristallina della donna catturò tutta la sua attenzione.
 
Lui la guardò e guardò la bambina che a sua volta lo scrutava con grandi occhi svegli. Li guardò tutti, e per un attimo, un attimo soltanto, si sentì in pace.
 
“Ranma. Il mio nome è Ranma”
 
Poi diede loro le spalle e, come era arrivato, lo videro andarsene.
 
 
 
***
 
 
 
“Aaaaah!”, l’urlo gutturale di Akane squarciò l’aria fredda dell’alba e fu seguito da un rumore sordo di mattoni rotti.
 
Il generale Shinnosuke era tornato all’accampamento da diversi giorni e ogni mattino il ragazzo che aveva trovato nei boschi e che aveva preso con sé cominciava ad allenarsi senza risparmiare fiato né energia.
Uscendo dalla propria tenda lo spiò per qualche istante. Guardarlo bastò a scaldargli l’anima, e a torgliergli dal petto il peso che si portava da due giorni, quando aveva saputo che… Inspirò per ritrovare la calma. Era giovane, Akira, molto giovane, e per quanto inesperti i suoi movimenti erano aggraziati, sia che spaccasse un cumulo di mattoni con tutta la sua forza, sia che gli allacciasse l’armatura. Ogni mattino lo lasciava nella propria tenda, raccomandandogli di non seguirlo, e ogni sera, di ritorno dalla battaglia, sudato, stanco e sporco lo ritrovava ad aspettarlo.
Non gli era sfuggita la frustrazione negli occhi del ragazzo che non sopportava di starsene da solo, tormentato dai suoi fantasmi, ma non avrebbe osato portarlo con sé sul campo. Si sarebbe fatto ammazzare piuttosto che esporlo ai pericoli.
Sentiva il bisogno di proteggerlo, di impedire a quegli occhi tanto giovani e tanto ingenui di vedere tanta crudeltà. Ne avevano vista già troppa.
Gli si strinse il cuore al ricordo delle circostanze in cui l’aveva trovato. La simpatia che aveva provato per lui era stata immediata, quasi istintiva. Da giorni si chiedeva quale fosse la vera origine di quella simpatia. E quella mattina, a poco più di un’ora da un nuovo giorno di battaglia e di sangue, capì.
Sorrise mestamente. Ma certo, era così semplice. La risposta era sempre stata lì, davanti ai suoi occhi.
Si avvicinò e con gentilezza mise una mano sulla spalla di colei che credeva essere un ragazzo, la quale sussultò.
 
“M-mio signore! Perdonatemi, non vi avevo sentito arrivare”
 
“Sei sempre così mattiniero, Akira”
 
Tra di loro parlavano in giapponese e la cosa non sembrava poi così strana alla divisione di un esercito che prendeva ordini da un generale che di cinese aveva solo la patria adottiva.
 
“Scusate, mio signore, è che non riesco a… stare fermo. Sento che altrimenti potrei impazzire”
 
Shinnosuke ridacchiò e non disse niente. Dopo qualche istante ruppe il silenzio. “Credo di essermi appena ricordato un particolare curioso. Tu sai che in passato ho visitato il palazzo di Soun-sama”
 
Il ragazzo parve sbiancare, ma Shinnosuke non se ne accorse.
 
“E una volta intravidi la principessa”, indugiò qualche istante, per poi ricominciare, “Fu un breve momento, di cui ricordo ancora meno… Dopo l’incidente che ho avuto non sono molte le cose che rimangono nella mia memoria… Quelle che ho vissuto prima dell’esplosione sono state cancellate completamente, quelle che vivo da allora si rincorrono nella mia mente, a volte tornano, a volte mi sfuggono e ogni tanto capita ch’io riesca ad afferrarle”
 
Akira annuì lentamente, corrucciato.
 
“Non ricordo nulla del palazzo di Soun-sama, non ricordo di che foggia fosse il kimono della principessa quel giorno nè che acconciatura portasse… Ma ricordo il suo nome. Akane. E’ un nome molto bello, non trovi?”
 
Il ragazzo non disse niente.
 
Shinnosuke proseguì. “E i suoi occhi. Quelli sì, me li ricordo. Per mesi quegli occhi si sono stampati nella mia memoria. Brillanti, fieri. Non ho mai visto occhi così. E’ la prima volta che ne parlo con qualcuno… Quelli erano gli occhi più belli che io abbia mai visto, Akira. Non so come ho fatto a non realizzare fino a oggi quanto i tuoi vi assomiglino. Mi ricordano quelli della principessa”
 
Il ragazzo parve agitarsi.
 
“Oh no, non fraintendermi”, si affrettò ad aggiungere il giovane generale, imbarazzato, “Non voglio certo dire che tu hai degli occhi da donna! Solo… tu hai uno sguardo così diretto, così pulito e sincero… Non mi meraviglio, ecco, che qui ti vogliano già tutti un gran bene”, concluse con un sospiro.
 
Anche Akane sospirò. Rimasero in silenzio per un tempo incalcolabile. 
 
Shinnosuke non sapeva come continuare. “Hai conosciuto la principessa?”, osò poi, e il suo tono parve incupirsi.
 
“Non abitavo lontano da lì”, rispose un po’ forzatamente il ragazzo, che probabilmente non sapeva cosa dire a fronte di quel discorso sconclusionato, “E ne ho spesso sentito parlare. Un paio di volte l’ho vista, da lontano”
 
Distratto dai preparativi di un gruppo di soldati, poco distante, Shinnosuke sbuffò: “Un nuovo giorno… Tra poco sarà ora di lasciare l’accampamento. Vuoi parlarmi di lei ancora per un po’? Ne sarei felice…”, chiese quindi con dolcezza.
 
Impossibile negarglielo. “Beh, mio signore, si dice che avesse un certo temperamento…”
 
“Sì, pare di sì”, sorrise lui.
 
“E si raccontava che avesse sposato un uomo di nascosto dal padre”
 
Shinnosuke trasalì. Quella voce non gli era arrivata. Ma in fondo non fu così sorpreso. Quegli occhi, gli occhi che lui ricordava, parlavano chiaro. “Probabilmente era l’uomo che amava”, la voce gli uscì un po’ più triste di quello che avrebbe voluto.
 
“Sì…”, e il sussurro di Akane fu appena udibile. “Lui comunque pare che sia stato esiliato…”
 
“Chissà che scandalo…”, non c’era giudizio nel tono di lui.
 
“Se ne è parlato parecchio, sì. Ma la principessa gli è stata sempre fedele, non può essere altrimenti. E anche lui, di certo… Solo che… troppe persone non volevano che fossero felici…” Sollevò lo sguardo su Shinnosuke che ascoltava attento. “Che fine abbiano fatto adesso, non so dirlo”, tagliò corto Akane.
 
“Pare che la principessa sia morta”, sospirò il generale chiudendo per un attimo i grandi occhi che si erano fatti improvvisamente lucidi, “L’ho saputo due giorni fa. Mi spiace darti questa notizia. Sembravi molto interessato alle vicende della giovane Tendo…”, aggiunse lieve, “E mi spiace sapere che il mio nemico soffra un dolore tanto grande. Ma più di ogni altra cosa… Non riesco a concepire che occhi come quelli si siano spenti” 
 
Un freddo pungente entrò loro nelle ossa.
 
“Come… come è…?”, Akane boccheggiava, impreparata a sentire con le sue orecchie una notizia simile.
 
“Un male improvviso. Così sembra”, rispose Shinnosuke e parve sforzarsi di mantenere ferma la voce.
 
Quelle parole rimasero per un po’ sospese tra loro.
 
“Signore”, irruppe una giovane recluta, rompendo il silenzio, “E’ tempo di andare”
 
Shinnosuke annuì. E come ogni mattina, si congedò posandole una mano sul capo: “Se non dovessi tornare vivo… Stammi bene, Akira”
 
 
 
Ancora piegata nel suo inchino, Akane lo guardò andare via. Guardò l’accampamento fremere sotto di lei, due nuvole rincorrersi, i mattoni inerti poco lontano.
Sola, di nuovo sola.
Rientrò nella tenda del generale, indecisa se mettersi a sedere sulla branda. Rimase lì in piedi a ripensare a quello che aveva appena sentito.
Akane Tendo era morta. A quanto pareva così credevano tutti, anche se il motivo le era oscuro. Un proclama ufficiale, forse?
Akane Tendo era morta. E con lei la vita che conosceva, la sicurezza di una casa, l’amore.
Si chiese cosa credesse davvero suo padre, se aveva imbastito lui quell’assurda notizia, o se la credeva morta davvero; si chiese cosa stesse soffrendo in quel momento. E Ryoga e Ukyo cosa credevano? Dove si trovavano? Si sentì infinitamente lontana da tutto e da tutti.
Si sedette di peso sulla branda. Pochi minuti prima aveva ripercorso mentalmente la sua vita, nel tentativo di riassumerla all’osso e raccontarla in terza persona. E pur con tutte le lacune e le omissioni del caso, Akane aveva sentito il dolore farsi più dolce, l’amore più lancinante, il perdono imprescindibile.
Ora era di nuovo sola.
Odiava quei tempi morti. Tornava ad essere Akane, quando al contrario voleva dimenticarsi di essersi chiamata così, di essere stata donna e principessa in un passato troppo lontano. 
Un passato in cui c’era Ranma.
Voleva solo essere Akira, il ragazzotto di poche parole, dalla voce roca, che spaccava mattoni e aiutava il generale Shinnosuke.
Sospirò.
“A chi voglio darla a bere…”
 
 
 
****
 
 
 
“A chi voglio darla  a bere…”, mormorò Ranma a se stesso, mentre con un ramoscello spingeva sotto la cenere l’ultimo tizzone di un fuoco ormai spento.
 
Sollevò gli occhi stanchi sulla boscaglia grigia che gli aveva dato riparo per una notte senza stelle e senza sogni, mentre una nebbiolina sottile si alzava dalla terra calda sotto il primo bagliore del mattino.
 
Si era diretto là dove impazzava la guerra con l’obiettivo preciso di farsi ammazzare.
 
Ma ancora non ci era riuscito. Non che non ci avesse provato. Così, almeno, gli pareva.
 
Come era giunto faccia a faccia con l’esercito nemico si era gettato a capofitto nella mischia.
Non seppe dire se fosse la totale incapacità dei soldati che si era trovato tra i piedi o la rabbia che lui stesso doveva innanzitutto sfogare, per andarsene all’inferno almeno un po’ più leggero, ma aveva finito ogni volta con l’avere la meglio su quegli avversari, che poi, a ben guardarli, erano dei poveri diavoli come lui, finiti lì a combattere chissà come, spesso e volentieri spaventati a morte e su cui lui non aveva cuore di infierire. Anzi, il più delle volte si ritrovò a difendere di propria mano qualche giovane recluta inesperta che si stava facendo ammazzare da attacchi cinesi ben più organizzati.
 
Questo lo costrinse ben presto a disertare un esercito che non era il suo e di cui si era servito soltanto per arrivare fin lì. Nel disordine di un campo di battaglia in cui si attaccava a vista, tra il fumo e il sangue a coprire la visuale e a mettere a dura prova la lucidità, fu facile per lui prendere la propria strada. Nessuno dei suoi commilitoni se ne accorse, nessuno si era preso la briga di stamparsi in mente quella faccia cupa e taciturna… anzi probabilmente l’avevano dato per morto. Meglio così. I metodi cinesi non gli andavano a genio. Appena potevano scatenavano i loro “draghi di fuoco” o come diavolo li chiamavano, col solo risultato di distruggere villaggi e mutilare gente innocente, che non aveva nulla da guadagnare da quella stupida guerra.
Strinse i pugni. Scene come quella della notte precedente erano all’ordine del giorno, e non sempre avevano un lieto fine.
Ne aveva viste parecchie negli ultimi giorni. Da quanto tempo era lì? Non seppe dirlo. Si aggirava come un reietto ai margini della comunità e della battaglia, senza far parte né dell’una né dell’altra. E ogni volta che sperava di trovare la morte era costretto ad agire per aiutare qualcuno che la morte non la stava cercando, trovandosi ora a disarcionare un soldato con la bava alla bocca all’inseguimento di una donna sfuggita a una carneficina – maledetto bastardo-, ora a fermare a mezz’aria una freccia – benedetti riflessi - nella sua traiettoria verso il cuore di uno sbarbatello entrato nell’esercito da meno di un mese; che fosse cinese o giapponese poco importava.
Qualcuno l’aveva ringraziato dicendo che i kami l’avevano mandato lì al momento giusto. La verità era che i kami avevano altro a cui pensare e che in una guerra è sempre il momento giusto per morire o essere salvati.
 
Si guardò le mani.
 
Non aveva mai il tempo di pensare, ed era un bene. I pochi momenti lontano dall’azione erano riservati a un breve riposo stremato.
 
Si guardò le mani e non le riconobbe, così diverse da quelle del ragazzo che aveva preso il viso di lei nel bacio dell’addio, mille anni prima.
 
Akane.
 
Si rese conto che ogni volta che con quelle mani salvava qualcuno, era lei che tentava di salvare. Ogni volta che le brandiva come armi per proteggere, era lei che tentava di proteggere. In ogni volto di bambino, di vecchio contadino o di fanciulla era quello di lei che vedeva.
 
Stupido.
 
Sollevò lo sguardo all’orizzonte verso le colonne di fumo che tremolavano laddove di lì a poco sarebbe ricominciata la strage giornaliera.
 
E fu allora che scattò qualcosa dentro di lui. E Ranma prese la sua decisione.
 
Decise che avrebbe continuato a combattere, sì, ma con la consapevolezza di farlo non per se stesso, non più per la morte, per cercare la propria, ma per la vita, per far sì che altri non la perdessero.
 
Si alzò con un nuovo bagliore nello sguardo, che rivolse al cielo.
 
Ranma non sapeva che piega stesse prendendo la guerra, né quanto fosse estesa, se ci fossero vittorie o sconfitte imminenti o che altro…
Sapeva solo che lui sarebbe stato lì con quelle sue mani e si sarebbe gettato nella mischia o dove fosse necessario, fino alla fine.
 
Con gli occhi fermi e senza dire una parola pronunciò il suo voto e fu a lei che si consacrò ancora una volta.
 
L’avrebbe rivista nei volti del popolo che le era appartenuto, e sarebbe morto per salvarlo.
 
 
 
***
 
 
 
“Ukyo, le tue focacce resuscitano i morti!”
 
La ragazza fece a malapena un cenno in risposta al soldato dalla risata contagiosa che si stava rimpinzando di gusto. In altre circostanze, complimenti tanto sinceri l’avrebbero lusingata e messa di buonumore.
Si guardò intorno distrattamente, leggermente affannata, mentre alcuni garzoni servivano al suo posto zuppa e altre pietanze agli uomini delle truppe di Soun-sama che avevano appena fatto ritorno all’accampamento.
Si trovava lì non da molto e già le pareva un’infinità: era stata una decisione repentina, dettata certamente dal fatto che l’esercito non era nella posizione di sprecare le sue risorse nelle cucine o in altri compiti ausiliari e ogni paio di braccia in più era quantomeno auspicabile. Ma sopra ogni altra cosa lei era andata lì per seguire lui…
 
“Se stai cercando Ryoga-san”, la apostrofò un secondo soldato sulla trentina dallo sguardo vispo, mentre con la manica si asciugava un po’ di salsa dalla bocca, “Non devi preoccuparti, ragazza, sta arrivando: la sua divisione era dietro di noi”
 
Finalmente Ukyo respirò di nuovo, e si voltò verso di lui con interesse. “L’hai visto? Sta bene?”
 
“Fai così tutte le sere”, ghignò l’altro, “E tutte le sere lui fa ritorno. Se lo vedessi combattere in battaglia non ti preoccuperesti più così tanto. Sembra di vederlo danzare”
 
Ukyo si congedò da lui stringendogli un braccio con entrambe le mani. Lui la vide sgattaiolare nel rumore delle stoviglie e nel vociare dei sopravvissuti, schivando una fiumana di uomini, spade e armature sudate.
Quei due erano molto discreti, ma nella penuria di svaghi non era sfuggita a lui come ad altri soldati la storia d’amore tra il servo e l’ancella che prima lavoravano a Palazzo Tendo. Dormire ogni notte tra le braccia della propria donna era un privilegio riservato a pochi. Non che qualcuno avesse da ridire. Il soldato Hibiki era degno del rispetto dei compagni. In battaglia tutti potevano farvi affidamento. Aveva salvato la vita anche a lui una volta, Ryoga, quando si era trovato davanti quattro cinesi armati fino ai denti. Come ci fosse riuscito poi, ancora se lo stava chiedendo. Era stato dannatamente veloce. Tracannò un bicchiere d’acqua torbida e intravide in lontananza la piccola Ukyo scovare finalmente il ragazzo. “Buon per lui!”, ridacchiò.
 
 
“Ryoga! Finalmente…”
 
Si sentì stringere due braccia al collo prima di capire che era Ucchan, la sua Ucchan che lo aveva aspettato.
 
Arrossì. Ogni giorno scampava alla morte e ogni sera non poteva fare a meno di imbarazzarsi come un bambino quando lei lo accoglieva in quel modo.
 
“Oh, non dire niente!”, lo redarguì subito lei, prevenendolo. “Ti aspettavo con una tale ansia che non ti conviene davvero sgridarmi perché ti abbraccio davanti a tutti! Ecco, è già finito! E poi “tutti” chi? Non ci sta guardando nessuno!”
 
Non era davvero arrabbiata, anzi. Dava voce  a tutte quelle chiacchiere per smorzare la tensione - Ryoga conosceva bene la sua Ucchan – e per ricacciare lacrime inutili, tagliando corto con uno di quei suoi sorrisi freschi e diretti.
 
“Stai bene? Hai male da qualche parte?”, chiese lei tastando e verificando arti e petto con attenzione.
 
“Tutto bene”, la rassicurò lui, prendendole una mano tra le sue.
 
Lei lo guardò con riconoscenza. Non era mai sporco di sangue, né suo né altrui. Non sapeva come combattesse sul campo, non aveva mai fatto domande, ma gli era grata per quell’attenzione.
 
“Guarda che se ti fanno del male mi procuro una spatola gigante e gli faccio vedere io, eh?!”
 
“Non ne dubito!”, rise Ryoga di fronte all’assurdità di quella proposta. “E comunque devi ringraziare Obaba e il vecchio Happosai se me la cavo senza ammaccarmi troppo”, aggiunse mentre continuava a stringerle la mano e la seguiva verso i tavoli del rancio, “Devo molto ai loro insegnamenti”
Si morse il labbro in tempo, omettendo quanto gli fossero tornati utili anche tutti gli allenamenti con Ranma.
E quanto gli mancassero. Dov’era Ranma in quel momento?
Ogni volta che fronteggiava l’esercito cinese non poteva fare a meno di scrutare gli occhi del nemico alla ricerca di uno sguardo conosciuto, aspettandosi di veder spuntare improvvisamente un codino.
Non sapeva più dire quali fossero i piani di colui che era stato il suo più caro amico. Non lo conosceva più.
Ma di una cosa era certo: gli avrebbe fatto ingoiare dal primo all’ultimo tutti i suoi sbagli.
Eppure allo stesso tempo desiderava fortemente incontrarlo di nuovo e scoprire che si era trattato solo di un enorme malinteso.
 
“Ecco qui!”, cinguettò Ukyo mettendogli sotto il naso una delle sue focacce fumanti.
 
Senza pensarci due volte Ryoga la addentò famelico. “Da quando sei arrivata tu qui a cucinare”, disse con la bocca piena, “tutti mi dicono di essere più in forze!”
 
“Beh, non è che abbia avuto tutta questa scelta… Soun-sama ti ha voluto qui nell’esercito e io sono venuta con te”, concluse come fosse la cosa più naturale del mondo.
 
Ryoga ingoiò il suo boccone, annuendo: “Lo sai… Kuno è sparito e la sua parte dell’esercito è rimasta senza comando. In attesa che Happosai faccia ritorno dai confini a nord del Paese – e chissà quanto ancora ci vorrà -, Soun-sama ha ripartito le truppe e ha avuto bisogno di uomini fidati, giovani… pronti a morire per lui”
 
Per un po’ rimasero in silenzio.
 
“Non lo si vede quasi mai”, fece Ukyo, sbocconcellando un pezzo di okonomiyaki, “…e sempre da lontano. Sembra così triste…”
 
“In battaglia non si risparmia. E quando viene qui si chiude nella sua tenda. Mi chiedo che fine abbia fatto Kuno”
 
Rabbrividirono entrambi. La sera stava calando velocemente. Si alzarono e si allontanarono senza fretta.
 
“Che il diavolo se lo porti…! Non l’ha trovata, te lo dico io! La mia Akane sa come difendersi”, si scaldò Ukyo.
 
“Speriamo”, sorrise debolmente Ryoga mentre gli schiamazzi dei soldati si facevano sempre più distanti, “… speriamo. E se Akane non fosse mai arrivata? Non riesco a togliermelo dalla testa… Non ho ricevuto nessuna lettera da Hiroshi e Daisuke… Non sappiamo se sia riuscita a trovarli…”
 
“Forse invece è arrivata, ti hanno scritto, ma in tutto questo guazzabuglio la lettera è andata perduta! Non pensi?”
 
“Mmm… forse. Comunque questa dannata guerra mi ha impedito di scoprirlo di persona…”
 
Si strinse a lui, come per impedirgli di aggiungere qualcosa, di pensare, per non pensare lei stessa. Troppe domande. Troppi dubbi. Troppe paure a cui non osavano dare forma.
Ryoga serrò gli occhi e scosse la testa, attirando Ukyo più forte a sè. Era così calda…
 
Erano arrivati in prossimità della tenda che lei divideva con le altre poche donne che servivano nell’accampamento, e nessuna di loro era lì, in quel momento.
 
Riaprì gli occhi e se la guardò, se la guardò tutta, la sua Ucchan, senza esitazione.
 
Neanche lei abbassò lo sguardo, un lieve rossore a tradirne l’emozione.
 
Lei era tra le sue braccia, erano vivi, e questo bastava.
 
La baciò con una dolcezza struggente. Lei gli accarezzò il viso e i capelli con le mani che sapevano di cavolo.
Tenendola stretta a sé si allontanò appena per guardarla negli occhi, il fiato corto.
 
“Quando tutto questo sarà finito…”
 
“Non dirlo. Ti prego, non dirlo… “, lo guardò allarmata, “Porta male. Se è qualcosa di bello, comincerò a desiderarlo anch’io e a crederlo possibile. E allora… se poi dovesse succederci qualcosa, io…”
 
“Non ci succederà niente…”, tentò di calmarla lui.
 
“Sssh… ti prego” Lacrime. Piccole lacrime le si stavano formando agli angoli degli occhi. Aveva paura. Lui non disse più niente. In fondo non ce n’era bisogno.
 
‘Scusami’, avrebbe voluto dire, ma lei capì comunque e il suo sorriso significò ‘Va tutto bene’.
 
La prese tra le braccia e si spinse con lei dentro la tenda, sulla stuoia stesa a terra. La baciò ancora e ancora, e le mani di lei gli sfilarono l’armatura e gli indumenti che lo proteggevano fino a sfiorarne la pelle bollente. Poteva percepire il proprio cuore pulsare irrefrenabile sotto quelle mani. Si sentì felice, al sicuro.
 
Tennero gli occhi chiusi e continuarono a baciarsi in quell’attimo strappato al riposo e alla guerra, continuarono a mordersi, a cercarsi sulla stuoia fredda, a perdersi nel calore dell’altro. Si amarono.
 
Non fu la prima volta, e non fu l’ultima. Ma fu la più dolce, la più intensa.
 
 
 
 
***
 
 
Genma alzò gli occhi sulle due ragazze, nella luce del primo pomeriggio.
 
Nabiki si asciugò con una manica il sudore della fronte mentre affilava la punta di una freccia contro la corteccia di un castagno.
Kasumi stava pulendo accuratamente alcune bacche scure con un lembo dello yukata. La ragazza aveva il viso stanco e le mani graffiate, ma i suoi capelli erano tenuti in ordine nella solita coda bassa; si sforzava di farla ogni giorno, dimostrando di non voler dare a vedere quanto fosse dura per lei quella nuova vita. Continuava a sorridere e a seguirli senza controbattere.
 
Da giorni si spostavano nella boscaglia, senza mai sostare troppo a lungo in un posto e senza mai uscire allo scoperto.
Le alture su cui si muovevano erano circondate dagli eserciti accampati, da uomini a cavallo, in lotta, in esplorazione.
Più di una volta sfruttarono la capacità di prevedere l’arrivo dei soldati e gli tornò utile quella di leggere le tracce lasciate sul terreno. Riuscirono per giorni a fuggire non visti.
 
In quel momento si trovavano in un boschetto sulle pendici di una gola. Presto si sarebbero spostati anche da lì. Il territorio non sembrava battuto, ma avrebbe potuto interessare uno o l’altro esercito: quel posto era perfetto per organizzare un’imboscata in grande stile.
 
Genma guardò Nabiki che nel frattempo si era arrampicata e se ne stava aggrappata a un ramo a scrutare l’orizzonte, come faceva ogni volta prima che si rimettessero in marcia.
 
Si chiese se non stesse domandando troppo a quelle ragazze. Ma che altra soluzione aveva? Fermarsi e lasciare che finissero tra le grinfie di uno o dell’altro esercito?
 
“Zio Genma!”
 
La voce di Nabiki lo riportò alla realtà. La vide fissare attenta qualcosa oltre le chiome degli alberi, giù verso la gola.
 
“Mmm, che c’è?”
 
“C’è qualcosa di strano. Ci sono due uomini, sembrano vestiti come dei samurai, ma non ne sono sicura… e sono accerchiati da cinque, no, sei uomini… Zio, cosa dobbiamo fare? Sembra un agguato!” Nabiki era sul punto di incoccare una freccia, ma le tremavano le mani. Era giusto intromettersi?
 
Genma in un balzo le fu accanto. “Fammi vedere” Come mise a fuoco la visuale, si gelò sul posto e le parole gli uscirono di bocca senza che potesse fare niente per trattenerle. “Ma quello è Soun Tendo…”
 
“Soun Tendo? Il nostro principe? In questo caso è meglio sbrigarsi ad aiutarlo…” Sfilò due frecce dalla faretra e trattenne il respiro, pronta a colpire chi teneva in scacco il suo signore.
 
Genma la bloccò.
 
Lei lo guardò senza capire e lui si sentì colpevole più che mai.
 
Nello stesso istante i due uomini giù nella gola tentarono di ribellarsi e rotearono le rispettive spade. Uno dei due era ferito e fu facile per i nemici atterrarlo. Nel tentativo di salvarlo, Soun-sama gli si parò davanti e bloccò parte dei colpi. Ma sei uomini erano troppi.
 
Genma non ci pensò oltre. “E sia!”, afferrò a sua volta un paio di frecce e fece un cenno a Nabiki che non se lo fece ripetere due volte. Nel giro di pochi secondi quattro uomini, seguiti da altri due, erano stramazzati al suolo.
 
Soun-sama si affrettò ad aiutare il suo sottoposto a rialzarsi e poi si volse rapido verso la direzione da cui erano arrivate le frecce.
Nabiki e Genma si acquattarono immediatamente tra le fronde, sfuggendo il suo sguardo.
 
“Vi prego, non nascondetevi”, disse con voce tonante, “Chiunque voi siate, io, SounTendo, vi devo la vita. Lasciate che vi ringrazi come è giusto”
 
Nessuno rispose. Genma rimase immobile. Dal suo nascondiglio Nabiki si voltò a guardarlo.
 
E adesso?
 
Sapeva che quel giorno sarebbe arrivato. Solo che non si immaginava sarebbe stato tutto così dannatamente veloce. Neanche aveva avuto il tempo di prendere una qualunque decisione, che la sua strada si era trovata nuovamente a incontrare quella del suo amico di un tempo, nonché padre delle sue ragazze, le ragazze che aveva rapito una lontana notte di quindici anni prima.
Soun era a poche decine di metri da lui. E da Nabiki e Kasumi.
Capì che il destino l’aveva trovato e gli stava dando una possibilità.
 
“Dovreste farvi vedere, tu e Hitomi”
 
La ragazza sgranò gli occhi.
 
“E tu, zio?! Noi non andiamo da nessuna parte senza di te!”
 
“Non essere irragionevole. Tua sorella è stremata, non durerà ancora a lungo così. E anche per te… Ascoltami. Anche per te è una vita ben oltre le tue abitudini. Soun-sama vi prenderà sotto la sua ala e con lui sarete al sicuro”
 
Genma scese dall’albero e Nabiki lo seguì: “Ma…”
 
“Non vi lascerò, di questo potete stare sicure”, si rivolse a entrambe, mentre l’una lo guardava poco convinta e l’altra interrogativa, “Rimarrò fuori dall’accampamento, ma vi seguirò, vi osserverò da lontano”
 
“Ma perché non…”
 
“Lo sapete, sono allergico alla società e agli uomini e sto bene qui nel mio ambiente. Ma è giusto che voi conosciate quel mondo da cui vi ho allontanato, e che ora vi reclama. Sarete in buone mani”
 
Tenendo le mani sulle loro spalle, se le guardò qualche istante. Kasumi fu la prima a piangere e le guance di lui si bagnarono subito dopo. Per non farsi vedere nel momento della commozione, le attirò a sé, nascondendo il volto tra i capelli dell’una e dell’altra, in un abbraccio brusco quanto sentito.
 
“Zio, io…” Nabiki si morse un labbro, indecisa sul da farsi.
 
“Andate ora! Non vorrete far aspettare Soun-sama?!”
 
Avrebbe voluto dire tante cose, Nabiki, ma non ce n’era il tempo. “Ci rivedremo”, disse soltanto, e non era una domanda.
 
Genma rise tra sé e sé. Quella ragazza era in grado di trovare più di un’alternativa alle lacrime e ai sorrisi.
 
E mentre Kasumi salutava con una mano lo zio, incapace di dire nulla di più, la sorella le prese l’altra e insieme scesero dal lieve pendìo, a passo svelto.
 
 
Soun Tendo stava aspettando una mossa dai suoi salvatori. Avrebbe atteso ancora, se necessario, nella speranza che si palesassero, così da poterli ringraziare di persona.
 
Nella calma dell’attesa si era allontanato dal luogo dello scontro e dai corpi dei suoi assalitori, preoccupato di dare le prime cure al compagno, felice di non trovarlo ferito a morte. E nel momento in cui stava riacchiappando i cavalli da cui erano stati disarcionati, un fruscìo di cespugli non troppo lontano attirò la sua attenzione.
Chiunque avesse scoccato quelle frecce si era deciso a venire allo scoperto. Doveva trattarsi senz’altro di qualche impavido montanaro… Forse un gruppo di uomini che… 
Due figure sbucarono dalla macchia, muovendosi quasi di corsa giù dal pendìo.
Soun Tendo sgranò gli occhi. Poche cose erano in grado di stupirlo e di scalfirne il contegno.
Quella fu una di queste.
Davanti a lui c’era non un clan di uomini, ma un paio di fanciulle che avanzavano verso di lui. Una era vestita con abiti maschili, lo sguardo fiero e vispo, l’altra procedeva con grazia, lo sguardo più dolce che avesse mai visto. Entrambi gli sguardi, chissà perché, per un attimo gli sembrarono familiari.
 
Come gli furono davanti si inchinarono e lui, forse per la prima volta in vita sua, non seppe cosa dire. Si affrettò a farle sollevare, poggiando le mani incerte sulle loro spalle.
 
“Io vi… vi devo la vita” E fu lui a chinare il capo.
 
L’altro uomo, poco distante, sdraiato e dolorante, regalò loro un sorriso e un piccolo cenno di ringraziamento.
 
Le due ragazze alzarono la testa, curiose. Mai avrebbero pensato di poter guardare Soun-sama così da vicino. Provarono simpatia per quegli occhi stanchi e caldi e quei baffi neri, così paterni.
 
Fu Nabiki a rompere il silenzio. “E’ stato nostro dovere! Vi ho visto dalla cima di un albero e ho pensato fosse il caso di intervenire”
 
“Hai pensato bene, mia cara. Sai usare l’arco?”
 
“Quello e la spada, mio signore, anche se non benissimo. Nei boschi bisogna essere pronti a tutto”
 
“E’ da lì che venite?”
 
Kasumi annuì: “Ed è da lì che siamo scappate quando i soldati nemici hanno incendiato la nostra casa”, concluse mestamente.
 
“Capisco”, sospirò Soun. “Questa guerra non sta portando che guai… Poco fa ci avete salvato da morte certa. Ero venuto personalmente in avanscoperta perché sembra che questo sia il luogo perfetto dove spingere l’esercito nemico e poterlo finalmente fermare. Ma a quanto pare siamo stati seguiti da questi uomini. Ci hanno colti di sorpresa e… Grazie ancora. Non so cosa sarebbe stato di noi se non foste intervenute”
 
Il suo sguardo si fermò su Kasumi. “Anche tu tiri con l’arco?”
 
“Oh, no, mio signore, assolutamente no. E’ mia sorella quella brava con questo genere di cose. Ma è ancora più brava quando deve preparare delle trappole. In quello non la batte nessuno”
 
Soun le esaminò attentamente. “Eravate sole, lassù, nel bosco? Sei uomini sono tanti da atterrare in meno di un minuto”
 
Le due sorelle si guardarono.
 
Fu Kasumi a rispondere. “Ma certo che no. Eravamo con nostro zio Genma”
 
L’uomo trasalì. “Genma, hai detto? E’ un nome molto particolare…”
 
“Lo zio vi manda le sue scuse”, si premurò di proseguire Nabiki, “ma la sua natura gli impone di stare nel bosco, lontano dalle persone”
 
Soun annuì distrattamente. “Ma sì, certo, ognuno è libero di agire secondo il suo desiderio…” Tornò a guardarle. “Posso sapere i vostri nomi?”
 
“Oh cielo, non ci siamo presentate! Il mio nome è Hitomi”, disse Kasumi, “e questa è mia sorella Misaki”, concluse indicando Nabiki.
 
“Purtroppo i nostri cognomi ci sono ignoti”, lo prevenne quest’ultima, “siamo orfane di entrambi i genitori”
 
“Perdonatemi. Non volevo mettervi a disagio”
 
Nabiki scosse la testa. Non l’aveva messa a disagio, si sentiva anzi tranquilla a parlare con quell’uomo. E la cosa assurda era che aleggiava al contempo una certa tensione nell’aria, a cui non sapeva dare un significato, una sottile carica elettrica.
 
“Dunque avete sempre vissuto nel bosco?”
 
“Sì, da sempre”, continuò Nabiki, “Senza mai vedere nessuno, a parte qualche rara eccezione”, il suo sguardo si incupì al ricordo non lontano del piccolo Akira. Tentò di scacciare il dolore e di ritrovare il coraggio. “Siamo qua… per chiedere la vostra protezione”
 
Soun ebbe un moto di tenerezza.
 
Stava per rispondere, quando Nabiki riprese: “Oh, non faremo pesare in nessun modo la nostra presenza! Io mi offro di servirvi in qualunque modo consideriate opportuno, quanto a mia sorella, vi prego di avere per lei un’attenzione in più: non è abituata a camminare né a fare lavori pesanti, ma la sua cucina incanta e saprà deliziarvi con i suoi manicaretti, se lo vorrete”
 
Il discorso pieno di buoni propositi della ragazza ebbe il pregio di suscitare in lui una fragorosa risata. Da quanto non rideva così di gusto?
 
“Bambine mie, non c’è bisogno che me lo chiediate”, disse asciugandosi gli occhi dalle lacrime, “Desidero io per primo prendervi sotto la mia protezione. La considero una ben misera ricompensa per quello che mi avete regalato oggi. Se con la vostra presenza vorrete allietare le mie ore all’accampamento ne sarò felice, ma non sentitevi in nessun modo in obbligo di farlo”
 
Nabiki inspirò soddisfatta e Kasumi si accese di un sorriso grato.
 
Soun issò il compagno in sella, poi si voltò verso Kasumi e le prese la mano; era così piccola e bianca nella sua, che avrebbe voluto tenerla lì per sempre.
 
L’aiutò per prima a salire in sella. “Prendete il mio cavallo: è vostro. Io posso camminare”
 
“Anch’io posso camminare, mio signore. Vi ringraziamo entrambe per questa premura, ma lasciate che sia mia sorella a goderne” Così dicendo Nabiki si mise al fianco di lui e strattonando le redini che aveva appena afferrato iniziò a camminare.
 
Soun la guardò divertito.
 
Di colpo la ragazza si rese conto della situazione. “Oh kami! Sempre che non sia sconveniente per me, voglio dire, per una donna, una donna più giovane, e non nobile… cioè, forse è inopportuno… vi offende se cammino come una vostra pari!… Ma certo dev’essere così! Scusate, io non conosco le regole del mondo”, si chinò quasi a toccare il terreno con la fronte per la vergogna. Nabiki odiava perdere il controllo, ma non aveva idea di come ci si dovesse comportare fuori dal bosco.
 
In tutta risposta Soun rise ancora. Quelle ragazze lo mettevano di buonumore. “Una col tuo piglio imparerà in fretta, ne sono sicuro! Non mi disturba in nessun modo, bambina mia, averti al mio fianco. Anzi, lo considero un onore”
 
 
E poco lontano da lì, dalla cima del suo albero, Genma Saotome vide le sue ragazze conoscere il padre perduto, sorridergli, parlargli con una calma invidiabile e una dignità regale. E anche con un affetto innato, spontaneo. Vide Soun turbarsi per qualcosa, ma risollevarsi subito dopo. Non poteva sentire cosa si stessero dicendo, ma si sentì tranquillo.
E dopo tanto tempo si sentì anche completamente solo.
Osservò quel quadretto lontano e si sentì sprofondare. Come aveva potuto dividerle dal padre? Tenergliele lontane per tutti quegli anni?
Soun non era cambiato poi molto. Lo spiò con cura. I capelli erano ancora neri e lunghi, la tempra forte e severa.
Si poteva dire lo stesso di lui? Qualche capello in meno, qualche chilo in più. Ma in fondo era rimasto lo stesso.
O forse no… Il rancore era scemato negli anni, lasciando spazio a una rassegnata amarezza.
Decise di non farsi altre domande per il momento o i rimorsi l’avrebbero roso senza pietà e non sarebbe riuscito a superare la notte, la prima notte senza di loro da anni.
Vide il vecchio amico aiutare Kasumi a montare in sella, vide Nabiki avere la faccia tosta di camminargli fianco a fianco.
E poi li vide allontanarsi pian piano, finchè divennero sempre più piccoli e sempre più appannati. Ma quelle, forse, erano le sue lacrime. Se le asciugò malamente, tirando su col naso, e cominciò a seguirli.
 
 
 
***
 
 
Aveva ancora il sapore di Ukyo sulle labbra.
 
Nella puzza di bruciato e di morte, Ryoga si teneva aggrappato all’immagine di lei sorridente sull’uscio della tenda che era stata adibita a cucina.
 
Faceva caldo, quel giorno, troppo caldo, e si muoveva a tentoni nel fumo che oscurava la visuale e che si apriva a sprazzi di fronte a scene raccapriccianti.
 
Gli attacchi nemici erano stati particolarmente violenti quella mattina e gli schemi di attacco e difesa erano presto stati sbaragliati, lasciando che i soldati si disperdessero e lottassero per la soppravvivenza come cani sciolti, disperati e rabbiosi.
 
Erano ore ormai che quella situazione andava avanti.
Ed erano dannatamente vicini a un villaggio. Sperò che la gente fosse scappata sulle montagne. 
 
Nel cozzare di spade e armi di ogni genere, distingueva a malapena le voci dei suoi compagni dalle grida del nemico.
Lasciò che a muoverlo fosse l’istinto. Colpiva chi gli si parava dinanzi, schivando all’ultimo gli amici e spezzando ossa ai nemici.
 
A un certo punto inciampò in quello che scoprì essere un ragazzetto cinese rannicchiato su se stesso, che lo fissò come chi stava guardando in faccia la propria morte.
Ryoga si raggelò a quella vista e provò orrore per se stesso. Poteva davvero fare tanta paura?
Lo afferrò per la casacca e lo sollevò da terra. Sembrava quasi non avere peso, tanto era secco ed emaciato.
 
“Va’ via da qui, presto!”
 
Quello, tremante, si divincolò e sgusciò via come un leprotto impaurito.
 
Ryoga ne seguì la fuga, pregando che trovasse il modo di farsi largo nella mischia e uscirne sano e salvo.
 
Ma quell’attenzione gli fu fatale.
Un cinese di ben altra stazza gli spuntò alle spalle, approfittando della sua distrazione, e si avventò su di lui con violenza.
Ryoga sentì improvvisamente un braccio robusto serrargli la gola e per un attimo vide tutto nero, mentre cadeva all’indietro.
 
*No, non posso morire!*, urlò una voce dentro di lui subito dopo.
 
Non poteva morire.
 
*Non ora, non così…!*
 
Ruotò su se stesso, trovando uno spiraglio nella morsa che lo strozzava e forzandolo con successo. Con un balzo fu di nuovo in piedi e mentre tossiva e sputava vide quell’uomo ringhiare famelico e prepararsi a un nuovo attacco.
 
A ben guardarlo era una bestia, non un uomo. Basso e massiccio, con un occhio guercio e senza denti, era sporco di sangue dalla testa ai piedi e puzzava di marcio. Si sentì squadrare da quell’unico occhietto truce, gongolante, prima di vederlo caricare a testa bassa.
 
Ryoga schivò facilmente l’attacco, ma l’altro, con entrambe le mani, sguainò due corte spade e le roteò come fossero mulinelli.
Schivò anche quelli, ma lo scatto, fulmineo e inaspettato, sorprese Ryoga quel tanto che bastò per procurargli un piccolo graffio superficiale.
La mano andò subito a stringersi alla spalla, in una smorfia di dolore. Perché quel taglio gli faceva tanto male?
 
“Veleno”, ghignò il bestione, “Non abbastanza da ucciderti… Almeno non ancoraaaaa!”
 
Prese la rincorsa e gli si scagliò nuovamente contro, le armi a fendere l’aria dove solo un attimo prima si trovava Ryoga.
 
“Sei veloce”, muggì, “…ma non per molto!”
 
Lo attaccò ancora e ancora, bramando imprimere nuovo veleno in quelle carni, e Ryoga riuscì a evitare tutti i suoi attacchi. Di norma un simile avversario poteva dargli del filo da torcere per qualche minuto, ma poi la sua forza e la sua prontezza avevano sempre la meglio.
Tuttavia cominciò a rendersi conto non solo che non riusciva ad avvicinarglisi per attaccarlo, ma che in generale i suoi movimenti stavano rallentando. Di poco, ma abbastanza perché l’altro lo incalzasse sempre di più.
 
Il sangue gli pulsava nelle tempie e la vista cominciò ad offuscarsi. Che fosse il veleno che faceva il suo lavoro?
Sapeva prevedere i colpi, ma non riusciva quasi più a muoversi e più di una volta usò il suo stesso peso in modo da sbilanciarsi giusto in tempo per togliersi dalla traiettoria e salvarsi la vita per poi ritrovare subito l’equilibrio, a fatica.
 
Quanto poteva andare avanti?
 
Il terreno accidentato non aiutò e nella concitazione Ryoga mise un piede in fallo, ruzzolando all’indietro.
 
Il bruto gli fu subito sopra. Schiacciato a terra da quell’ammasso di budella, Ryoga ebbe paura. A malapena riuscì a vederne il volto soddisfatto, mentre brandiva entrambe le spade per trafiggerlo a morte.
 
E quando fu certo che ormai la sua ora era arrivata, accadde l’insperato.
 
Qualcuno dietro di lui spiccò un balzo e si catapultò con entrambi i piedi sul petto del bestione, disarcionandolo da Ryoga.
 
Il ragazzo si mise in piedi a fatica. Si sfregò gli occhi. Dietro la cortina di polvere e fumo scorgeva solo delle sagome dalle voci strozzate.
 
Poi, un tonfo.
 
E di colpo non sentì più nulla.
 
Avanzò di qualche passo e intravide il corpo del suo nemico al suolo.
 
Poco distante, un uomo di spalle si stava alzando da terra.
 
“Grazie, amico”, ansimò Ryoga, “mi hai salvato la vit…”
 
Come l’uomo si voltò, il sangue gli si gelò nelle vene.
 
Due occhi blu e un codino color pece.
 
La vista gli stava giocando brutti scherzi, e lui doveva essere ancora sotto l’effetto del veleno.
 
Si stropicciò il viso.
 
Ma no, l’uomo era ancora lì.
 
La misura che qualcosa non quadrasse davvero gliela diede il fatto che anche lui era sbiancato e lo stava fissando come si fissa uno spettro.
 
“Ryoga…”
 
“Tu qui??”
 
Il sangue gli andò alla testa, e non ci vide più.
 
“Ranma, maledetto, io ti ammazzo!!!”
 
Si avventò su di lui, incurante del fatto che ancora gli arti non gli rispondevano appieno. Tale era la rabbia che si mosse con la sola forza di volontà.
 
Ranma non si aspettava di trovarsi davanti proprio lui.
Era andato dove la battaglia sembrava più dura e si era trovato di fronte il suo passato.
Non ebbe quasi il tempo di realizzarlo che caracollò per l’impatto ed entrambi rotolarono nella polvere.
 
Masticando terra e cercando di divincolarsi da Ryoga che gli aveva afferrato il collo, Ranma sentì crescere una frustrazione bruciante.
 
“Tu l’hai uccisa!”, esplose, scrollandoselo di dosso con una spinta feroce.
 
“No, tu l’hai uccisa!”, gli fu nuovamente addosso Ryoga, gli occhi iniettati di sangue, sentendosi pervadere da una nuova forza, mentre aveva la meglio sul poco veleno rimasto in circolo.
 
Ranma accusò il colpo e il pugno ben assestato dell’altro andò a segno, facendogli sanguinare un labbro.
 
Ryoga lo guardò, mentre si tamponava il mento dal sudore.
 
Capì che erano alle resa dei conti, che aveva dovuto sopportare le angherie di Kuno, soffrire per la sorte di Akane, temere per Ukyo, tradire il suo signore, conoscere la guerra, per poter arrivare fin lì.
 
Per quel momento.
 
Per riempire Ranma di botte.
 
“Ti farò pentire…”, con un primo calcio Ryoga lo colpì alla bocca dello stomaco, “…di essere natooo!”
 
Ranma si piegò sulle ginocchia, ma fu veloce a riprendersi e a scansare un nuovo affondo e un altro, e un altro ancora. “Io ti ho chiesto di… E’ vero… Ma perché… perché diavolo tu l’hai fatto?!”, gli vomitò addosso tutta la sua disperazione, prendendolo per le spalle con uno strattone.
 
In tutta risposta Ryoga lo spinse con brutalità e gli riversò addosso una cascata di pugni, gonfiandolo a sangue.
 
“Pezzo d’idiota, tu non sai nulla…”
 
Ranma si difendeva colpo su colpo, e dovette ringraziare più di una volta la propria agilità se non fu spedito immediatamente all’altro mondo.
 
“… Nulla… Nulla! Tutto quello che abbiamo passato per colpa tua… e lei… lei… Aaargh, Ranma! Osi pure farmi la morale?! Tu la volevi morta!!!!”
 
“NOOO!”, l’urlo di Ranma squarciò il cielo e per qualche istante anche la battaglia che si continuava a combattere intorno a loro parve essersi zittita.
 
Ryoga indietreggiò di qualche passo, confuso.
 
“Non l’ho mai voluta morta… Io… Dannazione, Ryoga! Sono stato uno stupido e non ho scusanti… Ho scritto quella lettera sotto l’effetto di un filtro, quello non ero io…”
 
“Era tua la mano che l’ha condannata a morte…”, tornò alla carica Ryoga.
 
“Ma quella che l’ha uccisa è stata la tua!!”, si sgolò Ranma, disperato.
 
Per un attimo Ryoga non capì, non capì davvero. Lo guardò frastornato, mentre Ranma, incurante di ogni brandello d’orgoglio rimasto, lasciava che le lacrime gli graffiassero il viso.
 
Ma poi capì. E si imbestialì ancor più.
 
“Ma ti va di scherzare?!” Lo afferrò per la casacca e lo scaraventò nella polvere. “Secondo te io avrei mai fatto del male ad Akane?!”
 
Da terra Ranma lo guardò, impallidendo.
 
Ryoga lo riportò alla sua altezza, serrandogli la mandibola in una presa ferrea e facendogli tornare il colore alle guance. “Non ho potuto obbedire”, gli sussurrò a pochi centimetri dal viso, “Non l’avrei fatto neanche se lei ti avesse tradito davvero…”
 
Non aveva sentito bene. Non… non l’aveva uccisa? Akane era viva?!  No, non poteva essere.
 
Ma poi vide gli occhi di Ryoga davanti ai suoi, intensi, sinceri, brucianti.
 
Si divincolò dalla stretta e… lo abbracciò.
 
Ryoga tutto si aspettava meno di essere abbracciato dal suo nemico. Amico... Quello che era. Si irrigidì, spiazzato.
 
“A-allora è viva?”, disse Ranma allontanandosi, una nuova luce negli occhi.
 
“Non lo so, Ranma”, la voce gli si era svuotata improvvisamente, insieme all’energia combattiva. Lo guardò a lungo, lo guardò per davvero da quando si erano incontrati. “Potrebbe essere morta”
 
“Che vuoi dire? E’ viva o no?! Ma allora è vero che è malata…?”
 
“Non dire idiozie! No, che non è malata! Quella è una montatura messa in piedi da suo padre per evitare che il nemico la cerchi per farla prigioniera…”
 
“Allora si trova da qualche parte, adesso… Qui intorno? Dove?”
 
A Ryoga salì il nervoso di fronte a quel Ranma tutto ringalluzzito e sicuro di sé. Lo spinse via per non doverlo picchiare ancora.
 
“E’ fuggita da palazzo per venire a cercare te, pezzo di cretino! E quando l’ha fatto ancora non sapeva della tua lettera… Io e Ukyo l’abbiamo coperta e sono stato io a portarla nel bosco… E lì le ho detto la verità…”, sospirò amaramente, “Doveva raggiungere Hiroshi e Daisuke, e aspettare da loro tempi migliori… Avevo pensato fosse la cosa più giusta… Ma non ho mai ricevuto notizie del suo arrivo… Temo che non sia mai giunta a destinazione…”
 
“Hiroshi e Daisuke non l’hanno vista”, lo interruppe Ranma, “Anzi, credono che sia morta… Ma nessuno l’ha vista… quindi è sicuramente vi-”
 
“Kuno… Kuno!... Maledetto bastardo, non capisci che potrebbe averla trovata Kuno e uccisa?!”, i suoi occhi erano gonfi di rabbia e di pianto mentre parlava, “Le è corso dietro furioso, e lei aveva qualche giorno di vantaggio, è vero… Ma lo sai, non si era mai trovata lì fuori, tutta sola… Potrebbe esserle successo di tutto…”
 
“Kuno?” Un fuoco si accese negli occhi di Ranma. “Se l’ha toccata anche solo con un dito…”
 
“E hai anche il coraggio di dirla una cosa del genere?!”, lo zittì Ryoga.
 
Si guardarono per un lungo momento, finchè Ranma abbassò gli occhi.
 
“Neanche lui ha fatto ritorno”, aggiunse quindi Ryoga, mestamente, “Sparito nel nulla…”
 
Ranma alzò nuovamente il suo sguardo. “No. No. Kuno non l’ha trovata, te lo dico io. E se anche fosse, Akane sa come difendersi”
 
“Era distrutta!”, gli sputò in faccia Ryoga, “… Dopo aver saputo che la volevi morta!”
 
Il balzo che Ranma fece verso di lui fu così improvviso che Ryoga temette di non riuscire a difendersi in tempo. Stava già per parare quello che credeva essere un pugno di inimmaginabile violenza, quando invece si sentì afferrare le spalle e si trovò davanti gli occhi di Ranma, carichi di speranza.
“E’ viva… Viva!”
Non poteva fare a meno di ripeterlo. E mentre credeva fino in fondo alle sue stesse parole, scuoteva energicamente Ryoga. “Lo capisci? E’ viva! Non può essere altrimenti! E io adesso la troverò…”
Lo lasciò andare con la stessa rapidità con cui l’aveva preso, e Ryoga barcollò appena, guardandolo poco convinto, addirittura in pena per lui, per la sua totale assenza di aderenza alla realtà.
 
“Aspetta, Ranma, come puoi dire…”
 
“Soldato Hibiki!”
 
Istintivamente Ryoga si girò verso quella voce. Qualcuno dei suoi lo stava richiamando ai ranghi. Forse era tempo di ritirarsi. Li avrebbe presto raggiunti. Si sarebbe palesato appena possibile, ma prima…
 
Come si voltò, Ranma era scomparso.
 
Guardò allibito per qualche istante il fumo immobile che lo separava dal ragazzo col codino e dal resto del mondo e si sentì frustrato come quando in un incubo si è tornati al punto di partenza.
 
Poi sentì crescere in lui una rabbia potente, liberatoria. E inizò a gridare al vento.
 
“Stupido! Stupido che non sei altro!!... Come fai a sapere che è viva!!”, avrebbe almeno potuto salutarlo, e lui gli avrebbe augurato buona fortuna, “Potrebbe non esserlo!! Tienilo presente in quella tua testa bacata…! Potresti non trovarla!!! Ma se la trovi… se la trovi, pezzo d’idiota, riportala indietro sana e salvaaaa!!!...”
 
“Soldato Hibiki, presto! Stiamo lasciando il campo!”, nell’eco del suo urlo fu solo quella voce a rispondergli.
 
Ryoga tirò su col naso. “Se la trovi…”, mormorò ormai a se stesso, asciugandosi le lacrime, “Riportala indietro sana e salva…”
Tenne ancora per qualche istante lo sguardo alto davanti a sé. Quindi iniziò a incamminarsi verso il suo plotone.
 
 
 
 
 
Ranma correva. Correva e non riusciva a pensare a nulla.
 
Sentiva solo l’aria vibrare fresca al suo passaggio. Sentiva il corpo leggero, veloce.
I suoi occhi non vedevano in quel momento, erano le sue gambe a spingerlo in avanti, senza sapere dove.
Non sapeva cosa le avrebbe detto, se lei l’avrebbe perdonato, se l’avrebbe voluto ancora, ma non importava...
Non sapeva nulla del mondo e non poteva importagli di meno, in quel momento.
Non sapeva che non troppo lontano da lui c’erano il padre che aveva perduto e quello che lo aveva rinnegato; non sapeva che Shan Pu e Mousse, precisi e crudeli, i capelli smossi dal vento, continuavano a combattere fieri, inconsapevoli di essere a loro volta molto vicini tra loro, senza mai sfiorarsi; non sapeva che Kodachi aveva lasciato il palazzo con chiare intenzioni; né che Ukyo sfornasse focacce per l’esercito.
 
E soprattutto non sapeva quanto fosse vicina a lui Akane.
 
Travestita da ragazzo, al servizio del generale Shinnosuke. Akane che lo credeva morto.
 
Mentre ognuno di loro ignorava quanto fossero vicini gli uni agli altri, Ranma continuava a correre.
L’avrebbe perdonato?  L’avrebbe voluto ancora?
Non aveva alcuna importanza: era viva! E l’avrebbe ritrovata.
 
E senza altro pensiero a gridargli in testa, diede voce all’unica parola che gli rombava in petto.
 
“Akaneeeeee!!!”
 
 


 
----
 
Ciao a tutti!
 
E’ sempre un piacere per me dedicarmi a questa storia: con tutti i suoi problemi, le incongruenze che cerco di risolvere, la miriade di personaggi con le loro vicende principali e secondarie e quant’altro… rende il tempo che riesco a dedicarvi (non quanto vorrei, purtroppo) un tempo sempre intenso e divertente!
Perciò è sempre un piacere sapere che c’è qualcuno che legge questa storia e la aspetta con impazienza. Grazie! Ci tengo a dirvelo per benino, questa volta. Non è scontato.
Per quanti purtroppo, come è inevitabile, ho perso per strada, ci siete voi che continuate a leggermi e a farmi sapere la vostra opinione. Grazie davvero.
Beh, sappiate che siete costantemente nei miei pensieri e che le vostre parole rendono splendide le mie giornate!
Se non riesco a scrivere spesso quanto vorrei e ad aggiornare velocemente è perché purtroppo ho poco tempo e sono lunga a scrivere, ma questa storia rientra nelle mie priorità, quindi non abbiate paura, non la mollo!
 
Detto questo, eccoci al primo capitolo della guerra. Ranma è tornato e l’incontro con Ryoga diciamo che gli cambia prospettiva. Ora staremo a vedere.
Ho avuto i miei guai con questo capitolo. In generale da ora in poi ho parecchia carne al fuoco che non devo fare bruciare. XD Il quinto e ultimo atto dell’opera shakespeareana di riferimento è, a dirla tutta, un gran caos e io sto cercando di mettere ordine, di dare un senso e di entrare nelle storie di tutti quei personaggi di cui magari non parlo da un po’ ma che non ho dimenticato.
 
Fatemi sapere cosa ne pensate, è sempre un vero piacere per me!
 
Un abbraccio a voi tutti!!!!
 
InuAra
 
 
 
 
 
  
Leggi le 5 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Anime & Manga > Ranma / Vai alla pagina dell'autore: InuAra