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Autore: edoardo811    04/02/2017    2 recensioni
Mentre il mondo è in rovina e Sub City è scenario di una terribile guerra tra bande e conduit, una vita si ritrova nelle medesime condizioni.
Si può davvero fuggire da sé stessi? Rabbia, odio, frustrazione, rancore, un mix letale che ci renderebbero una bomba ad orologeria pronta ad esplodere, se non si riesce a trovare il modo di disinnescarla.
O qualcuno in grado di farlo.
"Sbagliata. Ecco com’era lei. La sua vita, il suo comportamento, la sua mente. Tutto era sbagliato, in lei. Era una cosa che si ripeteva in continuazione e che, ovviamente, non poteva affatto portare a nulla di concreto. Aveva perso il conto di tutti gli specchi che aveva rotto, pur di non vedere nel riflesso quel volto emaciato che aveva imparato ad odiare con ogni fibra del suo essere: perché se doveva assegnare la colpa a qualcuno per tutte le sue sventure, quel qualcuno era proprio sé stessa."
Spin-off di InFAMOUS: The Darkness' Daughter.
Genere: Angst, Azione, Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shoujo-ai, Yuri | Personaggi: Blackfire, Sorpresa
Note: AU, Cross-over | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'InFAMOUS: The Series'
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Piccola precisazione:  avevo già scritto e pubblicato questa storia con il nome di "Sbagliata". Successivamente l’avevo rimossa per ragioni mie, ma ora ho deciso di ripubblicarla con il nome "Wrong", perché penso che suoni meglio, più qualche piccola modifica qua e la. Nulla di troppo drastico, giusto qualche piccolo ritocchino. Spiegazioni più dettagliate a fondo capitolo.

Nel caso siate alla vostra prima visione di questa storia, vi dico solamente che è uno spin-off di Infamous The Darkness’ Daughter (in cui la protagonista non sarà Rachel) e che pertanto sarebbe meglio leggere la storia completa per poter capire qualcosa di questa (potete tranquillamente trovarla nella omonima serie da me creata o sulla mia pagina autore).

Non voglio rubarvi altro tempo, buona lettura!





InFAMOUS:

 

 

Wrong

 

I

SBAGLIATA

 

 

 

Era stanca. Stanca di tutto quanto. Stanca fisicamente, stanca mentalmente, stanca di tutti quei ricordi che continuavano a vorticare nella sua mente senza darle nemmeno un dannato attimo di tregua.

Come faceva a continuare ancora? Come poteva, una come lei, riuscire ancora a camminare in quel luogo dimenticato da Iddio, senza fermarsi e cominciare a gridare come una pazza, piangere, oppure fare entrambe le cose in contemporanea?

Ne aveva quasi bisogno. Il suo corpo, la sua mente ormai dilaniata, la imploravano di lasciar perdere tutto quanto e accasciarsi per terra, per poi non fare più niente se non lasciarsi sopraffare da quei sentimenti che per troppo tempo aveva cercato di tenere rinchiusi dentro di lei.

Rachel aveva sempre creduto di essere una specie di mostro incontrollabile, l’unica che dentro di sé nascondeva chissà quale essere indomabile. Beh, non era così; non lo era mai stato. Anche lei aveva qualcosa di molto oscuro racchiuso dentro il proprio corpo.

Più il tempo passava, più sentiva la propria mente pulsare. Aveva sonno, aveva sete, aveva fame. E, soprattutto, aveva bisogno del suo lettore mp3 e della sua compilation degli Slipknot. Necessitava di ascoltare quelle canzoni che parlavano di pazzi psicopatici con personalità multiple. Anche perché lei si rispecchiava parecchio in quei testi.

Si appoggiò ad un muro, sfinita. Si massaggiò le tempie, mugugnando per il dolore e per la fatica. Si guardò alle spalle. La strada era deserta, come da quando aveva cominciato a percorrerla. Quel posto, la zona industriale di Sub City, le faceva schifo a dire poco. Era un tugurio pieno di ruggine, mostri di cemento abbandonati e di... beh, nient’altro.

Un quartiere gigantesco pieno zeppo di nulla. Ecco cos’era quel posto. E in un certo senso... era proprio come lei. Un guscio vuoto un tempo pieno zeppo di emozioni contrastanti, e che ora, dominato solo da rabbia, rancore e sensi di colpa, cadeva a pezzi.

I suoi pensieri non le davano pace. I ricordi, nemmeno. Ormai immobile, vinta dalla stanchezza, ed impossibilitata a combattere in tutti i sensi, si lasciò scappare un profondo sospiro e chiuse gli occhi. Era inutile resistere. Permise a tutte quelle immagini di apparire nitide di fronte a lei. Ognuna di esse fu un tormento insostenibile.

Rivide i suoi fratelli, sconvolti, che le dicevano che i loro genitori erano morti. Rivide suo zio nel letto malato. Rivide il cratere gigante nel Centro Storico. E, infine, rivide il suo fratellino. Tutto ciò che aveva avuto, perso, la sua vita caduta in frantumi e lei era sempre stata lì, in prima fila, a godersi la scena senza poter fare nulla per impedire che le cose cambiassero.

E sopra tutte queste immagini, spiccava una figura: una ragazza, con i capelli rossi come il fuoco e gli occhi verdi come smeraldi. Quella stessa persona che le aveva sconvolto la vita da cima a fondo, che le aveva sempre impedito di potersi comportare come un’adolescente qualsiasi. Con il suo sorriso, la sua presenza, il suo profumo, la sua gentilezza...

Strinse i pugni con forza, un grugnito infastidito uscì dalle sue labbra, insieme ad una lacrima che invece scese dai suoi occhi.

Sbagliata. Ecco com’era lei. La sua vita, il suo comportamento, la sua mente. Tutto era sbagliato, in lei. Era una cosa che si ripeteva in continuazione e che, ovviamente, non poteva affatto portare a nulla di concreto. Aveva perso il conto di tutti gli specchi che aveva rotto, pur di non vedere nel riflesso quel volto emaciato che aveva imparato ad odiare con ogni fibra del suo essere: perché se doveva assegnare la colpa a qualcuno per tutte le sue sventure, quel qualcuno era proprio sé stessa.

E mentre continuava a riempirsi di critiche, uno dei suoi tanti ricordi si fece largo tra le immagini, apparendole più nitido rispetto agli altri. E ormai era troppo tardi per cacciarlo via.

 

***

 

Le sue mani scivolavano avide sul suo corpo, palpando quasi con forza tutto ciò che incontravano. La sua lingua le imitava, assaporando ogni lembo di carne possibile, pur di saziare la sua fame.

Non riusciva più a fermarsi, ormai. Più ne aveva, più ne voleva. Era consumata del desiderio.

E anche la sua compagna se ne accorse. «C-Cavolo, v-vacci piano!» sussurrò, a fatica, mentre lei le carezzava l’interno coscia con voga.

«Scusa.» Non era sincera. Non lo era affatto. A lei non le importava nulla di cosa l’altra avesse pensato. Doveva placare la sua fame, in qualche modo, e non sarebbe stata la paura di fare del male a quella gallina senza cervello ad impedirle di avere ciò di cui aveva bisogno.

E senza dire altro, tornò a cercare con fervore le sue labbra.

Era stata un’altra notte di fuoco, quella. Aveva posseduto quella ragazza fino a quando, ormai sazia, non l’aveva lasciata addormentare sul suo letto. Dopodiché l’aveva guardata mentre era imprigionata tra le braccia di Morfeo, sfinita da quel lungo amplesso.

Ma mentre osservava la sua pelle liscia e pallida, i suoi seni floridi, i suoi capelli castani e lunghi e il suo viso bello e accattivante, non vedeva altro che il corpo di un’altra ragazza. E non appena rese conto di ciò, distolse lo sguardo con un grugnito frustrato, premendosi le mani sulle tempie.

E la sua compagna d’avventura, di cui nemmeno ricordava il nome, la sentì. Si svegliò, strofinandosi le palpebre, esausta, per poi mugugnare: «Che stai facendo? Non... non dormi un po’?»

«No» rispose lei, secca, per poi voltarsi e guardarla con aria glaciale. «Devi andartene da qui.»

E senza permetterle di dire altro, la fece  rivestire e uscire quasi di peso, cercando di fare il minimo rumore per non farsi beccare. Nessuno in casa sapeva che a lei piaceva il genere sbagliato, ed era intenzionata a mantenere quel segreto a costo di sacrificare anima e corpo, o comunque ciò che di essi rimaneva.

Poco prima di cacciarla sul vialetto, la ragazza castana si voltò verso di lei, guardandola quasi implorante. «Ma... credevo tu volessi...»

Non le permise nemmeno di parlare. Si congedò con bruschezza, si voltò e se ne ritornò in casa, abbandonandola la fuori con la sua frase a metà.

Risalì le scale. Probabilmente avrebbe dovuto sentirsi in colpa per averla trattata così, ma la realtà era ben diversa.

Mentre puntava verso la sua camera, una porta del corridoio si aprì all’improvviso, facendola trasalire. Sua sorella apparve sull’uscio, con indosso il suo ridicolo pigiama rosa. Che però riusciva comunque a starle bene.

La ragazza arrossì stupidamente quando ebbe quel pensiero, ringraziando il cielo per la penombra che inondava il corridoio. Tuttavia, questa non era stata sufficiente per nasconderla agli occhi della minore. Se non altro, si era messa qualche straccio addosso, prima di uscire da camera sua, e non era completamente impresentabile.

«Komi, che... che stai facendo? È tardissimo!» le disse la rossa, prima con voce impastata, e poi con più decisione, quasi con preoccupazione. Come per dirle, "se mamma e papà ti beccano, si arrabbieranno!". Era riuscita a preoccuparsi per lei anche in un momento così banale.

Lei la guardò senza sapere cosa rispondere. Aprì e chiuse le labbra come un baccalà per diversi istanti, prima di riuscire a riscuotersi. Nel modo sbagliato, ovviamente.

«Levati dai piedi» rispose, scorbutica, passandole accanto e spingendola verso la porta di camera sua, strappandole un verso sorpreso. Non si voltò più. Subito dopo era di nuovo nella sua stanza, appoggiata contro la porta, intenta a sospirare rumorosamente, una cosa che faceva da fin troppo tempo ormai.

Ma tanto sapeva benissimo che nessun muro o porta sarebbe riuscito ad impedirle di vedere l’espressione demoralizzata che sua sorella doveva aver assunto dopo la sua sgarbata reazione.

 

***

 

Amalia sospirò, riaprendo gli occhi e guardandosi le ginocchia. Aveva perso il conto di tutte le sere trascorse in quel modo, passate a cercare di dimenticare un desiderio irrealizzabile, facendolo tuttavia nel peggior modo possibile.

La sua sessualità non era mai stata un problema troppo grave per lei. Era una cosa con cui aveva imparato a crescere, all’inizio con un po’ di stupore e perplessità, in particolar modo quando, mentre tutte le altre ragazze sbavavano dietro a chissà quale fotomodello, lei si ritrovava a fare lo stesso ma osservando giornaletti dal dubbio gusto raffiguranti tutt’altra roba, ma poi con il tempo le cose si erano appianate. Ricordava ancora con una sorta di amaro divertimento i giorni in cui, da bambine, lei e sua sorella guardavano i classici film di principesse alla televisione e Stella, rannicchiata sul divano assieme alla loro madre, raccontava di come da grande avrebbe voluto incontrare un principe azzurro proprio come quello dei cartoni, mentre Amalia, sdraiata a pancia in giù sul tappeto, pensava solamente a quanto bella la principessa fosse.

Non le era mai stato troppo difficile riuscire a trovare compagnia per la notte, anche perché per le ragazze era quasi diventata una moda essere bisessuali, o quantomeno fingere di esserlo. Sì, perché nemmeno un quarto delle ragazze con cui era stata erano davvero convinte di ciò che stavano facendo, ma a lei non era mai importato un accidente.

Se quelle erano pronte a fingersi una persona che non erano per poter attirare più attenzioni, allora era peggio per loro. Lei non era così.

Da un lato non aveva mai avuto paura di ammetterlo, lei era lesbica. E preferiva che le cose andassero in quel modo, piuttosto che cambiare orientamento sessuale in base a come tirava il vento come molti suoi coetanei facevano, il tutto, ovviamente, sempre e solo con l’unico fine di essere più popolari.

Ma poi la sua sessualità aveva voluto giocarle un brutto scherzo. Ed era stato allora che aveva imparato ad odiarsi e a combinare un disastro dietro l’altro. Si era allontanata sempre di più dalla retta via, dalla propria famiglia, da quei pochi amici che era riuscita a farsi, aveva gettato tutto nel cesso. Da allora aveva capito di essere sbagliata.

E poi era successo tutto il resto. La morte dei suoi genitori, l’esplosione, la morte di Kori, quella di Ryan. Tutto quanto era caduto a pezzi, mentre lei, invece, come se si trovasse nell’occhio di chissà quale sadico e cinico ciclone, era rimasta illesa.

Ryan avrebbe potuto trovarsi al suo posto, Kori avrebbe potuto, i suoi genitori avrebbero potuto, invece era toccato a lei. Lei, quella che meno di tutti se lo sarebbe meritato, era ancora viva. Dopo aver tradito la fiducia delle persone che le volevano bene, dopo aver causato loro sofferenza, dispiacere, problemi su problemi, era ancora lì, a rimpiangere tutto ciò che aveva perso e che mai aveva imparato ad apprezzare come avrebbe davvero dovuto.

Si sentiva sull’orlo di un baratro, combattuta tra la paura di saltare e il desiderio di mettere fine a tutto quanto e farlo. Era questione di un attimo, bastavano una pistola ed un proiettile, e lei li aveva entrambi proprio nella sua tasca. In questo modo avrebbe potuto finalmente rimettere ogni cosa al proprio posto, tutto avrebbe ritrovato il proprio equilibrio. Ma allo stesso tempo sapeva, in cuor suo, che quella non era davvero la soluzione.

Kori non lo avrebbe fatto, tantomeno Ryan. Per quanto docili, per certi aspetti loro due erano molto più agguerriti di lei.

Fare ciò sarebbe stato l’ennesimo gesto che dimostrava che a lei, della sua famiglia, non le era mai importato nulla, che preferiva scegliere la via facile piuttosto che quella difficile. E per quanto la via facile la tentasse, era a conoscenza del fatto che non era arrivata fino a lì per nulla. Se era sopravvissuta, se era toccato a lei doversi sorbire la propria vita mentre veniva distrutta di fronte ai suoi occhi, era perché c’era ancora qualcosa ad attenderla. Positivo o negativo che fosse, toccava a lei scoprire cosa fosse questo qualcosa. A lei e lei soltanto. Ed era proprio per questo che si era staccata dal suo gruppo di compagni di viaggio.

Anche se, sotto certi aspetti, aveva rimpianto quella decisione.

«Ma guarda cosa abbiamo qui!» esclamò una voce all’improvviso, facendola trasalire.

Sollevò gli occhi di scatto, per poi trovarsi di fronte un pick-up fermo, con quattro ragazzi radunati attorno ad esso, ognuno di loro con lo sguardo incollato su di lei. Anzi, più che dei ragazzi, sembravano dei fenomeni da circo.

Uno di loro era un nano, nel vero senso della parola, con i capelli rasati. Un altro, invece, era alto almeno due metri e aveva dei capelli ed una barba di un colore arancione carota quasi fastidioso alla vista. Gli altri due, un ragazzo afroamericano e un altro pallido con un cappello rosso, invece sembravano quasi normali.

«Ti hanno mai detto che sei proprio uno schianto?» disse il nano, sorridendole, mostrandole i suoi bei denti ingialliti. «Che ne diresti di venire a farti un giretto insieme a noi?»

Amalia si rialzò lentamente in piedi, digrignando i denti. Era stata così immersa nei propri pensieri che non si era nemmeno accorta dell’arrivo di quei tizi. E, forse, fermarsi sul ciglio della strada in quel modo non era stata proprio una grande idea. «Preferirei di no» rispose, sulla difensiva.

«Oh, andiamo! È perché sono basso? Credimi, posso compensare molto bene questo mio piccolo difetto...» insistette il piccoletto, ammiccando.

«Ok, forse non mi sono spiegata bene...» ribatté lei, con tono calmo, mentre si piantava le unghie nei palmi. «... levatevi dai piedi. Immediatamente!»

«Accidenti, sei una che si scalda facilmente!» sghignazzò ancora il nuovo arrivato, mentre i suoi compari sorridevano in maniera inquietante alla mora. «Dimmi... che cosa faresti se invece restassimo qui?»

Nello stesso momento in cui parlò, il resto del gruppo cominciò ad estrarre qualche arma. Komand’r li osservò; due coltelli e un piede di porco. Il capo, invece, era disarmato. Intuì comunque che non l’avrebbero lasciata andare tanto facilmente. Non che la cosa la preoccupasse, d’altronde aveva tappato la bocca a persone molto più minacciose di quel manipolo di clown.

Si sfilò il borsone, per poi sgranchirsi il collo. «D’accordo, ho capito. Chi vuole essere il primo? O preferite fare tutti insieme?»

«Se facessimo tutti insieme dopo non riusciresti più a camminare» si intromise il colosso, incrociando le braccia.

«Credimi. Io sono una tosta» ribatté lei, sorridendo glaciale. «Posso tenervi a bada tutti quanti in contemporanea.»

«Sentito gente? Questa sì che è un’esperta!» tornò all’attacco il nano. Il gruppo di ragazzi cominciò a ridacchiare, mentre tutti loro si avvicinavano a lei. «Scommetto che ha una bocca fantastica.»

«A tua madre è piaciuta molto.»

Il ragazzo sgranò gli occhi, mentre i suoi compagni cambiavano bersaglio e si facevano beffe di lui. «Che avete da ridere, idioti?!» protestò quello, zittendoli, per poi indicare la ragazza. «Prendete subito quella putta...»

Komand’r estrasse una pistola dal retro dei pantaloni un attimo prima che potesse finire la frase. «Voi non fate proprio un cazzo, invece.»

Il ragazzo ammutolì di colpo, per poi sollevare le mani. Sorrise incerto. «E-Ehi, coraggio, calmati. Stavamo solo scherzando.»

«Avete scelto un pessimo momento per scherzare con me.» Amalia abbassò il cane, ringhiando di rabbia. «Vi do tre secondi per sparire. Dopodiché, non mi assumerò la responsabilità delle mie azioni.»

«D’accordo, d’accordo, rilassati. Ce ne andiamo.» Il ragazzo cominciò ad indietreggiare, imitato dai suoi compagni.

Ma non appena sembrò che stessero davvero per andarsene, quello sorrise meschino, dopodiché fece un cenno all’afroamericano. Costui non ebbe bisogno di ulteriori chiacchiere: abbassò una mano di colpo, per poi puntarla verso di Komand’r.

Un istante prima che lei potesse fare qualsiasi cosa, un raggio di luce rosso sfavillante uscì dal suo palmo, dirigendosi verso di lei. La ragazza urlò per la sorpresa e si gettò a terra per schivare il colpo. Rotolò sul suolo e si alzò in piedi serrando la mascella, poi risollevò la pistola. Nello stesso momento, il colosso barbuto urlò e cominciò a correrle incontro, mentre i suoi compagni correvano ai ripari dietro al pick-up.

Amalia fece fuoco, ma i proiettili si conficcarono nel torace del bestione, perforandolo solo superficialmente e senza causare danni ingenti. Colta di sorpresa, Komi venne raggiunta e afferrata per il collo. Sgranò gli occhi e la pistola le cadde di mano, mentre il bestione la sollevava come una bambola di pezza, per poi stringere la presa attorno alla sua gola.

La ragazza emise un verso strozzato per via del dolore, ma non si sarebbe arresa così facilmente. Mentre con una mano cercava di allentare la presa, con l’altra si frugò in una delle tasche del cappotto, per poi tirare fuori il coltello a serramanico. Gridò e lo sollevò, per poi conficcarlo più e più volte nel polso del suo assalitore. All’inizio le parve di conficcarlo in un blocco di legno, ma poco per volta riuscì a scalfire la pelle e a penetrare più a fondo, fino ad arrivare a ferirlo.

Il rosso grugnì per il dolore e mollò la presa, facendola cadere, per poi afferrarsi il polso insanguinato. Amalia tossì, rotolò di lato e si rimise subito in piedi, per poi cominciare a correre; non poteva affrontare quei tizi da sola. Era evidente che il colosso e l’afroamericano erano dei conduit, e molto probabilmente lo erano anche gli altri due. Non aveva speranze, non senza armi. Si maledisse per aver perso la pistola e anche il borsone in cui aveva nascosto il fucile.

Alle sue spalle sentì gli schiamazzi del nano, il quale probabilmente stava incitando la sua truppa ad inseguirla. Lei svoltò al primo angolo e si infilò in un vicolo tra una recinzione di ferro, oltre la quale si trovavano delle grosse strutture cilindriche, ed una fabbrica. In lontananza riuscì ancora ad udire il pick-up di quei quattro accendersi e partire facendo fischiare le gomme. Si voltò e vide la macchina svoltare, per poi inseguirla.

«Cazzo» ansimò, per poi accelerare.

Il veicolo si avvicinava sempre di più e il colosso, in piedi sul vano di carico, la osservava furibondo. Intuendo di essere nei guai, Amalia si gettò contro la recinzione e la scavalcò, per poi saltare dall’altro lato.

Corse a perdifiato in mezzo a quel labirinto di cisterne, passerelle sopraelevate e scalette, mentre, dietro di lei, la recinzione saltava in aria e il pick-up continuava ad inseguirla.

Lasciatemi in pace, bastardi!

Komand’r zigzagò tra le grosse cisterne, e poco per volta udì il rumore del motore della macchina dei suoi inseguitori affievolirsi. Infine, si fermò per riprendere fiato. Si appoggiò contro la superficie metallica di uno di quei cilindri ed inspirò ed espirò profondamente.

«Ma tu guarda se dovevano proprio capitarmi dei conduit...» mugugnò, per poi lasciarsi cadere seduta a terra. «E oltretutto sono disarmat...»

Il rumore di quel maledetto pick-up tornò a farsi sentire all’improvviso. La ragazza si irrigidì come un palo, mentre dall’altro lato della cisterna poteva perfettamente udire la macchina di quei conduit passare, per poi fermarsi di colpo.

Amalia trattenne il fiato. Dubitava che l’avessero trovata, pertanto non doveva assolutamente farsi notare.

Udì il motore spegnersi e le portiere aprirsi, per poi richiudersi con forza. Erano scesi.

«Non può essere lontana.» Questo era il nano che parlava. «Da qui andiamo a piedi, così saremo più silenziosi. Setacciate questo posto e trovatela. Billy, tu resta qui a fare la guardia. Non sia mai che quella puttana ci rubi la macchina.»

«Sì capo.»

Rumore di passi. Amalia si appiattì più che poté contro la cisterna, perle di sudore freddo le scivolavano lungo la fronte. Vide un’ombra apparire alla sua destra e si spostò di lato, sempre strisciando contro la superficie ferrosa, in modo da fare meno rumore possibile. Il conduit afroamericano apparve all’improvviso nel suo campo visivo, facendola irrigidire ulteriormente. Quello camminò per un breve tratto, mentre lei continuava a spostarsi silenziosamente, aggirando la struttura cilindrica, dopodiché lui si guardò attorno di scatto, facendo un verso diffidente.

Amalia si morse la lingua e si fermò di botto. Il ragazzo puntò gli occhi verso la sua direzione. Nonostante si fosse nascosta in tempo, la ragazza pensò di essere ugualmente fottuta. Così non fu. Dopo qualche altro istante, l’afroamericano scosse la testa e continuò a camminare. Komi attese almeno sessanta secondi prima di respirare di nuovo. Quel tizio non l’aveva notata, per fortuna non sembrava molto scaltro. Beh, nessuno di loro doveva essere molto scaltro, per lasciarsi comandare da un nanetto con manie di protagonismo.

Non notando altre presenze, con il cuore che pompava nel petto all’impazzata, decise di uscire lentamente dal suo nascondiglio. Arrivò al bordo della cisterna, poi si sporse. Di fronte a lei vide il pick-up di quei quattro parcheggiato in mezzo ad altre cisterne, più il ragazzo con il berretto a fare il palo.

Komand’r strinse con forza la presa attorno al coltello. Poteva scappare, tuttavia... quella macchina la tentava e non poco. E quel tizio, Billy, sembrava essere l’unico nei paraggi. E tra tutti e quattro, forse era quello da temere di meno. La ragazza annuì a sé stessa, mentre un sorrisetto si dipingeva sul suo volto. Quei tizi avrebbero presto capito con chi avevano a che fare.

Si mosse di soppiatto, passando da cisterna a cisterna ogni volta che Billy non guardava verso la sua direzione. Lentamente, molto lentamente, si avvicinò al pick-up, fino a quando non si trovò esattamente dall’altro lato della cisterna di fronte alla quale esso di trovava. Strisciò contro la superficie, accovacciata. Uscì dal nascondiglio ed andò a posizionarsi dietro il vano di carico della macchina. Billy, appoggiato contro la portiera, sbadigliò.

Era il momento giusto. Komand’r si frugò tra le tasche e trovò un caricatore della sua pistola. Lo aprì ed estrasse un proiettile, dopodiché se lo rinfilò in tasca. Strinse tra le mani la cartuccia color bronzo, poi la gettò contro la cisterna accanto a Billy, producendo un rumore metallico. Quello trasalì e si guardò attorno, sorpreso. Si avvicinò al luogo di origine del tintinnio per controllarne la provenienza, e le diede le spalle.

Sei mio!

Amalia girò attorno al pick-up e si avvicinò a lui, dopodiché si alzò in piedi e lo assalì, afferrandolo da dietro. Billy si accorse di lei e cercò di gridare, ma lei fu più rapida e gli tappò la bocca con una mano. E senza dargli ulteriore tempo, sollevò il coltello e glielo piantò nel collo, facendogli emettere un altro gridò, questa volta di dolore.

«Pessima idea fare il palo!» sussurrò lei, rigirando il coltello nella sua carne, facendogli emettere urla sempre più forti, tuttavia offuscate dal palmo della mano della ragazza.

Billy cercò di dimenarsi e di liberarsi, ma nel giro di poco tempo cessò di lottare e chinò il capo in avanti. «Sogni d’oro, bastardo.» Amalia lo lasciò cadere pesantemente a terra, poi si avvicinò alla macchina per esaminarla meglio. Dentro il vano di carico, non poté non notare proprio il suo borsone. Si illuminò non appena lo vide. C’era praticamente un pezzo di lei stessa, lì dentro... beh, non proprio, ma c’era il suo fucile, ed era quello l’importante.

Si avvicinò al retro della macchina per prendere ciò che era suo, ma un sibilo la costrinse a voltarsi di scatto. Vide una luce rossa accecante, e subito dopo si ritrovò a terra a gridare di dolore a causa di un terribile bruciore al fianco. Sentì perfino odore di vestiti e carne bruciata.

«Porca troia, Billy!» Il conduit afroamericano arrivò di corsa, per poi chinarsi sul socio, il quale giaceva immobile in una pozza di sangue. Lo osservò per un breve momento, poi drizzò gli occhi su di lei. «L’hai ucciso! Cazzo, lo hai ucciso, psicopatica che non sei altro!»

Komand’r grugnì di dolore e cercò di strisciare verso il suo coltello, che le era caduto quando era ruzzolata a terra, ma un calcio sul fianco ferito la fece desistere all’istante.

«E sta ferma, pazza schizzata!»

Amalia gemette, portandosi una mano sul fianco ferito. Lo sentiva andare a fuoco, letteralmente. Era come se l’avessero ustionata con la fiamma ossidrica. Ancora una volta si vide costretta a riempirsi di maledizioni: si era fatta beccare come una stupida.

«Che sta succedendo qui?!» Un’altra voce, questa volta del nano. Sia il capo della banda che il gigante erano tornati, probabilmente attirati dalle esclamazioni dell’afroamericano.

«Questa stronza ha ucciso Billy! Gli ha tagliato la gola, cazzo!»

I due nuovi arrivati osservarono basiti il loro collega immobile al suolo, dopodiché il colosso ringhiò di rabbia e si avvicinò a lei. «Adesso me la paghi!» La afferrò per i capelli e cominciò a tirare con forza, facendola gridare e costringendola a mettersi in ginocchio.

«Volevamo solo divertirci un po’ con te, ma adesso la faccenda è personale!» Il rosso la tirò in piedi, continuando a farla urlare per il dolore alla testa. Ma non appena fu completamente eretta, serrò la mascella e sferrò un poderoso calcio al suo interno coscia. Quello urlò in maniera disumana, con voce più alta di un’ottava, e si portò entrambe le mani sul luogo martoriato. Amalia cadde di nuovo a terra, poi afferrò il coltello.

«Mammoth!» gridò l’afroamericano, mentre il colosso cadeva a terra, per poi digrignare i denti. «Ora basta, mi hai...»

Amalia non gli concesse il lusso di terminare la frase. Raccolto il coltello, glielo lanciò con tutta la forza che ancora aveva, colpendolo ad una spalla. Il ragazzo gridò di dolore e cadde a sua volta in ginocchio. Komi boccheggiò, poi si rimise di nuovo in piedi. Di fronte a lei, solamente il nanetto. Digrignò i denti non appena lo notò. Quello intuì il pericolo, perché prima osservò i suoi amici, probabilmente in cerca di aiuto, e poi, realizzando che loro non l’avrebbero salvato, indietreggiò. «As-Aspetta!»

Lei lo ignorò. Urlò a perdifiato, poi gli corse incontro. Il piccoletto sbraitò a sua volta, ma per lui ormai era tardi; la ragazza gli fece assaggiare la suola del proprio stivale dalla punta rinforzata, scaraventandolo a terra e calpestandogli, letteralmente, il volto, lasciandolo a terra tramortito. Dopodiché corse. Non si voltò, non fece nient’altro, non pensò a nient’altro. Doveva scappare, e al più presto. Mandò al diavolo la macchina, la borsa, il coltello; l’unica cosa che contava era fuggire.

Il dolore al fianco non le dava tregua. Teneva una mano premuta su di esso per cercare di alleviarlo, ma tra il cappotto e la canottiera strappati non sentiva altro che bruciore e sangue.

Questa volta si assicurò di allontanarsi a dovere da quel luogo. Le gambe le imploravano pietà, lo stesso valeva per il fianco, ma lei non aveva intenzione di fermarsi. Se si fosse fermata e quelli l’avrebbero trovata, l’avrebbe pagata molto cara. Non aveva fatto semplicemente un casino, poco prima. No, assolutamente no. Quello che aveva fatto rientrava a pieni voti nella categoria delle puttanate. E solamente poche volte aveva compiuto gesta degne di quel nome.

Le cisterne si trovarono ad un quartiere di distanza da lei. Poi a due, poi a tre, quattro, cinque.  Andò avanti fino a quando le gambe non cedettero, letteralmente. Ruzzolò a terra, graffiandosi i palmi delle mani sull’asfalto, gemendo di dolore. Rimase immobile, sdraiata sulla strada per qualche istante, a cercare di riprendere fiato e a lasciare che il cuore smettesse di battere all’impazzata, prima di farselo esplodere nel petto.

Continuò a boccheggiare per quelle che le parvero eternità, fino a quando un rumore che ormai conosceva troppo bene le fece sgranare gli occhi. Sollevò il capo e si voltò, per poi scorgere in lontananza una macchina avvicinarsi. Non le fu intuire di quale macchina si trattasse.

Merda!

Si rimise in ginocchio di scatto, ma quel movimento così repentino le causo una lancinante fitta di dolore al fianco, che la costrinse a cadere di nuovo a terra. «No... devo... farcela...» Cominciò a strisciare, letteralmente. Ogni millimetro mosso era un’atroce sofferenza, ma non poteva fermarsi. Se quelli l’avrebbero trovata lì, ridotta in quello stato, sarebbe stata spacciata.

Puntò ad un vicolo proprio accanto a lei, che si affacciava sulla strada. Tuttavia, più si avvicinava ad esso, più le pareva lontano, più le pareva difficile continuare muoversi. Perfino respirare cominciò a causarle dolore al fianco. Si sentiva come se ce lo avesse arpionato al terreno, e ad ogni suo movimento il gancio che la teneva immobilizzata le azzannava la pelle, costringendola a fermarsi.

La macchina era sempre più vicina. Ormai incapace di muoversi ulteriormente, tese una mano verso il vicolo, poi si accasciò a terra. Il dolore continuava a divorarla, non sentiva più le gambe e anche la testa le faceva un male cane. Le palpebre si appesantivano sempre di più al passare dei secondi. Infine, il veicolo si fermò accanto a lei, e qualcuno scese. Amalia gemette e si voltò verso di esso, ma a causa della vista affaticata non riuscì a distinguere nulla di nitido. Riuscì a malapena a scorgere una figura che si avvicinava a lei, per poi inginocchiarsi.

Qualche strano rumore giunse alle sue orecchie, probabilmente erano delle parole, ma non riuscì a disgiungere nessuna di esse.

L’ultima cosa che ricordò, prima di arrendersi al suo destino, fu quell’individuo oscuro accovacciato su di lei.






Sì, l’ho ripubblicata. Sì, ho cambiato il titolo. Sì, sono un cretino. Sì, la finirò questa volta. No, non mi aspetto che accettiate le mie scuse, perché sono un cretino. Ma, ehi, la storia è di nuovo qui quindi urrà! È il pensiero che conta, giusto? Giusto. Ci sarà qualche piccola modifica qua e là ma probabilmente nemmeno ve ne accorgerete, visto che, comunque, la trama è la stessa della scorsa volta e i fatti che accadono sono i medesimi.

Bene, per chi stia leggendo questa storia per la prima volta, invece, sì, la protagonista non è più Rachel, bensì Amalia, in quanto anche lei è stata un personaggio molto particolare e che mi è piaciuto, moltissimo, realizzare, quindi ho colto l’occasione della sua fuga come palla al balzo per dedicarle una storiellina tutta sua, in cui la sua, molto difficile, personalità possa risaltare al meglio. Come avrete già potuto notare, il suo punto di vista è leggermente diverso da quello di Rachel. Spero che vi piaccia, dai, io l’ho trovata un’idea carina la prima volta che la scrissi... poi l’ho cancellata, ma questo è un altro discorso. Come ho già detto, adesso è di nuovo qui, quindi urrà! Giusto? Giusto.

 

Bye bye!

   
 
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