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Autore: stavroginova    29/01/2017    1 recensioni
[Delitto e castigo]
Per qualche ragione, Raskolnikov non sembrava capace di legare con nessuno.
{ Razumikhin/Raskolnikov | One shot | 2397 parole | Traduzione di Hiraeth }
Genere: Generale, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: Missing Moments, Traduzione | Avvertimenti: nessuno
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Note dell’autrice: avete presente quella scena in cui Raskolnikov attraversa la strada per evitare Razumikhin? Ne ho immaginato il motivo.
Note della traduttrice (Hiraeth): su EFP non c’è nemmeno una storia su questa coppia oltre a questa? WTF. Non posso essere l’unica che ha shippato Raskolnikov e Razumikhin da matti leggendo questo romanzo. D:
 Un ringraziamento va a heartbreakerz, che ha betato questa traduzione. Grazie ancora!
 E per finire, a questo indirizzo trovate il link alla versione originale, a cui vi consiglio di dare un’occhiata se ve la cavate con l’inglese. Buona lettura!










Traps
di stavroginova




A un certo punto della loro amicizia, Razumikhin si rese conto che Raskolnikov non piaceva a nessuno. Decretò che quella era una situazione inaccettabile. Sosteneva che quello era un affronto perché Rodya era perbene e intelligente, e che le idee dell’amico erano destinate a diffondersi in tutto il mondo.

 Raskolnikov, però, non si faceva tanti problemi con la sua impopolarità. Interagire con il prossimo era asfissiante e lui aveva altri grattacapi di cui preoccuparsi, come ad esempio sopravvivere nonostante i suoi fondi monetari si stessero rapidamente prosciugando e la sua salute stesse peggiorando. E tutto questo oltretutto nell’approcciarsi del periodo degli esami. Quando si rivolgeva a qualcuno, si sforzava di prestare costantemente attenzione ed essere rispettoso dei vulnerabili sentimenti altrui e ascoltare il suo interlocutore e, nove volte su dieci, era obbligato a ubriacarsi. Non che fosse particolarmente spiacevole: solo che le bevute non rientravano tra i suoi talenti. L’ebrezza in genere lo portava a svegliarsi in luoghi completamente sconosciuti, senz’alcuna memoria degli eventi della sera precedente. E a esser costretto a fare il bucato. Che costava. E anche quando prometteva a se stesso di non eccedere, le ignominiose conseguenze parevano attenderlo come delle Furie adirate. Il che era semplicemente ingiusto – Razumikhin sotto l’influenza dell’alcool non tendeva a proclamare il suo amore per i personaggi storici. Si limitava a picchiare gli altri. Il che, per qualche motivo, era un atteggiamento assai più accettato. (Inoltre a volte circondava il collo di Rodion con le braccia e lo complimentava, definendolo un grande e dichiarandosi fortunato ad averlo come amico, e ciò non infastidiva Raskolnikov tanto quanto dava a credere con le sue lamentele).

 Comunque, Razumikhin decise che non essere apprezzati dai propri colleghi di università era un male e che ciò doveva essere rimediato. Quel “ciò” implicava trascinare Raskolnikov di appartamento in appartamento, tentare disperatamente di convincere i suoi amici che Rodya in realtà era solo timido ma molto simpatico, tirarlo via a forza dagli angoli confortevoli in cui si rifugiava, nascondere tutti i libri sott’occhio e, naturalmente, ubriacarlo il più possibile per farlo parlare. Il che funzionava. Raskolnikov da sobrio era lieto di tenersi per sé i suoi monologhi interiori. Raskolnikov da ubriaco, invece, aveva svariate opinioni ed era suo onere condividerle con il mondo. Sfortunatamente aveva anche una grossa difficoltà con le vocali, e tali opinioni non erano granché persuasive senza le vocali. A dire il vero, nella maggior parte dei casi (oh, qual orrore!) erano ritenute divertenti. Raskolnikov reagiva precipitandosi fuori incollerito da numerosi appartamenti e sbattendo la porta. (A essere onesti, alcune volte venivano entrambi cacciati via perché Razumikhin prendeva a pugni chi considerava essere troppo stupido).

 Ma una o due volte concludevano interi incontri senza incappare in complicazioni e facevano insieme la strada di ritorno verso casa mentre la notte volgeva al termine e gli uccellini iniziavano a cinguettare. Fu in una di queste rare occasioni che avvenne. Raskolnikov se ne ricordò quattro mesi più tardi, quando ormai la faccenda non aveva più alcun peso, e non era nemmeno sicuro se fosse accaduta davvero o l’avesse sognata, o se non se la fosse addirittura immaginata, visto che negli ultimi giorni il suo cervello non fungeva correttamente. Per un periodo ne fu ossessionato e ciò lo lasciò con un vago senso di rimpianto e di colpa, come d’altronde tutte le questioni irrisolte che allungavano la sua lista infinita di “e se” che aveva in testa. Le circostanze probabilmente avrebbero preso una svolta terribilmente disastrosa, e lui non era nemmeno convinto di averlo voluto e di essere in grado di farlo, perché non era certo quella la sua più grande e recondita chimera! Tuttavia non era capace di sbarazzarsi della sensazione di aver commesso un’idiozia, di essersi lasciato sfuggire un’opportunità, in quanto, sebbene gli esiti sarebbero stati inevitabilmente negativi, avrebbe potuto servirsi della situazione come… una distrazione. Raskolnikov necessitava di molteplici distrazioni. Essere costretto a fissare la carta da parati staccarsi dal muro era insidioso.

 Quella notte era stato ostico camminare. Rammentava quel dettaglio con chiarezza. L’uno si appoggiava all’altro. Faceva ancora scuro, ma in alcuni tratti del cielo il colore stava passando dal nero al blu, e le stelle cominciavano già a sbiadire. Lui non aveva niente di speciale per la testa, o almeno non rimembrava niente di insolito. Forse era sviato dalla vicinanza dei loro corpi. E dal desiderio che Razumikhin non gli avesse cacciato nel suo orecchio la punta del naso. Razumikhin sembrava sempre toccarlo, e riservava in realtà questo trattamento a chiunque si imbattesse. Era fatto così e Rodion era disposto a sopportarlo, a patto che l’amico ascoltasse con attenzione i suoi monologhi senza accigliarsi.

 Camminare era arduo. Piazzare un piede di fronte all’altro tracciando quella che somigliava approssimativamente a una linea dritta era impegnativo anche senza badare alla presenza delle lanterne da evitare e, occasionalmente, delle altre anime smarrite che si trovavano nel loro stesso stato. Ma la strada che attraversava il parco era piana e rettilinea e Raskolnikov non aveva idea del perché lui e Razumikhin erano finiti inesplicabilmente nei cespugli. (Non così inesplicabilmente, in verità: uno dei due doveva essere inciampato, trascinando l’altro con sé nel verde invitante. Succede, persino a chi è sobrio e non deve appoggiarsi alla spalla o tenersi per mano con un amico. Fu questo ciò che disse a se stesso).

 Quando lui atterrò di schiena, le stelle giravano ed erano appannate. Le avrebbe giudicate bellissime, se non fosse stato per la nausea che esse gli procuravano. Cioè più nausea di quanta non ne avesse già. Ebbe come l’impressione che la situazione fosse piuttosto metaforica, ma era restio ad analizzarla. Le uniche cose di cui si curava in quel momento erano lo scomodo cespuglio e la sua esclusione sociale. Malgrado i diversi sforzi compiuti (soprattutto da Razumikhin, a essere onesti), lui non sembrava mai andare d’accordo con chiunque non fosse Razumikhin o sua madre. Persino Dunya ascoltandolo ruotava gli occhi fin troppo spesso per considerare sano il loro rapporto.

 Di solito giustificava il fatto adducendolo alla sua superiorità rispetto alle masse semplici e illetterate, che ripetevano a pappagallo qualunque nozione leggessero sui giornali. A volte, però, le circostanze si facevano un tantinello sgradevoli. Era come se da lui tutti i suoi conoscenti si aspettassero soltanto sentenze egoiste, vanesie, frasi che lo elevavano sugli altri e che offrivano a loro delle ragioni per detestarlo. In lui apparentemente c’era un non so che che colpiva la gente, incapace di scrollarsi tal effetto di dosso, che lo seguiva in ogni stanza a prescindere dalla compagnia di cui si circondava.

 «Trappole» constatò, senza rendersi conto di aver parlato ad alta voce. Gli accadeva spesso e ciò probabilmente non giocava a suo favore.

 «Cosa?»

 Ricordò di non essere solo. Razumikhin si mise a proprio agio, sdraiato al suo fianco, con una mano sotto la testa, come se fosse il gesto più naturale al mondo. Forse dal suo punto di vista lo era. A chi usciva di casa per incontrarsi con qualcuno accadevano eventi interessanti, specie se siffatti incontri includevano l’alcool.

 «Trappole» ripeté Raskolnikov, dato che gli doveva una spiegazione. Inoltre, a Razumikhin piaceva ascoltarlo, lo scrutava sempre come se fosse un miracolo mandato dagli angeli che custodiva il segreto del senso della vita. Raskolnikov non aveva lamentele. E certo non gli era mai capitato di inventarsi una scusa per andarsene quando il suo amico rivolgeva lo stesso sguardo a qualcun altro. «Una trivialità, una futile idiozia, una peculiarità del tuo aspetto o della tua dialettica». Trovò difficoltà a parlare. Le vocali gli sfuggivano, e le pause si allungavano. Razumikhin lo contemplava a bocca aperta come se avesse davanti a sé un doppio arcobaleno. «Incappi in un tale e quello nota la tua stupida peculiarità, e si fa un’idea di te basandosi interamente su di essa, un cassettino conveniente in cui riporti, e tu sai che lo sa. E da quell’istante in poi, ogni qualvolta lo incroci, rifletti: lo sa. Ha quel cassettino con te all’interno, e tu tenti di dimostrare di essere o di non essere la persona che crede che tu sia. Qualsiasi azione tu faccia, qualsiasi commento tu esprima verrà usato per spingerti nelle profondità di quel cassettino. Oh, e potresti aver frainteso la situazione. Magari quel tale non ha un’opinione di te. E lo sai e ti convinci di poterti sbarazzare di quella sua opinione immaginaria di te. Ma poi incontri qualcun altro, e tutto ricomincia da capo, perché è una trappola, capisci?»

 Razumikhin empatizzava con le sue preoccupazioni, se quel sorriso soddisfatto era di qualche indicazione. Raskolnikov ipotizzò che forse non stesse ascoltando affatto e che forse stesse pensando a quella ragazza che avevano scorto al bar una settimana prima, ma apparentemente era in errore.

 «È così che ti senti, Rodya? Come se ti stessero tutti riponendo in un cassettino?»

 Rodya emise un verso di scherno e volse nuovamente le iridi al cielo. Almeno le stelle non erano moleste. Ne vedeva quattro o cinque scintillare nel cielo, e ai suoi occhi non sbiadivano e non danzavano più. Fortunatamente la memoria di Razumikhin che gli teneva i capelli mentre lui vomitava si stava facendo sempre più distante. Non che fosse stata la prima volta, ma quando accadeva era sempre umiliante.

 «Cosa c’entrano i miei sentimenti?»

 «Niente. Era solo una mia curiosità. Altrimenti perché mai avresti fatto quel discorso? Lasciamo stare. Chissà cosa frulla nella tua testolina. Prosegui, amico mio».

 Disse “testolina” enfatizzando l’appellativo con un buffetto su suddetto capo, e se si fosse trattato di qualcun altro Raskolnikov gli avrebbe morso la mano, ma, come già affermato, Razumikhin tendeva a toccare il prossimo e lui era obbligato a scegliere tra due possibilità, accettarlo o monologare alle stelle. E il costante tocco di Razumikhin non era una tortura insopportabile. Esistevano cose peggiori. Anzi, quasi tutto era peggio.

 «Dunque ti ritieni libero, ma poi ti imbatti in altri ancora che notano quell’irrilevante sottigliezza, e da quel momento in poi sei costretto a convivere con la consapevolezza di essere stato collocato in un nuovo cassetto». Era probabile che lo avesse già detto, ma non gli importava. Era orgoglioso di essere ancora capace di esprimersi in frasi di senso compiuto, nonostante i farfugli. «Come fai a spezzare il cerchio? Ha tutto inizio con un dettaglio insignificante. Come fai a liberartene?»

 «Be’», Razumikhin si avvicinò ulteriormente, «dovresti ottemperare un atto che ti definisca come persona, così che, indipendentemente dalle opinioni altrui, sapresti chi sei davvero».

 «Ottemperare un’impresa straordinaria…»

 «Be’, non necessariamente…»

 «Qualcosa che solo in pochi oserebbero ad azzardare». Era già troppo assorto per curarsi della risposta dell’amico. Qualche mese più tardi, si sarebbe chiesto se fosse tutto cominciato quella notte. E più lo avrebbe ponderato, più si sarebbe inoltrato nei ricordi, risalendo fino all’infanzia: quella notte era stata la prima volta in cui si era arrischiato a esprimere il suo mostro interiore a parole. E Razumikhin lo faceva? Aveva mai permesso al suo mostro interiore di emergere alla luce del sole? «Un atto di immensa bontà, o di immensa viltà…» O di entrambe allo stesso tempo. Un’anormalità, contro la natura umana… O forse qualcosa di estremamente umano. Di proibito.

 «Rodya».

 Per un po’ si chiese perché Razumikhin lo considerasse proibito, poi si rese conto che stava cercando di attirare la sua attenzione. Si voltò verso il compagno.

 «Che c’è?»

 Le labbra che si posarono sulle sue furono sufficienti come risposta. Lui si irrigidì completamente, ma non per lo shock. Non ne era affatto sorpreso, a essere onesto. Rammentò di aver pensato “Oh, è così che stanno le cose” e di essersi sentito deluso, perché improvvisamente ogni singolo attimo trascorso insieme aveva assunto un significato differente: l’affabilità, la comprensione, l’amore erano i mezzi che Razumikhin aveva usato per arrivare al suo fine. Era giustificabile. Lui avrebbe fatto lo stesso. Forse almeno in principio non era sua intenzione adescarlo tra i cespugli in una parte isolata del parco. Tuttavia Raskolnikov su quel prato bellissimo e ben tenuto provava comunque l’esigenza di piangersi dolorosamente addosso.

 Dopo un minuto buono, Razumikhin realizzò finalmente che non era piacevole baciare qualcuno che non si muoveva. Si scostò e i due si fissarono negli occhi, la delusione riflessa nelle iridi dell’uno e dell’altro, e a entrambi sembrò sbagliata e si intristirono. Raskolnikov ebbe la sensazione che tutte le sue relazioni finissero in quel modo, ingiustamente e mestamente, tutte quante.

 «Perché l’hai fatto?» domandò, cercando di guadagnare tempo, interrogandosi freneticamente sull’errore peggiore. Avrebbe voluto rialzarsi, fuggire verso casa sua e non rivedere mai più Razumikhin. D’altro canto, la prospettiva di buttarsi tra le braccia di Razumikhin, baciarlo e non lasciarlo più andare gli pareva ugualmente appagante. Non aveva vie di uscita. Una trappola, si era ritrovato in una trappola, nel più crudele tranello in cui si fosse mai imbattuto.

 C’era un’infelicità senza confini negli occhi di Razumikhin, che aveva l’aria di voler diventare tutt’uno con l’erba e trascorrere il resto dei suoi giorni in quel cespuglio. Almeno Raskolnikov non era il solo a desiderare altrettanto.

 «Perché mi piaci, amico mio».

 Non era così che ci si baciava tra amici. Entrambi lo sapevano. Era implausibile che Razumikhin sperasse per un solo secondo che “il suo amico” permettesse che le cose tornassero al punto di partenza.

 «Fin troppo, temo». Raskolnikov si levò oscillante in piedi, optando infine per lo stesso esito che sceglieva sempre. L’immagine di lui appoggiato a Razumikhin lo colpì con una forza tale che dovette abbassare le palpebre per un istante. Abbastanza tempo per auspicare che il suo amico – ex amico? – gli gridasse contro di attenderlo e lo afferrasse per il polso, e lo calmasse con parole solerti e tornassero a stendersi… Raskolnikov corse verso casa sua, senza guardarsi indietro.

 A quanto pareva entrambi avevano dei mostri dentro di sé. Oscuri propositi che non avevano mai creduto di poter compiere. Questo, quello. Quando faccio questo. Se avrò mai il coraggio di fare quello. I pensieri che affluivano loro nella mente quando era buio ed erano sdraiati sui loro letti. Tutto cambierà dopo questo. La mia vita non sarà più la stessa dopo quello. Lui era il mostro nella testa di Razumikhin.

 Forse era questo il problema. Mentre gli altri si dedicavano all’amore, lui meditava di uccidere qualcuno.

   
 
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