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Autore: Stateira    01/06/2009    7 recensioni
Saga non pensava a sé stesso come ad un’eclissi. Questo genere di metafore da pochi spiccioli non lo interessavano. Non gli interessavano le metafore in genere, lui che era già abbastanza lontano da sé stesso da non aver bisogno di ulteriori, pericolose sublimazioni.
Vincitrice del concorso "Dark versus Light" indetto da Writer's Dream - Sezione Fanfiction.
Genere: Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Gemini Saga
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Writer’s Dream lancia il primo concorso

Ai miei Goldies

Grazie <3

 

 

 

Orgè

 

 

 

 

 

Ci sono modi di vedere il mondo, di viverlo e di giudicarlo, che sono diversi come la luna dal sole, e si scontrano, si insultano, si mordono l’un l’altro perché le loro tonalità non si confondano, anzi rimangano separate dalla linea netta di un orizzonte sempre un po’ nero. Non riescono a convivere fra loro, se non sul filo di spada, nonostante il tempo che passa ed i tentativi di mediare, che somigliano man mano sempre di più ad una redenzione mai voluta. Esistono persone che sono morte per un ideale, ed altre che per un ideale hanno ucciso.

E poi, c’è chi riesce ad essere sia luna che sole. Chi riesce ad uccidere e a morire come se in fondo fosse la stessa cosa. Chi si ammala di libertà al punto di spaccare i limiti dell’unità e della coerenza. Fino a trascendere.

E ciò è male.

 

Saga non pensava a sé stesso come ad un’eclissi. Questo genere di metafore da pochi spiccioli non lo interessavano. Non gli interessavano le metafore in genere, lui che era già abbastanza lontano da sé stesso da non aver bisogno di ulteriori, pericolose sublimazioni.

Quando il mondo lo aveva chiamato a farsi concreto, aveva risposto sfoderando una maschera illegittima. Di questo era ben consapevole, per quanto la sua situazione grottesca gli permettesse di esserlo. Le macchie oscure sulla sua veste avevano sempre un colore, ma mai un’origine.

Il perché, quella notte, si sentisse così solo, non lo conosceva, ma gli era bastato avvertire il soffio tenue della coscienza spirare fra i lunghi capelli, ed aver riaperto gli occhi limpidi sul mondo, dopo tanto dormire, che i suoi piedi si erano mossi da soli, leggeri e veloci, sicuri della via.

 

I gradini da percorrere erano innumerevoli

 

Subito fuori, lo accolse un profumo infido, di cielo e di fiori mediterranei. Privo di quella maschera abbagliante, lo sentiva con forza, come una conseguenza inevitabile del respirare. La maschera, per ironia, irretiva anche la sensibilità della pelle del suo volto, la capacità di percepire il calore di un fiotto di sole, o il tocco pungente del vento. Era come essere vittima dell’angosciosa privazione dei sensi, fobia di ogni Cavaliere d’Athena, ma avendolo richiesto.

Eppure non era una prigione, oh no, e perché mai: era il simbolo del suo potere. Un talismano minato dalle premesse e dalle conseguenze, che si offriva esso stesso a contrappasso per la sua condotta.

 

E giunse alla Dodicesima Casa

 

L’odore leggiadro delle rose si era fatto fastidioso. Non se ne stupì per niente, era come se riuscisse a penetrare attraverso la pelle, a propagarsi sul palato diffondendo per tutta la bocca un sapore amaro.

L’aria era diventata umida, Saga fu tentato di spogliarsi della sua tunica, prima di proseguire la sua corsa. Era notte fonda, e nessuno lo avrebbe sorpreso nella sua nudità. Ed anche fosse stato…

Saga amava dormire nudo, perché il suo corpo era dolce alla vista, e piacevole al tatto. E non mutava colore, no. Per questo lo amava, come fosse stato cosa sua ed altrui allo stesso tempo, come se fosse stato promesso, consacrato. Ne aveva cura, affinché custodisse il suo spirito per molto altro tempo ancora; e poiché gli spiriti erano due, ne aveva cura doppia, secondo una proporzione che, era sua idea, potesse essere proficua.

Così bello, Saga di Grecia, oh. Così tanto bello.

 

E giunse all’Undicesima Casa

 

La luna, a fargli compagnia, la luna ed il freddo. Che non fluttuava nell’atmosfera, ma si sprigionava con forza dalla sua stessa pelle, che solo fino ad un attimo prima aveva voluto liberarsi dall’ingombro della stoffa leggera, e adesso rabbrividiva. La luce sarebbe gradualmente venuta a mancare, scendendo. Niente di più ragionevole, pensò. Niente di più appropriato.

E mentre correva senza troppa fretta all’ombra di quelle colonne, ebbe la sensazione che la sua usurpazione avesse un significato ancora più profondo del potere e dei suoi ingranaggi più oscuri, come se tutto improvvisamente avesse guadagnato una terza, sconosciuta dimensione. Ebbe la sensazione di aver stracciato e calpestato qualcosa di molto prezioso e legittimo. Ne rimase spiazzato, tanto che quasi si fermò. Ma appena fece per rallentare, le sue braccia scoperte rabbrividirono di nuovo, con forza ancora maggiore. Evidentemente, dunque, non era il momento.

 

E giunse alla Decima Casa

 

Serrò i pugni, costringendosi ad ascoltare il suo respiro profondo e regolare.

Nessun altro suono animava quella notte troppo silenziosa, nemmeno un fiato di vento che facesse da contrattema al suo. Non un verso di nottola, o di qualche bestia notturna che si aggirasse per fame o per noia nella notte. Magari predando. Era un silenzio attonito e concentrato, come quello di chi tenta di darsi una spiegazione, di sciogliere un enigma con le proprie sole forze.

E c’era qualcosa di mistico, in tutto ciò. Poteva ingannarsi, ma addirittura di fanatico.

Dopotutto, era strano, per lui che era abituato al frastuono di voci che si alternavano, quando non si sovrapponevano, incessantemente, rumoreggiando nella sua testa esausta. È la norma, per chi convive con sé stesso sul filo di spada.

 

E giunse alla Nona Casa

 

Stava per metter piede nell’antro sacro, quando un cappio invisibile gli si strinse attorno alla gola fino a farlo boccheggiare. Saga formò un sorrisetto amaro, tastando quell’inesistente strumento di tortura: l’aveva previsto. Superò mura e colonne rese polverose dall’incuria e da ordini tassativi di cui non aveva ricordi, ma solo sentori.

Il silenzio divenne un mare furibondo, tramortito dai venti di burrasca, che si abbatte sempre sul medesimo scoglio, spossandolo.

Saga sapeva molto bene di essere una stessa cosa che, semplicemente, si era spaccata a metà. Era preparato, non a gestirla, ma a sopportarne la vergogna. E tutte le ripercussioni.

Aveva ucciso ed era morto, una seconda volta.

Era stata una danza del sangue e della vittoria, non sul cadavere del tuo nemico, ma della persona che più era cara al tuo cuore. Ad uno dei due cuori.

Lì, tutto era tranquillo e malinconico.

E se solo, se solo lui fosse riuscito a smettere di tremare.

 

E giunse all’Ottava Casa

 

La luna tornò prepotente a risplendere nel suo campo visivo, abbagliandolo con la sua luce sfuggente, come se per un attimo avesse scordato il suo ruolo e si fosse creduta un sole. Rovesciando intendimenti, accordi, consapevolezze. Si era sopravvalutata, forse.

Saga ne ebbe un po’ pietà, perché la vide, ora, vergognosa, rifugiarsi dietro i frontoni dello Scorpione. Pentita e frustrata.

L’atmosfera, per il resto, era fresca e ridente, molto meno pesante di come la ricordava pochi gradini più su. Si disse che commettere errori nel valutare le correnti ventose, o la direzione delle nuvole, è quanto di più facile possa accadere. Sono elementi poco inclini alla regolarità.

La stessa cosa si può dire per una persona, soprattutto quando si tratta di sé stessi. Che sia il semplice sopravvalutare la propria potenza rispetto a quella dell’avversario, oppure peccare di eccessiva fiducia, Saga conosceva bene questo genere di sbagli, perché ne portava vivo il ricordo in sé. Laggiù, nell’angolo remoto del mostro.

 

E giunse alla Settima Casa

 

Si levò un’aria umida e vagamente stagnante, nonostante la brezza tirasse vivace e portasse i vapori della notte qua e là, senza lasciarli sostare.

Era aria di abbandono, di un luogo che scontava una sorta di vedovanza troppo benevola per intaccare la serenità di chi vi passava attraverso. Come se si limitasse a dichiarare, con sobrio distacco, il proprio penoso stato, senza pretendere aiuto, ma esigendo il più profondo rispetto. Saga, nonostante la tenuità di quelle impressioni, ne fu toccato. La sua intelligenza finissima ed un po’ autocompiaciuta lo avvertì di una qualche sensazione strana, che minacciava di divenire pesante persino per spalle come le sue.

Ricordò.

Di quando aveva ucciso ed era morto, una prima volta.

Ed era stato come fuggire.

Via, sulle ali di un demone del sonno.

 

E giunse alla Sesta Casa

 

La fiducia, sì.

Ci stava riflettendo su fino a poco prima, ed ora che quell’aura lattiginosa che lo aveva stordito se n’era rimasta ad aleggiare un po’ più indietro, recuperò la lucidità.

Amica di una vita felice, per quanto ne sapeva. Quel che onestamente ignorava, era se fosse il culmine della saggezza, o l’abisso della stupidità. Perché lui aveva goduto della fiducia di stupidi e di saggi, pressoché senza differenze. Dei più stupidi e dei più saggi, a ben vedere.

Era stata questa fiducia, prima di ogni altra sua azione, ad elevarlo lì dove ora si trovava, sull’orlo della vertigine. Una fiducia mesta, che raccontava di quanto impegno, e quanta dedizione, avesse infuso lui ai suoi giorni di sole, per conquistarla; per poi doverla donare in sacrificio, stracciarla e ridurla all’agonia con dita non più sue.

 

E giunse alla Quinta Casa

 

Cominciava ad avere il fiato corto. Ma non poteva fermarsi, non all’antivigilia della sua meta. Giunti a quel punto, sarebbe stata mancanza di coraggio, perciò no, non sarebbe bastato un miracolo a farlo tornare indietro. Oltrepassò con una risolutezza che forse un po’ ostentava quelle colonne che parevano guardarlo.

Non fu difficile, Saga era avvezzo ad essere guardato. Con ammirazione, solitamente; con timore e sospetto da parte di pochissimi, sconsiderati occhi; con deferenza e sottomissione, per la maggior parte del tempo, ma quello non contava, ché in quelle ore, lui, dormiva. Che le colonne del Leone lo guardassero, dunque, se lo desideravano: non sarebbe stato così vigliacco da sottrarsi. Il coraggio, quello, non gli era mai mancato.

 

E giunse alla Quarta Casa

 

Vi giunse pensando a cose terribili. Gli capitava, talvolta, di pensare cose inenarrabili di sé stesso. Che era un debole, un maledetto, uno spudorato. Se ne dispiaceva, poi, perché non ne aveva colpa. Si infiammava di sdegno per il destino che lo aveva avvinto in una tela di dolore e nebbie, ma poi passava anche questo.

Saga era fatto di tante scintille.

Giungeva un momento di desolazione profonda, e poi arrivava la speranza, flebile come una fragranza dolcissima, che risvegliava i suoi sensi e li sollevava dalla pressione dell’inerzia.

Saga si era abituato a vivere il più velocemente possibile.

 

E giunse alla Terza Casa. E lì si fermò.

 

Toccò distrattamente la prima colonna del pronao della sua antica dimora, mentre vi entrava, come fosse stata una carezza dovuta ad un buon animale domestico che, durante la sua assenza, era caparbiamente stato a guardia di quelle mura.

Non era vero, naturalmente: la Casa di Gemini doveva provare un disgusto più che legittimo verso il suo inquilino.

Era affaticato e preda dell’emozione, Saga. Evidentemente, non era più nemmeno capace di gestire il suo corpo affinché assecondasse la sua non certo ferrea volontà. I muscoli si tendevano anche senza che ce ne fosse necessità, riottosi.

Sollevò gli occhi al cielo, frugando fra le masse di stelle per trovare la sua.

Ma i Dioscuri suoi alleati ricambiarono con bagliori malevoli dei loro occhi astrali. Mortificato, comprese le loro motivazioni. Loro, loro in vita si erano amati molto. Il più forte fra loro aveva a cuore la sorte del più fragile, ne condivideva le vittorie e si angustiava per i suoi dolori, senza ambiguità alcuna. Le grotte nascoste e preda dei flutti di marea erano lontane dalle loro menti.

Saga, invece, era per sé stesso un conflitto: era vivo, ma da tutti creduto morto, tanto per cominciare.

Ma era venuto fin lì anche per questo, per scusarsi con le stelle gemelle, e provare a vedere se gli riuscisse ancora di parlare con loro, di accettare i loro preziosi consigli e di farsi guidare dalla loro luce, che era anche la loro voce.

Incrociò le braccia al petto, solennemente. Dal cielo, un barlume lo avvertì che, forse, sarebbe stato ascoltato.

Ed allora lui pregò.

Supplicò ad occhi chiusi che nulla di tutto ciò fosse vero. Anche a costo di rinunciare alla carica di Cavaliere d’Oro, e diventare l’ultimo dei mozzi al servizio di Athena.

Anche se, con ogni probabilità, non ci sarebbe comunque stato più un posto per lui.

Traditore, Saga, traditore dei Gemelli. Traditore della Dea.

Oh, quanta nostalgia. Gli parve per la prima volta in vita sua di poterne morire. Quanta triste, disperata volontà di tornare ai suoi giorni di sole, a quei giorni di sole, dove un solo sorriso valeva le ore passate a tirar pugni alle colonne di marmo, nel rigore dell’inverno.

 

Chiuse gli occhi, provato dalle preghiere e vinto dal sonno. La mattina dopo, per certo, si sarebbe destato con ancora addosso le sensazioni elettriche di un cerchio alla testa per il troppo vino, con i muscoli pesanti e gli occhi un po’ segnati.

Ma non era il momento di pensarci, quello; ché la mattina dopo, chissà quando sarebbe giunta.

 

 

 

 

NOTA:

 

Orgè significa rabbia, ira. L’ira è il sentimento portante di questa in questa lenta discesa. C’è l’ira di Saga verso sé stesso e verso le circostanze, l’ira di Gemini che ripudia sdegnosamente il suo Custode, l’ira di quanti hanno subìto e sono rimasti schiacciati da Saga stesso. Mi piacerebbe che si avvertisse, infatti, anche l’ira di Taurus,  e di Aries, le due Case che non vengono toccate qui per evidenti motivi, ma che ospitano l’uno un fuggiasco orfano del suo maestro, e l’altro un animo sensibile e vittima della sua bonaria fiducia.

 

Sono felicissima che questa fic si sia aggiudicata il concorso di Writer’s Dream, soprattutto perché mi rendo conto che non è un testo facilissimo, che presuppone una conoscenza davvero approfondita del fandom, ed una discreta predisposizione spirituale alle fisime mentali di chi scrive.

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