Capitolo 4
La solitudine dell’eroe
J |
enny fissava l’orrenda poltiglia nella sua
ciotola senza muovere un muscolo. Sembrava incantata dalla sequenza casuale di
bollicine di quel pasto disgustoso e per nulla omogeneo, ma in realtà la sua
mente era concentrata su ben altro.
“Vuoi rimanere davanti a me tutto il
giorno, stupida ragazzina?” domandò acidamente la cuoca ultrasessantenne,
riportando l’orfana alla realtà. Questa non rispose, si limitò semplicemente a
spostarsi dirigendosi verso il solito tavolo.
“Piccoli ingrati… Non solo preparo loro un
cibo da leccarsi i baffi, ma per giunta si lamentano!” sbuffò lei, cercando di
nascondere un sorriso compiaciuto. Neanche la cuoca, infatti, si discostava dai
canoni del tipico adulto là dentro. Anche lei si divertiva a torturarli, ma
mentre il custode o l’infermiera erano nemici che potevano essere in qualche
modo evitati, lo stesso non valeva per quella grassa e leggermente barbuta
donna. I poveri orfani, infatti, non potevano evitare di mangiare e ogni giorno
erano costretti a nutrirsi di pasti orrendi, puntualmente modificati dalla
cuoca per essere difficili da mandar giù. Stavolta si era divertita aggiungendo
una spropositata quantità di sale, rendendo praticamente immangiabile quella
brodaglia già stomachevole di suo. Eppure la cuoca non era affatto inesperta,
perché quando preparava i pasti per i suoi colleghi si vedeva chiaramente come
fosse abile ai fornelli. Riusciva a fondere perfettamente in un unico squisito
pasto tutto ciò che coltivava nel suo orticello, dove passava più tempo che in
cucina. Peccato che questo trattamento non fosse riservato agli orfani… E tutto
questo perché? Per pura malvagità, la stessa che avvolgeva il cuore di chiunque
lavorasse là dentro.
“Jenny, è scomparso anche Steve” disse un
bambino sedutosi nello stesso tavolo della ragazza.
“Da quant’è che non si fa vedere?” chiese
allora Jenny con aria un po’ assente, giocando senza nemmeno rendersene conto
col braccialetto di gomma che teneva al polso.
“Ieri mattina è stato portato nell’ufficio
della signorina Finnegan senza alcun motivo e non è più tornato” Jenny abbassò
il capo pensierosa. Tutti i bambini là dentro si erano sempre preoccupati di
cosa capitasse a quelli che sparivano. La ragazza più grande era consapevole di
cosa succedesse, sapeva che era un nuovo inizio per quei poveri angeli, il solo
modo per spezzare le catene della prigionia e permettergli nuovamente di
volare. Aveva detto tante volte ai più piccoli che l’adozione probabilmente
rappresentava per loro l’unica possibilità di essere liberi, ma gli orfani non
potevano evitare di preoccuparsi ugualmente. Erano convinti che tutti gli
adulti fossero malvagi, esattamente come quelli che lavoravano in quell’inferno
di orfanotrofio. Per quanto si volessero fidare di Jenny, il loro timore era
comunque grande e avrebbero preferito rimanere per sempre là con la loro
protettrice che da soli in chissà quale terribile famiglia. La ragazza però
sapeva che non tutti gli uomini erano come quelli dell’istituto. Ricordava
benissimo quando la signorina Finnegan si ammalò gravemente e fu costretta a
lasciare l’antico ospedale per recarsi in uno vero e funzionante. Per quasi tre
settimane fu sostituita dapprima da una donna molto cordiale, poi da quell’uomo
che le aveva fatto comprendere l’importanza di un buon libro. Il custode allora
era in convalescenza per il primo infarto, l’infermiera ancora non era stata
assunta. Solo la cuoca era rimasta a sorvegliare l’operato del temporaneo
direttore. Allora a Jenny sembrò che si conoscessero, ma anche che non si
piacessero particolarmente. Furono comunque giorni di assoluta felicità, ma
questa non era destinata a durare a lungo. Non appena la signorina Finnegan
venne a conoscenza di come l’orfanotrofio veniva gestito fece di tutto per
tornare il prima possibile. Il sostituto si prese perfino la libertà di
assumere un neolaureato e giovane pediatra perché riteneva che la presenza di
un medico fosse essenziale per la corretta formazione dei bambini. Inizialmente
si rivelò un bel problema e per cacciarlo fuori la signorina Finnegan fu costretta
ad assumere una nuova ragazza. Fortunatamente per lei trovò un’infermiera
adatta al suo orfanotrofio infernale, la quale era quasi più crudele della
stessa dirigente. Fu proprio questa infatti a suggerire gran parte delle folli
regole che gli orfani erano costretti a rispettare.
“Jenny, hai capito cosa ti ho detto?”
domandò poi lo stesso bambino, riportandola al presente.
“Sì scusami, riflettevo. Non devi
preoccuparti per lui, ti assicuro che andrà tutto bene” fece lei, sollevandosi
dalla sedia.
“Ma se l’hanno consegnato a uomini
cattivi?” chiese il piccolo dubbioso. Allora qualcosa scattò in Jenny, una
rabbia repressa da tempo.
“Ti ho detto che è meglio così! Hai solo
otto anni, io più del doppio, credo di sapere molte più cose di te! E smettila
con questo tono lamentoso, non ne posso più!” e dopo avergli sbattuto in faccia
queste parole se ne andò dalla mensa, senza aver nemmeno toccato l’orrenda
brodaglia. Contavano tutti su di lei,
solo su di lei. Un buco nero con il dovere di risucchiare tutti i loro problemi
e demolirli, ecco quel era il suo ruolo. Ma chi pensava ai suoi di problemi?
Nessuno. Appena giunse in una zona della grande struttura priva di qualunque
fonte di vita si fermò, mettendosi le mani sul volto e massaggiandosi gli occhi
con la punta delle dita. Aveva raggiunto il limite di sopportazione, non era
più in grado di farsi carico di altri tormenti, soprattutto adesso che si
sentiva schiacciata dal peso della scoperta della notte passata. Era un
fardello troppo grande da sopportare da sola e la sofferenza per la mancanza di
qualcuno con cui confidarsi, di un suo coetaneo, si presentò a lei con
particolare ferocia. Non aveva da tempo alcun amico con cui condividere davvero
problemi o segreti, ma ne aveva davvero bisogno. Si era sempre detta e ridetta
che se solo non fosse stato per quelle sbarre che ostacolavano la fuga avrebbe
provato a scappare, ma adesso che aveva trovato una nuova strada per la libertà
aveva paura di affrontarla. Aveva troppa paura, la stessa felicità le sembrava
fin troppo utopistica per lei perché, per quanto la rincorresse, non riusciva
mai a raggiungerla. Si sarebbe rivelato l’ennesimo buco nell’acqua? Jenny ne
era convinta. Poi però si rese conto che questi suoi ragionamenti erano
semplicemente molto egoistici, perché il suo agire non serviva solo a se
stessa. In quel momento realizzò che in qualità di unica ragazza capace di
poter cambiare le cose, aveva il dovere di combattere. Fino ad allora era stata
cieca di fronte all’ovvietà, forse non voleva vederla. Credeva di essere una
guerriera là dentro, lottando ogni giorno contro ogni avversità, ma solo in
quel momento capì di essere stata solo una codarda. Il suo ruolo non poteva più
essere quello di una combattente: ribellarsi e basta non portava da nessuna
parte. Era arrivato il momento di evolversi, di diventare chi davvero sarebbe
dovuta essere da tempo. Era il momento
di diventare un eroe. Ormai aveva
deciso, sapeva finalmente come agire. Non si sarebbe più accontentata di brevi
spiragli di luce, doveva puntare molto più in alto e trovare una soluzione per
far chiudere per sempre quel luogo molto più simile a una prigione che a un
orfanotrofio. Convinta e fiera della sua decisione s’incamminò nuovamente
diretta in camera con l’intenzione di organizzare i preparativi necessari. Era
certa di potercela fare, vogliosa di cambiare il proprio destino e di diventare
una vera eroina per quelle povere creature. Quando giunse nel lungo corridoio
che si affacciava al cortile, gettò un’occhiata su quel trascurato giardino.
Stavolta però notò qualcosa di diverso, forse preoccupante. Si bloccò e osservò
attentamente quell’albero sospetto. Qualcosa, o più probabilmente qualcuno, si
era mosso e adesso era nascosto dietro quella pianta. Che fosse il vecchio
custode? Tornò perciò sui suoi passi, sperando di riuscire a scoprire chi fosse
quell’ombra fugace. Nonostante avesse cambiato angolazione, non sembrava
esserci più nessuno. Che se lo fosse immaginato? Eppure credeva di aver
intravisto un volto, ma non era familiare. Dovette accantonare i suoi pensieri
quando si ritrovò la stessa scena del giorno prima, ma stavolta aveva
intenzione di fare qualcosa di concreto. Nonostante non potesse permettersi il
lusso di ascoltare e rassicurare i piccoli, non riusciva a ignorare la violenza
fisica che rischiavano di subire.
“Che ha fatto stavolta?” chiese Jenny
spavalda.
“Non sono affari che ti riguardano”
rispose l’infermiera.
“Lo lasci, prendo io il suo posto” disse
subito la ragazza senza pensarci troppo. La donna la scrutò perplessa e
sorpresa, abbandonando poi la mano del bambino.
“Sai la strada” disse lei soddisfatta. La
giovane la osservò per un attimo, per poi dirigersi in quel luogo che ormai
conosceva bene. Ripensò per un momento a quella regola assolutamente malvagia,
provenuta dalla malata mente dell’infermiera. Lo scambio di pena, infatti,
consisteva nel poter subire una punizione al posto di qualcun altro. Jennifer
sapeva perfettamente la verità di questa norma e la crudeltà con la quale era
stata proposta. Era ovvio che dei bambini piccoli come quelli là dentro non
avrebbero mai fatto alcuno scambio, infatti la regola colpiva sempre e solo la
più grande di loro. Per anni ormai si immolava di pene altrui, subendo
fisicamente quelle che sembravano molto più simili a torture che punizioni. Era
chiaramente stata creata apposta per colpire l’anello più forte di una catena
già debole. In casi davvero estremi, in cui Jenny non ne poteva proprio più, i
bambini cercavano di aiutarla con la regola della divisione di pena, che
consisteva nel subire in due una pena più leggera, al posto di una più severa
riversata a un unico orfano. Sembravano quasi dei modi per aiutarsi a vicenda,
quando in realtà erano ulteriori pene psicologiche. La ragazza sospirò, pronta
a far entrare nella sua collezione altri lividi o cicatrici. Salì le scale fino
ad arrivare all’ultimo piano raggiungibile con queste. Il suo percorso però non
era ancora terminato, doveva affrontare anche l’interminabile e strettissima
scala a chiocciola che portava all’isolato e altissimo ufficio della signorina
Finnegan. Ad ogni scalino che si lasciava dietro sentiva battere più forte il
cuore, sebbene si comandasse di resistere alla paura. Non voleva farsi
sconfiggere dalle emozioni, doveva essere lei a dominarle. Arrivò di fronte
alla porta, respirò ampiamente e bussò dando tre colpi di nocca al legno.
“Avanti” fece un’algida voce. L’avrebbe
riconosciuta fra mille. Jennifer entrò, chiudendo immediatamente l’accesso. La
donna era di spalle e non sembrava aver fretta di voltarsi. La giovane avrebbe
di gran lunga preferito che rimanesse in quella posizione, ma era consapevole
che non sarebbe mai accaduto. Non era necessario vederla in volto, tanto la
conosceva già incredibilmente bene. Capelli nerissimi raccolti in uno chignon,
abiti rigorosamente scuri, mento pronunciato, viso smunto, occhi perfidi. Per
non parlare poi di quella spilla che costantemente portava con sé, quella
specie di brutto gufo scuro e dagli occhi verde smeraldo. Era scontato che con
quell’aspetto non avesse trovato marito, non altrettanto normale era che
obbligasse tutti a definirla signorina nonostante i cinquant’anni suonati.
Stava esaminando la libreria alle spalle della scrivania, esattamente accanto
all’elemento più misterioso dell’ufficio e, probabilmente, dell’intero
orfanotrofio. Si trattava di una grande porta di ferro, come l’anta di un
caveau di massima sicurezza. Si era sempre chiesta cosa contenesse, ma riteneva
difficile si trattasse solo di denaro o gioielli.
“Bene, bene… Era da tanto che non la
vedevo, signorina Jennifer. Speravo che dopo tanti anni finalmente il suo
comportamento iniziasse a prendere una giusta piega, e invece…” sprezzò
girandosi.
“A dire la verità non ho fatto nulla di
male, ho semplicemente dato il cambio” informò lei pacatamente. La donna
osservò l’orfana, sollevando in maniera disumana il sopracciglio. Questa però
non disse altro, ma si voltò nuovamente per sistemare l’archivio alle sue
spalle.
“Ancora non ha trovato nessuno che voglia
adottarmi?” domandò allora alla direttrice.
“Jennifer, lo sa benissimo che ormai lei
non ha più alcuna possibilità di essere scelta. Le coppie vogliono i bambini
piccoli, non se ne farebbero niente di una come te” puntualizzò acidamente.
“Non importa. Sono abituata a stare da
sola, e poi… Fra un paio di mesi sarò maggiorenne e potrò andarmene comunque”
disse lei con aria pressoché assente.
“Cosa hai detto?” domandò la donna
voltandosi immediatamente, rivolgendosi per la prima volta col tu. Jenny aprì
leggermente la bocca, ma subito dopo la richiuse, indirizzando il proprio
sguardo verso il basso. Come aveva potuto commettere un errore simile?
“Le ho fatto una domanda!” insistette la
signorina Finnegan, ritornando al lei.
“Non capisco cosa ci sia di strano in
quello che ho detto, comunque vorrei sapere quale punizione mi aspetta, così
che possa scontarla e andarmene subito” asserì in maniera del tutto evasiva. La
donna accigliò gli occhi che come lame trafissero il suo corpo.
“Può andare” sentenziò dunque
inaspettatamente.
“Cosa?”
“Mi ha capito benissimo. Sparisca prima
che cambi idea” Jenny si alzò e in fretta lasciò lo studio della donna,
consapevole che stesse tramando qualcosa. Avrebbe preferito di gran lunga le
bacchettate, i lavori forzati, ma non quello. Non c’era punizione peggiore del
dubbio, perché certamente non l’avrebbe scampata così facilmente. Scese le
scale lentamente, mentre veniva logorata da timorosi pensieri, finché non
raggiunse il piano della sua amata biblioteca. La fissò da lontano.
“A stasera” sussurrò lei, come se quel
luogo potesse comprenderla. Poi se ne andò a mettere in ordine alcune delle
stanze assegnatele, finché poche ore più tardi si diresse finalmente in
dormitorio, dove ormai tutti gli orfani si erano ritirati. Un gran fremito si
manifestò all’entrata di Jenny, la voce del suo sacrificio si era già sparsa.
Lei disse loro semplicemente che il giorno dopo avrebbe dovuto pulire da sola
un intero piano, così da non dover dare troppe spiegazioni a quei bambini che
probabilmente non avrebbero neanche capito.
“Adesso tutti a cena, svelti! O saremo
costretti a digiunare un giorno intero” spronò Jenny, cercando di far terminare
le insistenti domande. Accompagnò perciò tutti i bambini in mensa e là riuscì a
stare per alcuni minuti tranquilla.
***
Quando anche l’ultimo degli orfani si
addormentò, Jenny si sentiva pronta per affrontare la sua missione. In fondo,
ciò che aveva scoperto la sera precedente rimaneva un mistero anche per lei, ma
allo stesso tempo sapeva che rappresentava l’unica strada per raggiungere
finalmente la libertà. Preparò uno zaino con dentro tutto ciò che le potesse
essere utile. Nonostante non fosse padrona di nulla, possedeva molte cose che
nel tempo aveva trovato in giro per l’edificio o che era riuscita a rubare agli
adulti, specialmente al vecchio custode. Uscì perciò con molta cautela dalla
grande stanza e fece lo stesso percorso che da anni era solita fare. Non le
serviva alcuna luce per il momento, conosceva a memoria dove collocare ogni
singolo passo anche nel buio più assoluto. Stavolta, a ogni scalino che
lasciava alle sue spalle, crescevano adrenalina e speranza. Raggiunse il piano
giusto e pochi passi dopo arrivò di fronte alla porta della biblioteca. Fece un
respiro profondo, pronta a mettere la parola fine una volta per tutte alla
prigionia degli orfani, poi spinse per aprire e… Chiusa. Com’era possibile?
Prese in fretta un lume e un fiammifero e in pochi secondi riuscì a irradiare
la zona circostante. Rivolse dunque lo sguardo di fronte a sé, scoprendone l’amara
verità. Le maniglie delle due ante erano legate assieme da una robusta catena
bloccata da un pesante catenaccio. La ragazza provò a spezzare gli anelli
d’acciaio per la disperazione, sebbene si rendesse conto dell’inutilità della
sua azione.
“Sapevo che saresti uscita allo scoperto,
prima o poi” fece dal nulla la stessa familiare e fredda voce. Jenny si
pietrificò.
“Mi sei sempre sembrata fin troppo
intelligente per essere una ragazza cresciuta senza alcun insegnamento. Non
avrei mai pensato che sfruttassi questa stanza per studiare… Esattamente come
facevo io anni fa” proseguì lei uscendo dal suo nascondiglio.
“Che fine ha fatto il suo tono
distaccato?” domando Jenny senza voler mostrare la sua paura.
“Il lei
si dà a chi merita rispetto, e tu, mia cara Jennifer, hai disubbidito a troppe
regole. Mi hai sempre creato problemi, non avrei mai potuto venderti a nessuna
famiglia. Non sei come gli altri bambini, possiede cose che loro hanno”
“Davvero? A me sembra di non avere proprio
nulla. Mi è stato tolto tutto, la mia giovinezza, la mia purezza, la mia
libertà!”
“Questo è dipeso solo da te. Posso
affidare gli altri bambini a delle coppie perché so che non metterebbero mai in
pericolo quest’orfanotrofio, perché a loro mancano tre caratteristiche che tu possiedi:
carattere, intelligenza e l’affetto sincero dei bambini. Sei troppo pericolosa,
devo prendere provvedimenti”
“E cosa vorresti farmi allora?” domandò
perciò enfatizzando l’utilizzo della seconda persona. A quel punto l’ira della
signorina Finnegan raggiunse il culmine, prese per i capelli la ragazza e la
rinchiuse con una velocità fulminea dentro un minuscolo stanzino molto vicino a
lei. Jenny non riuscì a reagire in tempo e cade a terra, sbattendo subito la
testa contro la parete, tanto era piccolo quel posto. Poteva essere più o meno
largo mezzo metro e lungo due. Quando si rimise in piedi, la stanza era già
stata chiusa a chiave. “Per i prossimi giorni starai qui. Niente cibo. Niente
acqua. E questa è solo una minima parte della tua punizione!” sbraitò la
malvagia signorina Finnegan mentre scendeva per le scale. Jenny urlò, si
ribellò, iniziò a gettarsi contro la porta sperando riuscisse ad abbatterla. Da
lì nessuno poteva sentirla, ma lei non pianse, non aveva bisogno di nessuno. Si
accasciò a terra, prendendo fiato. Il breve sconforto iniziale mutò velocemente
in qualcosa di strano e del tutto imprevisto. Ospiti diversi dal solito erano
stati accolti dalla solitudine. Sembrava quasi che tristezza e disperazione non
fossero i benvenuti stavolta, ma che coraggio e determinazione avessero preso
il loro posto. Jennifer si risollevò fiera di se stessa, contenta di essere
sola. Voleva stare nella solitudine, vivere nella solitudine, abitarla. Voleva
essere un tutt’uno con essa e trovare in sé la forza di reagire. Desiderava
bastarsi più che mai, senza nessuno che le tendesse la mano. Era pronta a
diventare un eroe e a compiere quel destino che fino ad allora non era mai
riuscita a cogliere. Basta commiserarsi, basta avere rimpianti. Era pronta
finalmente a diventare il cambiamento che sognava da tempo. Buttò a terra tutti
gli utensili dello stanzino per creare un cumulo quanto più alto possibile.
Dopo essere riuscita a modellare una precaria piramide, posizionò all’apice
della caterva un secchio capovolto. Vi salì sopra e raggiunse a malapena il
soffitto, riuscendo a spostare il pannello mobile con la punta delle dita. A
quel punto si lanciò con un balzo atletico e fece appena in tempo ad
aggrapparsi al controsoffitto che però al suo peso tese a piegarsi. Nonostante
questa piccola difficoltà riuscì a intrufolarsi nell’incavo, sebbene un pannello
rischiò seriamente di spezzarsi sotto il suo peso. Agilmente ricollocò i propri
arti sul più resistente reticolo, iniziando a gattonare. Dall’esterno si notava
chiaramente il suo passaggio, ma tanto quello stanzino sarebbe rimasto chiuso
per almeno due giorni. Non aveva un’idea precisa di dove andare, stavolta non
vedeva alcuna luce che la indirizzasse verso la giusta direzione, ma intanto
lei camminava come se sapesse benissimo la strada da dover percorrere. Se ne
fregava di tutto ciò che calpestava, le interessava solo raggiungere l’ala
segreta dell’orfanotrofio. Era determinata, nulla l’avrebbe fermata. Pochi
metri e sarebbe probabilmente arrivata. Ma proprio quando la convinzione di
farcela raggiunse il culmine, ecco che questa sprofondò immediatamente, così
come successe alla povera Jenny che rovinosamente cadde giù, al cedere di un
pannello troppo consumato dal tempo.