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Autore: Sarck    31/01/2017    4 recensioni
Avrebbero potuto incontrarsi in questa o in qualsiasi altra sequenza temporale, sulla London Eye, per strada, in un taxi, in una taverna lugubre ai tempi dei corsari, ad un ballo di gala ottocentesco o in un'ospedale. In ogni modo, in qualsiasi universo alternativo, Blackstar l'avrebbe riconosciuta.
***
Raccolta di primi incontri tra Blackstar e Tsubaki, in diverse timeline. AU!
1. Metropolitana: "Sai correre? È la terza metropolitana che rompo e sono troppo un grande per farmi beccare!"
2. Ospedale: È strana Tsubaki, perché pensa troppo ad un ragazzo con cui non ha neanche mai parlato, di cui non conosce neanche il colore degli occhi.
3. Ballo di gala a Death City (storico): “Signor Blackstar, ma voi non dovevate invitare a ballare la signorina Maka-chan?”
Genere: Comico, Fluff, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Black Star, Tsubaki | Coppie: Black*Star/Tsubaki
Note: AU, Raccolta | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Ospedale







Percorre il corridoio di fretta, con la cartellina schiacciata contro il petto, le scarpe a picchiettare sul pavimento lucidissimo. Quando arriva davanti alla porta prende un grosso respiro, bloccato a metà dal camice troppo stretto che le fanno indossare, nonostante la richiesta di farsi dare una taglia più grande.
Comunque, riesce a terminare l’espirazione e torturandosi un labbro, con la cartelletta tenuta in una sola mano ora, apre la porta della stanza.
Dentro è buio ancora, riesce solo ad intravedere il letto e una sagoma su di esso. Lascia la cartellina sulla sedia su cui quasi inciampa – ieri sera non era messa in questa posizione – e si dirige verso la finestra, per alzare le tapparelle. Tsubaki deve metterci un po’ di forza, perché è particolarmente difettosa, ma alla fine riesce a sollevarla del tutto. Lentamente la luce, filtrando obliqua, inizia ad illuminare la piccola stanza bianca.
Quando si gira, tornando a guardare il letto, sente un tepore scaldarla. Finalmente rilassa le spalle e inizia a respirare meglio, con più calma, nonostante il camice dia sempre i soliti problemi.
“Buongiorno Blackstar” sussurra, mentre le labbra si piegano autonomamente in un sorriso dolce. Il ragazzo, sdraiato sul letto e occhi chiusi, ovviamente, come ogni mattina, non risponde.
Tsubaki si prende qualche minuto per osservarlo, con la schiena contro la finestra. Ha i capelli azzurri sparsi sul cuscino, disordinati, nonostante lui non possa far nulla per scompigliarli in quel modo. Le labbra sono sempre un po’ incurvate verso l’alto, come se, nonostante la situazione tragica, il suo corpo si rifiuti di lasciarsi andare alla tristezza. Forse è stato quello, in particolare l’angolo destro della bocca, poco più in alto del sinistro, a colpire la neoinfermiera.
Si avvicina al letto e delicatamente gli alza le braccia, posizionandole sopra il lenzuolo, mentre si trattiene dall’accarezzare con il dito la cicatrice a forma di stella che ha sulla spalla. Qualche tempo fa aveva visto la ragazza che lo veniva sempre a trovare  farlo; scoprirlo. Tsubaki le aveva chiesto, un po’ in guardia, cosa stesse facendo. La ragazza, Maka, aveva semplicemente risposto “è caloroso, non sai quanto, sono sicura che stia meglio così”.

Blackstar era arrivato in ospedale in inverno, ricoverato d’urgenza. Ora è estate e lei si ricorda, ogni mattina, di scostargli il lenzuolo con cui lo copre l’infermiera del turno serale.

 
Quel giorno viene il ragazzo dai capelli chiarissimi a fargli visita.
Si chiama Soul e Tsubaki è quasi certa che stia con l’altra ragazza con cui ormai sta facendo amicizia, Maka, anche se nessuno dei due si comporta così affettuosamente con l’altro. Una volta era dovuta intervenire, perché Maka aveva lanciato un libro in testa a Soul e stava per farlo anche con un altro ragazzo, uno sempre vestito elegante. Tsubaki l’aveva fermata, con le guance rossissime e gli occhi spalancati dallo spavento.  Alla fine era stata tranquillizzata sul fatto che fosse una cosa normale e che i due ragazzi ne erano ormai abituati.
Quel giorno c’è solo Soul.
“Buongiorno ” lo saluta, mentre annota i valori della pressione sanguigna sulla cartella medica, “sei solo stamattina?”
Il ragazzo si lascia cadere sulla sedia, stanco. “Tsubaki” la saluta, inclinando il capo. “Sì, Maka non può oggi, mentre nel pomeriggio dovrebbero passare Kid, Liz e forse Patty”.
Tsubaki aveva capito da tempo che non sarebbe venuto nessun genitore a trovarlo. Erano passati più volte un paio di uomini, un certo professor Sid e un uomo parecchio taciturno, Mifune. Maka le aveva spiegato che Blackstar era orfano e che quei due erano state le figure più vicine ad un padre che avesse avuto.

Ormai Tsubaki si chiede ogni giorno, quando torna a casa la sera e telefona ai suoi, cosa voglia dire crescere senza genitori. La notte, con gli occhi inchiodati al soffitto, pensa a che tipo debba essere uno come Blackstar, uno che si butta nel fiume ghiacciato per salvare una bambina, la piccola Angela – figlia adottiva di Mifune, da quanto gli hanno detto -, uno che sorride in quel modo, come se ti volesse sfidare, orgoglioso e fiero, nonostante davvero, davvero, non abbia nulla per cui sorridere.
Più volte ha pianto Tsubaki, la notte, pensando a quel ragazzo. Altrettante volte l’ha sognato; sveglio, vivo, con lei.
Soul sta borbottando qualcosa circa un aneddoto, trascinando la sedia più vicina al letto dell’amico.

“Scusami io ho quasi finito, dopo vuoi che esca e vi lasci soli?” gli chiede Tsubaki, non volendo essere di troppo in quella stanza.
Soul la guarda attraverso un paio di ciuffi bianchi sfuggiti al cerchietto e “no Tsubaki”, scuote la testa, “ormai anche tu sei sua amica, sono sicuro che a lui faccia piacere averti qui”.
Lei arrossisce, infinitamente grata, con un sorriso che spinge per incurvarle le labbra, ma che trattiene mordendosele.
 Amici. Non lo conosce neanche. Eppure tutti, lì, sanno che, per mesi, lei si è presa cura di lui, con una dolcezza che nessun altra infermiera avrebbe mai potuto avere.
Sistema meglio la flebo. Ciuffi di capelli le sfuggono dalla coda e cerca di incastrarli dietro le orecchie. “Grazie, allora continua pure a raccontare, mi piaceva questa storia; cosa è successo dopo che ha interrotto il discorso del preside?”.
Soul ghigna e continua a raccontare a Tsubaki - e ricordare a Blackstar - quella serata. Rimangono un’ora a parlare, Soul divertito al massimo, Tsubaki con gli occhi sempre più spalancati e continui “davvero ha fatto una cosa del genere? Ma ha proprio detto così?”.
Alla fine arriva l’ora in cui deve andare, perché deve passare ad un altro paziente. Saluta Soul, chiedendogli di Maka, ma quando si trova davanti alla porta si ferma un attimo. La mano, a pochi centimetri dalla maniglia, le trema un attimo.
“Senti…” inizia a dire. Non si gira, perché ha paura che si notino, gli occhi lucidi.
“Secondo te ne uscirà?” chiede, le dita di colpo congelate, nonostante il caldo.
“Sei tu l’infermiera”.
Tsubaki, pentita, sta per aprire bocca quando lui continua: “ma posso assicurarti, conoscendolo, che prima o poi ne uscirà. Blackstar non è tipo da morire per queste cose, in realtà per nessuna cosa, penso sia immortale. Lo sappiamo tutti; nessuno è davvero così tanto preoccupato, perché Blackstar non molla mai.”
Si gira, fregandosene degli occhi lucidi e incontrando quelli vermigli di Soul, mentre le dice, con una sicurezza che non può far altro che scacciare ogni paura: “per uno come lui il coma non è niente, se la sta solo prendendo comoda, lo stronzo”.


 
Scarpe veloci sul pavimento, questa volta cercano di fare meno rumore possibile. Si tortura la coda tra le mani, mentre si assicura che l’infermiera che le ha dato il cambio non sia ancora su quel piano. Incontra  Stein, il chirurgo, ma non fa neanche in tempo a salutarlo che lo vede sparire nell'ascensore.
Arriva davanti alla porta, la solita porta, di quella stanza che è diventata, per qualche ragione strana, il luogo in cui più si sente al sicuro. Entra dentro, veloce, sapendo di aver finito da un pezzo il suo orario di lavoro, ma non riuscendo, come ogni sera, a non passare da lui, prima di tornare a casa.
Una volta dentro, finalmente, respira.
Si accomoda sulla seggiola, trascinandola il più vicino possibile al letto. Poi ci ripensa e si siede direttamente al lato del letto, oltre la mano del ragazzo.
“Blackstar” sussurra. Non perché abbia qualcosa da dirgli, per il semplice fatto che le piace pronunciare il suo nome. In oltre, molto spesso, le persone in coma riescono a percepire ciò che succede introno a loro e parlargli può aiutare.
Tsubaki arrotola il suo nome sulla lingua e lo soffia fuori, delicatissima, ogni sera.

Si chiede spesso, quale sia il motivo per cui si sente così legata ad un ragazzo che neanche conosce. Ne segue molti, di pazienti, lui non è l’unico, eppure non può fare a meno di pensare che è solo lì, quando è con lui, che riesce a respirare. C’è qualcosa, in quel ragazzo, che le fa dimenticare ogni pianto, ogni dolore e ogni morte che echeggia tra le mura di quell’ospedale.
A volte si chiede come sia la sua voce. La immagina calma, estremamente melodica, forse bassa.
“Blackstar” pronuncia.
È sicura che abbia un tocco delicato, rassicurante, di qualcuno attento alla fragilità delle cose, delle persone. “Blackstar”.
Poi, per avere degli amici così cari, che lo vengono a trovare ogni giorno, deve essere senza dubbio una persona fantastica. Dolce, se lo immagina dolce, dopotutto si è buttato da un ponte per salvare una bambina.
È strana Tsubaki, perché pensa troppo ad un ragazzo con cui non ha neanche mai parlato, di cui non conosce neanche il colore degli occhi e perché gli sta prendendo la mano e sta provando ad allacciare le loro dita, sicura che possano incastrarsi alla perfezione.
Gli guarda le labbra e sospira, sicura che siano bollenti anche quelle, mentre nella sua testa continua a ripetersi: “quando ti svegli? È da tre stagioni che ti aspetto”.
Non si accorge di averlo detto ad alta voce, no, non lo fa, perché ormai si è alzata, sta ordinando le cose sul comodino (una foto, un pupazzo a forma di giraffa, un manubrio per fare pesi – poco utile – e dei fiori). Si dirige verso la porta, pensando a cosa cucinare quella sera, quando “porcaputtana!” sente, seguito da un tossire.
Si gira, quasi sputa il cuore sul letto. Il ragazzo ha gli occhi aperti – verdi, sono verdi! - , si sta tirando su con il busto, facendo peso sugli avambracci, e sorride, un ghigno così - un misto tra strafottenza e divertimento – non l’ha mai visto.
“Dio mio, ma che tette hai?”
Tsubaki sputa il cuore, lo riacchiappa e lo ricaccia nel petto, deglutendo rumorosamente, mentre quel ragazzo sconosciuto, eppure così vicino a lei, continua a sorridere, vispissimo.
Lei non sa se piangere o stendersi a terra, perché le gira la testa, gira tutto. La voce del ragazzo è altissima, non si preoccupa minimamente di abbassarla.
“Eh?” risponde solo, non riuscendo neanche a respirare, figuriamoci parlare.
Blackstar si strappa i tubi da dosso, scosta il lenzuolo e salta fuori dal letto, stiracchiandosi. Tsubaki lo segue con gli occhi, immobile, chiedendosi se sia davvero stato in coma in quei mesi, perché è impossibile che abbia così tante energie fin da subito.
“Ti ho sentita in tutto questo tempo. Ma non ho mai potuto vederti e, dai…” si avvicina a lei, Tsubaki sta per piangere o urlare, “… non avrei mai pensato che avessi dette tette così!” continua, mimando con le mani le sue curve.
Lo guarda, mentre lui le sorride, vivo come non mai, con addosso solo la vestaglia da ospedale.
Non fa neanche in tempo ad arrossire per quello che le ha detto, perché scoppia a piangere, coprendosi il volto con le mani, al suo “grazie di avermi aspettato, comunque”.
Tsubaki non avrebbe mai pensato che le prime parole di Blackstar sarebbero state quelle. Si aspettava un altro tipo di ritorno al mondo dei vivi, qualcosa di commovente, degno dei mesi in cui ha sognato il suo risveglio, quello che sarebbe stato il loro primo incontro.
Questo Blackstar, che le picchietta la testa imbarazzato, cercando di consolarla, non è per nulla  come lo aveva immaginato.
Se possibile, le piace ancora di più.



 

 





Spazio autrice. Nya.

E a voi, piace ancora di più questo Blackstar? Ci sono tanti pareri contrastanti, perchè un personaggio del genere non piace a tutti, è uno d quelli che o si odia o si ama perdutamente. 
Ho scritto questa storia a sera tarda, senza neanche accorgermi di quanto fosse tardi finchè non l'ho finita (l'ispirazione era troppo forte, adrenalina a mille). Vi confesso che l'ho scritta pregustandomi già il finale; me la ghignavo mentre battevo sulla tastiera. Credo sia un ritorno in scena degno di Blackstar, non c'era altro modo se volevo rispettare il personaggio folle ;)

Spero davvero in qualche recensione, anche da parte dei più silenziosi che leggono, magari mettono tra le ricordate, ma non mi lasciano una parolina. Dai, sono stata brava, ho pubblicato mettendo subito due capitoli! *vuole la caramella*

Grazie comunque, spero continuerete a leggere la raccolta.
Al prossimo aggiornamento!


Un abbraccio
da Sarck

  
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