Crossover
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Autore: Registe    01/02/2017    4 recensioni
Tredici guardiani. Tredici custodi del sapere.
Da sempre lo scopo dell'Organizzazione è proteggere e difendere il Castello dell'Oblio ed i suoi segreti dalle minacce di chi vorrebbe impadronirsene. Ma il Superiore ignora che il pericolo più grande si annida proprio tra quelle mura immacolate.
Questa storia può essere letta come un racconto autonomo o come prologo della serie "Il Ramingo e lo Stregone".
[fandom principale Kingdom Hearts; nelle storie successive lo spettro si allargherà notevolmente]
Genere: Fantasy, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Anime/Manga, Videogiochi
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Il Ramingo e lo Stregone'
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Capitolo 1 - Lumaria





Lumaria





La coltre di fumo aveva inghiottito le stelle. Si sollevava in spirali sonnacchiose, stiracchiandosi come infastidita dalla luce cruda dei bagliori dell’incendio. La puzza di bruciato aveva inseguito Lumaria per chilometri, fin nel folto della foresta, più rapida persino degli zoccoli dei suoi inseguitori.
Il principe accelerò il passo malgrado fosse ormai allo stremo delle forze. Se lui riusciva a distinguere il profilo di ogni foglia nella notte arrossata dalle fiamme, sicuramente lo stesso valeva per quei bastardi dei Durlyn. Ignorò il fiato corto nei polmoni e l’odore acre della cenere, strinse i denti contro le fitte dolorose alla milza. Mettere un piede avanti all’altro, solo quello contava. Fermarsi equivaleva a morire.
Cadde, senza nemmeno accorgersi di cosa lo avesse fatto inciampare. Una radice sporgente, una buca nascosta, forse solo la spossatezza di una corsa durata ore. Seppe solo che non era più capace di alzarsi, e rimase lì, a faccia in giù nella polvere come un contadino ubriaco qualunque, lasciando che le lacrime di rabbia si mescolassero al terriccio già bagnato dall’umidità della notte. Lontano, il crepitio delle fiamme stese il suo velo funebre sulla foresta.
Era finita. Continuare a correre, nascondersi, e per cosa? Un contadino ubriaco almeno ha il proprio campicello striminzito a cui tornare, ma un principe è meno dei vermi della terra senza il proprio castello, le proprie terre e la fedeltà dei suoi feudatari. In una sola notte, l’antico e glorioso casato dei Dayel era precipitato dall’incenso degli altari alla polvere dell’oblio.
Ora poteva sentire la terra vibrare impercettibilmente sotto l’orecchio e i palmi delle mani. Zoccoli. I Durlyn stavano arrivando.
Neppure il pensiero della morte imminente servì a smuovere Lumaria. Venivano a finire il lavoro, e probabilmente una volta abbattuto lui avrebbero potuto festeggiare davvero. Era sicuro di essere rimasto l’ultimo.
Lo avevano sorpreso sveglio per puro caso. Normalmente lasciava che fosse il suo attendente a occuparsi della corrispondenza, ma le proposte di matrimonio erano una questione a parte e meritavano la sua completa e personale attenzione. Gli sembrava irreale che solo un paio di ore prima fosse comodamente seduto al suo scrittorio di mogano a ponderare se fosse più vantaggiosa l’ingente dote di lady Lereyna dei Sartaer o gli importanti contatti politici del padre di lady Beryl, il potente conte di Ferelden.
Era successo tutto all’improvviso. Un lungo suono di corno nella notte, l’abbaiare furioso dei cani dal cortile e poi un’esplosione di urla e fragore di metallo, il fuoco e l’inferno sulla terra. Lumaria aveva afferrato la spada, pronto a difendere il castello di famiglia fino all’ultima goccia del suo sangue, ma dalla finestra il bagliore delle fiamme gli aveva svelato una verità troppo crudele da sopportare, prosciugandogli ogni energia dalle braccia e dalle gambe. Il ponte levatoio era abbassato, i cancelli aperti. Gli uomini dei Durlyn si riversavano nel cortile uccidendo chiunque capitasse a tiro: gli armigeri che accorrevano alla difesa ancora sorpresi dal sonno, con addosso i primi pezzi di armatura recuperati nel buio, i servi in fuga, e persino i poveri stallieri disarmati che cercavano invano di trattenere i cavalli terrorizzati dalle fiamme.
Non era un assedio, né una battaglia. I cancelli aperti alla mercé del nemico potevano significare soltanto una cosa: qualcuno tra gli uomini dei Dayel aveva tradito.
Ma non c’era tempo per cercare i responsabili né per interrogarsi sulle circostanze; il cortile era perso, presto anche le mura interne sarebbero cadute, qualsiasi guerriero con un minimo di esperienza avrebbe capito che la situazione era irreparabile. Tutto ciò che il principe Lumaria poteva fare era portare in salvo la propria famiglia.
Gli istanti successivi erano un vortice confuso nella sua mente, pieno solo di pozze di sangue come quello in cui aveva trovato Fel, il suo attendente, riverso sulle scale con la gola aperta da parte a parte.
Il suo primo pensiero era corso ad Asfania.
Aveva attraversato col cuore in gola i tre piani che lo separavano dalla cappella. Gli uomini del suo casato avevano dato battaglia ed ancora le grida delle truppe si sentiva in lontananza, ma troppi erano i corpi dei suoi sottoposti e troppo pochi quelli del casato dei Durlyn. Aveva raccolto una spada e l’aveva stretta nel palmo incurante di tutto il sangue ancora caldo che prese a scorrergli tra le dita. Non si sarebbe lasciato prendere vivo.
Non si sarebbe lasciato prendere e basta.
La cappella era dall’altro lato del castello, lontana dall’ingresso. Una fiammata si innalzava proprio da quella direzione, ma il suono delle campane era l’unica cosa che importasse, l’unico indizio che suo fratello minore fosse vivo e stesse chiedendo aiuto.
Aveva lanciato uno sguardo oltre ciò che rimaneva del suo padiglione di caccia per cercare un passaggio, un punto qualsiasi che gli permettesse di correre senza ostacoli da Asfania e portarlo via di lì; forse i Durlyn non sarebbero stati così blasfemi da rivolgere le armi contro un Sacerdote di Bronzo, ma non poteva permettere che un membro della sua famiglia venisse anche solo portato via come ostaggio. Si era destreggiato nel colonnato con in mente soltanto il suono delle campane ed il desiderio di uscire da quell’inferno.
Quando due soldati gli si erano parati davanti li aveva uccisi in un istante. Non si aspettavano di trovarlo lì, senza dubbio, e non riuscirono ad alzare gli scudi in tempo. L’idea di raccoglierne uno aveva sfiorato Lumaria, ma simili oggetti lo avrebbero solo rallentato.
Le frecce avevano ripreso a piovere subito dopo, qualcuno doveva averlo notato. Aveva abbandonato il colonnato senza pensarci un istante sentendo il rumore metallico delle cotte nemiche attraversare il cortile nella sua direzione, la sua prima scelta per raggiungere la cappella ormai totalmente sfumata. Con un salto aveva oltrepassato un filare di siepi che ancora non era stato divorato alle fiamme, quello che separava il padiglione di caccia dal roseto che sua madre aveva fatto piantare quando era giunta al castello; quel piccolo angolo non aveva subito la devastazione dei Durlyn e parte di lui aveva teso la testa verso la torre nord, quella che si affacciava sul giardino ed era la dimora dei suoi genitori, ma di essa non si vedeva che la torre avvolta da un fumo nero e denso come la morte.
Lui ed Asfania avevano sempre adorato usare i piccoli spazi tra i cespugli per nascondersi dal loro precettore di rune e testi arcaici.
E, di una cosa ne aveva la certezza, neppure il viscido traditore che aveva aperto la strada ai Durlyn avrebbe potuto conoscere gli stretti passaggi sempre pieni di fanghiglia tra le mura del palazzo ed i capanni dei giardinieri che avrebbero permesso a qualcuno di molto piccolo e sottile di arrivare fin quasi alle spalle della cappella superando qualunque postazione di guardia.
Lumaria non era più un bambino da tanto tempo, ma le campane continuavano a suonare, dunque aveva stretto i denti e si era spinto in quel dedalo di intercapedini trattenendo il fiato senza mai abbandonare la presa sulla spada. Trattenere il fiato non era mai stato così complicato, il petto compresso tra le due pareti ed i piedi forzati sulle punte. Ad ogni passo aveva sentito una parte della sua tunica lacerarsi ed aveva morso le labbra fino a farle sanguinare, sperando che quell’esile rumore non bastasse ai suoi inseguitori per scoprirlo ed attenderlo all’uscita per ammazzarlo come un topo in trappola. Le foglie e le schegge di legno accumulate in quel buco da anni gli erano sembrate scricchiolare col rumore di mille tamburi.
Aveva cercato di contare i rintocchi.
Di vedere nella sua testa una via di fuga.
Le scale che portavano ai merli delle mura erano a qualche istante di corsa dal sagrato. Sarebbero stati esposti, quello senza dubbio, ma Asfania conosceva la magia meglio di lui ed avrebbe potuto fare qualcosa. Cosa di preciso, di quello Lumaria non ne aveva alcuna idea, ma il suo unico pensiero in quel momento era uscire da quel dedalo soffocante, prendere alle spalle abbastanza Durlyn da aprire una via d’uscita per suo fratello e riprendere l’unico membro della sua famiglia ancora in vita. Se fossero riusciti a trovare qualcuno dei propri soldati ancora in grado di combattere avrebbe potuto farsi coprire la fuga.
Ma in quel momento doveva solo pensare ad avanzare, guidato dall’unico suono di speranza.
Aveva svoltato i piccoli angoli sentendo i mattoni fin tra le costole, ma dall’ingresso non vi era alcuna voce, forse segno che i suoi inseguitori avevano pensato di inseguirlo oltre il giardino, magari verso le tombe di famiglia.
Finché non aveva sentito l’abbaiare dei cani.
Non poteva correre, né difendersi. L’aria si era fatta più secca, e non per il fumo. Si era portato ancora più avanti, incapace anche solo di incespicare, il cuore in gola mentre tentava di attraversare l’ultimo spazio che lo avrebbe condotto al chiostro retrostante l’edificio sacro. I mastini dei Durlyn non erano di certo in grado di entrare lì, ma sapeva i suoi inseguitori non avrebbero impiegato troppo tempo ad immaginare dove sarebbe potuto sbucare. Un chiodo infisso tra i mattoni gli aveva ferito il viso, ma la luce era lì, a pochi passi. Senza abbandonare la propria arma nemmeno per un istante aveva proseguito fino alla fine, le orecchie all’erta per individuare soldati o cani, ma i rintocchi sempre più forsennati erano stati l’unico suono che davvero la sua testa sembrava in grado di afferrare e quando era emerso da lì dentro aveva combattuto contro ogni fibra del suo corpo per non gettarsi a terra ed abbandonare tutto. Sarebbe stato senza dubbio più semplice.
La campana stava lanciando ancora il suo grido di battaglia.
Il fuoco aveva disegnato un groviglio di scintille ed ombre tra le strade e Lumaria si era unito ad essi oltre il dedalo di corpi senza vita di alcuni braccianti del castello macellati mentre ancora stavano preparando le consegne per il giorno successivo. Il fumo acre gli mandava le narici e la gola in fiamme, ma riusciva a tenere lontani i conati che si stavano per affacciare davanti a quel massacro che non aveva altra funzione che umiliare ancora di più la sua casata ed il potere perduto.
Solo di rado si era districato nell’area del castello destinata ai villici e le stradine gli apparivano tutte uguali, ma la sagoma dell’edificio sacro gettava la sua ombra sull’intera zona che gli incendi avevano tinto di uno scarlatto crudele: si era mosso dapprima lentamente, poi con più sicurezza finché il ringhiare dei cani non gli aveva dato la spinta sufficiente da uscire dal suo riparo e buttarsi sul lato destro del cortile che dava su un ingresso secondario della cappella.
Lumaria non era mai stato un grande credente, ma quando aveva visto la piccola porta in legno senza alcun Durlyn a presidiarla, ancora chiusa, aveva ringraziato gli dèi di quel piccolo dono; probabilmente non avevano avuto il coraggio di profanare un simile luogo sacro, oppure stavano ancora cercando di aprire il massiccio portone principale che suo padre aveva fatto rinforzare anni prima con barre del ferro più puro. Un miracolo o una fortuna, ma abbastanza da permettere al nobile di fare un respiro profondo, più profondo di prima, pronto ad attraversare lo spazio aperto tutto d’un fiato e correre a prendere suo fratello. Se fosse riuscito a fare in tempo avrebbero potuto sfruttare la stessa via d’ingresso per correre alle mura e calarsi nel fossato.
Fu solo dopo aver mosso un passo allo scoperto che il cuore gli si era fermato.
Nel crepitare dell’incendio e nel crollo di una torre poco distante c’era qualcosa, qualcosa che non avrebbe mai voluto udire.
Il suono assassino del silenzio.
Il fumo adesso portava soltanto il battito forsennato nel suo petto. Non vi era più alcun rintocco in aria. L’unico suono, se di suono si fosse potuto chiamare, era il debole tintinnare delle piastre dell’Armatura di Bronzo della Lince che stavano dondolando in aria ancora indosso al loro proprietario, una figura senza vita appesa per il collo alla lunga corda della sua preziosa campana. Nemmeno il vento carico di polvere riusciva a cancellare i lunghi capelli rosa di Asfania reclinati su un lato, un’unica cosa con la sua Armatura dissacrata.
Lumaria avrebbe dovuto pensare di essere ormai l’ultimo Dayel rimasto, l’unico in grado di vendicarli tutti. L’unico in grado di combattere, l’unico in grado di fuggire, la perfetta capacità di giudizio di cui si era sempre fatto vanto avrebbe dovuto trascinarlo lontano da lì, da quel sagrato ormai esposto e che a breve sarebbe stato brulicante di nemici pronti a finire il lavoro.
Ma non poteva pensare ad altro che al silenzio ed al vuoto. Un fuoco si era alzato da un granaio antistante, e le fiamme si erano riflesse sulla cotta di Bronzo come un piccolo sole al tramonto che sembrava non chiedere altro se non sorgere ancora, vedere una seconda alba e portare gioia su loro tutti proprio quando suo fratello aveva ricevuto l’onore di indossare la Sacra Armatura insieme alla promessa solenne che il venerabile sacerdote Aphrodite avrebbe vegliato a lungo sulla carriera di Asfania.
La luce si era riflessa anche sulla campana, e Lumaria si era ritrovato a maledire quel silenzio e tutti gli dèi.
Solo un sibilo di una freccia lo aveva riportato alla realtà.
Un arciere Durlyn aveva mirato alla sua testa, ma il giovane Dayel si era scostato un istante prima quasi avvertito dall’aria stessa e si era gettato a terra distogliendo per la prima volta dopo chissà quanti minuti lo sguardo dal campanile; si era rialzato quasi avesse avuto mille draghi nella testa che ruggivano per la paura e si era gettato verso le scale ignorando un secondo ed un terzo dardo che avevano ripreso a piovere verso di lui insieme al nuovo, più incalzante abbaiare dei mastini.
Tutto ciò che era venuto dopo … non riusciva a rammentarlo con lucidità.
Aveva corso, si era tuffato, c’era stato il fossato a proteggerlo …
Le braccia del principe non ressero e cadde di nuovo riverso nel sottobosco. Davanti ai suoi occhi la forma della spada tremolava proprio accanto alla sua mano destra, così come oscillavano i cespugli, le radici ed il manto di foglie che si era attaccato a ciò che rimaneva dei suoi vestiti. Si costrinse ad ignorare anche quello, a strisciare se necessario, ma le gambe si erano trasformate in puro dolore. Si era spinto lontano dal sentiero principale rotolando oltre una collinetta, ma non si era illuso nemmeno per un istante.
Quando sollevò la testa vide a poca distanza dalla sua faccia il muso di un cane con le zanne bene in mostra insieme ad altri due mastini che abbaiavano eccitati, uno mettendosi proprio sopra la spada e ringhiandogli; Lumaria cercò di allontanarlo, ma per tutta risposta quello serrò i denti a pochissima distanza dalla sua mano.
L’ombra di una coppia di cavalli oscurò la poca luce rimasta, e Lumaria non ebbe nemmeno la forza di alzare la testa per guardare gli uomini che erano smontati e che avevano estratto le loro spade dai foderi. “Questo è l’ultimo. Finiamo il lavoro”.
 
  
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