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Autore: Adeia Di Elferas    26/01/2017    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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I giorni di visita di Astorre Manfredi in Forlì giunsero presto a termine e il signore di Faenza levò le tende tra i saluti generali in una calda mattina dall'aria fieramente estiva.

Caterina si sentì molto sollevata nel veder ripartire quello scomodo ospite, ma si finse molto dispiaciuta, rinverdendo i suoi omaggi a Manfredi e lasciando intendere – seppur in modo molto vago – che sarebbe stato ben accetto anche per altre visite, in futuro.

Una volta ricatapultati nella normalità, i forlivesi ricominciarono a preoccuparsi delle tasse e della paura che una nuova guerra sarebbe presto arrivata di nuovo nelle loro case.

Il Barone Feo, fatto Governatore della città alla partenza del fratello, non dava alcuna certezza e la Contessa, per quanto tentasse di mostrarsi in pubblico nel modo più rassicurante possibile, non se la sentiva di ingannare i suoi sudditi e perciò non escludeva mai a priori, quando ne parlava, la possibilità di attacchi da parte dei francesi durante la loro risalita, benché Carlo VIII avesse per il momento preso la strada toscana, scartando la via Emilia.

Una paio di sere dopo la partenza di Astorre, Caterina riuscì a trovare il momento per parlare da sola con Bianca. Non l'aveva voluto fare immediatamente solo per darle qualche giorno per ragionare sulla sua situazione, ma sentiva che era tempo di discutere di quello che la visita del signore di Faenza aveva determinato.

Dopo cena, mentre gli altri figli della Contessa leggevano o giocavano assieme alle balie, Caterina prese da parte sua figlia e le chiese di seguirla nello studiolo del castellano.

Senza pensarci molto, la donna si sedette dietro alla scrivania, come era sua abitudine e lasciò che Bianca occupasse la sedia dallo schienale in pelle che le stava davanti.

La ragazzina avrebbe preferito una sistemazione più informale, magari un divanetto o anche solo che non ci fosse un tavolo a dividerle, ma sapeva che sua madre badava molto poco a quel genere di cose, perciò si sforzò di fare altrettanto.

“Allora – cominciò Caterina, appoggiandosi a un bracciolo e inclinando un po' la testa di lato – che ne dici di Astorre Manfredi?”

Bianca avrebbe voluto esporre tutte le sue perplessità e farlo in un modo molto chiaro e comprensibile, tuttavia, quando provò a organizzare nella mente un discorso, si rese conto di quanto fosse difficile e iniziò con un laconico: “È un bambino...”

Caterina puntò gli occhi verdi verso le fiammelle delle candele accanto a lei e, mentre le sue pupille rilucevano di arancio e bianco, incoraggiò la figlia a continuare: “Certo, è ovvio che ti sia parso infantile. Ha dieci anni, tu tra pochi mesi ne avrai quattordici. È legittimo.”

Bianca strinse le mani l'una nell'altra e si mosse un po' sulla sedia: “Sì, sì, avete ragione, deve essere quello.”

Il tono della figlia insospettì Caterina che, poggiando i gomiti sulla scrivania, si sporse verso lei e la pregò: “Sii sincera con me, Bianca.”

Finalmente, dunque, la ragazzina prese coraggio e fece un profondo respiro, pronta a dire tutto quello che aveva per la testa, anche se ci sarebbe voluto un po' per far capire a sua madre quanto esattamente Astorre la mettesse a disagio, quando la porta dello studiolo si aprì di scatto.

“Mia signora – disse il castellano Cesare Feo, dedicando a Bianca solo un brevissimo cenno del capo – ho una notizia importante per voi.”

La Contessa si tirò indietro, abbandonandosi con fare parecchio infastidito contro lo schienale e disse: “Avevo spiegato in modo molto chiaro che non volevo essere disturbata.”

“Infatti prima ho cercato mio nipote... Cioè, il Barone – si corresse il castellano, con una piccola smorfia – ma mi hanno detto che era già nei suoi alloggi e così, dato che si tratta di una notizia molto importante, sapendovi qui...”

“Va bene, basta, dite quello che dovete dire e poi lasciatemi sola con mia figlia.” lo zittì la donna, trattenendo a stento la rabbia.

“Il Duca di Milano ha perso Novara.” annunciò Cesare Feo, aspettandosi un pronto commento da parte della sua signora.

Bianca osservava con altrettanta attenzione sua madre, ma l'unica reazione della donna fu un lieve tremito alle labbra ed era impossibile dire se si trattasse di disappunto o compiacimento.

“Chi è stato?” domandò la Contessa, le mani in grembo e gli occhi di nuovo fissi sulle fiammelle delle candele.

“Luigi d'Orléans, mia signora.” riferì il castellano.

Caterina a quel punto rivolse a lui lo sguardo: “Allora? Tutto qui? Ditemi tutto quello che sappiamo a riguardo! Cosa sono, io, un cerusico che deve estrarvi le parole a una a una come fossero denti?!”

Il castellano chinò il capo, sentendosi in fallo e si sbrigò a riassumere tutto quello che era scritto nella missiva che li informava di quella disfatta di Milano: “Novara non ha combattuto. Ha aperto le porte ai francesi non appena Luigi lo ha chiesto. A quanto pare il malumore nei confronti del Duca era molto serio, dovuto soprattutto alle tasse.”

La Contessa chiese: “E per ora è tutto?”

L'uomo annuì, così la donna lo pregò di tenerla informata se fossero giunte altre notizie della medesima importanza.

“E ora lasciatemi sola con mia figlia.” ribadì la Contessa, congedando il castellano in fretta e senza troppi riguardi.

Quando la porta fu di nuovo chiusa, Caterina giunse le punte delle dita e se le portò davanti alle labbra, immersa nei suoi pensieri. Bianca non sapeva se fosse o meno il caso di riprendere il discorso di poco prima, così attese.

“Un attimo solo...” fece sua madre, alzandosi e andando a recuperare una mappa nell'armadio accanto alla finestra.

Stese la cartina sulla scrivania e passò qualche minuto a studiarne ogni risvolto, come se vi stesse cercando una qualche verità che le sfuggiva.

Quando con indice e medio la Contessa sfiorò la zona attorno a Novara, Bianca non poté resistere oltre e chiese: “È grave, quello che è successo?”

Caterina sollevò lo sguardo dalla mappa con lentezza e quando incrociò gli occhi giovani e attenti della figlia comprese che la ragazzina aveva parlato per vero interesse e non solo per cortesia o paura.

“Guarda – le disse, allora, indicando Novara – questa è la città che ora è in mano ai francesi. Il Duca mio zio è qui.” puntò Milano e poi tratteggiò i confini del Ducato: “Luigi d'Orléans non ha mai fatto mistero di voler appropriarsi delle terre degli Sforza e prendere Novara sembra solo il primo passo.”

“Perché Novara non ha provato a difendersi?” chiese Bianca, anche lei in piedi, accanto alla madre, gli occhi sui nomi delle città vergati dalla sapiente mano del cartografo di corte.

“Perché mio zio non ha saputo farsi ben volere e questo è fondamentale per il signore di uno Stato.” spiegò Caterina: “Ricordatelo sempre: per poter regnare devi saper farti amare e temere allo stesso modo. Un eccesso da una delle due parti o la totale assenza di questi due sentimenti rende il governo instabile e incerto.”

La ragazzina cercò di far sue quelle massime, ma le parve fin da subito molto difficile far collimare quelle due cose, così diverse e complesse: l'amore e la paura.

“Il Duca si è fatto amare poco o temere troppo?” domandò Bianca, nella speranza di avere almeno un esempio negativo da usare come emblema del fallimento.

Caterina si scostò dalla mappa e guardò la figlia: “Mio zio Ludovico ha commesso l'errore peggiore di tutti: non ha capito che più in alto volerà, più si farà male quando precipiterà al suolo.”

“E precipiterà per forza?” gli occhi di Bianca rispecchiavano tutto il suo genuino desiderio di capire e la madre si sentì orgogliosa per quell'interesse.

Se solo Ottaviano avesse dimostrato almeno la metà dello spirito di Bianca...

“Sì.” rispose la Contessa, senza ammettere replica: “Se si chiamano gli stranieri a combattere le proprie guerre, non si può che finire a far loro da servi, a guerra finita. L'unico modo che si ha per avere alleati fedeli e che non ti pugnaleranno alle spalle è quello di avere una famiglia coesa e potente.”

Caterina sospirò, lanciando uno sguardo carico di malinconia alla scritta 'Milano', mentre i ricordi dei volti e delle voci delle persone che tanto aveva amato da bambina le tornavano in mente. Non c'era più nulla di quello che aveva conosciuto e uno dei maggiori responsabili era proprio il Moro.

“Mio zio ha disfatto il casato degli Sforza con la sua ambizione.” concluse la donna, ritornando a sedere, la cartina ancora spiegata sulla scrivania.

Passò qualche interminabile attimo di silenzio, e Bianca si trovò intenta a pensare a quello che sua madre le aveva appena detto e all'instabilità della loro situazione. Avrebbe voluto dirle che anche lei stava commettendo degli errori, anche se dissimili da quelli di Ludovico. Avrebbe voluto dirle che la presenza costante di Giacomo Feo aveva reso anche la sua immagine più debole e che tutte le scelte che aveva fatto per favorire lui stavano ledendo lei.

Tuttavia, quando Caterina parlò di nuovo, sua figlia sentì tutta la lealtà filiale morire in un attimo e decise di tenere per sé le sue considerazioni.

“Ma tu non devi preoccuparti troppo per le sorti degli Sforza – aveva infatti detto la Contessa, battendo i palmi delle mani sui braccioli della sedia – tu e i tuoi fratelli siete dei Riario.”

Oltre all'ennesimo sforzo della madre di sottolineare come né Bianca né gli altri figli fossero degni della casata degli Sforza – perché Bianca era certa che fosse quello il senso più nascosto della sua dichiarazione – il tono in cui aveva detto 'Riario' aveva mostrato una volta di più quanto il suo odio nei confronti del defunto marito fosse ancora vivo.

“Stavamo parlando di Astorre. Stavi per dirmi qualcosa. Prego...” riprese Caterina, accigliandosi, mentre i suoi occhi correvano ancora alla mappa della penisola italica.

Bianca deglutì e concluse: “Niente, dicevo solo che avevate ragione. Astorre è un bambino, è ancora troppo presto per capire che uomo diventerà.”

La Contessa colse qualcosa di storto nella voce della figlia, però si rese conto di non avere la mente abbastanza libera per approfondire. Ripromettendosi di riprendere il discorso il prima possibile, Caterina cercò nel cassetto il necessario per scrivere e intinse la punta della penna nell'inchiostro.

Capendo che ormai la madre era proiettata in un altro genere di problemi, Bianca non attese di essere congedata, ma si alzò e disse: “Se permettete, andrei a dormire.”

La donna, iniziando a intestare una delle lettere che voleva spedire prima dell'alba, le fece un cenno col capo e la salutò: “Va bene, ne parleremo ancora ogni volta che ne avrai voglia.”

Mascherando bene il suo scetticismo, Bianca le sorrise e raggiunse la porta.

Una volta che fu nel corridoio fiocamente illuminato da un paio di torce, la ragazzina avvertì un morso nel fondo dello stomaco.

Per un fugace attimo capì almeno in parte l'astio che suo fratello Ottaviano e, in una certa misura, anche suo fratello Cesare provavano ogni giorno. I loro tre fratelli più giovani, Livio, Galeazzo e Sforzino erano davvero troppo piccoli per ricordarsi bene il passato. L'ultimo, addirittura, era poco più di un neonato quando il loro signor padre era morto. Mentre loro tre, che erano già grandicelli quando gli Orsi avevano assassinato il Conte Riario, avevano vissuto in modo molto diverso la scomparsa del genitore.

Mentre raggiungeva a passi lenti la sua stanza, Bianca ricordò i sentimenti contrastanti che aveva sempre provato nei confronti di suo padre. Lo ricordava a volte prepotente quanto lo era ora Ottaviano, altre volte remissivo e quasi patetico. E ricordava benissimo i litigi, le urla e le minacce che lui e sua madre si scambiavano senza darsi la pena di sottrarsi agli occhi dei loro figli.

Stringendo una mano all'altezza del cuore, Bianca dovette trattenere le lacrime, mentre nel suo animo riaffioravano tutti i ricordi che aveva a viva forza ricacciato sempre nel punto più fondo del suo essere.

Confusa e addolorata, la ragazzina riuscì a sfuggire le serve che volevano aiutarla a cambiarsi per la notte e raggiunse il suo letto in un lampo, il viso nascosto nel cuscino e il cuore che batteva con forza contro la gabbia toracica, mentre il pensiero di quello che i suoi fratelli maggiori si stavano apprestando a fare per punire la loro madre si mostrava a lei, per la prima volta, spoglia da quell'ala di disgusto che fino a quel momento l'aveva repulsa.

 

Credendo di giocare di grande anticipo, Girolamo Savonarola intercettò a Poggibonsi Carlo VIII. Il suo scopo principale era quello di riuscire a parlargli prima che il re di Francia arrivasse a Firenze e discutere con lui i termini esatti del suo passaggio in città.

Carlo VIII, che non desiderava altro se non tornare in patria il più in fretta possibile non ebbe grossi problemi a incontrare il mesto domenicano e, anzi, gli fece grandissime cerimonie e lo trattò alla stregua di un fratello.

Savonarola perse un sacco di tempo a far citazioni bibliche e a recitare interi brani del Vangelo, mentre il re di Francia altro non avrebbe voluto se non liquidarlo in quattro e quattr'otto, a maggior ragione perché il frate parlava un po' in latino e un po' in italiano, quando Carlo VIII conosceva entrambe le lingue in modo troppo superficiale per comprendere appieno ciò che gli veniva detto.

Così, dopo quella che al francese parve un'eternità, Savonarola si sentì dire che Firenze non avrebbe subito alcun danno, al passaggio dei francesi e che, anzi, Carlo VIII si impegnava a legittimarlo come nuovo capo morale e civile della Signoria.

Il re stava già per andarsene, quando Savonarola soggiunse, con voce cavernosa e lo sguardo iniettato di sangue: “E vi impegnate con solennità e rettitudine di spirito a far sì che i Medici non vengano giammai restaurati?”

Carlo VIII si grattò la barba sul mento, un po' interdetto, ma non volle far mostra di non aver compreso la frase ampollosa del frate. Così, invece di chiedere conferma del significato di quella richiesta a uno dei traduttori che si era portato appresso, annuì con fare sicuro e appoggiò paternamente una mano sulla spalla ossuta del domenicano.

Rincuorato oltre ogni dire da quel successo pieno, Girolamo ripartì immediatamente alla volta di Firenze, scortato dai soldati della città che portavano non solo le insegne della Signoria, ma anche quelle dell'ordine del frate.

Quando entrò dalla porta cittadina venne subito circondato da una folla numerosissima. Anche se il suo viaggio a Poggibonsi doveva restare segreto fino all'ultimo, era chiaro che qualcuno avesse fatto la spia.

Savonarola non si lasciò spaventare dalla ressa e, da grande oratore qual era, improvvisò una predica, rassicurando la cittadinanza circa la solidità del favore di Carlo di Francia, 'cristianissimo re'.

 

“E se avete bisogno di altre prove – disse Giovan Francesco Sanseverino, allargando le braccia e occhieggiando con furia verso Ludovico il Moro – allora andate a cercarvele voi, perché non so che altro dire!”

Il Duca di Milano avrebbe voluto tanto rispondere a tono a quell'irriverente comandante, ma sapeva che i Sanseverino erano come mari in tempesta: a smuovere ancor di più le acque si rischiava solo di annegare più facilmente.

Così, respirando lentamente, Ludovico stinse i pugni sulle ginocchia e, ignorando gli sguardi corrucciati di Calco e degli altri cortigiani, concesse: “E va bene! Non c'è bisogno di alterarsi.”

Giovan Francesco, ancora in abiti da guerra, appoggiò una mano al pomello della spada che portava al fianco e disse: “Se mi date il permesso, io ritornerei al mio posto, a sorvegliare la strada verso Pontremoli.”

Il Moro trattenne uno sbuffo. Quell'uomo lo stava irritando oltre ogni dire. Prima, quando era stato chiamato a corte, aveva avuto l'ardire di non presentarsi, poi, quando era stato richiamato con maggior imperiosità, aveva fatto il diavolo a quattro, spiegando che era nel parmense a raccogliere duemila cavalli per l'esercito di Milano. Come se qualcuno glielo avesse chiesto!

“Andate, andate pure.” fece Ludovico, prima di perdere le staffe: “Ma restare in contatto con Francesco Gonzaga. Se voi siete il comandante generale per Milano, lui resta il nostro miglior stratega. Farete riferimento a lui. Sono stato chiaro?”

Giovan Francesco si inchinò fino a appoggiare un ginocchio in terra: “Come sua signoria comanda.”

Ludovico sorvolò sul tono dal retrogusto canzonatorio scelto dal Sanseverino e lo congedò con freddezza: “Buon viaggio, comandante.”

 

Il sole si stava arrossando, mentre scendeva oltre l'orizzonte. Presto sarebbe stato buio e per Caterina e Giacomo sarebbe giunto il momento di tornare alla rocca.

Quella domenica, complice il bel tempo, avevano deciso di prendersi qualche ora di pace lontani da Ravaldino.

Dopo la Messa, a cui il Barone non aveva voluto mancare, Caterina lo aveva convinto a far sellare due cavalli e ad andare nei boschi, teoricamente per cacciare.

La Contessa aveva preso qualche beccaccia, ma nulla di più, e per il resto del tempo i due si erano dedicati esclusivamente l'uno all'altra, dimenticandosi dell'arco, delle frecce e della cacciagione.

Alla fine si erano trovati seduti sull'erba, accanto ai cavalli legati a una pianta, a guardare il sole che tramontava.

Pur volendo godersi quel pomeriggio fino all'ultimo raggio di sole, Caterina aveva già ricominciato a pensare alle mille preoccupazioni che costellavano le sue giornate. Primo tra tutti, c'era il fatto che i Popolani avevano cominciato a tergiversare, facendo intendere che con Savonarola al potere il commercio fiorentino non era più un loro esclusivo monopolio.

“Sai, ho fatto un brutto sogno l'altra notte.” disse Giacomo, tenendo un filo d'erba tra pollice e indice.

La Contessa fece del suo meglio per richiudere in un angolo del suo cervello il pensiero angoscioso delle difficoltà fiorentine, per dare ascolto alla confidenza del marito.

Il giovane, che teneva gli occhi castani rivolti all'orizzonte insanguinato, schiuse appena le labbra e poi restò zitto, così la donna lo incoraggiò: “Di che si trattava?”

Il Barone scosse la testa e sussurrò: “Era una cosa brutta, tutto qui.”

Caterina avrebbe voluto rassicurarlo, ma non era nella posizione di farlo. Lei stessa, da anni, aveva spesso incubi e si trattava di immagini molto vivide, tanto che a volte non si rendeva conto di essere addormentata. Sognava la guerra, rivedeva lo scempio di Mordano, riviveva il suo primo incontro con Girolamo Riario, assisteva di nuovo alla violenta morte di suo padre davanti alla chiesa di Santo Stefano...

Senza preavviso, Giacomo si sporse verso di lei e la strinse con forza a sé. Caterina lo assecondò, assaporando il calore del suo abbraccio e annusando il profumo di vento, polvere e sole che aveva sui vestiti.

“Finché sono con te, mi sento al sicuro.” le bisbigliò l'uomo, all'orecchio.

Nelle parole di Giacomo spiccava la sincera fiducia che nutriva per sua moglie. Lui era davvero convinto che, avendola al fianco, mai nulla e nessuno avrebbe potuto fargli del male.

Caterina sapeva che quella era solo un'illusione. Per quanto potesse essere attenta e per quanto potesse volerlo proteggere da ogni pericolo, nemmeno lei poteva davvero tenerlo al sicuro. Ma non era il caso di scalfire la sua cieca fiducia proprio in quel momento, con il tramonto davanti a loro e l'erba soffice e fresca sotto di loro.

La Contessa gli diede un leggero bacio in fronte e poi lo allontanò da sé, mettendosi in piedi: “Su, è sera ormai. È ora di tornare alla rocca o qualcuno comincerà a preoccuparsi per noi.”

Anche Giacomo si tirò su e slegò i cavalli. Porse le redini di uno dei due alla moglie e in quel gesto rivisse il loro primo incontro ravvicinato.

Anche Caterina ricordò quel momento e, con un sorriso un po' malinconico, forse per via della sera vicina, forse per i demoni che le si agitavano ancora nel petto, gli confermò: “Finché sarai con me, sarai al sicuro.”

 
   
 
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