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Autore: hotaru    31/05/2009    8 recensioni
"Era piuttosto presto per gli standard estivi, il sole non era ancora alto, e Hinata non incontrò quasi nessuno durante il suo percorso solitario. Il gelato di Hanabi le aveva in qualche modo dato un’idea: quella mattina si era infilata un paio di pantaloncini marroni e una canottiera verde oliva, che sperava sarebbero riusciti a mimetizzarla meglio di un vistoso prendisole bianco.
Giunta alla base di un ben noto muro, si sfilò i sandali, attenta a non fare il benché minimo rumore. Li appoggiò a terra e poi, a piedi nudi, iniziò la scalata.
Pensava che si sarebbe vergognata come un ladro- effettivamente, si stava comportando come tale- invece era in preda ad una strana euforia. Non aveva mai fatto qualcosa che andasse contro le regole, prima."
Kiba/Hinata sul modello de "La Bella e la Bestia".
Dedicata a kibachan
Prima classificata al "Naruto Fairytale Contest" indetto da Lalani
Genere: Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Hinata Hyuuga, Altri, Kiba Inuzuka
Note: Alternate Universe (AU) | Avvertimenti: nessuno
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1- Misteri d'estate Tutta questa storia è dedicata a kibachan, che con la sua fic “verità velate” ha cominciato a farmi apprezzare per prima le Kiba/Hinata


Come il Sole ad Est


Come il Sole ad Est



Misteri d’estate

“Finalmente!” fu l’unico pensiero che in quel momento dominò la sua giovane mente di tredicenne.
Basta esami, basta lezioni, basta collegio!
“Almeno fino a settembre…” si rese conto amaramente, ma fu soltanto una nuvola passeggera. Era estate, era giugno, ed era libera! Persino una ragazzina abituata alle briglie più inamidate e al morso più prezioso poteva arrivare a provare il senso di oppressione che aveva avvertito lei nelle ultime settimane, e il senso di libertà che provava in quel momento la faceva sentire euforica.
Innanzitutto a partire dal vestito. Sarà anche vero che l’abito non fa il monaco, ma dopo un intero terzo anno stretta nelle maniche e nelle calze della divisa scolastica scura, non poteva non provare un moto di gioia nell’indossare un semplice prendisole bianco.
L’aria calda, eppure così rinfrescante, che sentiva sulle braccia nude era quanto di più meraviglioso potesse esserci al mondo in quel momento. Si sentiva come un uccello pronto a spiccare il volo.
Correva a perdifiato per quella stradina deserta, il vento che le accarezzava la nuca su cui i capelli erano tagliati corti, e poco le importava che la corsa le gonfiasse di tanto in tanto la gonna. Su quella strada non c’era nessuno, nessuno avrebbe potuto vederla e giudicarla storcendo leziosamente il naso.
Persino i suoni di quella giornata idilliaca acquistavano un’intensa nota di perfezione: il vociare dei suoi coetanei nella piazza poco distante, gli uccelli che cantavano a squarciagola, il ronzio dei frigoriferi della gelateria che aveva appena sorpassato, al momento ancora praticamente deserta… e uno “Yap” vivace proveniente da un punto imprecisato fra l’erba sul ciglio della strada.
Yap?
Hinata arrestò la sua corsa così bruscamente da rischiare di inciampare nei suoi stessi piedi.
Ancora ansimante, si guardò intorno, circospetta. L’unica cosa che potesse fare “yap”, secondo le sue nozioni di zoologia, erano i cani. E i cani non le piacevano affatto. Diciamo piuttosto che le facevano parecchia paura, anche se al momento era ancora in grado di trattenere l’emozione che provava sotto la soglia del “gelido timore”.
Incerta se muoversi verso il punto da cui aveva udito provenire il suono, se ne stava ancora ferma impalata in mezzo a quella stradina sterrata buona solo per le biciclette, quando una macchia indistinta color panna si staccò dal verde circostante e in pochi balzi fu ai suoi piedi.
Un sospiro di totale sollievo si fece strada dai polmoni della ragazzina. Il cagnolino scodinzolante che stava alzando la testa verso di lei era minuscolo, di sicuro più piccolo degli enormi gatti boriosi che sua madre insisteva nel tenere in casa, dicendo che diminuivano la sua ansia. Non costituiva in alcun modo un pericolo, per lei.
Così si decise a piegarsi sulle ginocchia e ad allungare la mano verso la testolina dell’animale, che non esitò ad approfittare della quantità di coccole che gli veniva offerta.
-    Ciao, cucciolo – disse la ragazzina, che sorrise quando il cagnolino iniziò a leccarle grato la mano, piacevolmente sorpresa da quell’inaspettata manifestazione d’affetto.
-    Da dove vieni? – chiese ancora, come se l’animale potesse davvero risponderle.
Giocarono ancora per un po’, con il cane che si metteva a pancia in su per farsi coccolare e guaiva soddisfatto in risposta. Poi ad un certo punto, come avesse udito qualcosa a cui gli esseri umani erano sordi, si rialzò e drizzò le orecchie.
Due secondi dopo si era già dato alla macchia, mettendosi a correre per la stradina senza nemmeno voltarsi indietro.
-    Ehi! – esclamò Hinata, più sorpresa che contrariata. Perse un istante a chiedersi se gli avesse dato fastidio in qualche modo, ma lasciò perdere non appena vide il cucciolo svoltare l’angolo e sparire dalla sua visuale.
Si mise a correre, inseguendolo.



Fortuna che aveva zampe tanto corte, si ritrovò a pensare Hinata, altrimenti l’avrebbe seminata in quattro e quattr’otto. Invece, dato che era così piccolo e così bianco, stava riuscendo discretamente a stargli dietro, anche se si stavano inoltrando in un punto della cittadina che conosceva poco.
Si trovavano in uno dei quartieri più antichi, con tutte quelle case grandi e austere costruite almeno due secoli prima, appartenute a coloro che avevano avuto in mano le redini di quello che un tempo era un semplice paese, e della campagna circostante. Niente a che vedere con la parte più ricca e moderna in cui abitava lei, da quando si erano trasferiti dopo che sua madre aveva iniziato a soffrire di “stress da grande città”. Il padre era sempre via per lavoro, quindi in quell’enorme e asettica casa erano solo in tre: lei, sua madre e la sua sorellina. Più cinque o sei gatti, che la madre accudiva forse più delle figlie.
Un angolo, un muro, un albero e un’altra strada. Hinata non era sicura che sarebbe riuscita a tornare indietro. Stava vagamente iniziando a capire come doveva essersi sentita Alice nell’inseguire il coniglio bianco, un cespuglio dopo l’altro. Sperava solo di non finire in un buco profondo in cui sarebbe precipitata fino a capitare nel Paese delle Meraviglie… non le sarebbe certo piaciuto finire in un posto simile, già il libro l’aveva letto solo perché costretta a scuola.
Ad un certo punto si chiese da dove spuntasse quel flusso di pensieri contorti e assurdi che stavano affollando la sua mente. Che stesse davvero finendo in un mondo sconosciuto dove l’intera realtà sarebbe risultata capovolta?
A riportarla nel mondo reale fu l’improvvisa scomparsa del batuffolo bianco che stava inseguendo, in mezzo a un’edera verde e rampicante che celava un muro sconosciuto.
Hinata si fermò, boccheggiando un po’ di fronte a quella barriera, per poi accovacciarsi e spostare con le mani le foglie nel punto in cui aveva visto sparire il cane. Alla base del muro c’era un’apertura, provocata da alcuni mattoni sconnessi, apparentemente minuscola ma senz’altro sufficiente a far passare un animale così piccolo.
In un solo istante Hinata constatò che tra lei e Alice c’era un abisso surreale: da quel buco non ci sarebbe mai passata, inutile sperarci.
Iniziò a guardarsi intorno, cercando un altro modo per superare quell’ostacolo. Nemmeno per un istante le sfiorò la mente il pensiero che quel che stava per fare potesse definirsi “violazione di domicilio”: per quel che ne sapeva, l’intero circondario era praticamente disabitato, nella maggior parte di quelle case non viveva più nessuno da anni. I proprietari abitavano da decenni in qualche città più moderna, abbastanza ricchi da lasciar marcire senza rimpianti case di due secoli prima senza tornarci per anni.
Nella sua accurata ispezione Hinata si accorse che il muro, nei punti in cui non era ricoperto dall’edera, presentava alcune sporgenze, perfette per un’arrampicata. Ringraziando mentalmente- per la prima e ultima volta in vita sua- quella suora missionaria che aveva costretto lei e le sue compagne a fare una specie di “corso di sopravvivenza”, si arrampicò agilmente su per la parete, arrivando presto in cima e finendo tra i rami frondosi di un albero.
A una ventina di centimetri da dove si trovava lei c’era un ramo dall’aria robusta, che giudicò abbastanza sicuro da reggere il suo peso.
Un piccolo salto, in cui si aiutò reggendosi agli altri rami tutt’attorno, e si ritrovò dove voleva.
Fece appena in tempo a sedersi e a sentire il legno fresco contro la pelle, seppur ingentilito dal tessuto del vestito, che una voce improvvisa e profonda le fece mancare un battito:
-    E adesso cosa vorresti fare?
Abbassò immediatamente la testa, allarmata. Ad osservarla c’erano gli occhi più stretti e allungati che avesse mai visto, sovrastati da una capigliatura folta, castana e ribelle. Il mento aguzzo e i lineamenti affilati contribuivano a rendere ancora più duro lo sguardo che le stava rivolgendo.
Hinata cominciò a sudare freddo. Non era paura la sua, ma profonda vergogna per essere stata beccata a fare qualcosa di sbagliato. Gli anni assieme alle suore avevano prodotto qualche risultato, alla fine.
-    I-io… - balbettò, confusa e mortificata, non sapendo come scusarsi.
-    Senti mocciosa, posso capire che finora tu e la tua banda possiate esservi divertiti a venire qui, ma d’ora in poi si cambia musica. Se prima la casa era disabitata e potevate fare i cavoli vostri, adesso dovrete trovarvi un altro posto.
La ragazzina avrebbe avuto almeno un paio di risposte da dargli. Innanzitutto lì non c’era mai venuta. Poi non aveva uno straccio di amico, figurarsi una banda! Infine non si era mai fatta i “cavoli propri”, né lì né da nessun’altra parte, a dire il vero.
Ma la lingua ancora impastata le permise soltanto di dire:
-    Io… io ho solo seguito il cane…
Il viso del giovane che la stava osservando mutò leggermente d’espressione, squadrandola a metà tra lo scettico e il sospettoso. Stava per risponderle qualcosa come un secco “Vattene, mi hai scocciato”, quando una palla di pelo scodinzolante spuntò dal nulla e andò a sistemarsi proprio sotto il ramo da cui penzolavano le gambe nude di Hinata.
La ragazzina gli sorrise brevemente, grata quanto un imputato che sente una testimonianza a proprio favore, prima di alzare leggermente la testa e dire timidamente, additandolo: - Lui…
Il giovane uomo alzò vagamente un sopracciglio, il viso contratto in una smorfia obliqua, per poi ringhiare: - Va bene, mocciosa. Adesso fuori di qui – in tono tanto minaccioso che Hinata si affrettò ad alzarsi con cautela dal ramo.
Il ragazzo si era voltato dopo aver fatto un breve cenno al cane, che lo aveva seguito immediatamente, e si era diretto verso il punto del giardino da cui evidentemente era venuto poco prima.
Hinata stava per girarsi verso il muro, quando con la coda nell’occhio notò che cosa c’era nel posto in cui stava tornando il giovane. Qualcosa di grande, bianco e rettangolare, appoggiato su un cavalletto. Dove in alcuni punti si cominciavano a distinguere delle macchie di colore. Una tela.
Non fece in tempo a concentrarsi per un momento nel cercare di capire che cosa vi si volesse rappresentare, che un paio di parole in grado di far stramazzare al suolo qualunque suora la fecero girare sui tacchi e saltare in cima al muro, da dove saltò giù e iniziò a correre come avesse avuto un intero branco di lupi alle calcagna.


Per un paio di giorni Hinata si guardò bene dal tornare , ed ammazzò il tempo leggendo libri ed assaggiando tutti i gusti di granite che il negozietto della cittadina offriva. L’assortimento era meno vario rispetto a quello della grande città, ma senza dubbio lì gli sciroppi erano molto più densi, e quindi la granita sapeva effettivamente di granita, più che di ghiaccio soltanto.
Quando si rese conto a che razza di riflessioni era arrivata a forza di rimanersene da sola tutto il tempo, accettò di buon grado di accompagnare Hanabi a prendere un gelato al locale centrale, quello che Hinata di solito evitava, visti tutti i ragazzi più o meno della sua età che giocavano a pallone in piazza.
Tuttavia con la sorellina al proprio fianco sentiva di poterli affrontare. Magari una volta soltanto e non esattamente a testa alta, ma era meglio di niente.
Ed effettivamente nessuno di quei ragazzini le disse niente, non venne colpita da una pallonata e nemmeno da un attacco di colera, anzi raggiunsero entrambe la porta a vetri del locale, facendo tintinnare il campanello d’entrata quando aprirono e ritrovandosi d’improvviso nella frescura dell’aria condizionata.
-    Ti dico che è così!
-    Ma dai, non posso crederci. E l’hanno lasciato uscire in questo modo? Dove andremo a finire…
La vecchia signora dietro il bancone era troppo intenta a discutere con l’eterna compagna di pettegolezzi per accorgersi delle due ragazzine entrate nel negozio. Ma Hanabi sapeva farsi sentire, a differenza della sorella maggiore.
-    Un cono cioccolato e pistacchio – disse, la voce alta e chiara.
Hinata fu tentata di aggiungere “per favore” ma, vedendo che nessuna delle due donne aveva battuto ciglio, decise di tacere.
Anzi, non avevano nemmeno smesso di spettegolare:
-    Sai, credevo che quella casa sarebbe rimasta disabitata per sempre, ormai. E forse sarebbe stato meglio, non mi è mai piaciuta…
-    Gli Inuzuka sono sempre stati dei selvaggi, era già tanto che stessero in una casa. Poi la madre era fuori di testa, e quando è scappata la sorella avrebbero dovuto prevederlo che il figlio più piccolo sarebbe finito nei guai.
-    Sarebbero guai se avesse avuto la decenza di farsi del male per conto suo. Ma quello che ha fatto è abominevole.
-    Sono d’accordo, non capisco come abbiano potuto lasciarlo uscire. Quanto ci è rimasto in prigione?
-    Quattro anni, sembra. E adesso è agli arresti domiciliari, quindi non può andare da nessuna parte.
-    Dai retta a me, avrebbero dovuto lasciarlo in quella cella e buttare la chiave. Ti rendi conto che c’era di mezzo un ragazzino morto? E per…
Una leggera gomitata e un’occhiata eloquente alle ragazzine presenti fu sufficiente a far tacere la vecchia, ma solo per un istante.
-    Comunque è una vergogna che l’abbiamo rimandato proprio qui, secondo me. Speriamo solo che la cosa non si sappia troppo in giro.
Il commento che Hanabi fece non appena furono uscite nella calura estiva, prima di leccare il suo gelato, fu:
-    Qualunque cosa sia, ci penseranno quelle due a farlo sapere a tutti nel giro di due giorni, garantito.
Hinata non disse nulla, ma era pienamente d’accordo. Un altro motivo per cui non le piaceva andare lì erano i pettegolezzi che circolavano senza freno, e che cercava sempre di non ascoltare.
Ma quella volta una vocina le diceva che forse la nuova storia poteva interessarle, se in qualche modo collegata a ciò che le era accaduto due giorni prima.    

 


Passarono un altro paio di giorni, e Hinata si svegliò quella mattina con una strana sensazione. Complice forse un sogno particolare, di cui ricordava soltanto una tela grezza ricca di macchie di colore che cambiavano ad ogni movimento, come la luce sulle code dei pesci, aprì l’armadio in preda ad una vaga ispirazione.
Era piuttosto presto per gli standard estivi, il sole non era ancora alto, e la ragazzina non incontrò quasi nessuno durante il suo percorso solitario. Il gelato di Hanabi le aveva in qualche modo dato un’idea: quella mattina si era infilata un paio di pantaloncini marroni e una canottiera verde oliva, che sperava sarebbero riusciti a mimetizzarla meglio di un vistoso prendisole bianco.
Giunta alla base di un ben noto muro, si sfilò i sandali, attenta a non fare il benché minimo rumore. Li appoggiò a terra e poi, a piedi nudi, iniziò la scalata.
Pensava che si sarebbe vergognata come un ladro- effettivamente, si stava comportando come tale- invece era in preda ad una strana euforia. Non aveva mai fatto qualcosa che andasse contro le regole, prima.
La paura le attanagliava lo stomaco, formandole un nodo in gola, eppure era tutto così stranamente… eccitante. Nel momento in cui non fece caso a quella spina che le si era infilata nel polpastrello, si sentì in grado di fare qualunque cosa. Per la prima volta in vita sua, si sentiva invincibile.
Tra l’altro, era anche il fatto di portare avanti questa sua piccola avventura completamente da sola ad entusiasmarla tanto. A decidere era lei e solo lei, non avrebbe dovuto obbedire a nessuno, né tanto meno ascoltare beffe o prese in giro in caso di fallimento.
Perché, anche se lui se ne fosse accorto, non sarebbe andato a dirlo a nessuno, ne era sicura. Offrendosi di andare a fare qualche commissione al posto della donna di servizio, aveva potuto ascoltare parecchie chiacchiere, e si era convinta che il misterioso Inuzuka rilasciato dalla prigione e messo agli arresti domiciliari fosse proprio il giovane che aveva incontrato qualche giorno prima.
Al supermercato aveva udito che non parlava con nessuno, se non al telefono per ordinare la spesa, la quale gli veniva portata a casa dal ragazzo delle consegne e abbandonata nel giardino non appena superato l’alto cancello in ferro battuto. La donna del negozio asseriva che era un vero cafone, e che gli faceva solo un favore a “sfamarlo”, come diceva lei. Il fatto che il giovane recluso ordinasse ogni settimana viveri per un reggimento e costituisse praticamente un quarto del fatturato dell’intero mese, evitava però sempre di riferirlo.          
Hinata non aveva ancora avuto il tempo di fare ricerche più approfondite, ma a quel punto era chiaro che l’Inuzuka- il nome non era ancora riuscita a scoprirlo- non aveva contatti con alcun essere umano, quindi non avrebbe potuto raccontare ad anima viva l’eventuale “cacciata” di una mocciosa invadente. In qualche modo, questo pensiero la confortava. Qualunque cosa fosse successa, sarebbe rimasta un segreto fra loro due.
Malgrado tutti questi pensieri, era rimasta concentrata sul proprio intento, e alla fine era riuscita ad arrivare in cima al muro. Cercando di non smuovere nemmeno una foglia, raggiunse il ramo dell’altra volta e ci si appollaiò sopra, attenta a non far penzolare le gambe pallide.
Una volta che ebbe terminato con tutti questi accorgimenti, si permise di dare un’occhiata tra le fronde, spaventata ma curiosa, trattenendo a stento un sospiro di meraviglia.
In molti se ne sarebbero chiesti il motivo, dato che quel grande appezzamento di terra aveva tutta l’aria di venire trascurato da anni, con lampanti conseguenze. Parecchie piante sembravano morte- l’albero su cui stava Hinata doveva essere una felice eccezione- e chiazze intere di giallo macchiavano l’erba, assetata d’acqua nella calura estiva. Tuttavia la presenza di un giardiniere in quel posto era impensabile, praticamente impossibile. Forse tanto tempo prima c’era stato, e quel giardino doveva aver raggiunto una bellezza inimmaginabile, ma era fuori discussione che l’attuale, unico abitante della casa se ne sarebbe preoccupato.
“È un vero peccato” pensò Hinata, osservando attentamente le varie piante lasciate a se stesse “Sono sicura che dove ci sono tutti quei cespugli rinsecchiti un tempo crescessero miriadi di splendidi fiori. In primavera doveva essere stupendo”.
Sentendosi quasi una novella Mary Lennox nel proprio privato giardino segreto, Hinata aveva iniziato a fare congetture su quali tipi di fiori sarebbe stato meglio piantare in quella zona d’ombra vicino al pino, o a come potare il glicine sfiorito all’angolo del portico, che doveva aver visto tempi migliori… quando ad un tratto la sua attenzione fu attratta da un particolare a cui non aveva fatto caso prima- e dire che era lei quella che doveva mimetizzarsi e non farsi notare.
Più o meno nello stesso punto di qualche giorno prima era sistemato uno sgabello, e di fronte una tela riempita da colori tenui e al tempo stesso decisi. Dettagli forse insignificanti, se non fosse che, seduto sullo sgabello, c’era qualcuno intento a dipingere. Proprio lui, a dire il vero.
Hinata si irrigidì un attimo, dimenticandosi per un momento di respirare, sicura che entro un istante si sarebbe alzato e sarebbe venuto a cacciarla urlando, prendendo magari a calci l’albero per farla cadere e darle una bella lezione (cosa che, in tutto il suo candore, Hinata sentiva di meritare pienamente).
Tuttavia non avvenne nulla di tutto ciò. Il giovane continuava a dipingere senza dar segno di essersi accorto della sua presenza, attento e meticoloso.
Dalla posizione in cui si trovava, Hinata non riusciva a vedere molto della tela, il cui disegno principale era nascosto dalla testa arruffata di lui, ma poteva di tanto in tanto intravedere il viso del ragazzo. Infatti nei momenti in cui si chinava ad intingere il pennello nell’acqua per pulirlo, lo posava sulla tavolozza per cambiare colore, o indietreggiava un po’ anche solo per osservare con aria critica il risultato dei propri sforzi, se ne poteva scorgere l’espressione concentrata e rilassata.  Decisamente diversa da quella che a Hinata aveva fatto tanta paura da cacciarla in men che non si dica dalla proprietà.
D’un tratto il giovane si pulì le mani sullo straccio che aveva lì vicino, e si alzò.
Stavolta Hinata si immobilizzò del tutto, sicura che da un momento all’altro se lo sarebbe ritrovato sotto l’albero, invece il ragazzo si diresse tranquillamente verso la casa, le mani in tasca.
Quando fu scomparso dietro l’angolo, la ragazzina si permise di respirare di nuovo e si accorse che adesso riusciva ad avere una panoramica decente della tela. Aguzzò la vista, perché non si sarebbe mai azzardata a scendere dal proprio nascondiglio per andare a vedere meglio. Fortuna che tutti, nella sua famiglia, avevano una vista d’aquila, così non dovette fare molti sforzi per focalizzare l’immagine dipinta.  
Fece tanto d’occhi quando si accorse che il soggetto del quadro altro non era che… la casa. Quella casa scura, incombente, secolare, quasi minacciosa a causa di quelle torrette fatte costruire da chissà chi. Tuttavia nel dipinto i colori scuri dell’edificio contrastavano notevolmente con il cielo chiaro di quella mattina estiva e con il verde degli alberi più vecchi, che avevano saputo resistere bene nonostante gli anni di incuria.
Anche da lontano, era sicura che in quei tratti sicuri ci fosse del notevole talento, e soprattutto una certa passione. Chi l’avrebbe mai detto che un tipo così potesse dipingere?
Ora che la sua curiosità era stata soddisfatta, Hinata decise che avrebbe anche potuto mettere fine a quella sua intrusione così sfacciata. Prima che il giovane tornasse e rischiasse di vederla, si alzò dal ramo e saltò sul muro, per poi scendere con attenzione ed infilarsi i sandali.
Quello che Hinata non sapeva, perché non se ne era nemmeno accorta, era che il giovane pittore aveva visto, girando l’angolo per tornare alla tela con un pennello più fine in mano, l’ombra di qualcuno che era un po’ troppo cresciuto per sembrare uno scoiattolo.

 


Si era informata, aveva letto i giornali. E aveva scoperto ogni particolare della sua storia: a quanto sembrava mancava dalla sua cittadina natale da circa nove anni, ma a quel tempo sua sorella se n’era già andata da un pezzo. La madre, invece, era morta durante la sua assenza.
I giornali dicevano che nel corso di quegli anni si era messo nei guai in vari modi: furti, rapine varie, vandalismo… ma la cosa più grossa fu quando arrivò allo spaccio di droga, che ebbe conseguenze irreversibili.
Ci fu un morto, un ragazzo di appena sedici anni. In realtà l’Inuzuka lo conosceva da poco, era stato portato nel giro da un gruppo di compagni di scuola, era la prima volta che “provava”. Ma gli fu fatale. Uzumaki Naruto, bianco di sedici anni, era morto a causa della “roba” che gli aveva dato lui.
Omicidio.
Il giovane era rimasto in carcere qualche anno, ma alla fine gli avevano concesso gli arresti domiciliari per buona condotta. Ed era arrivato lì.
Ovviamente, però, per qualunque paesino e qualsiasi piccola cittadina una notizia simile era come il miele per le api: le voci erano volate, aggiungendo crimini orribili alla lista di quelli commessi dall’erede degli Inuzuka, gonfiando i dettagli all’inverosimile. Ormai agli occhi dei più era il peggior criminale mai esistito, e a poco serviva che i pochi con la testa sulle spalle cercassero di riportare tutti gli altri con i piedi per terra, esibendo giornali e prove. Per l’intera cittadina, il galeotto tornato all’ovile era ormai etichettato come la “Bestia”.

    

Vi era tornata una terza volta. Alla casa, al suo ramo, e a quel giardino. Spinta da una forza misteriosa, a cui non avrebbe nemmeno saputo dare un nome. Forse spirito d’avventura, del pericolo, di ciò che non si dovrebbe fare. Sensazioni che, mentre le provava, la facevano sentire quasi un’altra persona. Perché non era Hinata Hyuuga a fare quelle cose, non quella che tutti conoscevano.
Però questi “tutti” erano anche quelli che davano a lui della Bestia. Ma una persona che dipinge con tanta passione non può essere definita tale. Assurdo.
Stavolta c’era tornata verso il tramonto, curiosa di vedere se anche in quell’ora della giornata il giovane sarebbe stato lì, nello stesso posto delle altre volte, a dipingere lo stesso quadro della casa.
Non rimase delusa. Tuttavia si rese conto che i colori dominanti, quella volta, erano l’arancione e il giallo, pigmenti decisi che caratterizzavano quello splendido tramonto di fine giugno. Sembrava quasi che il ragazzo volesse dipingere la casa nei vari momenti della giornata, di volta in volta incorniciata da un diverso tempo atmosferico; un pensiero forse assurdo, eppure quella era la sensazione che Hinata ne aveva.
Ma quella terza volta non si risolse in maniera molto positiva. Ad un certo punto, infatti, il giovane si era alzato, dirigendosi con piglio deciso verso l’albero su cui se ne stava appollaiata la ragazzina.
Quest’ultima, sentendosi irrimediabilmente scoperta, non ci pensò due volte: si alzò di scatto e tornò sulla cima del muro, saltandone praticamente giù prima che il ragazzo potesse dirle qualunque cosa.
Il problema era che, nell’impeto della fuga, aveva messo male un piede, procurandosi una storta alla caviglia. Si era così rassegnata a tornarsene a casa in quel misero stato, zoppicante e dolorante.
Per un paio di giorni non era riuscita nemmeno ad alzarsi, e aveva tenuto per tutto il tempo un pacchetto di ghiaccio sulla caviglia gonfia. Fortuna che la storta si era rivelata meno grave del previsto, ed era guarita molto in fretta.
Tuttavia il tempo che Hinata aveva avuto a disposizione in quei momenti di immobilità forzata l’aveva occupato con pensieri e ragionamenti di ogni sorta, domande e dubbi che avevano per soggetto soltanto tre cose: dei quadri, una casa e il loro misterioso e misantropo proprietario.
E aveva avuto un’idea.




Non riesco ancora a crederci! Prima al "Fairytale Contest"! Ne sono davvero felice, per svariati motivi:
1-    è la mia prima kibahina
2-    è la mia prima storia sentimentale, quindi una vera storia d’amore
3-    questa fic mi ha davvero preso, in un modo che non avrei creduto possibile. Non sono il tipo da long, perché ho bisogno di “rimanere dentro” alla storia per continuare a scriverla. Ma questa… non lo so, avevo proprio bisogno di scriverla
4-    mi sono riguardata “La Bella e la Bestia” della Disney. E dovreste farlo anche voi.


Detto questo, ringrazio moltissimo Lalani, la giudice, e faccio i complimenti a tutte le altre partecipanti, di cui non vedo l’ora di leggere le storie.
Commentino (guardate che sarà ancora lunga)?

   
 
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