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Autore: kenjina    30/01/2017    1 recensioni
La situazione peggiorò quando trovarono un tavolo da biliardo libero e pronto solo per loro e, ovviamente, finì invischiato in un due contro due in coppia con la sua manager - almeno quella era una piccola fortuna in mezzo a tanta sfiga, si disse per farsi forza. Non avrebbe saputo di che morte morire, se avesse dovuto scegliere tra il Porcospino e la Scimmia; per non parlare della nuotatrice che, grazie a Buddha, non aveva mai giocato a biliardo e non sapeva neanche da che parte iniziare.
«Ehi, guarda che hai le palle piene tu, intesi?», gli fece Hanamichi, puntandogli la stecca contro.
Rukawa sollevò gli occhi al cielo. «Scimmia, non c'era bisogno di dirmelo. Che ho le palle piene di te lo sapevo da tempo».
(Tratto dal capitolo 17)
I ragazzi selvaggi son tornati, più selvaggi di prima... Ne vedremo delle belle!
Storia revisionata nell'Agosto 2016
Genere: Commedia, Romantico, Sportivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Hisashi Mitsui, Kaede Rukawa, Nobunaga Kiyota, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Wild Boys'
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Capitolo 23                                                                                 

Semifinale di sangue

 

 

 

Le gambe non le tremavano così tanto da quando Hanamichi era finito in ospedale per l’infortunio alla schiena.

Era terribile e spaventoso ciò che stava provando per colpa di quell’idiota. Se avesse saputo quanto doloroso sarebbe stato innamorarsi, si sarebbe data due sberle da sola per rinsavire e non caderci come una pera troppo cotta dall’albero. Camminava accanto al fratello, che le stringeva con forza una mano, diretti insieme alla squadra verso gli spogliatoi del palazzetto in cui avrebbero disputato la partita contro il Kainan. Riusciva a vedere la porta che, per qualche tempo, l’avrebbe tenuta in salvo da scimmie saltanti col codino prima dell’entrata in campo, ma la fortuna le sghignazzò in faccia nel momento in cui l’intera squadra avversaria al completo li incrociò lungo il corridoio.

Hime fermò i suoi passi, congelata nel vedere il numero 10 già bello che pronto con fascia viola e casacca. Stinse la mano di Hanamichi con tutta la forza che aveva in corpo, per cercare un minimo di sostegno che le gambe, ormai, non le assicuravano più. L’indifferenza del ragazzo dai capelli neri le tagliò il fiato in gola e si ritrovò a digrignare i denti pur di non reagire.

 «Ragazzi, buongiorno», li salutò il sempreverde cortese Shin’ichi Maki, che strinse la mano all’altro Capitano con rispetto.

«Maki», accennò Ryota. «Pronto per un po’ di movimento?».

Il numero 4 del Kainan ghignò. «Lo sono sempre, Miyagi. Sarà un piacere marcarti ancora una volta. Anche se sarà strano non vedere Akagi in campo».

«Tranquillo, Nonno-Maki, sarò il suo degno sostituto!», esclamò Hanamichi, esuberante come sempre.

«Quante volte dovrò dirtelo?!», attaccò Kiyota, muovendo qualche passo verso di lui e, di conseguenza, lei. «Porta rispetto al Capitano, stupida Scimmia!».

Hime chiuse gli occhi nel momento in cui il suo familiare profumo la fece vacillare, e dovette reggersi a Kaede, al suo fianco, quando Hana lasciò la presa alla sua mano sudata per afferrare la collottola del suo ormai ex-ragazzo.

«Chi sei tu per parlarmi di rispetto? Non hai idea di cosa sia», gli sibilò Sakuragi, sovrastandolo dal suo metro e ottantanove di statura. «Non provocarmi, oggi, o giuro che ti faccio a pezzi».

«Hanamichi, datti una calmata. Il Sensei Anzai sta arrivando», lo mise in allerta Mitsui, guardandosi le spalle.

Kiyota non parve affatto intimidito e ghignò. «Fai pure. Non sarà un occhio nero a fermarmi, oggi».

«No, infatti. Sarò io», replicò il rossino. Poi gli si accostò all’orecchio, sussurrando per non farsi sentire dall’allenatore. «E non pensare che finisca qui. Io non ho dimenticato cosa ti dissi in ritiro riguardo mia sorella: “non farla soffrire o te la vedrai con me”».

Nobunaga lo spintonò via e lanciò una breve e sprezzante occhiata alla seconda manager dello Shohoku, appesa al braccio dell’odiato Volpino – chi altro, se no? «Ah, ma come vedi non l’ho fatta soffrire; è in buona compagnia e sicuramente più felice di me».

Hime non resse oltre e corse verso gli spogliatoi, maledicendo la sua infinita debolezza e quell’idiota. Shin’ichi e Soichiro si scambiarono un’occhiata preoccupata.  Sarebbe stata una partita pesante, quella.

«Ci si vede tra poco in campo, ragazzi», disse Maki, per spezzare il silenzio. «Mi dispiace, Mitsui, che non sarai presente. Dico davvero».

Hisashi scrollò le spalle. «Sarò in forma per la finale, tranquillo».

Jin sorrise, affabile. «Intendi dire per tifarci?».

«Come no», ghignò Hisashi di rimando, stringendogli la mano.

Ripresero ognuno la propria strada in silenzio, finché Rukawa, passando accanto a Kiyota, gli diede una possente spallata che lo fece finire addosso al povero Miyamasu, tra vergognose imprecazioni e un principio di rissa che, per fortuna, Kaede non raccolse.

Trovarono Hime con gli occhi arrossati ma, incredibilmente, sorridente. Batté le mani e saltò su una panca. «Allora, ragazzi, pronti a prenderci la nostra doverosa rivincita?».

Hanamichi, dopo il primo momento di stupore, scoppiò a ridere e l’abbracciò con entusiasmo, sollevandola per aria come una bambola. «Questo è lo spirito dei Sakuragi! Ahahaha!».

Rukawa alzò gli occhi al cielo, esasperato.

Tra chiacchiere leggere e qualche battuta per smorzare la tensione, i ragazzi si prepararono all’imminente fischio d’inizio. Non vedevano l’ora di dare una lezione al tanto stimato e temuto Kainan. Avrebbero dimostrato loro quanto fossero diventati più bravi e, se possibile, più combattivi di mesi fa, nonostante l’assenza di Akagi e quella forzata di Mitsui. Hanamichi, con Hime in panchina che pareva aver ritrovato il suo spirito, era convinto che sarebbe riuscito a fare qualsiasi cosa. Osservò la sorella prendere posto accanto all’allenatore e ad Ayako, mentre chiacchieravano fitto fitto su chissà quale cosa, e sorrise come un ebete.

La sua Hicchan.

Entrarono in campo tra il boato del pubblico, eccitato all’idea di vedere quella partita che, come la prima di qualche mese addietro, si prospettava eccitante come una finale. Dagli spalti i Gundam, accompagnati dagli infiltrati Kiyo, Akagi e Kogure, stavano scaldando le bottiglie riempite di pietre, sbattendole una contro l’altra e facendo un casino infernale.

Hime ridacchiò a una battuta di Ayako, ma il sorriso le morì in gola appena incrociò lo sguardo di Kiyota, che palleggiava nella metà campo del Kainan. Gli restituì l’occhiata astiosa con lo stesso entusiasmo e, grazie al cielo, riuscì a non scoppiare in lacrime. Orgogliosa di se stessa per non aver calpestato ancora una volta la poca dignità rimasta, ricordò di quando, durante il ritiro precedente ai Nazionali, lo stesso Kiyota l’aveva insultata per il medesimo motivo: l’infondata gelosia nei confronti di Kaede. All’inizio aveva sofferto tanto, soprattutto quando aveva creduto che tra loro potesse nascere qualcosa; ma una volta rinsavita, grazie al supporto morale del suo adorato fratellone, aveva messo da parte la tristezza e aveva tirato fuori gli artigli. Il disgraziato era tornato con la coda tra le gambe a chiederle scusa.

Solo che questa volta avrebbe dovuto fare molto di più per riconquistarla – se mai avesse avuto intenzione di farlo. Era stata accusata ingiustamente, ancora una volta, quando lei non aveva occhi che per lui. Che andasse al diavolo! Non aveva bisogno di rovinarsi l’appetito per i suoi insensati momenti di gelosia.

Mitsui si mosse irrequieto, accanto ad Ayako, mentre osservava Jin allenarsi dalla linea dei tre punti con tutta la disinvoltura per cui era famoso. «Quanto vorrei essere in campo per spaccargli il c–».

«Senpai!», lo rimbeccò subito la manager, il temuto ventaglio in mano pronto a colpire.

«–il canestro. Per spaccargli il canestro a furia di triple», sviò il tiro la guardia in un sorriso falso come Kobe Bryant nei Chicago Bulls. «Dico sul serio, se Kimi non si dà da fare oggi, giuro che chiedo la sostituzione anche con un ginocchio sfasciato».

«A-ha».

«A proposito, Mitchi, hai già iniziato la fisioterapia?», domandò Hime.

«Yep. Ieri mattina. Ho anche saltato una pallosissima lezione di storia», aggiunse, strizzandole un occhio.

«Non tutti i mali vengono per nuocere, allora!», ridacchiò lei.

Nobunaga mancò in pieno il libero che stava provando, quando sentì la sua risata, e strinse i pugni. Rideva come se niente fosse, la traditrice! E lui che non riusciva a dormire la notte da quasi una settimana! Continuava a rivivere il momento in cui era comparsa a casa sua, fingendo di non sapere, senza neppure provare a montare una scusa plausibile. Era stata così brava a mentirgli per tutto quel tempo.

Solo amici, un paio di palle.

Intravide il Volpino avvicinarsi alla panchina insieme agli altri, richiamati dalla prima manager, e digrignò i denti nel vederlo punzecchiare la Sakuragi lanciandole un asciugamano in viso.

«Kiyota!», lo richiamò il Capitano, per la terza volta. «Cerca di lasciare i tuoi problemi fuori dal campo, se non vuoi rimanere con loro in panchina».

«Sì, signore», borbottò lui, raggiungendo la sua squadra in silenzio. Non era esattamente il tipo di partita che aveva avuto in mente, qualche settimana prima. Credeva che sarebbe stato divertente, nonostante i rispettivi spiriti di competitività di entrambe le squadre; voleva mettersi in mostra davanti alla sua ragazza, provare a rubarle qualche urlo di incitamento, nonostante fosse un avversario; avrebbe voluto vedere Sakuragi incazzarsi per questo, battibeccare e ridere della cosa, perché la sua Hicchan lo amava così tanto da dimenticarsi persino della loro rivalità.

Ingoiando una colorita imprecazione, si diede due forti pizzicotti sulle guance, per ritornare con i piedi per terra e ascoltare le istruzioni dell’allenatore Takato. Doveva impegnarsi, doveva segnare più punti di Rukawa, umiliare il dannato Volpino, rubargli il titolo di migliore rookie della Prefettura e dimostrare a quella maledetta traditrice cosa avesse perso scegliendo un perdente come quello. Era un ottimo piano, il suo. Doveva solo trovare la giusta concentrazione per metterlo in atto. Del resto era Nobunaga Kiyota, il pianificatore numero uno di Kanag

«Ca-capitano!», piagnucolò, accarezzandosi la testa dolorante per lo scappellotto appena ricevuto.

«Cosa ha appena detto l’allenatore?», domandò Maki, incrociando le braccia al petto.

Nobunaga arrossì fino alla punta delle orecchie e si grattò la nuca, in imbarazzo. «Che dobbiamo schiacciare quelle schiappe?». Il numero quattro gli riservò un’occhiata micidiale e si sentì piccolo piccolo.

Dannazione, concentrati Nobunaga, concentrati!

L’arbitro fischiò la fine del riscaldamento e le squadre si posizionarono in campo. Questa volta lo Shohoku schierava anche il Capitano e la sua ala piccola dal primo minuto, segno che non aveva alcuna intenzione di risparmiare le energie. Kimi, come contro il Miuradai, sostituiva Mitsui, e Eichiro ricopriva il ruolo di ala grande. Maki, che a differenza di altre squadre non aveva avuto grossi cambiamenti in fatto di giocatori, dato che tutti loro avevano ricevuto una borsa di studio per l’università e non dovevano prepararsi per superare le selezioni, non aveva idea di come giocassero i due gemelli, la più grande incognita dello Shohoku – sebbene avesse le sue fonti, che gli avevano descritto schemi folli e micidiali; d’altra parte, Mitsui era ancora impossibilitato a giocare, il ché era un’ottima carta a loro favore, soprattutto per Jin. La prima volta che il Kainan aveva giocato contro lo Shohoku, aveva commesso il grande errore di sottovalutarli, considerandoli meteore, inesperti, egoisti e giocatori che non avevano più resistenza fisica; la seconda volta, durante il ritiro, aveva imparato a capire e memorizzare il loro stile di gioco; durante i Nazionali, quando erano andati a vederli giocare, si erano resi conto della grande squadra che quei ragazzi formavano, e in così poco tempo. Quel giorno Maki sapeva che sarebbe stata una partita dura, durissima. Ma lui amava le sfide e non vedeva l’ora di iniziare.

Sperava solo che la Scimmietta, che ora stava sistemandosi la fascia viola sulla fronte, non fosse troppo occupata ad arrovellarsi le cervella sulla bella seconda manager in rosso, seduta poco più in là.

Hanamichi e Takasago si posizionarono a centro campo, pronti per la palla a due. Il pubblico trattenne il fiato, finché fu il numero 10 dello Shohoku a guadagnare il primo possesso della partita e il boato fu assordante.

Hime si mordicchiò le labbra, in tensione. Sarebbero stati i 40 minuti di gioco più lunghi di sempre.

Ryota palleggiava con calma, mentre i ragazzi formavano lo schema d’attacco. A serrargli la strada un determinato Shin’ichi Maki, che cercò il corpo a corpo quando Miyagi fece per scartarlo. Con un ghignò di sfida, il Capitano dello Shohoku fece scivolare la palla dietro la schiena e servì Eichiro, pronto a ricevere. Questo, come un fulmine, passò al fratello che, smarcatosi da Soichiro, si posizionò dietro la linea dei tre e tirò.

L’intera panchina dello Shohoku si alzò in piedi, esultante, come se avesse appena vinto l’incontro. Sapevano che ogni punto fosse fondamentale, contro il Kainan, meglio ancora una tripla come quella.

I Diavoli Rossi corsero in difesa, mentre Maki riorganizzava l’attacco. Vide Kiyota agitarsi per chiedergli palla e, sperando di non pentirsene, lo accontentò. Nobunaga era, difatti, indemoniato e voleva assolutamente spegnere tanto entusiasmo con una delle sue spettacolari schiacciate. Rukawa, che gli bloccava la via, lo fissò gelido, in una tacita sfida a smarcarsi. Kiyota non aspettava altro.

Si mosse contro il numero undici con prepotenza, che ovviamente non cedette un passo, facendolo spazientire; il suo secondo attacco fu decisamente più duro, tanto da far perdere l’equilibrio all’ala piccola dello Shohoku e guadagnandosi fallo in attacco.

«Merda», sibilò, lasciando cadere il pallone con stizza.

«Datti una calmata», lo ammonì Rukawa.

«Che cosa hai detto?!», s’inalberò Nobunaga, subito ripreso dal suo Capitano.

«Ehi, Nonno Maki! Cerca di tenere al guinzaglio quella scimmia, se non vuoi che si faccia male», esclamò Hanamichi, con strafottenza.

Hime strinse le labbra, assistendo alla scena. Se quello era solo l’inizio, era più che sicura che sarebbero arrivati alle mani entro la fine del primo tempo. «Hana!», lo sgridò. «Pensa a giocare!».

Il fratello le scoccò un’occhiata imbronciata, ma seguì il consiglio. La partita era lunga, avrebbe avuto modo di fargliela pagare bene, al caro Kiyota.

La seconda manager si lasciò cadere sulla sedia e Ayako le batté una mano sul braccio.

«Cerca di stare tranquilla, sei un fascio di nervi», le disse la senpai.

Hime sospirò, guardando Nobunaga e Kaede spintonarsi sotto canestro. «Non gliela faranno passare liscia, sono preoccupata».

«Non lo farei neppure io», fu il commento di Mitsui, i gomiti poggiati sulle cosce e gli occhi blu fissi in campo. «Nessuno di noi sopporta quello che ti ha fatto. Il minimo che possano fare quei due è umiliarlo in campo». “I cazzotti arriveranno a porte chiuse”, terminò mentalmente, dato che Anzai aveva le orecchie tese, pronte a cogliere qualsivoglia intenzione manesca nella sua voce.

In campo, nel frattempo, Hanamichi aveva sbagliato un tiro, deviato proprio da Kiyota, grazie alla sua elevazione notevole che gli aveva permesso di sfiorare la palla quel tanto che bastava per deviarne la traiettoria. Il contropiede di Maki fu energico come un’onda contro lo scoglio e il Kainan segnò i suoi primi due punti.

Il ghigno soddisfatto che Nobunaga lanciò a Sakuragi lo mandò su tutte le furie e fu quella la goccia che fece traboccare il vaso. Da quel momento, infatti, fu guerra aperta e i corpo a corpo si fecero più intensi e fallosi. Persino Kaede, incacchiato com’era contro la Scimmia del Kainan e deciso a vincere la partita, aveva iniziato a calcare la mano, sia in difesa che in attacco, e l’arbitro dovette fermare il gioco parecchie volte per richiamarli all’ordine. Al decimo minuti di gioco, su passaggio di Ryota, chiuse una splendida azione con una schiacciata micidiale, che mandò su tutte le furie sia Hanamichi che Kiyota e portando lo Shohoku in vantaggio di ben otto punti.

Takato, in panchina, era furibondo e chiamò subito un time-out per cantarne quattro ai suoi giocatori. Aveva capito che qualcosa non andasse, soprattutto nel suo numero dieci, e che lo Shohoku fosse diventato una squadra temibile, nonostante assenze importanti: ma non avrebbe permesso a quei cinque pivelli di sbatterli fuori ad un passo dalla finale.

 Nobunaga si sedette sbuffando, nascondendo il viso sudato sotto un asciugamano e lasciandosi scivolare addosso le parole irate dell’allenatore. Non erano neppure a metà partita e aveva già il fiatone. Lui, un giocatore del Kainan King sottoposto a estenuanti allenamenti ogni santo giorno, aveva il fiato corto!

Strinse i pugni, pensando agli sguardi astiosi di Sakuragi, Miyagi e Rukawa. Era palese quello che stavano facendo: volevano a tutti i costi la rivincita del campionato scolastico estivo e, come se non bastasse, erano evidentemente incacchiati neri. Maledetti teppisti. Se solo avessero saputo la verità – chissà quale balla colossale aveva raccontato la traditrice! – probabilmente ora non avrebbero preso in modo così personale la sua rottura con quella stupida hippie.

«Nobunaga, cerca di reagire», fece la bonaria voce di Soichiro, al suo fianco. «Tutto si può sistemare, ne sono sicuro. Ma i problemi esterni rimangono tali. Concentrati, o rischi sul serio la panchina. E non solo per questa partita, lo sai bene».

Kiyota strinse ulteriormente i pugni, tremante di rabbia. Quando il match riprese si sentiva così incazzato che, se avesse morsicato qualcuno, era più che sicuro l’avrebbe avvelenato a morte. Intercettò un passaggio diretto a Kimi, tra le grida di incitamento di Shin’ichi e Jin, e scartò con decisione Rukawa. Davanti a sé, però, Hanamichi gli chiuse la strada e, si sa, col Rosso non si passa. Tentò, infatti, un terzo tempo, ma il centro dello Shohoku spazzò via la palla prima che iniziasse la sua parabola discendente verso il canestro. Akagi, sugli spalti, fu orgoglioso di lui.

«Vai così, Hana!», gridò Hime, in piedi sulla sua sedia le mani a imbuto sulle labbra.

Il rossino scoppiò a ridere, alzando il pugno al cielo. «Lo Schiacciamosche del Gorilla colpisce ancora! Ahahaha!».

«Zitto e corri in difesa!», esclamò Ryota. «L’azione non è ancora terminata!».

La palla, infatti, era finita nuovamente nelle mani del Kainan e Muto, che comandava il possesso, passò subito a Maki per impostare l’azione di gioco. Jin era marcato stretto dai Gemelli Siamesi, che non avevano alcuna intenzione di permettergli di tirare da tre, Hanamichi teneva sotto scacco il loro Centro e Kiyota non riusciva a levarsi dalle scatole il Volpino. L’unico libero era proprio Muto, ma non era in una buona posizione per provare un attacco. Sorrise allo sguardo strafottente di Ryota, che non lo mollava un attimo, e lo sorpasso con una decisa ma non fallosa azione, facendosi spazio con una spalla e rompendo il muro della difesa.

«Capitano!», gridò Kiyota, che ricevette un passaggio preciso e pulito una volta trovato un piccolo spiraglio nella marcatura di Rukawa.

«Avanti, mezza sega», lo provocò Kaede. «Mi sto annoiando».

Nobunaga divenne verde dall’ira. «Oh, mi dispiace tanto. Sono sicuro che la tua nuova ragazza saprà come soddisfarti».

Mai l’avesse detto.

La difesa di Rukawa si fece così aggressiva che Kiyota perse possesso quasi senza accorgersene. Di riflesso cercò di riprendersi il pallone, più per la stizza contro quella Volpe – che non solo gli rubava l’azione in modo così imbarazzante, ma persino la ragazza di cui era innamorato –, che per la reale voglia di rimediare al suo errore; il risultato fu che strattonò la palla forza e si beccò una gomitata accidentale sull’occhio, proprio dal suo acerrimo nemico. Non si rese conto di sanguinare finché i suoi compagni non lo osservarono con allarmismo e persino quella traditrice si alzò dal suo posto, con le mani sulle labbra e l’aria preoccupata.

«Kiyota!», esclamò Maki, avvicinandosi al ragazzo e controllando la ferita al sopracciglio. Fu lesto a trattenerlo per la maglia, prima che saltasse addosso al numero 11 dello Shohoku per menare le mani.

«Che diavolo di problemi hai?!», sbraitò Nobunaga, mentre l’arbitro fischiava l’interruzione momentanea della partita.

«Hn, non ti ho visto».

«Come hai fatto a non vedermi?! E cosa hai al posto del gomito? Un cazzo di rasoio?».

«Piagnone. Per un taglietto», borbottò Kaede, scrollando le spalle e dandogli la schiena. L’occhiata d’intesa tra lui e Hanamichi passò per fortuna inosservata, dato che la loro seconda manager era stata chiamata in campo per controllare le condizioni del giocatore del Kainan, in veste di infermiera provvisoria per la consueta mancanza di un medico nello stabile.

Appena Nobunaga si accorse di lei, che stringeva la cassetta del primo soccorso come se fosse l’unico appiglio a cui reggersi, sbraitò di non aver bisogno di una balia e che si trattava di un taglietto – appunto.

«Kiyota, non sei un bello spettacolo, credimi», gli disse Miyagi.

«E quando mai lo è!», fu l’intervento di Sakuragi.

«Quello che intendo dire», alzò la voce il Capitano dello Shohoku, «è che stai perdendo molto sangue e ti si vede la carne viva. Per me ci vuole qualche punto».

Hime annuì, mordendosi il labbro con forza.

«E dovrebbe essere questa qui a medicarmi? È la volta buona che ci lascio le penne, allora», sbottò Kiyota, regalandole una smorfia. «Col cavolo che mi tocchi di nuovo».

«Allora puoi benissimo beccarti un’infezione, almeno finalmente ci liberi dalla tua inesauribile stupidità!», esclamò Hime, che ormai aveva oltrepassato il limite della sopportazione.

«Ben detto, Hicchan!», esclamò Hanamichi. «E nemmeno io voglio che ti avvicini a quella scimmia, sciò sciò, stalle lontano, maledetto idiota».

Nobunaga fece per rispondere a tono, ma Maki lo zittì con una tirata d'orecchie e lo trascinò verso la panchina. «Vai in infermeria, prima che ti ci spedisca a calci».

Ingoiando tante di quelle imprecazioni da fargli venire una congestione, Nobunaga si strascicò verso lo stanzino, seguito a debita distanza dall’ormai odiata ex ragazza, mentre il fratello le gridava dietro di fermarsi e di lasciarlo morire dissanguato. E, sebbene fosse proprio quello che avrebbe voluto fare, Hime proseguì in silenzio, seguendolo dentro l’infermeria. Lo osservò con la coda dell’occhio fermarsi davanti a un armadietto, le mani strette a pugno lungo i fianchi e le spalle larghe tese dalla rabbia.

Per tutti gli dei, quanto avrebbe voluto abbracciarlo. Le mancavano infinitamente quelle braccia confortanti, il ritmo calmo del suo cuore contro la guancia, il profumo della sua pelle misto a quello del bagnoschiuma. Voleva odiarlo con tutta se stessa, eppure continuava ad amarlo. Povera, stupida sciocca.

«Sdraiati».

«Non darmi ordini», sbottò il ragazzo. «Lascia la cassetta qui, mi disinfetto da solo».

«E ti ricuci il sopracciglio con le tue mani?».

«Di certo non lo faccio fare a te!», replicò, voltandosi a guardarla con occhi sbarrati. Il blu delle sue iridi era ancora più accentuato dal sangue che gli bagnava la fronte e gli zigomi. «E non sei neppure un medico, chissà che razza di cicatrice mi lasci».

«Mia madre è infermiera, chi credi abbia medicato mio fratello dopo ogni rissa, quando lei era a lavoro? Chi ha ricucito Hisashi e gli altri dopo che Tetsuo e i suoi amichetti ci hanno fatto la festa in palestra? Io».

«Non mi interessa», sibilò Nobunaga, avvicinandosi di un passo. Lei, come l’ultima volta, indietreggiò, trovando però l’ostacolo del lettino alle sue spalle.

«Qualcuno deve chiuderti quella ferita, Kiyota», parlò Hime, ritornando con freddezza al cognome. «Ora come ora non c’è nessuno che possa farlo, tranne me. E se vuoi tornare in campo a giocare, anziché dover andare in ospedale per la tua maledetta testardaggine, ti consiglio di sdraiarti e di farmi lavorare. E cerca di stare zitto, almeno questo strazio riusciamo a finirlo in fretta».

Borbottando come una teiera, Nobunaga si ritrovò suo malgrado costretto a seguire il suo consiglio e si sdraiò, puntando gli occhi al soffitto pur di non guardare lei. Così bella, così determinata... e così bugiarda.

La sentì armeggiare tra gli attrezzi della cassetta di emergenza, tra guanti in lattice e bottigliette di disinfettanti, e, pur di non pensare alla sua vicinanza, preferì concentrarsi sul bruciore pulsante in fronte. Quel maledetto Rukawa, l’aveva fatto apposta, ne era sicuro! Oh, l’avrebbe–

«Ma porca zozza! Sei matta?!», ululò dal dolore, quando Hime con la sua grazia di un elefante dentro un negozio di cristalli iniziò a pulirgli la ferita. In realtà lei sapeva come non fargli troppo male, ma la sua parte sadica aveva preso il sopravvento e voleva fargliela pagare, a modo suo.

«Hai uno squarcio in fronte. Cosa ti aspettavi? Solletico?», sbottò lei, rispedendolo bello che sdraiato con una manata sul petto, i cui muscoli poteva chiaramente sentirli irrigidirsi dal dolore. Riprese a disinfettarlo ora con più delicatezza e lo sentì sospirare a lungo – forse per il sollievo, forse per la stizza. Ripulito il brutto taglio sul sopracciglio, gli spruzzò sopra un anestetico, poiché sapeva che non sarebbe stato fermo al primo accenno di dolore tra ago e filo. Non voleva rischiare di cavargli un occhio, anche se lo meritava.

Uomini.

Aprì la busta sterilizzata del porta aghi, sistemò il filo nella cruna e gli si avvicinò al viso, per controllare che tipo di sutura fare e contare ad occhio e croce quanti punti avrebbe dovuto mettergli. Ricordava ancora quando la madre aveva ceduto alle sue continue richieste su come rattoppare le ferite del fratello e glielo aveva mostrato su dei pezzi di gommapiuma – prima di usare Hanamichi come cavia, la settimana successiva.

Se non fosse stato per la pericolosa vicinanza del suo viso al proprio e di ago e filo che si muovevano davanti ai suoi occhi, Nobunaga neppure si sarebbe accorto che Hime avesse iniziato a suturarlo, seria e capace come una vera infermiera. Da quanto ne sapeva, aveva sempre mostrato un certo interesse per la medicina, proprio come la madre... proprio come il padre del Volpino.

Strinse i pugni fino a tremare, tanto che lei dovette bloccarsi un attimo per non rischiare di ferirlo sul serio.

«Ti sto facendo male?», si ritrovò a chiedergli, prima che potesse morsicarsi la lingua.

Kiyota mugugnò un diniego. Se solo avesse saputo quanto male gli stesse facendo, invece; ma non certo per due miseri punti di sutura. La sua sola vicinanza era una tortura. Che lo volesse o meno, era ancora attratto da lei, terribilmente. Aveva sempre adorato quella ruga di concentrazione che le compariva in fronte, quando l’aggrottava come in quel momento; o le labbra strette in una smorfia involontaria, con la punta della lingua che faceva capolino da un lato. Dei, era adorabile. Perché doveva essere anche una maledetta falsa?

Con soddisfazione per il lavoro svolto, Hime chiuse l’ultimo nodo e tagliò il filo. Da un’altra bustina tirò fuori una garza sterile e gli coprì la ferita, per tenerla al riparo dai batteri. Senza una parola, riprese a pulirgli il viso dal sangue rappreso e fu solo allora che le mani iniziarono a tremare, mentre cercava di trattenere l’impulso di accarezzargli gli zigomi e chinarsi per baciarlo.

Stupida di una Sakuragi! Doveva odiarlo, non innamorarsi ancora di più di lui!

Ricordando il motivo di tanto casino, gli diede le spalle, gettando il cotone sporco e i guanti in lattice nel cestino accanto al letto e, in completo silenzio, richiuse la cassetta di prima emergenza e lasciò la stanza di gran fretta. Non aveva intenzione di commettere qualche idiozia, né avrebbe sopportato la sua scomoda presenza oltre il dovuto necessario. Aveva fatto quello che le avevano chiesto, non aveva ulteriori motivi di attardarsi in sua compagnia. Per fare cosa, poi? Insultarsi e scoppiare nuovamente a piangere? No, era stanca di versare lacrime per lui. Che credesse pure ciò che voleva. Aveva la coscienza a posto, lei.

 

*

 

Non era che passato un quarto d’ora da quando aveva lasciato la partita alle spalle e il risultato era leggermente cambiato: lo Shohoku, che mai come quel momento, dall’inizio del match, era così agguerrito e deciso a vincere il primo tempo, ormai agli sgoccioli, non poté comunque fermare la furia del Kainan che, dopo l’infortunio di Kiyota, voleva prendersi la sua rivincita. 

Hanamichi, che non aveva alcuna intenzione di perdere contro quei palloni gonfiati, prese con decisione il pallone che Eichiro gli passò e si fece avanti con fermezza per un dunk all’ultimo secondo. Hime sorrise di fronte a tanto coraggio e gli gridò dietro urla di incoraggiamento. Del resto, era lì per quello.

Il sorriso le morì sulle labbra quando sia Takasago che Maki, che non doveva certo trovarsi lì, saltarono insieme al numero 10, per impedirgli di segnare. Il risultato fu disastroso. Hanamichi perse l’equilibrio in aria, sbilanciato dalla forza con cui i due lo bloccarono, e cadde all’indietro sul parquet, urtando la schiena con forza. L’arbitro fischiò fallo alla difesa, ma quando Hanamichi non diede segni di rialzarsi e, anzi, pareva dolorante, Hime lasciò cadere la cassetta del pronto soccorso dalle mani, sentendosi improvvisamente debole.

«Hanamichi!», gridò angosciata. Fece per correre dal fratello, ma Mitsui la bloccò giusto in tempo prima che invadesse il campo senza essere stata ammessa. L’arbitro le diede il permesso subito dopo e si precipitò da lui, inginocchiandosi al suo fianco e accarezzandogli il viso contratto da una smorfia di dolore. «Hana, dimmi dove senti dolore».

«La s-schiena».

Hime trattenne il fiato e, come lei, anche i compagni di squadra. Hanamichi aveva sofferto di un brutto, bruttissimo infortunio alla schiena, solo pochi mesi prima, che aveva rischiato di far concludere la sua breve carriera da cestista prematuramente; per fortuna, dopo la lunga riabilitazione sembrava tornato come nuovo. La sola idea di un nuovo infortunio, che avrebbe vanificato tutti quei mesi di cure e allenamenti, e che con molta probabilità avrebbe davvero compromesso il suo gioco, la fece sprofondare dalla paura. E non voleva pensare a come si potesse sentire il suo adorato fratellone.

«Riesci ad alzarti?», gli mormorò, senza riuscire a tenere una voce ferma e tranquilla per non spaventarlo.

Hanamichi provò a mettersi seduto, ma una fitta lancinante gli strappò un gemito di dolore e qualche lacrima.

Shin’ichi, che in parte era responsabile della caduta, si chinò su di lui. «Ti do una mano io, Sakuragi. Forza, avanti». E, afferrato con decisione con l’aiuto – udite! udite! – del Volpino, lo portarono a bordo campo, dove Ayako aveva fatto stendere un materassino di gomma. Lo fecero sdraiare pancia in giù e Hime gli massaggiò delicatamente i muscoli della schiena, chiedendogli di fermarla appena avesse sentito dolore. Quando fu il momento di controllare la spina dorsale, Hanamichi dovette cacciarsi un pugno in bocca pur di non gridare.

«Dobbiamo portarlo in ospedale per un controllo», disse Ayako, preoccupata. «Vado a chiamare un’ambul–».

«No!», esclamò Hanamichi, facendo perno sui gomiti per mettersi in piedi. Si lasciò ricadere, senza forze. «Io voglio giocare ancora... voglio, devo giocare un altro tempo», aggiunse debolmente, tremante di rabbia. Diamine, non poteva farsi fermare nuovamente dalla schiena! Il ricordo di cosa era successo quando aveva dovuto saltare la partita contro l’Aiwa gli bruciava ancora in mente e non aveva intenzione di ripetere la cosa. Lui era una pedina fondamentale nell’equilibrio della squadra, il Nonno Anzai glielo diceva sempre. E senza di lui, Mitchi e il Gorilla, avrebbero perso sicuramente – e chissà di quanto.

E poi... e poi c’era Hicchan. La sua piccola, adorata Hicchan. L’aveva praticamente costretta ad assistere a quella dannata partita contro la sua volontà, non poteva deluderla così. Che razza di fratello era?

«Ho bisogno di– di qualche minuto di riposo», disse a denti stretti il numero dieci. «Il tempo della pausa e sarò– sarò di nuovo pronto».

«Questo non posso permetterlo, Sakuragi», fece la placida voce dell’allenatore Anzai. «E lo sai bene».

«Ma, Nonno! Perderemo!».

«Può darsi, sì», annuì l’uomo, sistemandosi gli occhiali sul naso. «Può darsi di no. Comunque vada, pensa a riprenderti. Non sappiamo la gravità della situazione, non voglio che la cosa peggiori».

«Ma, Nonn–».

«Taci, Do’aho».

Hime sollevò lo sguardo su Kaede, in piedi accanto a lei, ancora accucciata sul fratello.

«Non voglio di sentirti blaterare nuovamente stronzate sul tuo fondamentale ruolo in squadra che in tua assenza perde», sbottò il ragazzo.

«Nessuno di noi lo vuole», aggiunse Ryota. «Quindi porta quel tuo culone in ospedale e vedi di essere in forma per la finale, insieme a quest’altro scansafatiche».

«Che cosa ca–». Ogni improperio sulla punta della lingua di Mitsui venne sedato da uno scappellotto di Akagi, giunto in quel momento con Kogure a bordo campo.

«Ho appena chiamato un’ambulanza, arriverà tra poco», fu il suo saluto. Si chinò sul rossino, che ormai non riusciva più a fermare le lacrime di dolore e frustrazione, miste al sudore freddo che ormai lo inzuppava come un pulcino. Gli scompigliò affettuosamente i capelli rossi, ormai più lunghi rispetto all’ultima partita disputata insieme, e ghignò. «Che c’è, Sakuragi? Non ti farai abbattere così? Un ragazzotto grande e grosso come te?».

Hanamichi ringhiò il suo disappunto, scansando la sua mano come se fosse una fastidiosa mosca.

«Vedete di vincere, o davvero chi lo sente questo qui».

«Ohi, Gori!».

La partita riprese e Masuhiro Araki occupò il posto libero di Hanamichi. Non era massiccio come il numero 10, né il Centro era il suo ruolo, ma aveva una buona elevazione e l’area sotto canestro sarebbe stata di sua competenza, per il momento. Nessuno di loro, però, era fiducioso sulla sua buona riuscita.

Kiyota, che aveva assistito alla scena dalla sua panchina, represse un sorriso di soddisfazione. Tiè, Rosso-Scimma! Volevate battermi, oggi, ma vi è andata male! Uh uh uh!

«Hicchan», mormorava nel frattempo Hanamichi. «Potresti spruzzarmi un po’ di quel coso freddo che fa passare il dolore?».

La sorella scosse il capo, ma la mano grande e tremante del fratello la fece desistere dal ribattere.

«Ti prego, Hicchan. Voglio tornare in campo. Devo tornare in campo», continuò lui, con le lacrime agli occhi. «L’ultima volta contro questi bastardi ho fatto un casino e... voglio rimediare. Poi– poi andrò in ospedale, come volete, ma ti prego... fammi passare il dolore per un’altra mezzora».

Hime sollevò lo sguardo su Akagi, poi lo spostò sull’allenatore, imperturbabile come sempre.

«Potresti peggiorare la situazione, Sakuragi», disse Ayako.

«A costo di non poter giocare più, voglio battere il Kainan!», gridò il numero 10.

La panchina avversaria e i giocatori in campo si voltarono verso di lui, ancora steso a terra e col viso nascosto tra le braccia. Persino Nobunaga, che fino a poco prima se la rideva sotto i baffi, si stupì di tanta determinazione – o stupidità, più probabilmente.

«Hanamichi», disse Mitsui, accarezzandosi il ginocchio sinistro. «So cosa provi e credimi, fossi in te anche io vorrei gettarmi in campo e fregarmene di tutto. Ma non puoi rischiare. Lo Shohoku ha bisogno del grande Genio, no?».

In altre circostanze, il rossino sarebbe scoppiato a ridere, gli avrebbe dato poderose pacche sulle spalle e osannato il suo talento ai quattro venti. Fu preoccupante il fatto che neppure si mosse.

Hime strinse le labbra, si alzò e corse verso la prima cabina telefonica, sotto lo sguardo attonito di tutti, compreso Kiyota. Cosa diavolo aveva intenzione di fare?

Digitò il numero di telefono in fretta e furia e, dopo qualche squillo, per fortuna la voce familiare le rispose. «Dott. Rukawa Kanbe, con chi parlo?»

«Kanbe-san! Sono Hime, ho urgente bisogno del suo consiglio – si tratta di Hanamichi».

 

 

 

 

Continua...

 

 

* * *

 

Uh-oh.

 

D’oh, ultimamente è tutto un uh-oh.

Grazie a tutti voi, lettori silenziosi! E a chi l’ha aggiunta alle seguite (ho visto che il numero è aumentato, ma non so con esattezza chi sia!). E un grazie a speciale a chi mi sopporta su facebook. Vi adoooro.

A presto!

Un abbraccio,

la vostra Marta.

   
 
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