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Autore: AnyaTheThief    28/01/2017    1 recensioni
Si conclude con quest'ultima parte la saga di Crossed Lives. Finalmente potrete dare risposta alle domande che ancora erano rimaste aperte dai capitoli precedenti. In un viaggio tra vite passati e presenti, ecco l'ultimo moschettiere affrontare i fantasmi del XVII secolo in un mondo totalmente nuovo. Il suo primo incontro con la vita passata sarà qualcosa di inaspettato.
Genere: Avventura, Drammatico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Athos, Porthos, Queen Anne
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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“Sahanna la tigre! Venite a vedere Sahanna la tigre!”

“Zucchero filato! Blu, rosa, bianco!”

“Avete il coraggio di fare il giro della morte?”

“Palloncini! Palloncini di tutti i colori! Ecco a te, piccola.”

Quando l’uomo si chinò per prendere la moneta dalle mani della bionda cinquenne che gliela stava allungando in punta di piedi, lei iniziò a scalpitare sul posto, impaziente di afferrare la corda del palloncino.

“Quello azzurro, per favore!” esclamò con fin troppo entusiasmo. Gli occhioni chiari le brillarono quando il signore nel buffo costume glielo porse. “Grazie!” e corse via, nel suo vestitino celeste intonato ora al palloncino svolazzante che si tirava dietro. L’uomo sorrise intenerito, pensando forse che fosse proprio un bel tipo, prima di tornare al suo lavoro.

“Palloncini! Palloncini di tutti i colori!”

“Mammaaaaaaa” come un treno la piccola si faceva largo tra la folla per raggiungere la bancarella dello zucchero filato poco lontana, dove sua mamma e sua sorella la stavano aspettando. O almeno così credeva.

Tra tutte quelle persone altissime ai suoi occhi e scure di capelli, non riusciva ad individuare le teste bionde dei suoi familiari. “Mamma…?” mugolò con voce strozzata, guardandosi attorno, persa. Sussultò e fece per piangere; più si guardava in giro, più si sentiva piccola e soffocata da tutta quella gente che sembrava non accorgersi nemmeno di lei. Le file di luci che decoravano i tendoni la accecavano, confondendola, le musiche si sovrapponevano al vociare della gente intorno a lei.

Non fece in tempo a pensare che forse era meglio legarsi la corda del palloncino al polso per non perderlo, che qualcuno la urtò bruscamente facendola cadere coi palmi aperti sulla terra nuda. Sollevò lo sguardo per vedere il palloncino blu confondersi nel cielo scuro e volare via per sempre.

“Scusa! Mi dispiace, scusa!!” un ragazzino, lo stesso che l’aveva urtata, la stava aiutando a rialzarsi, ma lei stava già piangendo a bocca aperta, urlando a squarciagola contro il cielo. Prima perde sua mamma, poi il palloncino, e in più nella caduta si era persino rotta le collant; il ginocchio le sanguinava attraverso il buco lasciato dallo strappo.

“No, non piangere, dai! Ehi… Bimba, non piangere!”

Non riusciva a vedere chiaramente attraverso le lacrime la persona che cercava di tranquillizzarla goffamente, ma poteva intravedere ricci neri e pelle scura.

“Dai, ti porto dalla tua mamma, vieni!” le tese una mano e lei la prese fidandosi ciecamente, pur continuando a ululare disperata.

“Non… so… dov’èèèèè!!” singhiozzò stringendo un lembo del vestitino nella mano e non preoccupandosi per niente di avere la faccia completamente bagnata dalle lacrime e dal naso colante.

“Okay, okay, se smetti di piangere ti compro un altro palloncino, va bene?”

Questo sembrò calmarla almeno un po’. Si strofinò gli occhi con la mano libera, continuando a tenere stretta quella del ragazzino; in questo modo lo poté vedere più chiaramente. Sembrava avesse l’età dei suoi cugini, pensò, quindi circa dieci anni… I suoi occhi castani le parvero rassicuranti e in quel momento si dimenticò ogni avvertimento della mamma che le ripeteva sempre di non parlare con gli sconosciuti: ma cos’altro poteva fare?

“Ti porto dalla mia mamma, va bene? Lei saprà cosa fare per trovare la tua.” disse con una sicurezza troppo ostentata per un bambino di quell’età, ma sembrava sapesse come muoversi.

Lo seguì tra la gente, senza capire dove stessero andando, poi d’un tratto una piccola tenda davanti a loro le sembrò familiare. Sì, il giorno prima sua mamma voleva entrare lì, ma suo padre le aveva detto che erano tutte stupidaggini; lei non aveva capito di cosa parlassero, voleva solo prendere le mele caramellate, e alla fine se n’erano andati.

“Dai, vieni!” la incitò il bambino, trascinandola dentro. “Mamma!” chiamò poi lui, una volta all’interno. La bimba si guardò attorno curiosa ma intimorita. C’era un odore strano lì dentro e non sapeva dire se era buono o cattivo. C’erano tanti cristalli appesi e degli scacciapensieri che ai suoi occhi apparivano solo come giocattoli rotondi con delle piume colorate. Una bella signora con un lungo velo e dei grandi occhi verdi si alzò dai cuscini sui quali sedeva per andare incontro a suo figlio. “Jad, dove sei stato?” chiese con una nota di preoccupazione.

“Si è persa. Non trova più sua mamma.” spiegò lui, mentre la bambina adesso cercava di nascondersi dietro le sue gambe, timidamente.

La signora iniziò a scrutarla. Quando mosse la testa, la pietruzza che le pendeva sulla fronte ciondolò assieme a lei e la piccola ne rimase incantata. La donna la guardò per lunghi istanti, poi le sue labbra carnose si inarcarono in un sorriso dolce. Allungò una mano verso la piccola; le sue unghie lunghe e pitturate di rosso la spaventarono inizialmente, ma poi si fece accarezzare la testa. La madre di Jad le sfiorò la tempia col pollice, scostandole gentilmente i capelli e poi sorrise ancora di più. “All’altra bancarella dello zucchero filato.” sentenziò infine.

“Cosa?” chiese suo figlio.

“Sua mamma e sua sorella sono all’altra bancarella dello zucchero filato, quella vicino al banco dei popcorn.”

La bimba la guardava a bocca aperta. Come faceva…? Chi le aveva detto…? Ma Jad non sembrava per niente sorpreso. Le riprese la mano. “Andiamo, dai. Poi ti ricompro il palloncino.” e la trascinò fuori dalla tenda di nuovo.

La piccola si guardò indietro più e più volte, sperando di rivedere quella strana signora che doveva essere una maga o una strega (sperò che fosse una strega buona), e quando apparve sulla soglia fece la più strana delle cose: un inchino! Un inchino, rivolto a lei, come quello che Alice faceva alla Regina di Cuori nel cartone che lei tanto amava. Spalancò la bocca e gli occhi mentre cercava di stare al passo con Jad; poi una voce familiare le fece scordare tutto ciò che era appena successo.

“Iris! Iris, dov’eri finita?!”

 

 

 

Porthos appariva più corrucciato del solito. Da alcuni mesi ormai sembrava che un pensiero costante lo ossessionasse tanto da arrossargli gli occhi per il poco sonno e fargli comparire i primi capelli bianchi. Avrebbe potuto facilmente celarli nella sua folta capigliatura corvina, se solo se ne fosse accorto.

Il Capitano fece uno sbuffo che assomigliava vagamente ad una risata sommessa, una di quelle che Porthos non sentiva da quando D’Artagnan era morto. Lo vide scuotere la testa e lanciargli occhiate con aria di sufficienza.

Appoggiò il boccale di birra sul tavolo, bruscamente.

“Cosa?” domandò Porthos, secco.

Athos esitò, come se pensasse che non potesse reggere il peso di ciò che stava per dire, e poi borbottò: “Siamo vecchi.”

L’angolo della bocca di Porthos si sollevò in una smorfia. “Parla per te.” sbottò. Nessuno dei due aveva più l’energia di scherzare come un tempo. La maggior parte delle loro conversazioni si basava su provocazioni che raramente l’altro percepiva come battute, e alla fine si ritrovavano a bere in silenzio, ognuno assorto nei propri pensieri.

Athos non era stato più lo stesso da quando Aramis e D’Artagnan se n’erano andati, ma era diventato ancora più strano dopo che era tornato dall’Inghilterra. Porthos gli aveva estorto la verità quasi con la forza, finché il Capitano non gli aveva gridato contro che lei era morta. Non ne avevano più parlato, nemmeno per sbaglio.

La cosa più straziante era che lui conosceva la verità. Milady non era morta. L’aveva vista, l’aveva cacciata via ed ogni giorno da allora si era chiesto se avesse preso la decisione giusta. Il suo amico non sembrava stare molto meglio di quando pensava che fosse viva, ma allo stesso tempo Porthos ricordava i loro incontri come emotivamente strazianti per Athos: non avrebbe permesso che succedesse ancora, odiava vederlo ridotto in quel modo. E a lui serviva un Capitano, a tutta la Guarnigione serviva.

Porthos era convinto che era solo questione di tempo: prima o poi sarebbe rinsavito, magari avrebbe incontrato un’altra donna e si sarebbe scordato di quella che gli aveva straziato il cuore per tutti quegli anni.

Lo guardò scolarsi l’ultimo goccio di vino direttamente dalla bottiglia. Un musico suonava il violino in un angolo della taverna e Athos teneva il tempo picchiettando le dita sul bancone a ritmo di una melodia che Porthos non conosceva. Gradualmente delle rughe incresparono il viso del Capitano in una smorfia nervosa, man mano che il suo picchiettare sul tavolo si faceva più deciso, finché poi si alzò dichiarando: “Me ne vado.” e si avviò verso l’uscita, come se non potesse sopportare di stare lì un minuto in più.

“Che diavolo di strambo...” sibilò Porthos tra sé e sé, esaurendo il contenuto del suo boccale in un sorso.

Quando una leggera pioggerella primaverile lo scosse con un lungo brivido, sentì il musico ormai già lontano concludere la sua canzone e dichiarare: “E questa era la Foscarina di Marini!” orgoglioso, ringraziando il pubblico che applaudiva.

Athos appariva come una figura sfumata in lontananza nella nebbiolina della pioggia leggera e fitta; non aveva intenzione di raggiungerlo. Ogni tanto gli piaceva autocommiserarsi nella sua malinconia. Da una vietta sbucò un tizio malandato che si reggeva su una stampella, con una latta tintinnante in mano.

“Una moneta per un vecchio soldato?” rantolò in direzione di Porthos.

“Narquois...” mugugnò lui. Sapeva bene cosa c’era in fondo alla via dal quale era sbucato il narquois, il finto soldato zoppo, ma si era ripromesso di non farlo.

Non poteva. Per il proprio bene, non poteva torturarsi in quel modo.

Combatté contro se stesso per qualche istante, guardando il narquois che attraversava lentamente la strada per raggiungerlo. Porthos lo fissava pieno di dubbi, poi alternava lo sguardo dal vicolo alla figura di Athos che svaniva nella pioggia.

“Al diavolo!” sbottò. A grandi falciate si diresse verso la strada tetra, ma non fece in tempo a muovere più di cinque passi. Quando incrociò il narquois, questi allungò la mano davanti a lui, tendendo una lettera e, con voce completamente ringiovanita, disse: “la mia signora manda i suoi saluti ai Moschettieri.”

  
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