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Autore: TheGhostOfYou0    02/02/2017    3 recensioni
Un tedesco, un ebreo, un italiano.
Una somiglianza dolorosa, una guerra silenziosamente combattuta tra il filo spinato e le baracche ed un ossessione cresciuta in un paese come tanti, tra il vociferare e le giornate tutte uguali.
Un tedesco, un ebreo, un italiano.
Dal testo
L’unica cosa che univa il soldato tedesco e l’ebreo era questo costante aspettarsi.
Aspettare un’azione.
Aspettare una reazione
Aspettare la fine di due incubi che vivevano parallelamente.
Era una guerra e sapevano tutti come sarebbe finita, si trattava solo di capire quando.
Genere: Angst, Guerra, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Violenza | Contesto: Novecento/Dittature, Olocausto
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Questa non è una storia d'amore, non è concepita come tale e non penso che possa essere interpretata in questo modo, ci tengo ad essere chiara visto che i temi affrontanti sono tutt'altro che semplici e non vorrei venissero mal interpretati. 
Tengo molto a questa storia, l'ho scritta poco più di un anno fa per un evento organizzato dalla mia scuola sull'olocausto. 
Sono state scelte solo quattro storie, la mia era tra queste ed è stata un'emozione pazzesca, spero trasmetta a voi tutto quello che ho provato io nello scriverla e nel sentirla. 



L'ultimo rimasto

Da che Wilhelm avesse memoria era sempre stato l’orgoglio dei suoi genitori, era un bambino tranquillo, non  piangeva quasi mai. Poteva cadere, farsi male, soffrire per la fame, il sonno, la stanchezza, aver bisogno di un abbraccio o di essere consolato dopo un incubo ma non una lacrima scendeva sul suo volto lungo, non una lacrima solcava le gote lisce perché se l’avesse fatto avrebbe mostrato le proprie debolezze e Wilhelm, che era anche un bambino intelligente, aveva capito da solo tante cose della vita.
Regola numero uno, per arrivare da qualche parte bisognava essere forti e pronti al peggio, avere una tempra d’acciaio e non dare a nessuno la possibilità di scalfirci in alcun modo.
 Aveva sempre puntato in alto, lui,  voleva essere il più veloce di tutti i suoi amici, il più forte, il più bravo negli sport e a scuola. C’era anche riuscito, divenendo una specie di idolo in quel quartiere malfamato della periferia di Berlino dove tutti volevano giocare con lui o anche solo camminargli affianco perché stare con Wilhelm Krogen ti rendeva automaticamente una persona migliore.
Sin dai primi anni della sua infanzia era stato un re nel suo piccolo castello fatto di complimenti a cui ormai era abituato, degli sguardi adoranti di sua madre e di quelli orgogliosi di suo padre, che si sedeva accanto a lui, gli dava qualche pacca sula spalla e gli diceva che era grato
d’averlo avuto. Quello era il suo modo di dirgli che gli voleva bene.
Ad un certo punto, e nessuno saprebbe dire con certezza quando, il castello aveva cominciato a sgretolarsi giorno per giorno tutto attorno a lui. Su quelle mura indistruttibili s’erano formate le prime crepe e le torri cedevano mattone per mattone ed era impossibile fare qualcosa perché rimanesse in piedi. E’ impossibile bloccare un attacco dall’interno e mentre qualcosa dentro di lui si spezzava, anche all’esterno qualcosa cambiava.
Non era più il migliore, non era più il re.
Wilhelm non era sicuro di voler sapere cosa gli stesse accadendo, dava la colpa alla stanchezza delle aspettative, ad un periodo un po’ buio, ad una crisi temporanea,  ma era tutto chiaro di fronte a quei suoi occhi un po’ sporgenti, tutto ben impresso sulle pieghe del volto, leggibile in ogni sua espressione ed in ogni macchia che sporcava pian piano la anima.
Era arrivata, assieme alla primavera, potente come un pugno in pieno volto, la consapevolezza quella gloria faticosamente conquistata, quell’aura divina che lo  aveva circondato, rendendolo un sogno, un mito ed un esempio, era sparita per sempre a causa di qualcosa che non poteva, e forse non voleva, combattere.
 
Wilhelm aveva diciassette anni e quando osservava il suo amico Björn camminare con naturale eleganza, distinguendosi come sempre, per le strade sporche di quel disgraziato quartiere dimenticato da Dio, sentiva un peso sullo stomaco, un nodo alla gola che non si scioglieva mai e lo soffocava di secondo in secondo.
E poi gli tremavano le gambe, le mani, il cuore.
Sentiva l’ insano impulso di raggiungerlo e abbracciarlo forte,carezzare la pelle liscia, stringerli le mani per scalarle, perché lui le ha fredde sempre, anche quando fa caldo.
Non era una bella sensazione, non era tutto sentimenti languidi e batticuore, era ingiusto e dolorosamente sbagliato. Faceva male, di un male atroce che non passava.
Non era una bella sensazione, non era tutto progetti per il futuro e stupidi timori, era folle ed andava contro ogni sua ideologia. Faceva male, di un male atroce che non passava, ma Wilhelm Krogen non era sicuro di voler rinunciare al piacere che scaturiva anche dai più innocenti contatti.
Gli bastava uno sguardo, gli bastava una pacca sulla spalla, un saluto più sentito del solito per perdere la testa e non capire più nulla, per smettere di vedere le cose con lucidità, quasi fosse ubriaco.
Si domandava spesso cosa avrebbe pensato il povero Bjorn se solo avesse saputo, quale disgusto avrebbe provato nello scoprire chi fosse veramente il suo amico, il suo eterno rivale, l’unica causa di tutte le sue sconfitte. Nello scoprire che lo aveva battuto, alla fine, che senza neppure volerlo aveva abbattuto tutte le sue certezze, che lo aveva insicuro e fragile come una donnetta.
Nello scoprire che di notte, quando non riusciva a prendere sonno, immaginava di averlo accanto e carezzare il suo petto nudo e poi piangeva, perché era sbagliato.
E piangeva di più, perché i veri uomini non piangono.
Immaginò con quale espressione l’avrebbe allontanato da se, colpendolo con violenza, e pregò non accadesse mai.
 
 
Quel giorno di Agosto del 1944 nel campo di concentramento di  Dachau era arrivato un altro carico di ratti dall’odore così nauseante che Wilhelm Krogen dovette combattere con un crescente senso di nausea per un po’ prima di poter tornare a respirare normalmente. Avrebbe dovuto esserci abituato, ma la verità è che non ci si abituava mai a tale schifo, al puzzo ed i pianti di chi, nonostante tutto, aveva ancora la sfacciataggine di chiedere pietà. Non esisteva pietà per loro che si insinuavano nei letti di donne ariane per distruggere, imbastardire e sporcare la purezza della razza. Non esisteva pietà per serpenti come quelli.
Wilhelm accennò un sorriso tra se e se osservando la lunga fila di ebrei e pensò che il Fuhrer aveva davvero ragione quando affermava che “Gli Ebrei sono come i vermi che si annidano nei cadaveri in dissoluzione.” Non riusciva a vedere nulla di più nobile di questo in quell’ammasso di corpi che presto o tardi non sarebbero stati altro che cenere nel vento freddo di Monaco.
Gli era stato insegnato a non vedere nulla di più.
 
Se ne stava lì, in piedi, con il suo fucile stretto la tra le mani grandi e callose.
 
Quando gli passò davanti per la prima volta, l’SS era immobile ma i suoi muscoli pronti a scattare ed aspettava, aspettava con pazienza e desiderio che qualcuno dei prigionieri azzardasse una mossa sbagliata. Quando gli passò davanti per la prima volta aveva occhi così grandi ed impossibilmente scuri che per un attimo, solo uno, Wilhelm si sentì sprofondare.
 Fu come rivedere un fantasma.
Provò uno scombussolamento tale che un brivido gli attraversò la schiena ed il cuore perse un battito. Scrutò con attenzione il ragazzino che lo fissava con tanta  intensità  da spaventarlo.
Aveva le spalle larghe, un fisico ben sviluppato che poco si addiceva al volto  un po’ bambinesco ma che andava d’accordo con quell’espressione furiosa, fiera, così diversa da quella arrendevole e supplichevole degli altri prigionieri.
Teneva il capo leggermente reclinato, con il mento vicino al collo, le sopracciglia aggrottate e la bocca fine non era altro che una linea diritta. C’era qualcosa in lui, nella mascella squadrata, negli occhi che trasudavano d’ innocenza e consapevolezza allo stesso tempo, che gli ricordava terribilmente qualcuno perso da troppo ormai. Aveva pregato un Dio in cui non credeva davvero, aveva sperato con ogni molecola dal suo corpo di incrociare nuovamente il suo sguardo ma mai avrebbe immaginato che sarebbe successo in un posto del genere.
Rendersi conto, poi, di aver preso un abbaglio, era stata una dolce delusione, una rivelazione tanto gradita quanto odiata.
Il ragazzo ebreo continuava a camminare, con le mani strette in due pugni verso le baracche in cui sarebbero stati smistati. Wilhelm socchiuse gli occhi cercando di localizzarlo tra gli uomini che lo circondavano, ma ormai era solo uno dei tanti prigionieri.
Aveva perso ogni traccia di ciò che, qualsiasi cosa fosse, lo rendeva diverso dagli altri prigionieri.
 
I giorni  successivi passarono lenti e Wilhelm rivide solo un paio di volte il giovane ebreo che, privato della sua mora chioma, sembrava aver perso parte di quel coraggio e quella fierezza che tanto ostentava al suo arrivo a Dachau, era un leone senza criniera, un re senza corona, ma nonostante ciò l’SS sapeva che ci sarebbe voluto molto di più per spezzarlo. Bisognava calpestare ogni sua speranza, debilitare il suo fisico e successivamente la sua mente, uccidere sul nascere ogni suo sogno, sopprimere anche solo il più lontano pensiero di sopravvivenza. Wilhelm pensò che di giovani come lui, in quei mesi nel campo, ne aveva visti molti e non erano durati abbastanza per distinguerli tra la massa.
Cosa poteva avere lui di diverso?
Era uno come tanti, uno sporco, piccolo bastardo come tutti gli altri.
La sua tortura sarebbe presto finita e se così non fosse stato avrebbe fatto in modo che questo accadesse perché non era sicuro di poter reggere ancora a lungo la sua presenza. Aveva riportato a galla una serie di ricordi ben nascosti in qualche angolo remoto della sua mente e delle emozioni che, chiaramente, non erano indirizzate a lui ma provocate dalla sua sola presenza. Erano sentimenti contrastanti, un misto di nostalgia, rabbia e affetto, tutti ben radicati, che litigavano prepotentemente l’uno con l’altro per prevalere e finivano con l’ ucciderlo lentamente e dolorosamente.
Non capiva, Wilhelm non capiva.
Forse erano i suoi occhi, lo sguardo puntato costantemente su di lui, a controllare le sue mosse, uno per sopravvivenza, l’altro, forse, per interesse.
 
Wilhelm se la ricordava bene, la prima volta che aveva visto Alessio. Se ne andava in giro per il paese, era spensierato in sella alla sua bicicletta, il vento freddo di novembre gli scompigliava i capelli e gli spezzava il respiro e pedalava veloce con quelle  gambette fine e lunghe. Le sue mani protette da un paio di guanti bucati ed  i suoi abiti non erano certo i migliori si potessero trovare ma a dispetto di ciò c’era una sorta di timida eleganza nei suoi fluidi movimenti, in quella camminata un po’ effeminata che cercava malamente di nascondere, nel modo impacciato con cui tentava di non dare troppo nell’ occhio perché i tedeschi giravano da un po’ in paese.
Allora, quando scendeva dalla bicicletta e andava a salutare sua madre, si raddrizzava come un soldatino, gonfiava il petto in maniera ridicola e camminava a testa alta senza guardare nessuno.
A Wilhelm piaceva guardarlo. Adorava osservare, giorno dopo giorno, ogni piccolo particolare di quello strano ragazzino dai capelli troppo biondi e si sentiva fiero quando s’accorgeva di dettagli così minuscoli che, forse, nemmeno lui conosceva: come quando allargava le narici senza un’ apparente motivo o quella piccola ruga che gli si formava sotto l’occhio destro quando rideva di cuore.
A Wilhelm Krogen piaceva guardarlo. Gli piaceva la purezza dei suoi sedici anni, il modo in cui osservava il mondo con gli occhi scuri sgranati, incuriosito da tutto ciò che lo circondava. Era attratto dalla sua gentilezza, dal modo in cui sorrideva genuino a tutti i suoi compaesani senza mai farlo sembrare un gesto di cortesia. A Wilhelm Krogen piaceva guardarlo ma amava, ancor più, quando era lui a scrutarlo con sospetto, disgusto e forse odio, infastidito dall’attenzione che l’SS gli rivolgeva. Saliva di nuovo in sella alla bicicletta, dopo aver fatto il giro del mercato, gli scoccava un’ occhiata di sdegno e poi se ne andava via, sfrecciando tra le stradine strette. Lo faceva sentire, in qualche modo, parte della sua quotidianità.
Alessio sapeva che, ogni volta che sarebbe di lì, Wilhelm sarebbe stato lì ad aspettarlo e ad un certo punto, quell’ abitudine, inizi a concepirla come un appuntamento fisso, il loro modo speciale per stare insieme.
Wilhelm comprendeva tutti i timori che poteva avere Alessio, perché lo guardasse con rabbia, non era difficile immaginare cosa gli dicessero a casa, che i tedeschi erano tutti cattivi, che portavano solo guerra e male, bisognava stargli lontani.  Wilhelm davvero non riusciva a capire da dove venissero quei pregiudizi. Stavano solo cercando di sistemare le cose, rendere il mondo un posto più vivibile senza tutto lo schifo che si trovava per le strade.
Ma nonostante  tutto restava il fatto che Alessio voltava il capo nella sua direzione e teneva gli occhi incollati ai suoi per istanti che parevano infiniti e questo, a lui, bastava.
 
 
Il primo mese a Dachau fu duro per il ragazzo ebreo.
Era  ora e Wilhelm trovò confortante, in quei giorni d’inferno, avere un numero da associare al volto del giovane. Qualcuno contro cui urlare ed inveire quando tutto quello che provava diventava davvero troppo forte, insopportabile, quando non lo faceva respirare, gli faceva provare un senso di vuoto all’altezza del petto ed uno strano dolore da qualche parte tra l’anima ed il cuore.  Qualcuno con cui prendersela che era solo un numero, un volto ed un paio di occhi scomodi. Osservava il suo lavoro con attenzione maniacale, pronto a scattare al minimo errore, al minimo cedimento, ma nel corso delle settimane, nonostante il fisico non fosse più così prestante come al suo arrivo, il ragazzo non aveva mostrato il minimo turbamento. Non c’era una crepa nel suo muro d’acciaio, mentre sul volto di Wilhelm erano sempre più evidenti, segni visibili dei suoi turbamenti e delle sue debolezze.
24568 sopravviveva nel campo con la stessa fierezza, lo stesso sguardo duro e pronto con il quale aveva attraversato i cancelli di Dachau.
Era inconcepibile, era sbagliato.
 
Wilhelm controllava, quella mattina di Settembre, che gli internati stessero al loro posto e agissero correttamente durante la distribuzione del cibo e si domandò come mai sprecassero ancora risorse per i prigionieri quando avrebbero potuto semplicemente lasciarli morire di fame.
24568 era lì, ovviamente, spingeva per accaparrarsi il suo pasto, e Wilhelm, Wilhelm lo scrutava con attenzione ed un sorrisetto beffardo stampato in volto. Aspettava pazientemente, come il più abile dei cacciatori, che quel ragazzo dicesse una parola di troppo, muovesse un passo in più e poi, poi non ci sarebbe stato più scampo per lui.
Ma quell’ebreo era dannatamente furbo, così malizioso da non compiere alcun errore, da non voltarsi nemmeno a guardarlo perché aveva capito, ormai, che erano punibili anche per un’occhiata sbagliata, loro.
Ratti, vermi, porci, serpenti.
Si divertiva a farlo soffrire, quello schifoso.
L’SS continuò a seguire il ragazzo, focalizzandosi solo ed esclusivamente su di lui con tanta attenzione che persino l’inseparabile amico Bjorn, lo notò.
“Che succede?”Gli domandò affiancandolo e scrutandolo. C’era sospetto nei suoi occhi verdi, lo stesso che leggeva da ragazzi, lo stesso che gli rivolgevano tutti.
“Cerco solo di essere scrupoloso nel mio lavoro” Fu la risposta di Wilhelm che si portò una mano al petto, sullo stemma della morte, sullo stemma delle SS.
Allora Bjorn gli diede una pacca sulla spalla con forza prima di allontanarsi per riprendere un prigioniero. Tirò fuori il manganello e si avventò sulla sua vittima brutalmente, con il volto contratto in un espressione sadica e vagamente divertita. Lo colpì una volta, poi una seconda ed ancora una con più violenza mentre l’ebreo gridava. S’era lasciato cadere a terra, aveva mostrato apertamente la sua inutilità ed ora ne doveva pagare le conseguenze.
Wilhelm puntò i suoi occhi di ghiaccio su  24568, stringeva tanto le mani che le nocche s’erano fatte bianche. Wilhelm Krogen se ne rese conto per la prima volta in quell’occasione, quando il ragazzo voltò il capo verso di lui e sostenne il suo sguardo a lungo, finché Bjorn non portò via la sua vittima e tutto tornò alla normalità. S’accorse che l’attesa stava per finire perché non era un mistero per nessuno la fine che avrebbe fatto quell’uomo e Wilhelm pensò, mentre i suoi occhi si fondevano con quelli dell’ebreo, che presto sarebbe arrivato il suo turno.
L’unica cosa che univa il soldato tedesco e l’ebreo era questo costante aspettarsi.
Aspettare un’azione.
Aspettare una reazione
Aspettare la fine di due incubi che vivevano parallelamente.
Era una guerra e sapevano tutti come sarebbe finita, si trattava solo di capire quando.
 
Wilhelm  ricordò che anche con Alessio era stata tutta una questione di tempo e ce ne era voluto davvero tanto prima che le cose cambiassero. Alessio e la sua bicicletta erano lì anche quel giorno di Dicembre. Era il 1943 e Wilhelm aveva vent’anni ed una curiosità morbosa verso il ragazzino dai capelli di limone, per questo, quando quel pomeriggio gli sfrecciò davanti e, come da routine, si voltò per osservarlo, il tedesco decise che era arrivato il momento di agire.
Lo fermò, ponendosi davanti a lui e costringendolo a frenare improvvisamente, allora il ragazzino incurvò le sopracciglia innervosito, cercando di nascondere  malamente la paura che era ben visibile nei suoi grandi occhi marroni e nelle mani che tremavano.
Gli fece segno di scendere dalla bicicletta ed iniziò a perquisirlo.
Toccò il suo corpo magro, alla ricerca del nulla, solo per il piacere di farlo e quando, ben nascosti in una tasca interna del giaccone, trovò quei documenti, sgranò gli occhi per la sorpresa. Lì aprì lentamente e osservò le foto di una donna, poi un uomo ed una ragazza mentre Alessio cercava una via di fuga. I soldati erano ovunque e lui si sentiva come un topo in trappola.
Sussurrò qualcosa in italiano e Wilhelm non riuscì a cogliere il significato delle sue parole, ma la voce era instabile, come si stesse per spezzare, ed il suo tono supplichevole ed incerto. Il soldato tedesco lo scrutò, leggermente deluso. Portava con se documenti falsi per degli ebrei, stava impedendo che il seme del male fosse estirpato dalla terra, stava impedendo il volere del Fuhrer e, se ci avesse creduto, avrebbe detto fosse anche quello di Dio. Wilhelm gli mise una mano sulla spalla ossuta, con lentezza snervante, poi annuì e gli fece cenno con il capo d’andarsene, che era libero, salvo, vivo e non gli avrebbe fatto nulla di male anche se questo avrebbe significato salvare sporchi ratti come quelli.
L’SS non riuscì davvero a capire il perché di quel gesto tanto vile e stupido, ma non se ne pentì mai.
 
 
 
Arrivò Dicembre e, per grande rammarico di Wilhelm, 24568 era ancora in piedi e s’aggirava per il campo senza dargli pace, anche se il suo corpo era ormai irriconoscibile ed il suo sguardo iniziava a somigliare più a quello di un cucciolo ferito che a quello di un leone.
Sarebbe stato facile, per Wilhelm, ucciderlo e nessuno avrebbe avuto nulla in contrario ma c’era qualcosa di stranamente affascinante in quella silenziosa guerra che stavano combattendo.
Era una sfida in cui a perdere era chi crollava per primo ed il soldato era deciso a gustarsela fino all’ultimo secondo. Fino all’ultimo sguardo. Ormai s’era abituato a quegli occhi tanto famigliari, a quella somiglianza che vedeva solo lui, e si, faceva ancora male, ma era un tipo di dolore sopportabile e quasi piacevole che gli ricordava d’esser vivo e che forse anche Alessio lo era, da qualche parte.
Ogni tanto immaginava di tornare in Italia, di trovarlo ancora lì, ad aspettarlo al mercato, con la sua bicicletta ed un sorriso riconoscente in volto, appena più grande di come lo ricordava, con un accenno di barba e qualche muscolo in più.
 
Alle porte dell’ anno 1945 a Dachau erano internati oltre 63.000 prigionieri e la puzza, ed il fumo e la morte erano ormai ovunque. Alle porte dell’anno 1945 l’epidemia di tifo uccideva più ebrei di quanto non facessero i tedeschi e Wilhelm attendeva ancora. Chissà se il ragazzino sarebbe sopravvissuto anche a questo, se sarebbe stato forte ed impassibile come quella volta che, contro ogni aspettativa, raccolse con freddezza i corpi mutilati dei prigionieri usati come cavie.
Non passò un’ emozione sul suo volto scarno. Non pianse e non provò disgusto.
Non sbagliò nemmeno quella volta e Wilhelm non trovò un pretesto per ucciderlo perché aveva svolto il suo lavoro così come andava fatto. Allora uccise l’altro internato scelto per quel compito, gli sparò  diritto in testa, senza alcun preavviso o motivo e poi sorrise al ragazzo, sperando di vedere una reazione.
Ma non ci fu.
Wilhelm Krogen avrebbe potuto affondare, in quel momento, nel vuoto dei suoi occhi.
L’SS notò per la prima volta, quel Natale, che 24568 non combatteva più per la sua razione quotidiana di cibo, non stringeva più i pugni davanti alle ingiustizie ed era diventato impassibile alla sparizione di folti gruppi di prigionieri.
Questo non gli piaceva, non gli piaceva affatto, perché si stava arrendendo e non poteva, non così presto, non quando quel gioco era diventato un piacevole passatempo, così s’avvicinò a lui con rabbia, il passo pesante e la bocca serrata. In un gesto veloce e fluido prese dalle mani magre quell’unico pasto che gli era concesso e lo gettò in terra, poi rise, rise di gusto nel silenzio di tomba che s’era creato attorno a lui. Rise così forte che gli vennero le lacrime agli occhi ed il volto si fece rosso. Rise e posò una mano sulla spalla del ragazzo che si scostò di scatto, come fosse scottato da quel contatto che non avrebbe dovuto esserci. Poi lo fece.
24568 raccolse tutto il coraggio che possedeva e l’esasperazione che lo stava logorando dentro, e si, anche tutta la saliva che poteva.
24568 sputò a Wilhelm Krogen, SS del terzo Reich.
Il volto di quest’ultimo di contorse in una smorfia di rabbia e con il calcio del suo fucile lo colpì sullo stomaco, facendolo piegare in due.
Lo colpì di nuovo sugli stinchi, facendolo crollare a terra e poi un'altra volta sul fianco.
24568 non riuscì a contare esattamente quante volte il tedesco ripeté quell’azione ma era certo avesse superato di molto il limite di venticinque. Quando finalmente s’allontanò dal suo corpo dolorante Wilhelm lo strattonò per un braccio costringendolo ad alzarsi e lo trascinò via con se.
Se per un attimo, quell’attimo fatale che l’aveva fatto scattare, Wilhelm aveva creduto fosse un peccato che  lui s’arrendesse, ora era proprio ciò che più desiderava. Voleva vederlo toccare il fondo perché lui era ebreo e, nonostante avesse i suoi occhi, non era Alessio.
Non meritava d’esser salvato.
 
Una settimana dopo la sua perquisizione Alessio stava molto più attento a non dare nell’occhio: si muoveva più lentamente in sella alla sua inseparabile bicicletta e sorrideva di meno alla gente.
Aveva preso una nuova abitudine, però, e Wilhelm l’apprezzò particolarmente.
Lo sguardo che il ragazzino gli rivolgeva era cambiato totalmente, era rispettoso, ammirato e grato. Quel giorno Wilhelm Krogen lo bloccò di nuovo con un sorriso in volto che il ragazzo dai capelli di limone ricambiò nervoso, forzatamente, senza davvero capire cosa stesse succedendo. Gli fece segno di seguirlo e Alessio, impotente ed impaurito, eseguì quello che gli era sembrato essere un ordine. Pochi passi dopo erano in un vicolo cieco. Alessio scese dalla bicicletta e l’ appoggiò contro il muro di un palazzo, poi allargò le braccia con un’espressione interrogativa ed insicura stampata in volto e non fece in tempo a proferir parola che già era troppo tardi.
Wilhelm  lo spinse con uno scatto contro lo stesso muro, emettendo un rumore indefinibile, quasi animalesco, ed il ragazzo chiuse gli occhi in attesa del dolore che immaginava sarebbe arrivato.
Ma non ci fu, tutto ciò che sentì erano disgusto, paura, confusione, quel senso di impotenza e la nausea e Dio, qualsiasi cosa sarebbe stata meglio di tutto quello. Il tedesco lo stava baciando e non c’era nulla di dolce in quel contatto, era violento e aveva un non so che di sadico. Alessio immaginò rappresentasse perfettamente la personalità di quell’uomo. Pensò che forse la violenza era l’unica cosa che conoscesse, che possedesse e che ne fosse schiavo. Pensò che fosse parte di lui, o lo costituisse interamente, e che queste non erano comunque delle giustificazioni per quel gesto così irruento, che faceva temere di peggio. Wilhelm gli morse il labbro inferiore e Alessio gemette  mentre assaporava il gusto metallico del sangue. Gli stava facendo male, mentre sfregava con foga la pelle liscia del suo volto e passava le mani tra quei capelli ricci ed intrecciati. Gli stava facendo male, mentre lo sbatteva, ancora e ancora, contro il muro e le sue mani erano ovunque su quel corpo esile. Alessio si lasciava manovrare come una bambola, le braccia distese ed inermi lungo i fianchi, e Wilhelm si sentiva potente giocando con lui senza che potesse far nulla per impedirtelo.
Il ragazzo dai capelli di limone lo temeva, temeva il suo potere e ciò che aveva visto. Non si sarebbe mai ribellato.
Lo baciò ancora una volta, con così tanta forza che l’urlo di Alessio venne soffocato sulle sue labbra, poi lo afferrò per le spalle e lo fece girare, prese a mordere il collo, abbassò i pantaloni e quando fu finalmente dentro di lui, pensò che poteva quasi amare quel ragazzo.
Che era il primo con cui non si sentisse totalmente un mostro.
 
La lunga attesa, la tortura, il gioco, l’incubo finì ufficialmente il 12 Febbraio del 1945 quando Wilhelm non vide 24568 all’ora di pasto e capì d’aver vinto. Un sorriso sadico si formò sul suo volto e non si premurò di scoprire cosa fosse successo al suo acerrimo nemico, al suo prigioniero preferito, alla sua sfida personale perché realmente ben poco gli importava di quell’ebreo. Non gli interessava se fosse stato mandato alle camere a gas, se avesse contratto il tifo o non fosse riuscito a tenere a bada il suo temperamento. Non voleva sapere come fosse stata la sua morte, se lunga e atroce o breve ed indolore, tutto ciò che contava era che il suo cuore batteva, lui respirava ed era vivo, l’ultimo rimasto in piedi
Era il vincitore, l’unico indiscusso superstite, lui con il volto scheggiato e provato da quell’estenuante combattimento.
Era il vincitore ed era anche terribilmente solo.
L’ultima volta che Wilhelm Krogen l’ aveva visto, 24568 s’era voltato verso di lui e lo aveva osservato per un po’ con una strana espressione su quel volto malaticcio, i cui lineamenti sembravano essere mutati a causa rapido dimagrimento. Sembrava sereno.
24568  la sentiva vicina, nelle sue  vene, in ogni fibra del suo corpo e del suo essere. Sentiva che la libertà stava per raggiungerlo, che mancava poco.
L’SS  lo capì solo molto tempo dopo, con un fucile puntato alla tempia, che la morte era l’unica libertà concessa a chiunque vivesse in un mondo come il loro e si  trovò a sperare che la stessa sorte fosse toccata anche ad Alessio.
Perché lui voleva rivederlo, nonostante tutto.
 
 
Il giorno seguente al loro “incontro” l’italiano non passò per il mercato, nemmeno quello successivo e così volarono via i mesi, lentamente, e l’SS era ancora lì ma Alessio non c’era, non c’era mai, non c’era più. Improvvisamente le giornate avevano perso significato e con loro ogni contatto, ogni sguardo avesse mai condiviso con qualcuno che non fosse lui. Era molto di più di un perverso gioco, era molto di più del sesso e di quell’appagante senso di potenza. Era qualcosa che  Wilhelm Krogen non avrebbe mai potuto né saputo nominare o definire.
Con lui si sentiva un uomo, un umano, un individuo degno di tutto quello che la vita aveva da offrigli. Quando si specchiava nei suoi occhi rivedeva quel bambino perfetto ed invincibile di tanti anni prima.
Sapeva di essere malato, ma con Alessio sentiva che questo non lo rendeva una persona peggiore, sentiva che se solo avesse voluto avrebbe potuto essere esattamente come prima, ma poi lui era sparito e con lui tutti i sogni e le speranze.
Ma poi lui era sparito e Wilhelm lo aveva aspettato ogni giorno, e odiato ogni minuto e desiderato in ogni respiro. Lo aveva cercato, ma non aveva ricavato nulla.
Era andato via da lui e Wilhelm lo odiava, perché s’era portato via anche quella piccola parte buona rimasta di lui ed ora non rimaneva altro che il marcio.  
Dove fosse finito il ragazzo dai capelli di limone, cosa ne fosse stato di lui, rimase per il soldato un mistero che non era sicuro di voler svelare.
 
Quando la quarantacinquesima divisione di fanteria dell’ esercito statunitense arrivò nel campo di Dachau per Wilhelm Kroger non ci furono molte speranze. Era il 29 Aprile 1945 e quei soldati gridavano in una lingua che Wilhelm non conosceva, brandendo i fucili con rabbia, con urgenza di uccidere, e sparavano sui tedeschi senza sosta, senza dar loro nemmeno il tempo di elaborare quello che stava accadendo. Senza dar loro il tempo di comprendere che erano  stati tutti condannati a morte, senza diritto d’appello, da dei loro pari, giovani uomini che s’erano trovati costretti a combattere dalla parte sbagliata una guerra che non li riguardava.
Loro non capivano, erano plagiati.
Loro non capivano e gridavano ed uccidevano. Accanto a Wilhelm, Bjorn, fece appena in tempo ad al alzare le mani in segno di resa che cadde a terra, gli occhi verdi spalancati verso il nulla.
Krogen gridò disperato, prese il corpo dell’amico e cercò di correre via con lui, ma non ce la faceva, le gambe non si muovevano ed il corpo non rispondeva ad i comandi.
Era stato un bambino coraggioso, ma da uomo questo aggettivo non gli calzava affatto bene.
 Lasciò cadere di nuovo a terra il cadavere del suo amico, che emise un tonfo sordo nel silenzio desolante che la morte aveva lasciato nel campo di Dachau.
Era l’ultimo rimasto in piedi, ancora una volta.
Le sue mani tremavano mentre l’americano gli si avvicinò, con la canna del fucile pericolosamente puntata contro di lui. Gli  ordinò di inginocchiarsi, indicando con veemenza il terreno ricoperto dei cadaveri dei suoi compagni e lui lo fece, cosciente d’essere alla fine. Che, in quella sfida tra lui e 24568, non era uscito vincitore. Che l’ultimo rimasto in piedi ora era caduto sulle proprie ginocchia, che aveva paura di morire e non era disposto  a farlo per Hitler.
 Wilhelm chiuse gli occhi quando percepì il freddo della canna contro la sua nuca, trattenne i singhiozzi infantili che minacciavano di scuotere il suo corpo.
Chiuse gli occhi e non li riaprì mai più.
 

 
 
 

 
 

 
   
 
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