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Autore: Rorschach D Wolfwood    01/02/2017    3 recensioni
La città dei sogni di qualunque animale, la bellezza, la maschera dietro la quale si cela la verità: un letamaio che non aveva conosciuto nè pietà nè bontà.
Ispirato dal fumetto Blacksad, la storia di una giovane volpe solitaria dal carattere chiuso e senza alcuna speranza in un futuro migliore, un incontro inaspettato, uno spiraglio di luce in una spirale di eventi oscuri.
Genere: Dark, Romantico, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Judy Hopps, Nick Wilde
Note: AU, OOC | Avvertimenti: Furry
Capitoli:
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9- Fiumi di paura che rimandano ad un passato lontano (parte 1)
 
 
Qual'è, secondo voi, un perfetto buongiorno
Un caldo raggio di sole che si posa sul vostro muso colpendovi col suo calore? La zampa della vostra compagna che vi accarezza una guancia e vi sfiora la bocca per baciarvi, rispecchiandosi nei vostri occhi?
Beh, questo solo se non siete me. 
Un perfetto buongiorno, per Nicholas Wilde, era uscire di casa, scendere gli scalini e trovare un gruppo di ragazzini intenti a imbrattare la facciata del palazzo con delle bombolette, scrivendo Qui vive una volpe!
Quattro o cinque cuccioli, due zebre e tre cerbiatti (ai quali ancora non era spuntata nemmeno la punta delle corna), con indosso giacche nere intenti ad atteggiarsi a membri di una gang di chissà quale film di James Deer. Persino un cieco avrebbe potuto notare il disprezzo che riempiva il loro sguardo, mi fissavano come fossi un mostro, un essere di cui sbarazzarsi, qualcosa da chiudere in un sacco della spazzatura.
Feci per avvicinarmi, due di loro alzarono minacciosamente le bombolette con l'intenzione di scaricarmi il contenuto sul muso, e non c'era dubbio, l'avrebbero fatto. I giovani di periferia non hanno di questi problemi, lo sapete. 
Se avessi avuto vent'anni, almeno, sarei balzato in mezzo a loro e avrei scatenato una rissa. Certo, cinque contro uno... 
E se lei mi avesse visto? Cos'avrebbe pensato?
Decisi di lasciar perdere, misi le zampe in tasca e me ne andai per i fatti miei. Avevo cose più importanti da fare quel giorno.
Camminai solitario, come ogni giorno, su un vecchio e rovinato marciapiede calpestato da ogni genere di essere vivente, ma negli ultimi tempi qualcosa stava cambiando: l'episodio dei teppistelli e il muro non era l'unico, altre scritte avevo notato nei giorni precedenti, e tutte con lo stesso significato: messaggi di disprezzo nei confronti dei predatori, frasi diffamatorie, persino contro quei pochi che non avevano mai fatto nulla di male in vita loro, e gli erbivori iniziavano a cambiare. La città era nota per la convivenza tra predatori e prede, ma questi ultimi sembravano diventare giorno dopo giorno più uniti, più diffidenti e meno propensi ad avere contatti con i predatori. Ovunque mi girassi non vedevo altro che gruppetti uniti contro singoli individui, madri che stringevano a sè i propri cuccioli allontanandosi da qualcuno che non aveva la minima intenzione malvagia, e che magari non li aveva nemmeno notati.
C'era anche chi sosteneva che stessero nascendo gruppi di pseudo vigilanti notturni, con l'intento di pattugliare le strade e intervenire laddove la polizia non riusciva.
Le azioni del Cacciapredatori stavano lasciando una traccia indelebile che presagiva l'arrivo di una tempesta, della quale stavamo vivendo solo una momentanea e delicatissima quiete.
 
 
Non avevo tempo da perdere con quelle sciocchezze, quella mattina; mi dissi che se per anni ero riuscito a sopportare ciò che, per me, era all'ordine del giorno, le futili minacce di qualche marmocchio non dovevano avere alcun effetto. Ero abituato ormai a farmi scivolare tutto di dosso.
Un breve viaggio in treno mi portò a Tundratown. Sceso dal treno, trovai Vladimir, uno degli orsi di Mr. Big, ad aspettarmi, salii in macchina e mi feci accompagnare a casa del loro capo. Non mi ero mai soffermato più di tanto ad osservare la città, ma durante il viaggio in macchina, non feci altro che tenere lo sguardo incollato al finestrino; Tundratown dava l'impressione di una città sospesa nel tempo, ogni palazzo, ogni insegna, le luci al neon, l'atmosfera, tutto dava l'impressione di trovarsi in una città anni '50, persino il modo di vestire di alcuni cittadini. Malgrado fossimo in un clima festivo, la neve che ricopriva le strade non accentuava minimamente l'atmosfera natalizia. Il clima che stavamo vivendo era tutt'altro che allegro.
Mr. Big viveva in una villa in stile Ottocento, non proprio enorme ma neanche modesta, circondata da un piccolo parco. Arrivati alla villa, mi recai nel suo studio. Mi salutò con il solito fare affettivo e mi invitò a sedere. Non fu difficile notare l'aria di preoccupazione che lo circondava. 
"Hai notato niente per le strade, ultimamente, Nick?" mi chiese.
"Ad esempio l'ondata di diffidenza che sta riempiendo le strade come un fiume in piena?"
"Non è solo diffidenza, Nick" sentenziò sospirando " E' paura! Gli eventi degli ultimi mesi si rispecchiano sempre più negli abitanti di Zootropolis. Se prima era semplice diffidenza, ora è qualcosa di molto peggio..."
"Dove sarebbe la novità?" chiesi sarcasticamente "Quand'è stata l'ultima volta che ha visto un'antilope e una iena conversare amichevolmente, Mr. Big?"
Mr. Big si accese un sigaro e lo fumò con fare nostalgico. Mi disse che, quando era giovane, a Zootropolis c'era molta più tolleranza tra gli abitanti e il motto per cui era conosciuta valeva davvero, rispetto ad oggi. Non sapevo se credere o no a quelle parole; pensavo sarcasticamente che fosse cresciuto in una Zootropolis diversa dalla mia, in un universo più colorato e allegro, magari, dove gli animali cantano e ballano.
Nella nostra Zootropolis, invece, per ascoltare qualcuno cantare si entrava in un night club, sedersi al bancone e aspettare che, sul palco, si presentasse qualche giovane felina in abito rosso che iniziasse a cantare, mentre tu stringevi un bicchiere pieno di un qualsiasi alcolico nella zampa.
Mr. Big intuì il mio scetticismo, ma non andò oltre nel rivangare il passato. 
"Ti ho fatto venire, Nick, perchè devo avvertirti.." 
"Avvertirmi di cosa?"
"Tu conosci tutti, in questa città, ma qualcosa può sempre sfuggirti. Immagino avrai sentito parlare di quei gruppi che vagano in città durante la notte" disse alzandosi e dirigendosi verso la finestra, alla quale io davo le spalle.
"Certo, quei branchi di fanatici che credono di arrivare dove la polizia non può. E allora?" chiesi leggermente spazientito. Mr. Big stata inconsapevolmente donando alle sue parole un alone di mistero che iniziava ad infastidirmi. Volevo sapere cosa aveva da dirmi. Subito!
"Esattamente" proseguì  "Scommetto, però, che non sai cos'è successo ad un tuo vecchio amico: ti ricordi di Joe Thibtanus?"
"Quel vecchio orso con la macchia bianca sul petto? Come faccio a non ricordarmene.."
" E' stato ucciso!"
Un profondo e inquietante silenzio calò nella mia mente, un improvviso blackout che oscurò qualsiasi mio pensiero, impedendomi di formularne uno nuovo. Tutto ciò che riuscii a fare fu portarmi una zampa sulla fronte, mentre il mio sguardo cadde a terra.
"C-come.. come è successo?"
" E' successo due sere fa, dopo che aveva lasciato il suo locale preferito. Era ubriaco, per non dire drogato, e non ha voluto saperne di farsi accompagnare, da nessuno, ha preferito tornare a casa da solo, a piedi"
"Razza di scemo.." commentai io.
"Sarà riuscito a percorrere appena pochi isolati prima di incrociare uno di quei gruppi: erano almeno una decina di erbivori, e appena l'hanno visto si sono accaniti su di lui. Lo hanno riempito di botte, con le spranghe di ferro, e gli hanno rotto le zampe. Quel poveraccio ha trovato la pace solo quando... Gli hanno sparato in testa..."
I miei occhi si persero in un improvviso vuoto, una imperscrutabile nebbia si addensò nel mio cervello, mentre le parole di Mr. Big penetrarono dolorosamente nelle mie orecchie; l'unica cosa in grado di squarciare quella nebbia e raggiungere il centro del cervello per colpirlo come migliaia di martelli pneumatici, nel tentativo di perforarlo e impiantare ulteriormente parole che si erano già scolpite a fondo dentro di me.
Premetti i polpastrelli contro le tempie mormorando fra me e me Basta! Finitela! Andatevene via!  ma il rumore si faceva sempre più assordante. Finchè non riuscii, a fatica, a spiccicare qualche parola.
"Ma perchè..?" 
"Paura, Nick. Sono animali spaventati. Creature i cui cuori sono stati calpestati dalla forza di quell'assassino" sentenziò Mr. Big spegnendo il sigaro "Dicono di voler scovare quel mostro, ma è solo apparenza: io temo che il loro vero obiettivo sia eliminare i predatori! 
Sono un gruppo di fanatici spaventati che credono che, aiutandolo, debelleranno un male che li affligge"
- Un male che li affligge. E' dunque così che vedono i predatori. Sapevo che non godevamo della loro simpatia, ma addirittura un male... Una pestilenza!
"Ma... Lei come fa a conoscere Joe?"
"Dimentichi che io ho un mucchio di uccellini, Nick. Informatori. So tutto di tutti, anche più di te. E se le cose non miglioreranno, temo che questa città conoscerà presto la sua fine..." mormorò Mr. Big.
Sentii il bisogno di andarmene, di abbandonare quel posto. Dovevo starmene da solo, riuscire a riprendere fiato, pensare a qualcosa, a come avrei affrontato tutto questo. Non mi scusai. Sapevo che Mr. Big avrebbe capito.
Feci appena un passo dopo aver varcato la soia dell'ufficio, diretto all'uscita, quando Mr. Big mi fermò. 
"Nick" il suo tono era preoccupato, ansioso ma allo stesso tempo estremamente paterno, più paterno di quanto non ebbi mai sentito in vita mia "Ti prego di fare attenzione, figliolo"
Io non risposi. Avrei voluto rassicurarlo, ma forse, in cuor mio, sapevo che non sarei andato molto lontano. Insomma, era solo questione di tempo prima di fare la stessa fine di Joe.
"Io posso darti aiuto, protezione" continuò "Rimani qui con me, nessuno ti toccherà con una sola zampa!"
"Credo di essere pronto da tempo, ormai, Mr. Big" sussurrai "Non ho nulla per cui continuare a vivere, da molto tempo"
"E quella coniglietta? Lei non conta nulla?"
 
                                              
                                                Judy...
 
 
 
 
L'infinita distesa azzurra limpida che sovrasta la terra fin dall'alba dei tempi si coprì di nuvole cupe che riversarono la propria tristezza sulla città. In una manciata di secondi, i marciapiedi e gli animali furono bersagliati da proiettili d'acqua che facevano scivolare tutta la sporcizia giù nelle grate, fin nella puzzolente oscurità delle fogne. Qualcuno apriva l'ombrello, qualcuno camminava come se la pioggia non esistesse. E io che credevo di essere l'unico a fare così. La pioggia non mi ha mai dato alcun fastidio, era da sempre qualcosa di familiare per me; d'altronde, quando cresci con la pioggia e il freddo nel cuore, ad un certo punto non ci fai più caso, no?
La metropolitana mi attendeva. Un posto in particolare mi attendeva!
 
La mia fermata fu una zona periferica della parte sud della città, non molto distante da Piazza Sahara. Uscito dalla metro camminai per qualche centinaia di metri, fino a ritrovarmi in un grande spiazzo circondato da erba alta, due grandi salici e il letto di un fiume ora prosciugato che divideva in due lo spiazzo, con un ponticello di pietra che conduceva dall'altra parte; al centro, un vecchio zuccherificio abbandonato da anni, con a fianco un capannone anch'esso in disuso da anni. Nonostante la pioggia, si percepiva nell'aria una parte del caldo clima della vicina Piazza. Lo sguardo cadde quasi meccanicamente sul cartellone in legno consumato recante la scritta Zuccherificio Thibtanus, con un amaro sorriso, il muso solcato dalla pioggia e qualche lacrima che si mimetizzava tra le altre gocce (per fortuna, avrei odiato se qualcuno mi avesse visto in quel momento, ma quando ti assalgono i ricordi...)
Lo zuccherificio era stato fondato dal nonno di Joe chissà quanti anni fa, all'epoca in cui un'attività o una fabbrica era un testimone che, al momento giusto, veniva ceduto al successore. Il nonno, orso tibetano come lui molto facoltoso già prima di fondare la fabbica, forse uno degli animali più ricchi di Zootropolis, la lasciò in eredità al figlio, ovvero il padre di Joe, che avrebbe dovuto ereditarla al momento della sua morte. Ma nel pieno della nostra giovinezza, invece di dedicarsi ad imparare il mestiere e il necessario per controllare un'attività, Joe passava tutti i pomeriggi con me, letteralmente a spasso per la città, prima di conoscere Finnick.
 
Mio padre se n'era andato di casa da cinque anni e io ero mi stavo immergendo sempre più nel sentiero della solitudine e della menzogna. Bazzicavo per le strade con il pensiero di mia madre, sola in casa tutto il giorno, senza sapere cosa io facessi, dove mi recassi. Rifiutava di usare i soldi che portavo a casa, preferendo trovarsi un lavoro degradante in locali sempre più squallidi. Intuivo perfettamente che sapeva tutto, per questo non voleva abbassarsi al mio stesso livello. E io la capivo. Fu in quel periodo che conobbi Joe; raggiunsi lo zuccherificio durante una delle mie solite passeggiate senza meta, dopo aver deciso di fare un salto dalle parti di Piazza Sahara, passando l'intero viaggio sdraiato sui sedili della metro, impedendo a chiunque di sedersi.
Un caldo vento mi colpiva ad ogni passo ed accarezzava dolcemente i salici, così come l'erba alta che circondava il sentiero che conduceva al ponte e alla fabbrica, mentre il fiume scorreva silenzioso nel proprio letto, facendo da innocuo spettatore. In lontananza si potevano scorgere alcuni palazzi di Piazza Sahara, ma non ero interessato a recarmici, per il momento; il sole picchiava alto, al centro del cielo, decisi di sdraiarmi sotto il salice più vicino al ponte e rilassarmi per godermi quella tranquillità che non mi sembrava di sentire più da tempo. Chiusi gli occhi quasi subito. Per un istante mi sentii di nuovo un innocente cucciolo cullato dal dolce tocco della propria madre, la stessa che ti  rassicura quando in piena notte sobbalzi spaventato da pensiero dei mostri nascosti sotto il letto, con la capacità ineguagliabile di trasformarti da un discolo inarrestabile ad un innocente santarellino con un semplice abbraccio e un bacio sulla fronte. 
- E ora quel legame si sta piano piano sciogliendo...- 
A riportarmi alla realtà furono improvvise urla e motori di moto che si dirigevano verso di me. Dal ponticello sbucò un giovane orso dalla pelliccia nera, cicciottello ma veloce come un ghepardo, con indosso un maglione rosso sotto il quale sembrava nascondere qualcosa. Fulmineo, trovò il tempo di voltarsi verso di me e farmi cenno di stare zitto, per poi nascondersi sotto il ponte (con metà corpo nell'acqua!). Lo osservai perplesso, ma non molto dopo si palesò il motivo di quella foga: quattro cavalli motociclisti vestiti da tipici bulletti anni '50, con giacca di eco pelle nera, jeans e criniera pettinata si avvicinarono al ponte, avevano almeno sedici o diciassette anni. Si guardarono intorno, poi il loro capo, un giovane cavallo bianco con macchie nere puntò l'attenzione verso di me. 
"Ehi tu, volpe!" tuonò.
Pensai inizialmente di fare il vago ma non sarebbe servito a nulla, ormai mi avevano inquadrato. Scese dalla moto e camminò fino a metà ponte, con lo sguardo tipico di uno a cui giravano tremendamente le palle.
"Hai visto passare un orso da queste parti?" mi chiese spazientito. Quell'orso probabilmente era riuscito a fregare qualcosa a quegli aspiranti ribelli da film, e l'idea di prenderli ulteriormente in giro mi stuzzicava non poco; li indirizzai in tutt'altra direzione, e per quanto strano possa sembrare mi credettero! 
Quando sparirono all'orizzonte, l'orso sbucò da sotto il ponte sghignazzando come un pazzo per come fosse andata la cosa, camminando verso di me.
"Ehi, amico" disse poggiandosi contro la corteccia del salice "Grazie per avermi coperto! Sei stato grandioso! Li abbiamo gabbati!"
"Abbiamo?" chiesi spaesato.
"Beh, certo! Se non fosse stato per il tuo aiuto non sarei riuscito a sfuggirgli" affermò sorridendo. Ammetto che inizialmente mi tenni un po' sulla difensiva. Nessuno mi aveva ancora dato tutta quella confidenza, nè mi aveva parlato con simile tranquillità. Ricordiamoci che io ero, e sono, una volpe!
Poggiatosi contro la corteccia, sollevò il maglione e un mucchio di mele rosse caddero sull'erba. Erano il bottino che aveva sgraffignato alla banda.
" E' stata una vera impresa prenderle!" affermò "Arrampicarsi su un albero e prenderle una ad una silenziosamente non è facile, soprattutto se sei grosso come me!" 
Entrambi scoppiammo a ridere, poi ci sedemmo nuovamente all'ombra del salice e lui mi offrì una mela, ma io inizialmente esitai ad accettarla. Joe aveva senza dubbio notato il mio nervosismo.
"Non... Non ti da fastidio dividerla con una... Volpe ?"
"E dove sarebbe il problema, scusa?" 
Basito. Era la prima volta che qualcuno aveva pronunciato quelle parole nei miei confronti. Per la prima volta, a qualcuno sembravo andar bene per quello che ero. 
"Io sono un orso" continuò lui "Non godo certo di una reputazione più colorita!" 
"Davvero? Perchè?" gli chiesi io, giocherellando con la mela.
"Perchè è risaputo quanto noi orsi siamo tremendamente golosi! E queste mele rosse, poi... Il cibo perfetto da sottrarre ad un cavallo!" 
Cedette  infine all'impulso di divorare, con appena un paio di morsi, la mela che da qualche minuto stringeva tra gli artigli, e che continuava a fissare sbavando. Al solo vederlo mangiare così di gusto, mi convinsi anch'io: avvicinai la mela alla bocca e diedi un morso: una danza di sapore, gusto e dolcezza colpì le mie papille gustative come mai prima di allora. Un solo morso bastò a convincermi a divorarne il resto freneticamente, come un predatore che divora la preda con lo stomaco vuoto per la fame. Ok, forse non era il paragone migliore...
Ci guardammo entrambi con l'acquolina in bocca, e in men che non si dica, le nostre fauci si riempirono di mele, più di quante potessero contenerne. Eppure non avevano nulla di diverso dalle comuni mele rosse. Forse, era il fatto di condividerle con qualcuno che le rendeva così buone.
Un momento di complicità che solo una cosa riuscì a rovinare: il ritorno dei puledroni motociclisti.
Il loro capo sbucò da dietro l'albero, pericolosamente vicino a me, altri due afferrarono Joe e ci scaraventarono violentemente a terra, fuori dall'ombra proiettata dal salice. 
"Lo sapevo che facevo bene a non fidarmi di una volpe!" disse il capo, scrocchiandosi le dita "Ve lo dicevo che avremmo fatto meglio a tornare indietro, ragazzi!" 
I suoi compagni non smettevano di sghignazzare, pregustando il momento in cui ci avrebbero riempito di botte.
"Wow, stallone" dissi con tono provocatorio "Sei stato così sveglio da intuire che stavo mentendo, ma non lo sei stato abbastanza da evitare di farti fregare ben due volte da due ragazzini!" 
Con la coda dell'occhio vidi Joe tentare di trattenere una risata. Essa non fu però sufficiente a nascondere il ringhio di rabbia del capo stallone, tant'è che, non molto dopo, lui e i suoi amici ci furono addosso. 
Solo quando ne ebbero abbastanza, ovvero dopo averci riempito di lividi, tra calci e pugni, si decisero a lasciarci stare. Non presero nemmeno quel poco che restava delle mele, considerandole infette perchè toccate da due patetici ladri. 
"Spero che la lezione vi sia bastata! E guai a te se osi mettere di nuovo piede nel nostro frutteto, palla di pelo e lardo!"
Dopo essersi rivolto con simili termini a Joe, il capo e la sua banda tornarono da dove erano venuti, lasciandoci a terra, poco lontani dalla riva del fiume. 
La cosa buffa era che nè io nè Joe stavamo piangendo o ci stavamo lamentando per il dolore; ridevamo di gusto. Trovammo sollievo dal dolore nel pensiero di essere riusciti, in ogni caso, a fregare dei teppisti più grandi di noi.
Fu quello il momento in cui ci presentammo.
"Io sono Joe, Joe Thibtanus, amico"
"Io mi chiamo Nicholas Wilde...Amico!" (Non vi dico quale shock fu per la famiglia di Joe quando ci presentammo a casa sua pieni di lividi!).
Da allora, io e Joe diventammo inseparabili. Se prima mi aggiravo per le strade di Zootropolis da solo, progettando scherzi e truffe e guardando chiunque con disprezzo (ma soprattutto invidia), ora avevo finalmente qualcuno con cui condividere e riempire quei momenti solitari e vuoti. Joe era un amico grandioso, uno specchio nel quale vedere il mio riflesso, qualcuno di cui non avere paura. Ci piaceva girare per la città atteggiandoci a fighi, cercando di attirare l'attenzione di chiunque, volevamo farci notare, soprattutto dalle femmine. Spesso compravamo maglie aderenti e di una taglia più piccola, facendo finta di essere due machi con magliette troppo strette per i loro muscoli. Qualche volta funzionava anche. Fu così che rimediammo le nostre prime compagne (e la nostra prima volta!). 
Eravamo entrambi divoratori accaniti di film, avevamo gli stessi attori preferiti, Sylvester LoStallone e B. J. Horseman, e non perdevamo un solo appuntamento al cinema con loro . Inoltre, Joe divenne il mio primo compagno di truffe, molte delle quali mi diedero idee per diversi trucchi che, fra qualche anno, avrei attuato insieme a Finnick.
Era strano in effetti, perchè Joe non aveva affatto bisogno di soldi: la sua famiglia possedeva una fabbrica, il nonno aveva lasciato al padre una bella eredità, ma a lui non interessava. Definiva sempre quella vita "una vera palla!"
Ovviamente questo lo portò a numerosi conflitti con il padre e il nonno, spingendoli quasi a diseredarlo. 
Più volte tornammo nel luogo del nostro primo incontro, lo spiazzo sul quale sorgeva la fabbrica, sempre durante gli orari di lavoro, in modo che nessuno ci vedesse, e osservando curiosamente verso la fabbrica gli chiedevo perchè non volesse diventarne capo. 
"Io darei qualunque cosa per essere come te, Joe" dicevo malinconicamente "Avrei un futuro assicurato, un mucchio di soldi, non dovrei lottare girovagando in strada alla stregua di un vagabondo per sopravvivere. E magari, in questo modo, riuscirei anche ad aiutare mia madre..."
"Si, ma poi?" 
"Poi cosa?"
"Cosa saresti una volta ottenuti quei soldi, Nick? Migliore? No, non credo proprio. Piano piano diventeresti una creatura sempre più solitaria, vuota, ossessionata dall'idea di accumulare sempre più ricchezza tanto da ricordarti di avere un figlio solo per crescerlo come una macchina, per poi passargli una responsabilità come fosse un semplice testimone che si passano gli atleti durante le corse..." 
Rivedevo sempre una parte di me stesso in quelle parole, ecco perchè consideravo Joe il mio riflesso; entrambi trascurati dai nostri padri, anche se per motivi diversi. Praticamente orfani (di padre).
"Io voglio solo divertirmi, Nick" affermava  "Non voglio stare chiuso tutto il giorno in ufficio a blaterare con animali che nemmeno conosco. Magari diventerò un libero vagabondo!"
"U- un vagabondo?"
"Se ci pensi, la vita del vagabondo non è detto che sia orribile. Si, non sarà facilissima ma almeno non hai restrizioni, puoi non devi sottostare a nessuno e puoi viaggiare e vedere i posti che più ti piacciono!
Tu non hai un sogno da realizzare, Nick?"
"Ehm... L'avevo, ma credo che non sarei mai riuscito a realizzarlo. Io... Volevo diventare la prima volpe poliziotto di Zootropolis!"
Non so d quanto tempo non riaprivo il cassetto della mia mente nel quale avevo riposto quel desiderio, per vergogna e imbarazzo. 
"Avrei voluto aiutare Zootropolis a diventare migliore, evitando qualsiasi tipo di corruzione. Ma immagino che ormai sia troppo tardi..."
"Beh Nick, i sogni non svaniscono finchè le persone non li abbandonano!"
"E questa da dove l'hai tirata fuori?"
"Da un fumetto che parla di un pirata dello spazio!"  
Nessuno di noi due, all'epoca, avrebbe immaginato che quei pomeriggi passati a ridere delle citazioni fumettistiche di Joe sarebbero svaniti.
 
Due anni dopo, mia madre morì. 
Le mura di casa mia, d'ora in poi, avrebbero visto una sola volpe calpestare il pavimento, abbandonarsi sul divano e guardare fuori dalla finestra. Se la fortuna mi avesse assistito, avrebbero potuto vedere una giovane volpe che si divertiva insieme ad un orso, mentre la madre, seppur stanca, li osservava felice. 
Quelle mura non videro nulla di tutto ciò. 
Poco prima della morte di mia madre, qualcosa cambiò in Joe. Lui stava cambiando. Iniziò a frequentare discutibili compagnie, gruppi di sciacalli e iene che si riunivano nei vicoli dei bar e locali più disastrati, e lì, nascosti ad occhi indesiderati, i loro nasi risucchiavano quantità immonde di polvere bianca, fino a ricoprirne l'intero naso. Finirono più di una volta dietro le sbarre, per giunta.
Spesso invitavano anche me, ma non ebbi mai il coraggio di provare. Mi bastava vedere come ne uscivano gli altri per capire che mai mi sarei abbassato a tanto. Avrei preferito diventare un alcolizzato, piuttosto.
Finchè una sera, tutto degenerò: Joe esagerò così tanto , tra il bere e il drogarsi, da importunare ogni cliente di un locale, fino a scatenare una rissa con chiunque provasse a fermarlo. Ci buttarono fuori e ci intimarono di non tornare mai più. 
Persino i pali della luce, se avessero avuto una coscienza, si sarebbero vergognati per lui nel vederlo barcollare e sbraitare a vuoto, sputando insulti come se avesse davanti qualcuno, ma davanti a noi si estendevano solo le strade notturne del quartiere. Quei pochi che ci incrociavano si allontanavano immediatamente. 
Arrivammo ad un incrocio. Svoltando a destra mi sarei diretto a casa. 
"Ehi, dove stai andando?!" 
"Da- da nessuna parte, Joe"
Joe avanzò verso di me, sostenendosi contro un muretto per non cadere, indicandomi minacciosamente con un artiglio "Non dire stronzate, Wilde! Te ne stai andando!"
"Che cazzo stai dicendo, Joe? Sono davanti a te!"
"Non alzare la voce con me!" . Io non alzai la voce, ma lui alzò il pugno e lo scagliò contro di me, ma riuscii ad evitarlo. 
"Che cazzo stai facendo?" gli urlai, ma lui non sentiva ragioni, continuava a cercare di colpirmi, fino a riuscirci. Mi assestò un pugno talmente potente alla mascella da stendermi a terra, contro il lerciume del marciapiede.
Mi rialzai lentamente, massaggiandomi la mascella per alleviare il dolore. Davanti a me non c'era più Joe Thibtanus, ma solo un dannato orso nero dal sangue e il cervello completamente fottuti, con gli occhi talmente annebbiati che Dio solo sapeva cos vedesse invece di me. 
Non accennò a calmarsi, si accanì su di me borbottando cose incomprensibili, ma d'altronde non ebbi il tempo di comprenderlo, troppo occupato com'ero a non farmi colpire. Ma la mia risposta non poteva farsi attendere più di tanto; a malincuore dovetti rispondere ai colpi, e in poco tempo demmo vita ad un'altra rissa. 
Il marciapiede accolse su di sè le gocce di sangue che entrambi sputavamo, ma probabilmente ciò che accolse maggiormente furono le mie lacrime.
"Che diavolo ti è successo, Joe?" continuavo a chiedergli, con tutta la tristezza che provavo in quel momento "Questo non sei tu!"
"Tu che cazzo ne sai, Wilde?" tuonò lui tra un pugno e l'altro "E se fosse questo il vero me?"
"Non ci credo! Non ti sei mai comportato così! Tu non sei uno zombie imbottito di merda, sei un cazzone allegro e spensierato, un perdi giorno come me!" urlando quella parole, il mio pugno colpì il suo mento, spinto da un mix di rabbia, tristezza e consapevolezza. Consapevolezza che quello che avevo davanti era un animale diverso, ormai. 
Joe cadde a terra, battendo violentemente la testa contro il marciapiede. 
"Come hai potuto pensare che me ne stessi andando? In questi ultimi due anni sono sempre rimasto con te, non ti ho abbandonato una sola volta, nonostante abbia assistito alla tua caduta!"
Joe si riprese, si mise seduto, pulendosi con la manica il sangue che colava dal labbro. " E' proprio per via di questo che vuoi lasciarmi perdere!"
"Cosa?"
"Non negarlo, Nick! Credi che non l'abbia capito? Non vuoi più stare in mia compagnia perchè hai visto come mi sono ridotto. E mi hai lasciato solo ogni volta che mi hanno sbattuto in galera! Beh sai che ti dico? Io mi sento libero!" sputò quelle parole come un respiro trattenuto troppo a lungo " E' la libertà di cui ti ho sempre parlato, quella che mi ha permesso di allontanarmi da quella pidocchiosa famiglia!"
"Questa non è libertà, ti stai solo distruggendo con le tue stesse zampe!"
"Esatto! Sono libero di fare quello che più mi pare!"
Lo guardai, tentai di scrutare un piccolo accenno di lucidità, un'ombra dell'amico che avevo conosciuto, ma di lui nemmeno l'ombra era rimasta. Tutto quello che diceva o faceva non aveva senso.
"Sai qual'è il vero motivo per cui ho deciso di lasciarti perdere, Joe? Ti sei completamente scordato di me proprio nel momento in cui avevo più bisogno di qualcuno accanto! Quando è morta mia madre! E' molto peggio che ritrovarsi dietro le sbarre per tutti i casini che hai combinato di tua spontanea volontà! TU mi hai lasciato da solo!"
"Vorresti delle scuse, non è così? Io te le farei, ma ho finalmente capito come funziona in questa città, Nick. Per sopravvivere, per andare avanti ed essere te stesso bisogna essere egoisti..." sentenziò. Erano parole che non avrei mai voluto sentire da parte di un amico.
"Tu non hai capito niente!" sussurrai io "Sei solo un povero stronzo con il cervello completamente fottuto..."
Ma forse aveva ragione. Nel delirio mentale provocatogli dal matrimonio perfetto tra alcool e droga, Joe aveva detto qualcosa di giusto. Dovevo essere egoista, pensare solo a me. 
E il primo passo, fu quello di dargli le spalle e andarmene, per la mia strada, e lasciarlo lì, a terra, tra flebili singhiozzi dettati da una probabile, ma forse mera, presa di coscienza.
 
Tutto era iniziato con una rissa, e con una rissa era finito.
 
 
 
Le luci soffuse, di vari colori, si alternavano in modo del tutto casuale, accompagnate dalla musica e le urla/chiacchiere dei clienti seduti ai tavoli, intenti nelle più svariate attività, fumare, bere, vomitare, giocare a carte. Il palco era vuoto, l'unica presenza era l'asta del microfono, silenziosa e solitaria, che osservava un panorama visto e rivisto chissà quante volte, in attesa che qualcuno prendesse il microfono tra le zampe e iniziasse a cantare. 
Il locale era abbastanza grande da contenere tutto quel casino di gente: era di forma circolare, con al centro un numero imprecisato di tavoli rotondi e lunghi, con diversi posti a sedere, in fondo, affiancato da uno squallido cesso, un bancone, piattaforma perfetta per un'esposizione di bottiglie, cenere fuori dal posa cenere, cartacce varie e teste di animali ubriachi e addormentati. La perfetta galleria d'arte che qualsiasi ubriacone adorerebbe.
Di fronte al bancone, in fondo, oltre il mare di tavoli, il già citato palcoscenico. 
Non era difficile, da qualche sera, notarmi seduto al bancone, intento a gustare degli alcolici degni di tale nome, non la schifosa poltiglia che circolava nella mia zona! 
Il ricordo di Joe aveva abbandonato la mia mente, eppure la sensazione di solitudine continuava a permeare attorno a me. Sentivo che qualcosa mi mancava. O qualcuno. 
D'un tratto, le luci si spensero, e una luce bianca illuminò il palco: il sipario si aprì, e ne uscì una leonessa bianca, una regina d'avorio con un lungo vestito bianco, un muso delicato e due magnetici occhi blu. 
Il casino cessò. Ella prese il microfono e intonò una melodia malinconica, che lentamente riempì l'intero locale più dell'insolito silenzio appena calato. La voce calda ed estremamente dolce ammaliò ogni singolo animale presente, tutti gli occhi erano puntati su di lei, sulla sua morbida pelliccia bianca, sui penetranti occhi blu, sul piccolo seno a cui stringeva il microfono, mentre avanzava lentamente tra i tavoli. 
Si avvicinò al bancone, dritta verso di me, ma per tutta la strada che ci separava, nonostante i miei occhi fossero incollati a lei, io non vedevo una candida leonessa, ma una piccola coniglietta dal manto splendente come l'argento, con una voce unica, semplicemente unica, e due occhi ancor più magnetici dell'azzurro più intenso che si sia mai visto in questo mondo. Una coniglietta che mi cercava con lo sguardo, e quando finalmente mi trovò, mi accarezzò il mento, con gli occhi che sembravano volermi parlare. Accecato da quella meravigliosa fantasia chiusi i miei occhi verdi, respirai profondamente, e mi lasciai sfiorare da quelle piccole e morbide dita. 
Tornai alla realtà solo quando vidi la leonessa allontanarsi verso il palco, e la voce da sirena farsi più debole, finchè, una volta tornata sul palco, sparì dietro il sipario. Un assordante applauso si levò in tutto il locale, un applauso che coprì ogni parola che sussurrai, o meglio il solo nome che sussurrai: Judy.
Passai l'intero tragitto dal locale a casa a chiedermi come sarebbe stato passare un Natale diverso, in compagnia di qualcuno che non fosse Finnick, qualcuno di speciale. Qualcuno a cui avevo tentato di far intuire ciò che sentivo dentro, con un piccolo regalo.
" l'avrà aperto? non l'avrà aperto? l'avrà accettato?" divenne la nuova paranoia che martellò il mio povero cervello, che se avesse potuto, avrebbe aperto il mio cranio dall'interno e sarebbe scappato via, stanco delle innumerevoli domande, titubanze, paure che il mio cuore gli trasmetteva. Forse avrebbe potuto funzionare. Forse avrei potuto propormi a lei. Quanto mancava alla Vigilia? Un giorno appena. In fondo non avevo nulla da perdere, nel peggiore dei casi avrei rimediato una delusione, l'ennesima della mia vita, ma non ero estraneo alle delusioni. Avrei perso qualche pezzo di cuore infranto, ma se non avessi provato me ne sarei pentito per tutta la vita. 
"Lo farò!" esclamai.
 
Era ancora presto per tornare a casa. Girai quartieri e strade completamente a caso, senza una meta. Un venticello freddo sibilava per le strade. Il silenzio intorno a me. Finchè da dietro un vicolo, dei fasci di luce si agitavano freneticamente. Non riuscii a capirne il numero, ma dovevano essere tanti. Non molto dopo, dal vicolo sbucò un manipolo di cervi, cinghiali e bisonti armati di spranghe di ferro e mazze da baseball. 
Mi videro.
"Oh, merda!" 
"Una volpe!" fu il grido che scatenò l'inseguimento. Fossero stati due o tre sarei riuscito a cavarmela, ma erano in troppi, mi costrinsero alla fuga. 
Corsi alla cieca tra vicoli e strade, tentando di raggiungere la metro più vicina; con un po' di fortuna avrei preso il treno e sarei riuscito a scappare.
Uscito dall'ennesimo vicolo, vidi in lontananza le scale che portavano alla metro. Ce l'ho fatta pensai, ma qualcosa mi cadde addosso e mi buttò a terra: un cinghiale, il più corpulento a giudicare dal peso, si era lanciato e mi aveva bloccato. Prima che potessi pronunciare mezza sillaba, mi furono tutti addosso. Il rumore metallico delle spranghe contro la mia testa mi spaccò i timpani, calci e pugni rischiarono di disintegrarmi lo stomaco. Il sangue si riversò sul marciapiede. 
E' la fine pensai, non ce l'avrei fatta. 
Non so precisamente quando e come riuscii a sentire le sirene della polizia avvicinarsi, e gli agenti urlare a tutti di alzare le zampe e non muovere un muscolo. Forse perchè, tra tutte quelle voci, c'era proprio la sua.
"Oddio, Nick!" 
Mi stava chiamando. 
"Nick, ti prego, rispondimi!" 
La voce continuava a chiamarmi a sè. Quegli occhi gonfi di lacrime mi pregavano di parlarle. Le piccole zampe stavano pulendo il mio muso dal sangue.
"Non avrei mai voluto... Che tu mi vedessi in questo stato...Carotina"
 
Persi conoscenza. 
   
 
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