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Autore: Lucius Etruscus    06/02/2017    2 recensioni
Per una missione fuori dal normale serve un uomo fuori dal normale. Quando il generale Rykov si ritrova costretto a cercare un lottatore eccezionale per una missione assurda, rivolgersi al carcere di massima sicurezza Gorgon è la soluzione migliore: qui vive e combatte il più grande lottatore del mondo. Anzi, come lui stesso specifica, il migliore dell’universo. Yurj Boyka, nato per combattere. Inizia così un’avventura aliena... a suon di mazzate!
Questi personaggi non mi appartengono, ma sono proprietà di 20th Century Fox (Aliens) e Nu Image / Millennium Films (Boyka)
Questa storia è stata scritta senza alcuno scopo di lucro
In fondo al testo riporto tutte le fonti che ho utilizzato per la stesura
Genere: Avventura, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Movieverse | Avvertimenti: nessuno
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1

Dicembre 2230
Pianeta LV-1074
Carcere di massima di sicurezza noto come Gorgon

Perché non andava giù? L’ultimo calcio avrebbe dovuto spegnere la luce.

Da dieci minuti i due lottatori si stavano massacrando mentre gli addetti del carcere aggiornavano le classifiche: mai qualcuno era rimasto in piedi per più di tre minuti affrontando Yurj Boyka.

Ogni carcere della Compagnia impiantato su qualche sperduto pianetino del cosmo aveva il suo torneo di lotta interno, ma solo a Gorgon c’era il campione dei campioni, la macchina da combattimento senz’anima che faceva guadagnare ingenti cifre al direttore e a tutta la piramide di comando. Ufficialmente la Weyland-Yutani vietava e puniva quegli spettacoli di violenza, ma trasmetterli a pagamento sugli schermi di ricchi scommettitori faceva chiudere più di un occhio alla Compagnia. Ormai era un live show irrinunciabile, famoso per tutto l’universo.

Rapida sequenza, uno due, sinistro a confondere e poi il destro a spazzare, e quando l’avversario pensa di essere stato colpito... è allora che si inizia a colpire sul serio.

Boyka sapeva di essere una star, sapeva che tutto il personale del carcere, dal direttore fino all’ultima guardia ma anche molti detenuti, si erano arricchiti grazie a lui e al suo spettacolo. Boyka sapeva tutto ma nulla aveva valore per lui: solo l’esecuzione perfetta di una tecnica era importante, e se questo piaceva a milioni di spettatori e li rendeva ricchi con le scommesse... be’, era qualcosa che lo lasciava assolutamente indifferente.

Eppure il lottatore aveva tempi televisivi innati: era un animale da lotta... ma anche da palcoscenico. Aveva imparato a non eseguire una tecnica per volta, a sferrare colpi fluidi e non contratti, sapeva dov’erano disposte le telecamere e si assicurava di colpire l’avversario rimanendo nell’inquadratura. E che si vedesse l’espressione di sofferenza della sua vittima, che alla fin fine era quello che volevano vedere i suoi spettatori.

Boyka per tutto questo otteneva solamente il vantaggio di rimanere in vita e di ricevere cibo ed acqua. A Gorgon questo è definito un "trattamento da re", perché al contrario degli altri detenuti, che ogni giorno morivano di lavori forzati, per risse o sul ring, quello dato al lottatore era vero cibo e vera acqua.

Spazzata sulle ginocchia, rendeva male in video ma serviva a destabilizzare l’equilibrio, così l’avversario era lento a reagire mentre Boyka prendeva la rincorsa e lo colpiva al petto con i piedi uniti. L’avversario cadde battendo la testa ma non era sconfitto: si stava rivelando un osso molto più duro del previsto.

Tutta colpa dell’ospite, quell’uomo misterioso che stava assistendo al torneo nascosto nell’ufficio del direttore, mentre gli occhi di tutti i detenuti cercavano di capire chi fosse. Era l’uomo che aveva trasformato un torneo violento, dove capita che l’avversario perda la vita, in una vera e propria esecuzione capitale, e il tutto con un semplice pettegolezzo lasciato girare per il carcere. Chi vinceva sarebbe stato assunto come lottatore dalla Weyland-Yutani e avrebbe vissuto una vita da sogno nei blasonati ring di lusso sparsi nello spazio. Ricchezza, donne, massima libertà: anche solo per metà di questa promessa l’intera popolazione carceraria di Gorgon avrebbe ucciso chiunque mille volte.

Boyka disprezzava tutto e tutti e se ne fregava di quella promessa, lui non lottava per altro motivo se non la lotta in sé: era un lottatore, era tutto ciò che era, ed era tutto ciò che faceva.

Buttarsi sull’avversario a terra non era proprio una mossa fotogenica, così il lottatore si lanciò in aria e, dopo una giravolta completa, cadde addosso all’avversario colpendolo in volto. Boyka cercava sempre di non arrivare a tecniche di soffocamento a terra, perché erano troppo poco spettacolari per il grande pubblico, ma era tempo di chiudere quell’incontro, anche se purtroppo non con una delle sue mosse ad effetto che facevano alzare le quotazioni.

Passò il braccio intorno al collo dell’avversario e gli incastrò il pomo d’Adamo nell’incavo del suo gomito. Si afferrò le mani e strinse: pochi secondi e l’avversario non respirava più. Era un’esperienza intima del vincitore con il vinto, Boyka provava vergogna ad essere guardato da tutti mentre rapiva la vita dal suo avversario con un contatto così stretto, ma non sembrava esserci altro modo per abbattere quel quintale di carne flaccida.

Si alzò, volse lo sguardo verso la finestra da cui il direttore era solito ammirare gli incontri ed alzò il proprio indice quasi ad indicare che il prossimo sarebbe stato lui. Era la "firma" con cui chiudeva tutti gli incontri. E chissà che un giorno non avrebbe avuto davvero tra le mani quel verme del direttore Markov.

Da come la gente gridava Boyka capì che qualcosa non andava. Si girò e vide che quel pezzo di carne dell’avversario era di nuovo in piedi: forse meritava più di lui di vincere. E questo lo fece infuriare. La vita lo aveva forgiato per essere il più grande lottatore dell’universo, perché tutto il resto gli era stato negato: avrebbe difeso quel titolo con ogni mezzo.

Si avvicinò all’avversario, che era ancora intontito dall’essere stato quasi soffocato, e roteò su se stesso, rilasciando tutta la sua potenza nella gamba che sollevò in aria: quando il suo piede destro interruppe la rotazione sul volto dell’avversario la potenza di Boyka si sprigionò... e la testa della vittima girò su se stessa più del dovuto. Quel barile di carne tremula non fece in tempo a toccare terra che già la folla gridava il nome di Boyka.

Alla fin fine lo spettacolo c’era stato.

~

«Non crederai davvero a quei serpenti della Compagnia?»

Il vecchio sulla sedia a rotelle fissava allibito Boyka che raccoglieva in giro i suoi stracci e li infilava malamente in una sacca improvvisata. Sembrava impossibile che fosse arrivato per i due il momento di dirsi addio, il vecchio aveva sempre pensato che sarebbe stato lui a schiattare in quella fogna di prigione: mai, neanche per un istante, aveva pensato che quell’animale di Boyka se ne sarebbe andato. Uscendo dalla porta principale. Uscendo vivo.

«Credi davvero che quella gente ti permetterà di girare libero per l’universo?» Il vecchio non poteva arrendersi all’evidenza: l’uomo con cui aveva diviso l’angusta cella, la vita, la lotta e il sangue negli ultimi trent’anni se ne stava andando senza battere ciglio.

Quando Boyka afferrò i rozzi guantoni che usava per allenarsi si fermò, finalmente sovrastato da quello che poteva assomigliare ad un sentimento. Erano i guantoni costruiti a mano dal campione storico di Gorgon, il primo vero lottatore invincibile, prima che Boyka distruggesse ogni suo record. E ricevesse da lui in regalo quei quanti.

«Portateli pure via», sibilò il vecchio sulla sedia a rotelle. «Sono tuoi...» Un breve silenzio tradì un’emozione. «Te li sei guadagnati.»

Boyka non lo guardò e infilò i guanti nella sacca, quasi distrattamente.

Il vecchio non desisteva. «Cosa succederà quando cercheranno la tua scheda? Quando ti chiederanno perché non c’è alcuna traccia della tua esistenza, cosa dirai? Come spiegherai che non hai identità?»

Il lottatore finalmente smise di rovistare nella cella e si girò a guardare il vecchio. «Se qualcuno me lo chiederà, gli risponderò con la semplice storia di un campione carcerario che aveva tutto dalla direzione, comprese donne da tenere in cella per compagnia. Un giorno una di queste morì partorendo sul pavimento di una cella un ragazzino frignante che nessuno ha mai riconosciuto, a cui hanno dato un nome a caso, Boyka, e che è cresciuto con la sola voglia di combattere. Vuoi che aggiunga qualcos’altro a questa storia lacrimevole?»

Boyka strinse in modo plateale la sacca che conteneva la sua roba, a sottolineare che aveva finito di fare i bagagli: quello era un addio, e il suo sguardo gelido era l’unico saluto che avrebbe dato.

Mentre Boyka iniziò ad uscire dalla cella, dove fuori lo attendevano due guardie, il vecchio tentò un ultimo approccio. «Non ci rivedremo mai più, per cui rispondi alla mia ultima domanda: è questa la fine che sognavi?»

Il lottatore si fermò sulla soglia della cella e voltò leggermente la testa. «La fine?» chiese.

«Sai benissimo che ti uccideranno» continuò il vecchio cercando il suo sguardo. «È dunque valsa la pena diventare un così grande lottatore solo per essere schiacciato come un verme dalla Compagnia?»

Boyka si voltò fino a guardare negli occhi il vecchio sulla sedia a rotelle. «Prima o poi sarei morto, qui dentro, in un modo o nell’altro: almeno prima di schiattare potrò vedere il mondo esterno per la prima volta. Dicono che è più grande di Gorgon. E poi qui ormai ho raggiunto i due obiettivi che mi ero prefissato da ragazzino.»

Il vecchio lo guardò incuriosito. «Diventare il più grande lottatore mai vissuto... e cos’altro?»

Un ghigno apparve sul muso di Boyka. «Spezzare le gambe a quel verme di mio padre.» Si voltò e se ne andò senza aggiungere altro.

~

Dopo un viaggio negli oscuri corridoi del carcere Boyka e le due guardie arrivarono ad un grande portone davanti al quale li aspettava il direttore Markov in compagnia di un uomo in divisa.

«Un combattimento eccezionale come sempre, Boyka» disse sorridente il direttore. «Ci mancherai: sarà dura trovare qualcun altro al tuo livello.»

«Nessuno è al mio livello» sibilò il lottatore, scatenando una risata grassa nell’uomo in divisa.

«Yurj Boyka» continuò il direttore, «ti presento il tuo nuovo capo: il generale Rykov.»

L’uomo in divisa si fece avanti con la mano tesa, che Boyka ignorò. «Io non ho capi» si limitò a sibilare.

Il generale rise di cuore, ritirando la mano. «Ho cercato per tutto l’universo un animale come te: questo è l’inizio di una bella collaborazione.»

2

A bordo della USS Verloc

Nella stiva dalla nave non si viaggiava comodi, ma i soldati neanche se ne accorgevano: non erano previste comodità per loro, né si erano mai sognati di chiederle.

USCM, United States Colonial Marines, ma gli Stati Uniti erano lontani e i soldati seguono da sempre un capo, non un logo sulla carta intestata. La Weyland-Yutani era in pratica il loro padrone e il generale Rykov il loro condottiero: chiamateli soldati, chiamateli marines, chiamateli mercenari, non ha importanza. Eseguono gli ordini del loro condottiero e tanto basta.

Boyka li chiamava schiavi, quelle rare volte che si era trovato a parlare di loro: le guardie del carcere le odiava, i soldati li disprezzava. Il che era peggio.

«Sarebbe questo il grande campione?»

Tutti erano seduti sulla panca che attraversava la stiva, assicurati da cinture di sicurezza. Boyka era distanziato dai soldati e con sua sorpresa non era ammanettato, il che voleva dire che il generale aveva molta fiducia in lui. O che era molto stupido.

«A guardarlo sembra più un barbone di strada», continuò il soldato.

Questo spostava l’ago della bilancia più sulla stupidità che sulla fiducia.

«Ci senti, barbone? Sei davvero così forte come dicono?»

Boyka guardava nel vuoto e si chiedeva da quale barzelletta fosse uscito quel soldatino di latta. Chissà se il generale si sarebbe offeso se glielo avesse rotto...

«Ti conviene piantarla, Dimitri» intervenne un altro soldato. «Dicono che sia il più bravo lottatore del suo carcere.»

I soldati sbottarono in una risata fragorosa. «Dell’universo», si percepì appena.

Il soldato in vena di scherzi fece segno ai compagni di abbassare la voce. «Hai detto qualcosa, barbone?»

Il lottatore non volse lo sguardo ma si limitò a precisare con voce calma. «Sono il più grande lottatore dell’universo, non solo del mio carcere.»

Il silenzio che seguì fu solo un’introduzione alla nuova risata scrosciante che esplose, con i soldati che si davano pacche sulle spalle. Dimitri si sganciò la cintura di sicurezza e in pochi passi fu subito addosso a Boyka. «Mettiamo le cose in chiaro, straccione», gli gridò in faccia sempre con il sorriso sulle labbra. «Noi Colonial Marines siamo i più forti dell’universo: tu sei solo un mulo che scalcia nella stalla.» Guardò il lottatore con un sorriso di scherno. «Di’ un po’, tu che parli di universo: hai mai visto qualcosa di diverso delle pareti della tua cella? Parli di qualcosa di cui non sai nulla.»

Boyka continuava a fissare il vuoto davanti a sé, così Dimitri dovette insistere. «Pensi di essere il primo “campione” che portiamo in giro? Sei solo un pezzo di carne sacrificabile, ti aspetta una morte orribile, sai? Mi sa che ti conveniva rimanere nel tuo buco di fogna a scontare la tua pena.» Dimitri avvicinò il volto per assicurarsi che il lottatore vedesse il suo sorriso crudele. «Perché poi sei finito in galera? Hai scippato una vecchietta?»

Finalmente Boyka mosse lentamente gli occhi a fissare il soldato. «Davvero vuoi conoscere la mia colpa?»

«Sentiamo, straccione: cos’hai fatto per meritare un carcere duro come Gorgon? Si dice che...»

Dimitri non finì la frase. Le gambe di Boyka scattarono in una spazzata ai piedi del soldato mentre con la mano destra lo afferrò al volto e lo sbatté velocemente a terra: Dimitri cadde rovinosamente senza accorgersi di nulla. Aveva ancora gli occhi sbarrati dalla sorpresa quando si ritrovò un piede di Boyka a serrargli il collo e a impedirgli di respirare. «Mi piace schiacciare le merde.»

~

Stazione orbitante del pianeta LV-1201

«Ci sei andato giù pesante.» Il generale Rykov non era affatto seccato nel pronunciare queste parole, semmai divertito dal fatto che uno dei suoi rudi mercenari fosse stato messo al suo posto da un carcerato senza alcun addestramento militare. «Dimitri è un idiota ma esegue gli ordini alla perfezione, quindi è un buon soldato.»

«È stato quindi un suo ordine quello di stuzzicarmi?» Boyka si guardava in giro, meravigliato dal camminare in una stazione orbitante quando nella sua intera vita – fino a poche ore prima – non aveva mai visto nulla al di fuori delle mura di Gorgon. in realtà ciò che veramente lo stupiva... è che non gliene fregava nulla.

«No, il mio ordine era di assicurarsi che non ti facessi male durante il viaggio.» Rykov scoppiò in una risata. «Avrei dovuto ordinare a te di non fare male ai miei uomini.»

«Non sarebbe servito», rispose Boyka. Il generale scherzava: lui no.

Il lottatore seguiva il generale rimanendo indietro di un passo: vecchia abitudine da carcerato. Rykov non sembrava badarci e con un gesto della mano invitò Boyka a guardare dalla grande vetrata a cui l’aveva portato.

«Quello è LV-1201», disse il generale con particolare enfasi, indicando il gigante roccioso che riempiva la vetrata. «Un pianeta brullo e arido, ma pieno di sorprese. Secoli fa aveva un clima diverso ed era popolato di mostruose creature.»

«Tutto questo fa parte del mio futuro?» Boyka non stava guardando il pianeta ma si limitava a fissare la nuca del generale: quella domanda indicava chiaramente che non gli interessava il giro turistico della zona.

Rykov si girò con un mezzo sorriso sulle labbra, a metà fra curiosità e stupore. «Sei un tipo che non perde tempo, vedo.»

«Non sono qui in vacanza. So che le promesse del torneo erano solo una bugia, ma se finora non mi avete ucciso vuol dire che avete dei piani per me, e voglio conoscerli. Dopo magari mi può anche raccontare la storia del pianeta.»

Il generale annuì. Quel lottatore non sembrava uno che parla molto, era da lodare che avesse fatto un discorso così lungo senza tentennare. «Dritto al punto: mi piaci, figliolo.»

«Non sono suo figlio», sibilò Boyka. «Mi creda, è meglio per lei che io non lo sia.»

~

Rykov portò il lottatore in un’altra ala della Stazione orbitante, stavolta senza finestroni, e approfittò della camminata per parlare: stavolta senza premesse o introduzioni.

«Il pianeta è sotto l’ala della Weyland-Yutani, ma in pratica è mio. Ho l’incarico di gestire un impianto sotterraneo ma una frana ha fatto crollare tutto... seppellendo un oggetto che mi serve.» Aprendo l’enorme portellone della sala il generale si voltò verso Boyka. «La tua missione è di recuperarmi quell’oggetto.»

Entrando nella gigantesca sala il lottatore rimaneva sempre un passo indietro. «Capisco l’idea di mandare un carcerato a morire in un buco sotto terra, in fondo sono assolutamente sacrificabile, ma che c’entra il torneo di lotta? Perché ha cercato un lottatore?»

Il generale continuava a camminare guardando avanti. «Ho già organizzato diverse spedizioni sotterranee, utilizzando minatori, soldati, mercenari e non so più che altro. Tutti fallimenti.» Rykov non lo disse, ma con “fallimenti” era plausibile pensare che tutta quella gente fosse morta nell’impresa. «L’ultima speranza è un animale più coriaceo degli animali che vivono là sotto.» Con una pausa teatrale il generale si voltò a guardare l’uomo che lo seguiva con sguardo affilato. «Perché quella struttura sotterranea è all’interno di un nido alieno.»

Boyka lo fissò serio ma il suo volto non tradì alcuna emozione. «Ripeto: che senso ha mandare un lottatore a morire dilaniato dagli alieni, o peggio ancora imbozzolato nel nido?» Il ciclo vitale di quelle creature era così terribile da essere guardato con rispetto dagli ospiti violenti dei carceri in giro per l’universo.

Forse il generale sperava in una reazione di paura, ma ormai era chiaro che non ne avrebbe ottenute. Si voltò e si avviò verso il centro della enorme sala. «La frana ha lasciato degli spazi troppo angusti per organizzare un assalto di Colonial Marines: dovrebbero procedere lentamente, al massimo due per volta, il che vorrebbe dire una bella scorpacciata per quelle bestiacce aliene. No, solamente un uomo in missione solitaria può raggiungere la mia struttura sotto terra, ma un uomo solo non ha alcuna possibilità contro frotte di mostri.»

Arrivato davanti ad una struttura senza insegne né scritte, quasi una scatola anonima in mezzo alla stanza, il generale si voltò e guardò estasiato Boyka. «Ecco perché dalla Compagnia mi sono fatto inviare questo giocattolo.»

Premette un qualche pulsante non visibile agli inesperti e la grande scatola cominciò ad aprirsi, anzi: la sua superficie sembrò scorrere su se stessa fino a scomparire al proprio interno, lasciando visibile una grande teca di vetro, con all’interno...

«Un’armatura!» sbottò il lottatore. «Tutta qua l’arma segreta?»

Rykov sorrise. «Da tempo la Weyland-Yutani per operazioni di “disinfestazione” utilizza un esoscheletro potenziato a comandi mentali, magari ne hai sentito parlare: è un carrozzone che chiamano Berserker. È una roba ingombrante e difficile da manovrare, e soprattutto frigge completamente il cervello del poveraccio che la deve guidare. Così la Divisione Armi sta studiando una versione più piccola e maneggevole: come questo prototipo.» E con la mano indicò l’armatura come un consumato venditore.

«Può bastare contro gli alieni? A prima vista mi pare di no.»

Rykov non badò al commento e proseguì. «Uno chassis di titanio ricoperto di protezioni di chitina. Sai cos’è la chitina?» Ricevette uno scrollamento di spalle. «È la materia che costituisce il corpo degli alieni: quest’armatura è immune al loro sangue acido perché è costruita con la loro stessa pelle. Un sofisticato meccanismo idraulico, compresso e nascosto dietro la schiena, permette ai muscoli artificiali dell’armatura di moltiplicare per dieci la forza umana.» Qualche secondo di silenzio per far assimilare l’informazione. «Con questa bellezza addosso, darai i colpi più potenti che un essere umano potrà mi sferrare.»

Finalmente la monoespressione di Boyka cominciò a contrarsi in un sorriso. «Sta dicendo... che devo prendere a calci quei mostri?»

Il generale lo guardava divertito. «Esattamente. Potrei mandare un mio soldato, esperto di campi di battaglia e addestrato a situazioni di forte stress, ma sarebbe tutto inutile: al massimo potrebbe sparare agli alieni e per esperienza questo non serve a molto, quando sono in tanti. Inoltre quest’armatura non può resistere a lungo se gli xenomorfi, con la loro forza mostruosa, cominciano a “giocarci”. No, mi serve un animale da combattimento, qualcuno che corra veloce in quel buco e sappia tenere a distanza quelle creature... prendendole a calci!»

Boyka aveva occhi solo per l’armatura, lì esposta aperta e scintillante: era l’oggetto più bello che avesse mai pensato di ammirare. «È un piano assurdo e suicida, sicuramente verrò smembrato e la Compagnia perderà il suo prezioso prototipo...»

«Ma...?» chiese sorridendo il generale.

«... Ma è qualcosa di troppo eccitante per rinunciare. Combattere contro degli alieni è una sfida che un lottatore non può lasciarsi sfuggire.»

«Sapevo che ti sarebbe piaciuta», gongolò Rykov azionando un’altra leva invisibile e facendo aprire lentamente la teca. «Perché non la provi e vediamo come ti sta?»

Per la prima volta nella sua vita... Boyka sorrise.

~

Quando l’ultima cinghia fu tirata e l’ultima serratura fu bloccata, Boyka si sentì goffo e un po’ ridicolo, a ritrovarsi strizzato in quel costume metallico. «Tranquillo, l’intero chassis ha sensori di adattamento che entro qualche secondo leggeranno il tuo corpo e vi si adatteranno.»

Già mentre il generale parlava, il lottatore sentì una sensazione piacevole per tutto il corpo: i sensori lo stavano “palpando” per capirlo. Nel giro di qualche istante Boyka si sentì bene come non lo era mai stato in vita sua. Era stato addestrato da suo padre ad essere consapevole di ogni muscolo, ad avere il totale controllo sul proprio corpo, ma ora quella sensazione era amplificata: in quel momento si sentiva davvero il più forte dell’universo. Anche perché ora lo era sul serio.

«Dalla tua faccia mi sembra di capire che ti ci trovi bene», disse divertito il generale. «Muoviti, fai come se ti stessi allenando, vediamo come l’armatura reagisce ai tuoi input.»

«A che?»

Rykov agitò una mano in aria. «Tu mena, e non preoccuparti.»

Boyka fece qualche passo tentennando, scoprendo poi che invece riusciva a muoversi con fluidità. Dopo un altro paio di passi iniziò ad agitare le mani, poi le braccia, poi a roteare il bacino. Era incredibile, quell’armatura reagiva al suo corpo come fosse una semplice tuta.

«Attento, che qui è pieno di macchinari costosissimi: vatti ad esercitare laggiù, su quella pedana.»

Boyka si mosse velocemente per provare come era la corsa: perfetta. «Attento generale, che non mi tolgo più di dosso questo capolavoro.»

L’entusiasmo del lottatore lo stava distraendo, così non si accorse del punto dove Rykov lo aveva fatto arrivare, né che ora il generale stava ticchettando qualcosa su una tastiera. «È quello che spero, figliolo.»

Il “figliolo” riportò il lottatore con i piedi per terra. Stava già per rispondere seccato quando si accorse di qualcosa che ormai non poteva più fermare: delle larghe vetrate si stavano alzando dal pavimento ed ormai lo avevano quasi del tutto imprigionato in una gabbia trasparente. «Che diavolo significa, questo?» gridò il lottatore, mettendosi d’istinto in posizione di guardia.

«Sangue freddo, ragazzo: questa è l’ultima prova per capire se l’armatura funziona.»

Neanche quando Boyka era ragazzo qualcuno aveva mai osato chiamarlo ragazzo. La rabbia stava montando e il lottatore stava per iniziare a prendere a pugni il vetro che lo circondava... quando sentì un inquietante sibilo provenire da una paratia che si stava alzando dietro di lui. Qualcosa stava per entrare nella sua gabbia...

«Reagire freddamente in una situazione di panico è la base per capire la pasta di un soldato: credo che per un lottatore valga la stessa regola.» La voce di Rykov risuonava nelle orecchie di Boyka, grazie alle casse presenti nel casco della sua armatura. «Ti presento il tuo nuovo avversario... e spero vivamente che non sia l’ultimo.»

Stagliandosi sul bianco delle pareti della sala, il corpo nero insettiforme dello xenomorfo sembrava anche più grande di quanto già non fosse. I suoi denti erano già snudati e pronti a colpire.

«Uno degli alieni che abbiamo catturato per studiarlo e svelarne i misteri.»

La creatura non perse tempo e scattò in avanti, pronto a mordere l’intruso.

«Linguafoeda acheronensis, è il nome latino che ho proposto per classificarlo, il nome scientifico.»

In un lampo il mostro aveva acquisito una velocità incredibile, ed era già su Boyka...

«Significa...»

Un pugno sferrato con velocità incredibile fece compiere alla testa dell’alieno un giro quasi completo, crollando a peso morto sul lottatore in armatura, che non mosse un solo passo.

«Significa...» ripeté inebetito il generale, con gli occhi fissi sullo spettacolo di Boyka che si scrostava di dosso la creatura senza vita.

«Avere un nome latino non mi impedirà di spaccargli il culo.»

3

Pianeta LV-1201
Sito Zeta

Dopo trent’anni passati senza mai vedere nulla al di fuori del suo carcere, Boyka nel giro di un giorno aveva viaggiato nello spazio ed ora si trovava su un altro pianeta: non male per un galeotto.

Aveva scoperto che non soffriva durante gli sbalzi inevitabili dei viaggi spaziali, della perdita di gravità o di pressione: era come se il suo corpo se ne fregasse di dove si trovava. Era una macchina per combattere e solo di quello si preoccupava.

LV-1201 era davvero un postaccio, stando a quei pochi metri di superficie che aveva intravisto appena sceso dalla navetta. Il generale Rykov era rimasto sulla Stazione Orbitante ma in realtà era sempre con lui, collegato via radio alla sua armatura – o qualcosa del genere: Boyka non aveva prestato attenzione alle spiegazioni fornitegli – e quindi vedeva tutto ciò che il lottatore vedeva e poteva intervenire impartendo ordini o consigli. In pratica ora Boyka era l’estensione di Rykov.

Prima di lasciarsi i due si erano guardati negli occhi, rimanendo in silenzio per qualche secondo. Poi Boyka aveva dato voce al pensiero di entrambi. «Una volta che sarò sulla superficie, cosa mi impedisce di far fuori i tuoi uomini e andarmene per conto mio?»

Era un discorso onesto, da uomo a uomo, e infatti aveva usato il “tu”. Il generale lo apprezzò. «Sarebbe stato strano se non ti fossi posto questa domanda», rispose sorridendo, poi alzò una mano in aria. «Il mio computer da polso ha già caricato un software che mi permetterebbe di fermare immediatamente l’armatura, e nel caso di fare in modo che ti stritoli. Sarebbe però un dannato spreco: ho grandi progetti per te.»

«Progetti?»

Rykov annuì. «Potrei farti allenare i miei uomini, addestrarli al combattimento corpo a corpo, e se riuscissi ad avere più armature insieme tireremmo su un’élite di soldati invincibili...» Gli occhi del generale brillavano. «Pensa a quello che potremmo fare insieme, Yurj...»

Nessuno lo aveva mai chiamato per nome, per tutti era solamente Boyka: certe cose inteneriscono anche il cuore più duro. Ma Boyka non aveva cuore. «Cosa mi impedisce di strapparti il braccio così che non puoi usare quel computer da polso?»

Rykov rise di gusto. «Mi piace la tua schiettezza. Il computer da polso è collegato ai battiti del mio cuore: appena il segnale si interrompe... finisci stritolato.» Decise di fugare altre domande rimaste in sospeso. «Stai per scendere su un pianeta abitato solo da animali sconosciuti e xenomorfi incazzati: anche se riuscissi a liberarti dal mio controllo... dove andresti?» Diede una pacca sull’armatura. «Basta domande, ora: mettiti il cuore in pace e va’ a spaccare il culo a quei mostri.»

Boyka restituì la pacca sulla spalla... ma con i suoi muscoli rinforzati diede uno spintone che mandò il generale in terra. «Non è del mio cuore che devi preoccuparti.»

~

Durante la discesa verso il suolo Boyka si era esercitato ed ormai sentiva l’armatura come il proprio corpo, gli sembrava impossibile che non potesse resistere agli attacchi alieni, vista la sensazione di invincibilità che dava.

Atterrati, prima che il portellone si aprisse si accorse che tutti i soldati si infilavano dei caschi strani, con dei tubi che... L’intuizione lo colpì folgorandolo: erano dei respiratori. L’atmosfera del pianeta non era respirabile!

«Ehi, non dovrei averne uno anch’io?» chiese ad un soldato.

Questi si girò e Boyka riconobbe Dimitri, quello che aveva pestato sulla Verloc. «No», gli rispose il soldato. «Tu no!»

Il lottatore non fece in tempo a rispondere che il portellone si spalancò e i Colonial Marines cominciarono a scendere sulla superficie del pianeta. Era la prima volta nella sua vita che si ritrovava a preoccuparsi dell’aria che respirava, era una questione che dava ovviamente per scontata: perché nessuno lo aveva dotato di respiratore? Possibile fossero così distratti da non pensare che un galeotto come lui non era pratico di viaggi interplanetari?

Cominciò a rantolare e a spingersi indietro, cercando di allontanarsi velocemente dal portellone: era completamente nel panico ed era una sensazione a cui non era abituato.

«Idiota!» Dimitri si avvicinò a lui ridendo. «La tua armatura è già dotata di ossigeno.»

Il panico scomparì in un attimo per lasciar spazio alla vergogna: si era comportato come un bambino impaurito. Ma si rese conto che Dimitri non era lì per sfotterlo, anzi gli faceva segno di alzarsi e seguirlo. Boyka scattò in piedi per cercare di riacquistare dignità, e cercava di non guardare il soldato per non tradire vergogna.

«Questo è per avermi quasi soffocato», disse Dimitri. Boyka lo fulminò con gli occhi ma si rese conto che non lo aveva detto con malignità: il suo sembrava quasi un sorriso amichevole. «Qui tra i marines funziona così: tu dài uno schiaffo a me e alla prima occasione te lo restituisco.»

Funzionava così ovunque, non solo tra soldati. Boyka annuì. «Con questo siamo pari.» E si avviò verso l’uscita. «Ma alla prossima ti ammazzo.» La risata di Dimitri lo accompagnò.

~

Le porte massicce del Sito Zeta si aprirono con un rumore di metallo sfregante. Istintivamente Boyka si portò le mani alle orecchie, rendendosi poi conto che le aveva ben chiuse nel casco dell’armatura. «Puoi regolare il volume dei suoni che provengono dall’esterno» si sentì dire.

«Rykov?» chiese.

«No, sono la tua coscienza... Certo che sono Rykov! Te l’ho detto che sarei rimasto in contatto.»

«Non è piacevole.»

«Spero non ti offenderai nello scoprire che non mi interessa.»

Ora l’entrata del Sito Zeta era spalancata. A vederlo da fuori tutto sembrava tranne che un insediamento coloniale: sembrava più l’entrata di una miniera, ed in effetti Boyka già sapeva che avrebbe dovuto scendere al suo interno.

«Segui i miei uomini», disse la voce del generale all’interno del casco. «Ti porteranno all’ascensore.»

Il lottatore seguì i soldati che gli facevano dei gesti, entrando in quell’antro oscuro. La struttura era spartana, sembrava fosse stata concepita nella più assoluta funzionalità: non esisteva nulla di superfluo. «Sbrigati, non è una gita», gli gridavano i soldati, e in effetti a forza di guardarsi intorno si stava attardando.

Passarono per alcuni portelli e finalmente entrarono in un ampio salone che aveva al centro una pedana elevatrice. «Ecco l’ascensore per l’inferno», disse un soldato attivando un pannello di comandi lì vicino. «Va giù in discesa fino...» Non riuscì a finire la frase perché volò via. Afferrato con velocità fulminea dagli artigli di un alieno.

Ci volle qualche istante perché tutti si rendessero conto di cosa fosse successo, rimanendo immobili in silenzio. Il soldato era davanti ad un meccanismo e due enormi zampe di xenomorfo erano uscite dall’ombra e lo avevano afferrato alla testa, sollevandolo di netto e trascinandolo nell’oscurità così velocemente che probabilmente la vittima stessa non si era accorta di nulla. Quando però la sala comandi si riempì di grida umane disperate, non ci fu più tempo per lo shock.

«Contatto!» gridò furente Dimitri, aprendo il fuoco con il pulse rifle verso l’ombra in cui il suo compagno era stato inghiottito. Da quando gli xenomorfi erano diventati materia di studio, tutti gli addestratori militari iniziavano i loro corsi con un precetto che ogni soldato doveva assimilare sin da subito: se si finisce vittima di una creatura è inutile ogni tipo di salvataggio. Si aprirà il fuoco anche a rischio di uccidere la preda umana: meglio un soldato ucciso da fuoco amico che un alieno in vita.

Il rumore delle raffiche dell’arma di Dimitri esplose nella testa di Boyka: aveva dimenticato di abbassare il volume dei sensori audio del casco. Per farlo avrebbe dovuto fissare per tre secondi lo schermo del menu alla sua destra, così che il contatto visivo lo azionasse e gli mostrasse le opzioni dell’armatura, tra cui plausibilmente dovevano esserci quelle dell’audio. Ma era impossibile farlo in preda alle convulsioni che quel rumore assordante gli provocava. L’unica soluzione era...

«Dov’è? Dove cazzo è l’insetto?» gridava uno dei soldati.

«Boyka, tu hai l’armatura: va’ lì a stanarlo...» Dimitri cominciò a voltare la testa in ogni direzione. «Boyka... Boyka!»

«Cessate il fuoco!» gridò un altro, «Stiamo solo sprecando munizioni. Dov’è quel cazzone in armatura? Mandiamo lui a...»

«Non c’è», strillò Dimitri. «Il campione di Rykov ci ha appena mollati qui.»

«Cosa?»

Un sibilo alieno riempì la stanza. Poi un altro. E poi altri.

«Mio Dio...»

«Questa zona doveva essere sicura.»

«Quei mostri devono aver aperto una breccia.»

«Via di qui, via di qui!»

Le grida si susseguivano ansimanti e si sovrapponevano, ma i sibili e gli scricchiolii non lasciavano spazio a dubbi: erano circondati. I soldati arretrarono finché non videro un’ombra stagliarsi sulla porta: un drone, uno xenomorfo adulto che iniziava a snudare i denti affilati come rasoi.

«Merda...» fu tutto ciò che Dimitri, il più vicino, riuscì a dire.

Il sibilo dell’alieno crebbe d’intensità fino a diventare quasi un grido disumano, un innalzamento di tono... che rese ancora più stupefacente il crack che lo fece interrompere. Un rumore secco tipico di un esoscheletro d’insetto che viene schiacciato: i denti del mostro erano già pronti a scattare quando la sua lunga testa si ritrovò completamente girata, quasi a fissare chi da dietro lo aveva appena ucciso.

Mentre il corpo tremolante della creatura si afflosciava, Boyka si fregava le mani dell’armatura. «Scusate il ritardo: non trovavo il fottuto menu audio.»

I soldati lo fissarono allibiti mentre dopo qualche passo di rincorsa il lottatore saltò proprio mentre un alieno scattava dal buio: i muscoli potenziati e il peso dell’armatura lanciata in volo scaturirono così tanta potenza che un semplice calcio volante divenne una tecnica di annichilimento totale. Boyka e l’alieno si scontrarono in aria proprio mentre lo xenomorfo spalancava le fauci: il piede del lottatore penetrò nella bocca aliena come fosse burro, e la forza del salto spinse il suo intero corpo all’interno di quello della creatura, che si aprì in due prima di crollare a terra in una pozzanghera di sangue acido.

Sceso in posizione sicura, Boyka si voltò verso i soldati. «Vi conviene andarvene: tra poco scorrerà parecchio sangue acido.»

Dimitri annuì e fece segno agli altri di arretrare. «Usa la leva gialla per azionare l’ascensore. E...» Gli fece un saluto militare, «grazie per essere tornato.»

Un alieno sbucò alle spalle di Boyka afferrandogli le braccia con una morsa letale, ma il lottatore fece subito scattare indietro la testa: il retro del suo casco sfondò il lungo cranio chitinoso dell’alieno, che iniziò a barcollare. Un calcio alto sferrato all’indietro fece volar via la creatura con il petto sfondato.

«Grazie il cazzo», strillò Boyka alla volta di Dimitri. «Sei in debito, ora.»

Mentre i soldati correvano fuori dal Sito Zeta, richiudendo le pesanti porte, Boyka si voltò in cerca di altri avversari, cominciando a camminare per la sala con passo deciso. In un angolo buio vide l’alieno che aveva afferrato il soldato e ora stava facendo scempio del suo corpo. La creatura si voltò lentamente.

«Perché non te la prendi con qualcuno alla tua altezza?» gli chiese sprezzante Boyka.

In risposta l’alieno sibilò e si alzò lentamente.

«Vieni qui, bello: fammi vedere come ti muovi.»

«Piantala di pavoneggiarti e sbrigati ad ucciderlo!» tuonò la voce del generale nelle orecchie del lottatore.

«Questo è il mio campo, Rykov: qui comando io.»

«E che diavolo vorresti fare?»

«Studiare.» L’alieno si muoveva lentamente e con la sua testa senza occhi fissava Boyka che gli girava intorno. «Non si nasce campioni, lo si diventa. E lo si diventa studiando.» La voce del lottatore era calma e concentrata. «Studiare se stessi per capire i propri difetti e correggerli. Studiare gli avversari per stabilire la strategia di combattimento.»

«Ma quale strategia?» urlava il generale nell’altoparlante. «Devi colpirli in testa e fine. Il resto lo fa la tuta.»

«È da molto tempo che non combatti, eh Rykov?» Il “tu” tradiva costantemente una nota di disprezzo. «Puoi avere tutte le armi del mondo e perdere, se non sai come e quando usarle.»

L’alieno fece scattare la testa in avanti, emettendo un feroce sibilo, ma il suo corpo non si mosse. «Mi sta studiando anche lui», disse Boyka. «È abituato a vittime di carne, che probabilmente avverte tramite il battito cardiaco. La mia tuta mi isola, non sente il mio odore né il mio cuore, non avverte l’adrenalina della paura, e tutto questo lo confonde. Altrimenti mi avrebbe già attaccato.»

«Ma gli altri prima l’hanno fatto.»

«Sì, perché ero in mezzo ai soldati, circondato a corpi caldi. Ora probabilmente per lui sono un’ombra che si muove e basta.»

Il corpo dell’alieno fremeva, indeciso. «Quanto ancora devi “studiare”?» chiese sarcastico il generale.

I lenti movimenti di Boyka l’avevano portato vicino alla creatura, alla distanza giusta: con rapidità alzò il ginocchio destro e calò deciso il piede a colpire un ginocchio dell’alieno, sfracellandoglielo. «Sono all’esame finale.»

Urlando ed agitando le braccia, il mostro si gettò in terra e cominciò ad attaccare Boyka, che era però rapido ad indietreggiare. «Azzopparli non serve a niente: anche trascinandosi sulle braccia sono veloci a spostarsi.»

«Sarebbe questo il frutto del tuo studio?» chiese seccato Rykov. «Quando torni potrai fare richiesta di una cattedra di xenomorfologia, ma ora fa’ fuori quel mostro.»

Il lottatore caricò di nuovo la gamba e schiacciò la testa della creatura. «L’ho fatto solo perché non avevo più nulla da imparare: qui sotto decido io chi uccidere, quando e come.» Il silenzio fu la risposta migliore.

Si diresse con passo rapido alla pedana elevatrice e azionò la leva gialla, come gli aveva detto Dimitri. «Sai, Rykov», disse mentre la pedana iniziava la sua lunga discesa. «In questa missione potrei addirittura divertirmi...»

4

Interno del Sito Zeta

Finita la sua lunga discesa nel cuore della montagna, la pedana si fermò in uno spiazzo immerso nella semioscurità. Alcune lampade alle pareti cercavano di illuminare senza successo una sala che sembrava essere troppo ampia per la struttura che la Weyland-Yutani aveva costruito, o semplicemente lo stato d’abbandono aveva reso tutto più cupo.

«Dove vado ora?» chiese Boyka guardandosi in giro. «In questa armatura c’è per caso una tasca con la mappa del posto?»

«Da quanto sei in carcere, figliolo?» rispose con tono paternalista il generale. «Non esistono mappe se non digitali.»

«Abbiamo già affrontato la questione del “figliolo”, Rykov», sibilò Boyka. «E comunque in un carcere di massima sicurezza non sono molte le apparecchiature che ho potuto usare: se devi fare una mappa, la fai su carta.»

Il generale sbuffò, avrebbe voluto controbattere che avrebbe usato il “figliolo” finché il lottatore non si fosse deciso a mostrargli un po’ di rispetto e chiamarlo generale, ma era davvero superfluo affrontare ora quel discorso. «Guarda per cinque secondi in alto a sinistra, quel sensore rosso che vedi sul tuo visore, e apparirà la mappa dell’intera struttura: usa gli occhi come ti ho insegnato per scorrere ed orientarti. Comunque una volta aperta, fissa il centro della mappa e strizza due volte gli occhi, con decisione: apparirà un cursore fisso che ti indicherà sempre la strada da seguire.»

Boyka eseguì e la mappa prima apparve poi si trasformò in cursore. «Divertente», fu il suo unico commento. «Posso sapere cosa indica quel coso, quel cursore? O è un segreto militare? Tanto se devo seguirlo prima o poi saprò di cosa si tratta.»

«Il cursore è impostato sulla strada più veloce attraverso le macerie della frana per raggiungere il tuo obiettivo, e se per qualche motivo cambi strada, lui ricalcola il percorso.»

«Credevo che fosse un difetto delle guardie non rispondere mai alle domande, ma a quanto pare i militari hanno lo stessa stoffa. Ora ci riprovo: in cosa consiste il mio obiettivo? Mi piacerebbe saperlo così da capire cosa cazzo sto cercando in questo buco di culo.»

Il tono era cresciuto in intensità durante la frase, ma Rykov non aveva tempo di rimettere in riga un sottoposto così indisciplinato. Gli diede delle indicazioni sui menu da azionare, e finalmente disse con enfasi: «Eccolo, il tuo obiettivo.»

Davanti agli occhi di Boyka apparve una foto di un oggetto curioso, mai visto prima: una specie di grande cerchio con all’interno un cerchio più piccolo collegato con dei raggi. «Sarebbe per questo che tanti hanno perso la vita qua sotto? A che serve questa specie di soprammobile?»

Il sorriso Rykov trasparì dalla sua voce. «Segreto miliare...»

«Non avevo dubbi», grugnì Boyka.

Scese dalla pedana e cominciò a camminare lentamente verso la direzione che il cursore a forma di freccia gli indicava sullo schermo. La luce già fioca andava a perdersi nell’oscurità del tunnel che il cursore gli indicava. «Visto che sto andando a morire per il tuo stupido soprammobile, posso almeno avere un po’ di luce?»

Rykov sbuffò e fornì alcune indicazioni che fecero cambiare l’immagine del visore di Boyka. «Ora hai la visuale ad infrarossi studiata per individuare gli xenomorfi: quando entreranno nel tuo campo visivo, li vedrai leggermente fosforescenti.»

«Spiegami una cosa, generale.» Malgrado l’avesse chiamato con il suo grado, il tono del lottatore era tutt’altro che rispettoso. «Voi super soldati della super Compagnia avete queste super armi e super tecnologia... e poi vi serve un avanzo di galera per usarle?»

«Una cosa sono le armi, un’altra è la tecnologia. Tutto il software di quell’armatura è nato per scopi civili, perché così ci si può guadagnare: costruire “super armi”, come le chiami tu, costa tanto e non fa guadagnare, visto che poi in battaglia si rompono o vengono distrutte. Così come investire nell’addestramento di alto livello di soldati che poi gli alieni ci mettono un secondo ad uccidere. A parte i mercenari che fanno soldi per conto loro, il futuro della Compagnia è riposto negli scarti della civiltà come te.»

Un sibilo si avvertì chiaramente in lontananza.

«Potrei essere d’accordo se il discorso non si basasse su un grave errore.» Boyka vide un’aurea fosforescente in lontananza sulla sua strada. «Che non esiste nessun altro come me!»

~

Il lottatore continuò a camminare senza accelerare, mentre l’alieno che era apparso davanti a lui procedeva spedito. Con un rapido sguardo aveva visto che non c’erano altri bagliori in giro: probabilmente era un drone solitario lasciato a guardia dell’entrata, ma Boyka non dava nulla per scontato. Il ciclo vitale di quelle creature era noto in ogni angolo dell’universo ma lo era molto meno il loro comportamento, soprattutto a casa loro. Ma al di là di questo, un lottatore non deve mai basarsi su ciò che gli altri credono di sapere: l’avversario va studiato nel momento dello scontro, solo lì si può capire chi si ha davanti.

Lo xenomorfo si fermò a pochi passi da lui e sibilò violentemente. Boyka annuì: di nuovo l’odore neutro dell’armatura confondeva il mostro, che non capiva cosa avesse davanti. Ma stavolta la creatura non rimase ferma: spalancando le fauci scattò in avanti barrendo, sorprendendo il lottatore.

Boyka ruotò velocemente il busto così da schivare l’attacco della creatura: sottrarsi all’attacco frontale con il minor dispendio d’energie è la base di ogni forma di combattimento. La violenza del balzo dell’alieno lo fece atterrare qualche passo lontano dal lottatore, che prontamente lo afferrò per le spalle.

«Sei pazzo?» gridò Rykov nell’interfono. «L’armatura non può contrastare la forza di uno xenomorfo!»

L’alieno scosse violentemente le spalle e colpì Boyka facendolo volare via, sbattendo contro una parete di roccia. «Ora ne sono sicuro», borbottò il lottatore, che si rimise in piedi velocemente, giusto in tempo per un’altra carica dell’alieno.

Lo spazio angusto del tunnel di roccia non permetteva molto movimento, quindi le tecniche dovevano per forza essere contratte: Boyka non poteva usare le mosse d’effetto che riservava agli incontri sul ring, bensì il close combat con cui doveva sistemare questioni personali negli anfratti della sua prigione. Mentre la creatura si fiondava su di lui sibilando, il lottatore tornò a ruotare su se stesso per evitare la carica dell’avversario, ma stavolta non si limitò a scansarsi: mentre la testa dello xenomorfo gli passava davanti sferrò un corto ma potente pugno dritto davanti a sé, colpendo il collo del mostro e provocando un fiotto di sangue giallognolo.

L’alieno si agitò e diede segno di tornare all’attacco, ma si vedeva che stava soffrendo e che la ferita lo rallentava: Boyka lo raggiunse, gli afferrò velocemente la testa e la strattonò fino a strapparla via, con un fiume di sangue che gli si riversò addosso.

«Si può sapere perché ci hai messo tanto?» sbraitava intanto Rykov.

«È la mia missione, giusto? In ballo c’è la mia vita e la mia morte... e quindi qui comando io», disse Boyka con tono tranquillo. «Conoscere l’avversario è la condizione principale del rimanere il miglior lottatore dell’universo, quindi finché gli alieni sono gestibili devo studiarli il più possibile.»

«E cos’avresti imparato?» chiese sarcastico il generale.

«Che il loro collo è un punto debole come il nostro, anche se non basta per fermarli. Che malgrado l’armatura non posso affrontarli sul piano della forza fisica, ma questo lo sapevi.» Rykov sbuffò. «E cosa più importante... che parlano tra di loro.»

Dopo un silenzio troppo lungo, il generale riprese a parlare con un tono pacato. «Come fai a dirlo?» Non era una domanda che esprimesse curiosità: il tono era quello di chi già sa la risposta.

«L’alieno di sopra, nella sala dell’ascensore, mi stava studiando perché non aveva mai visto qualcosa di simile, questo invece mi ha attaccato senza esitazione. Non emetto odori né altro segnale umano: perché questo mostro non è sembrato dubbioso? Mi ha attaccato perché la creatura dell’ascensore prima di morire... deve aver avvertito i suoi fratelli in qualche modo.»

Un altro silenzio. «Pensiamo da tempo che comunichino ma non siamo mai riusciti a provarlo. Probabilmente si scambiano informazioni in vari modi. Date alcune somiglianze con le formiche della Terra abbiamo pensato ad un sistema di comunicazione basato su feromoni ma i test non hanno portato a nulla. È anche vero che sappiamo così poco della loro biologia, ed è così difficile recuperare xenomorfi vivi da studiare, che ogni studio è fermo al campo delle ipotesi.»

«Magari scopro qualcosa e divento davvero professore di alienologia.» Mentre Rykov parlava Boyka stava ultimando di trafficare con il corpo dell’ultima creatura uccisa.

«Si può sapere che stai facendo?» chiese il generale.

«Mi sono sparso un po’ sangue alieno addosso: chissà che non riesca a lasciare gli altri stupiti. Se sono stati “avvertiti” che un essere senza odore è un pericolo da attaccare, magari se ne sentono uno con il loro stesso odore dovranno pensarci un attimo prima scattare. A me basta anche solo un istante di esitazione.»

«Sicuro che sentire odore di sangue serva a bloccare la loro aggressività? A occhio avrei detto il contrario.»

Il lottatore scrollò leggermente le spalle all’interno dell’armatura. «Provare non peggiorerà la mia situazione.»

~

Boyka riprese la sua discesa nel cuore della montagna, seguendo la direzione che il cursore volta dopo volta gli indicava. Cercava di mantenere un’andatura regolare e tranquilla, sia per non disperdere energie sia per non rischiare di attirare troppo l’attenzione. La strada in discesa non sembrava essere particolarmente faticosa, ma il problema sarebbe stato al ritorno, in salita. Inutile pensarci, meglio affrontare un problema alla volta. Un problema come i sibili che d’un tratto l’uomo sentì volare intorno a lui.

Non vedeva nulla intorno a sé, le creature dovevano essere annidate in qualche anfratto della roccia, quindi era inutile fermarsi ad aspettare. Continuò a procedere alla stessa velocità, come se nulla fosse: magari questo e l’odore di sangue avrebbe confuso i sensi degli alieni.

Continuò a procedere per due o trecento metri prima di vedere la sagoma di uno xenomorfo apparire davanti a sé, sulla destra. Non sembrava minaccioso, non era in posizione d’attacco: che il trucco del sangue stesse funzionando?

Boyka continuò la sua andatura regolare come se niente fosse, sebbene non fu affatto piacevole passare davanti alla sagoma dell’alieno, immobile, ma doveva comportarsi con disinvoltura: solo così poteva ingannare i sensi delle creature.

Con la coda dell’occhio vide la testa dell’alieno ondeggiare lentamente ma riuscì a passargli davanti indenne: che avesse trovato il sistema per aggirarsi indisturbato tra i mostri? Un artiglio che gli afferrò una spalla fu il segno che così non era.

Riuscì a trattenersi dal sussultare ma si rese conto che non poteva più camminare, visto che il potente arto alieno lo stava immobilizzando.

«Perché ti sei fermato?» chiese Rykov.

«Penso che un alieno stia cercando di capire chi diavolo sono io», sussurrò Boyka. «Finora devo avere ingannato i suoi sensi ma ho paura che in questo istante stia ponendomi delle domande in “lingua xenomorfa”, o quel che è. Domande che non avranno una risposta, quindi mi sa che tra un po’...»

Il lottatore non finì di parlare che lo xenomorfo snudò gli affilati denti che riempivano la sua ampia bocca: l’esperimento era palesemente fallito, quindi basta delicatezza.

Mentre rispondeva a Rykov, Boyka aveva già spostato lentamente il suo peso sulla gamba corrispondente alla spalla immobilizzata dall’artiglio alieno, quindi ora si limitò a sfruttare la pressione che quella esercitava sulla sua spalla ruotando il busto nella direzione opposta: non solo questo fece sbilanciare la creatura, che non se l’aspettava, ma la rotazione permise al lottatore di caricare e sferrare un calcio alto a spazzata. Quando il suo piede ritornò a terra, la bocca dell’alieno non aveva quasi più denti.

La velocità della tecnica aveva lasciato di stucco lo xenomorfo, così Boyka pensò che poteva eseguire un altro veloce esperimento: afferrò con le mani il collo della creatura e, ruotandogli intorno, tentò di immobilizzare quel grande corpo viscido con una tecnica di soffocamento. Non voleva davvero soffocare quel mostro, era palesemente impossibile: voleva provare a farsene scudo con gli altri suoi compagni che sicuramente sarebbero accorsi.

Dopo un istante infatti lo schermo di Boyka si illuminò: erano apparsi dal nulla almeno cinque o sei xenomorfi, sbucati fuori dalle pareti dopo che l’alieno in avanscoperta aveva smascherato la minaccia. Tutte le loro bocche erano aperte e pronte ad attaccare, in un insopportabile concerto di sibili.

Mentre indietreggiava lentamente Boyka puntò verso di loro la creatura rantolante che stringeva a fatica tra le mani. «Rimanete lì dove siete o faccio fuori il vostro amico», gridò l’uomo.

«Ma sei impazzito?» lo redarguì il generale. «Stai davvero minacciando degli xenomorfi? Sai che anche se potessero capirti non cambierebbe nulla?»

Le parole di Rykov trovarono subito conferma quando i due mostri più vicini si avventarono su Boyka, dilaniando e strappando via il corpo del loro compagno rantolante. Non sembrava esserci amicizia o cameratismo tra gli xenomorfi.

In un lampo il lottatore si ritrovò a terra, a causa della forte spinta dei due aggressori, e si rese conto che non poteva rimanere in quella posizione durante un attacco: la sua armatura non avrebbe retto alla forza congiunta di sei alieni incazzati. «Va bene», gridò a denti stretti, «la scuola è finita.»

Ormai l’armatura si era come fusa con il suo corpo, quindi osò una tecnica che non aveva ancora provato: fece scattare le gambe in alto, contrasse gli addominali e quando i piedi tornarono a terra il suo corpo si ritrovò eretto. L’essersi alzato così di scatto diede potenza all’armatura, che nel movimento colpì in vari punti gli alieni circostanti. Quell’attimo di esitazione doveva essere la sua arma migliore.

Prima di tutto doveva uscire dal centro di quel circolo di corpi chitinosi dagli artigli agitati in aria, quindi scelse una creatura e vi si avventò: pugno sinistro a destabilizzare, pugno destro a sfondare. Mentre la testa dell’alieno ondeggiava e i barriti di dolore si levavano potenti, Boyka afferrò il corpo e con un colpo di reni se lo fece volare sopra la testa fino a farlo cadere alle spalle, addosso agli alti alieni.

Non rimase a vedere il risultato di quella tecnica e corse in avanti, sentendo l’armatura potenziare le sue falcate. Era impossibile battere gli xenomorfi in velocità ma non era quello lo scopo della corsa. Il cursore si ingrandiva sullo schermo mentre Boyka correva verso l’obiettivo, ma i rumori alle sue spalle non davano spazio ad illusioni: le creature gli erano già addosso.

Approfittando della velocità acquisita, il lottatore prese lo slancio ed eseguì un salto all’indietro... pur se il suo corpo era lanciato in avanti. Il risultato fu che le sue gambe ruotarono all’indietro e crollarono addosso all’alieno alle sue spalle, sfondandogli il grande cranio.

Servì una frazione di secondo agli alieni per capire che l’uomo era caduto in terra, ma ora che fermarono la corsa e gli si avventarono contro... Boyka era già di nuovo in piedi, pronto a colpire. Stavolta non aspettò la rincorsa e si limitò a sferrare un calcio frontale in aria, prendendo in pieno uno degli alieni che si era lanciato contro di lui. Prima che la creatura potesse riprendersi, il lottatore roteò il bacino e lanciò un calcio a spazzare, strappando via la parte anteriore della testa dell’alieno.

Uno xenomorfo lo aveva intanto afferrato per le spalle ed un altro era pronto, con la seconda bocca già estratta, a colpirlo da davanti. Poveri xenomorfi, come se Boyka non si fosse trovato già mille volte in quella situazione, nel carcere dov’era nato e cresciuto. Il lottatore non ebbe neanche bisogno di pensarci, ma atteso il momento in cui la lingua aliena era abbastanza vicina lasciò semplicemente andare il suo istinto. Afferrò i potenti artigli che gli bloccavano le spalle e li usò come leva, saltando in una capriola: mentre roteava in avanti, le sue gambe unite colpirono da sotto la testa dell’alieno che lo bloccava e poi crollarono sulla testa di quello che lo stava per colpire. Quando Boyka toccò di nuovo terra, entrambe le creature erano fuori combattimento.

Si spostò per affrontare l’ultimo alieno rimasto quando si rese conto che quello se ne rimaneva immobile. «Hai paura, amico?» lo derise Boyka, camminando indietro e facendo segno alla creatura di seguirlo. «Vieni da paparino...»

Lo xenomorfo vibrava tutto e sibilava senza sosta, ma sembrava che qualcosa lo spingesse a rimanere immobile. Incuriosito da quel comportamento Boyka si guardava in giro, e solo allora si rese conto che il cursore stava lampeggiando. «Possibile sia già arrivato a destinazione?» chiese, ma nessuno rispose. «Rykov, mi hai sentito?» Silenzio. Che stava succedendo?

Boyka smise di guardare l’alieno indeciso e iniziò a procedere lentamente verso la direzione indicata dal cursore lampeggiante, finché scorse della luce che contrastava con la cupa semioscurità che c’era stata fin lì. Lentamente raggiunse il varco illuminato e il lottatore si trovò davanti un’enorme sala brillante con all’interno qualcosa di ignoto che non poteva capire.

«E tu chi cazzo saresti?»

Tutto si aspettava Boyka tranne di sentire una voce umana lì sotto. Una voce di donna...

5

L’uomo e la donna si guardavano come se fossero due razze aliene allibite nello studiarsi a vicenda.

Boyka aveva trovato strano che lo xenomorfo rimasto in vita si fosse fermato e non lo avesse attaccato, ma quel curioso fenomeno era già dimenticato: l’attenzione ora ricadeva completamente sulla donna davanti a lui. Va bene che sin dall’inizio il lottatore aveva messo in conto di fare gli incontri più strani nel cuore di una montagna piena di alieni... ma quello era davvero qualcosa che superava ogni immaginazione.

«Si può sapere da dove arrivi?» chiese la donna con tono aspro mentre impugnava tra le mani una qualche sorta di arma, brandendola in avanti con modo minaccioso. «Identìficati.»

Una soldatessa, pensò Boyka: chi altri chiede ad uno sconosciuto di “identificarsi”? «Mi stai minacciando con un bastone?» chiese il lottatore, ignorando la domanda. «Hai visto l’armatura che ho indosso? Pensi di farmi male con quello

«Sì, l’ho vista l’armatura», rispose sprezzante la donna, «e questo vuol dire che ti ha mandato quel verme di Rykov, ma... non è proprio da lui.»

«Conosci quel simpaticone? Ehi, Rykov, qui c’è una tua fan.» L’interfono dell’armatura rimaneva muto.

«Incredibile, ti ha proprio mandato il generale. È inutile che gli parli, qui ogni onda radio o collegamento è interrotto.»

«Qui dove? Dove siamo? Come mai sai tutte queste cose? E chi sei?» D’un tratto Boyka agitò le mani in aria. «Ah, ma che mi frega, mi prendo quello e me ne vado.» L’uomo indicò un punto al centro dell’ampia sala. «Quel soprammobile è la mia missione: starà bene sul camino del generale.»

Boyka aveva indicato l’oggetto visto in foto che ora fluttuava al centro di un raggio che lo poneva a mezz’aria, al centro esatto dell’ampia sala. Il lottatore neanche per un attimo si chiese il motivo di quella strana struttura: non era lì per farsi domande né tanto meno per trovare risposte.

«Ah, ora sì che riconosco il generale», disse quasi divertita la donna. «Sei qui per l’Artefatto, non per me.» La donna cambiò posizione fino a scimmiottare una posa militare. «Maggiore Dunja degli United States Colonial Marines, ero la pupilla del generale Rykov finché non mi ha mandata in questo inferno a recuperare l’Artefatto. Era una missione segreta di massima importanza che mi avrebbe garantito la promozione, invece ora sono bloccata qui.» Indicò svogliatamente l’oggetto fluttuante. «L’Artefatto è l’unica cosa che mi mantenga in vita, quindi prima di portarlo via dovremo metterci d’accordo.»

Boyka sorrise. «Che brav’uomo, il generale. Prima manda la sua “pupilla” poi un galeotto subito dopo di lei: visto che non mi ha parlato di te, è chiaro che gli sei rimasta nel cuore.»

Dunja storse la bocca in un sorriso amaro. «Non avendo più mie notizie deve avermi creduto morta, e in effetti avrei dovuto esserlo. È stato un miracolo arrivare quaggiù, ma tornare indietro con l’Artefatto, come vuole Rykov, è impossibile.»

«Si può sapere cos’è questo “Artefatto”, come lo chiami? Perché è così importante da mandarci così tanta gente a morire?» Anche in Boyka, ogni tanto, si faceva strada un barlume di curiosità.

La donna si pulì la visiera della maschera per l’ossigeno. «Dunque non ti ha detto niente, non so se è un segno buono o cattivo. Comunque...» Iniziò a girare in tondo agitando lentamente le mani, quasi a tenere una lezione ad un pubblico invisibile. «Un’antica e misteriosa civiltà ha imbrigliato una forza sconosciuta in un oggetto, che noi chiamiamo “Artefatto”, in grado di irraggiare una specie di aurea psico-chimica che inibisce gli xenomorfi e li tiene a debita distanza.»

«Ecco perché il mostro si è fermato, quando sono arrivato nei pressi di questa sala.»

Dunja si immobilizzò e guardò l’uomo incuriosita. «Di solito quando snocciolo questa chiacchierata perdono tutti attenzione alla prima parola...»

Boyka fissava l’oggetto in aria. «Quando cresci in un carcere pieno di gente che vuole bere il tuo sangue, presti la massima attenzione a ogni parola.»

«Quindi... non stavi scherzando: sei davvero un galeotto?» Dunja cominciò a gesticolare. «Prima manda me, un maggiore dell’esercito dall’addestramento di alto profilo, la migliore dei mercenari al suo servizio, e poi manda uno scarto umano? Perché allora non ha mandato subito te, invece di sacrificare me

«Perché gli scarti vengono chiamati a risolvere i problemi solo dopo che i migliori hanno fallito.»

Dunja agitò un dito alla volta dell’uomo, che continuava a non guardarla. «Io non ho fallito, sono riuscita a spingermi fin quaggiù superando gli attacchi di xenomorfi che...»

«Sì, sì, ho capito, ma ora immagino che se porto via l’Artefatto da quel raggio di luce perde ogni effetto, e un esercito di mostri invade questa bella sala. Mi sbaglio?»

«No, non sbagli», borbottò la donna con il dito rimasto a mezz’aria. «E il problema non è tanto l’esercito di mostri... Cioè sì, è un bel problema, ma non è l’unico. Da giorni mangio le schifose scorte alimentari lasciate dai minatori della Compagnia e studio la sala, centimetro per centimetro, in cerca di una soluzione per...»

«Da giorni? Cristo, ma da quant’è che sei qui?»

La donna si irrigidì, anche a colpa dello sguardo irridente dell’uomo. «Pensi che sia colpa mia? Non è che mi si è incastrato un tacco nella grata di un tombino. E poi gradirei che ti rivolgessi a me con il mio grado: l’essere un avanzo di galera non ti esime dal rispetto che...»

«Basta con le cazzate, Dunja», disse Boyka calcando l’accento sul nome, detto al posto del grado, «e dimmi cos’hai scoperto in questa tua lunga analisi della zona.»

La donna sbuffò. «Ho trovato una parete abbastanza fragile da poter abbattere con gli strumenti di fortuna che ho assemblato, tipo questo piccone che ho in mano. E a proposito, non mi hai detto il tuo nome: visto che ci stiamo divertendo a chiamarci in modo informale, mi piacerebbe saperlo.»

«Chiamami Boyka, non ci tengo al mio grado», rispose l’uomo con un mezzo sorriso.

«Ah, non ci tieni?» Dunja congiunse le braccia, stizzita. «Perché avresti anche un grado...»

«Sì», rispose l’uomo divertito. «Sono il più grande lottatore dell’universo. Ma non ci bado, chiamami solo Boyka.»

«Dovevo immaginarmelo», bofonchiò la donna. «Comunque ho iniziato ad abbattere la parete sperando in una scorciatoia verso l’uscita o qualsiasi altra cosa che potesse aiutarmi, invece ho solo scoperto in quale altro modo ero fottuta.»

«E sarebbe?»

«Vieni, ti ci porto così ti rendi conto.» Dunja iniziò ad attraversare la grande sala, seguita da Boyka. «A proposito, se Rykov ti ha permesso di utilizzare la sua preziosa armatura Berserker doveva avere grande fiducia in te: fiducia che ovviamente non ha riposto in me.»

«Vedi che neanche tu usi il grado? Perché non chiami Rykov “generale”?»

«Perché quella merda d’uomo mi ha mandato a morire qua sotto, quindi mi permetto di essere indisciplinata nei suoi confronti.»

Boyka sghignazzò. «Dice che un soldato addestrato non potrebbe resistere agli attacchi degli alieni, visto che l’armatura non può nulla contro la loro forza. Io invece neutralizzo velocemente la minaccia così posso usare al meglio l’armatura.»

Dunja si voltò, mentre camminava. «Parli bene per essere cresciuto in galera.»

«Rimarresti stupita di quanti uomini di lettere la Weyland-Yutani ha mandato in galera, inventando accuse per giustificare il carcere duro. Giornalisti e scrittori che hanno osato pubblicare testi di denuncia invece che di adorazione a comando, gente che ha messo in gioco la vita per far conoscere la verità: ho più stima di loro che dei soldati che “combattono per la libertà”.» Dunja si voltò a fulminarlo con un’occhiataccia, ma lui fece finta di non accorgersene. «Io li proteggevo e loro mi davano lezioni. Mi piaceva, in mezzo all’odio e alla violenza era una bella distrazione e mi aiutavano a capire tante cose. Mi erano simpatici, e loro erano contenti che una bestia come me li proteggesse da altre bestie.»

«Bene, dottor Boyka», lo prese in giro la donna, quando furono arrivati dall’altra parte della sala. «Questa è la parete di cui ti parlavo, ed il motivo per cui non puoi portare via l’Artefatto: se tu lo facessi, infatti, interromperesti la forza che tiene a bada... lei

L’uomo si sporse fino a guardare attraverso la breccia sulla parete: dall’altra parte vide degli arti immobili di xenomorfo. «Ci sono degli alieni, sai che novità? E come sai che uno di loro è femmina?»

Dunja scosse la testa. «Non sono “alieni”... è un solo alieno. La Regina madre...»

Solo allora Boyka mise a fuoco le immagini di arti che vedeva e si rese conto che formavano un unico, gigantesco corpo, decisamente più grande di tutte le creature che aveva incontrato finora. «Ci mancava solo la Regina, ora siamo al completo», sibilò l’uomo. «Dici che è rimasta bloccata qua dentro dalla forza dell’Artefatto?»

Dunja agitò le spalle. «Non posso esserne certa, non sappiamo molto di questa sala e della civiltà che l’ha costruita, chissà quando. Ma sono abbastanza sicura che appena disattivato l’Artefatto quella “signora” si sveglierà... e ci metterà un secondo a distruggere la parete ed entrare in questa sala, richiamando in aiuto ogni mostro esistente in questa montagna.

Boyka non ce la faceva a distogliere lo sguardo. Aveva rispetto per la forza e la potenza, e la Regina era quanto di più forte e potente esistesse nell’universo... Forse addirittura più di lui! «Una creatura così grande non può essere veloce, e poi è impossibile che passi per il tunnel che porta all’uscita. Ora che la “signora” si sveglia e inizia a muoversi noi saremo già sulla via del ritorno.»

«Certo, e gli alieni faranno l’inchino vedendoci passare. Devi essere pazzo, già ci saranno frotte di mostri pronti ad attaccarci, figurati quanti ne arriveranno quando la Regina ordinerà ad ogni suo “figlio” di darci addosso. Non resisteremmo un solo minuto.»

Boyka finalmente si scosse e dalla breccia spostò lo sguardo sulla donna. «Sicuramente io resisterò più di qualche minuto.»

Dunja si pulì di nuovo la visiera per fissare l’uomo negli occhi. «Mi stai dicendo che te ne freghi, che ti prenderai l’Artefatto e fuggirai lasciandomi qui a morire? Sono questi i valori che ti hanno insegnato quegli scrittori così saggi?»

I due si guardarono per secondi che sembrarono un’eternità. «Tu sei già morta, Dunja», riprese Boyka con un tono di voce confidenziale. «Lo sei da giorni, e anch’io sono morto, perché non mi faccio illusioni: appena consegnato quel soprammobile a Rykov lui mi farà fuori. Non può lasciare in libertà una bestia forte come me. Ma di questo mi occuperò a tempo debito: non sono uno che fa piani a lunga scadenza.»

«Dovresti, invece, ed è proprio ora il momento di iniziare a farne.» Dunja indicò l’Artefatto senza distogliere gli occhi da Boyka. «Hai in mano tutto ciò che Rykov desidera, uno strumento per controllare gli alieni per il quale sarebbe disposto a fare qualsiasi cosa: devi giocartela bene, questa carta, non darla via sperando che poi succeda qualcosa che ti salvi.»

«Se non esco di qui con quell’oggetto sono destinato a fare la tua stessa fine: Rykov mi dimenticherà in un attimo. Al massimo si dispererà per l’armatura che ha perso, ma continuerà a cercare altri volontari da mandare al massacro.»

«E se lo portassi fuori io, l’Artefatto?» Un altro lungo silenzio passò tra i due. «Tu hai l’armatura, io no; tu sei un lottatore fenomenale, a quanto mi dici, io no; tu puoi resistere a lungo agli attacchi alieni, io no. La soluzione è ovvia: mentre tu tieni a bada gli alieni, qui, io corro per il tunnel con l’Artefatto.»

«È davvero una splendida idea», disse sorridendo l’uomo. «In fondo è proprio così che sono sopravvissuto in carcere: fidandomi degli estranei e affidando la mia vita nelle loro mani. Non si può davvero sbagliare.»

«Di cosa hai paura? Siamo su un planetoide disabitato, dove vuoi che vada? E poi mica devi starci un’ora, qui sotto con gli alieni: dammi cinque minuti di vantaggio, dieci al massimo, e poi mi vieni dietro. Nessuno ci sta aspettando all’uscita, dovranno mandare una scialuppa dalla Verloc per recuperarci e quindi avrai tutto il tempo di raggiungermi.»

«Un piano perfetto, ma io ne ho un altro migliore: cominciamo a correre insieme per quel tunnel, con l’Artefatto in spalla, e il primo che arriva vivo in superficie ha vinto. Che ne dici?»

«È così che sei sopravvissuto in carcere? Lasciando i tuoi compagni indietro a morire?»

Per qualche strano motivo, la frase colpì duramente Boyka. «Tu non sei un mio compagno», bofonchiò.

«Pensi davvero che Rykov ti accoglierà a braccia aperte?» continuò la donna. «Pensi davvero che ti farà salire sulla sua astronave prima di pugnalarti alle spalle? Manderà i suoi uomini a recuperare l’Artefatto e ti farà uccidere qui, su questo schifo di pianeta: non può rischiare a farti salire sulla Verloc, forte come sei.» Visto il silenzio di Boyka, Dunja continuò. «Se invece ci presentiamo insieme sarà diverso, sono ancora un maggiore dell’esercito e gli uomini di Rykov mi ascoltano. Più di una volta il generale se l’è presa per il mio ascendente sui suoi soldati: a me daranno retta quando dirò loro di farti salire a bordo. E insieme spodesteremo quel verme di Rykov.»

Boyka sbuffò. «Hai delle aspirazioni niente male, per essere un topolino in trappola.»

«Pensaci, è l’unica soluzione. È come quel problema di logica in cui devi portare in barca tre animali che si mangiano a vicenda da una riva all’altra, ma non potendo mai portarne più di due, così da essere costretto a scegliere con cura i tuoi passaggi. Ti ricordi? Hai un lupo, una gallina e...»

«Sì, una volta mi hanno parlato di quella roba», tagliò corto Boyka, «ma ho risolto subito il problema, senza tante chiacchiere.»

«Ah, e come l’avresti risolto?»

L’uomo scosse le spalle. «Semplice: prendi la gallina e le tiri il collo, poi fai vedere il cadavere agli altri animali e dici “Qualcun altro di voi vuole darmi problemi?”»

Dunja lo fissò allibita, notando che non c’era vena di umorismo nelle sue parole. «Capisco perché Rykov ti ha dato fiducia... E sarei io... insomma, sarei io la gallina a cui tirare il collo, per risolvere velocemente il problema?»

Boyka la fissò a lungo, in silenzio. «Sai, in carcere a noi campioni era concesso ogni lusso, comprese le donne. A volte erano delle tossiche inutili, ma capitava qualche donna lucida con cui mi piaceva stare, e ho notato che spesso mantenevano ciò che promettevano. Non proprio sempre, ma un numero accettabile di volte, soprattutto quando avevano paura delle ripercussioni. Io non posso minacciarti, visto che se mi sbaglio morirò sbranato dagli alieni, ma ti chiedo comunque di promettere: prometti che quando arriverà la scialuppa convincerai i tuoi uomini a prendermi a bordo? Prima di rispondere, ricorda che mentre la navetta atterrerà ti terrò al mio fianco, e ci metterei un secondo a spezzarti il collo.»

Il volto di Dunja si illuminò. Si mise una mano sul cuore e alzò l’altra. «Parola di mercenaria.» Risero entrambi. «Quindi ti va bene il mio piano?»

«Quasi. Ho pensato ad una specie di variante che potrebbe funzionare molto meglio.» Boyka si avvicinò alla parete e cominciò a prenderla a pugni: enormi sbuffi seguivano le macerie mentre cadevano.

«Ma che fai, sei impazzito?» gridò Dunja.

«Faccio prima io con i miei pugni che tu con il tuo ridicolo piccone.»

«Perché vuoi aprire la strada alla Regina? Così sarà più veloce al suo risveglio.»

Boyka si voltò a guardare la donna. «Ecco il mio piano. Tu prendi l’Artefatto, ogni arma con cui sei arrivata e corri come un lampo su per il tunnel, sparando a tutto ciò che si muove. Io invece qui metto in atto la prima regola del carcerato.» E diede un altro pugno alla parete.

Dunja lo fissava come si fissa un folle. «E quale sarebbe questa prima regola?»

Boyka non si voltò, e le rispose fissando la Regina immobile al di là della parete. «Appena arrivi in un ambiente ostile... vai a pestare il più forte, e gli altri ti lasceranno stare.»

6

La misurazione del tempo perde importanza quando ci si trova nelle viscere di una montagna, dove l’illuminazione è sempre uguale e non esiste il giorno e la notte. Boyka non aveva idea del tempo che stava passando lì sotto, e la cosa lo preoccupava: era fondamentale uscire il prima possibile dalla sala e riprendere contatto con Rykov, prima che il generale si stancasse di aspettare e dichiarasse fallito quell’ennesimo tentativo, andandosene dall’orbita del pianeta.

Considerare di vitale importanza la tempistica in un luogo dove il tempo non aveva alcuna importanza era solo uno dei fattori destabilizzanti della situazione. E ammirare da vicino la sublime potenza distruttrice della Regina Aliena non aiutava affatto.

Aveva completamente distrutto la parete intorno al gigantesco xenomorfo ed ora stava passando una catena intorno al suo collo. Il magazzino dei minatori della Compagnia si era rivelato più utile del previsto e la robusta catena creava un “guinzaglio” più che efficace... per qualsiasi creatura che non fosse una forza della natura come la Regina Aliena.

Boyka non si faceva illusioni, il suo era un piano assurdo ma non aveva molte scelte. E poi a lui servivano solo pochi minuti, il tempo necessario alla Regina per chiamare a sé tutti i suoi “sudditi”, così da distrarli dalla corsa di Dunja verso la superficie.

Il lottatore girò leggermente la testa e fissò la donna con la coda dell’occhio: era insopportabile fidarsi di uno sconosciuto. Figuriamoci di una donna...

~

Dunja era addestrata alle situazioni di stress e durante quei terribili giorni non aveva mai ceduto, la sua divisa lo testimoniava: anche solo sbottonarsi il colletto sarebbe stato un gesto di rilassamento che non poteva concedersi, perché avrebbe aperto la via ad altri gesti simili e a forza di rilassarsi sarebbe arrivata la disperazione. No, Dunja aveva tenuto duro ed ora era più pronta che mai: in un modo o nell’altro quella situazione stava per concludersi.

Fece velocemente l’inventario delle munizioni e la situazione era buona. L’Artefatto aveva tenuto lontani gli alieni e quindi non aveva sprecato colpi da quando era entrata nella sala. Riempì ogni caricatore fino al massimo e si assicurò di avere il colpo in canna: una canna tenuta perfettamente pulita anche durante quei giorni sotto la montagna. Perché un soldato è sempre un soldato, anche nelle situazioni più assurde.

Raccolse le cartucce che le erano rimaste infilandosele nelle tasche: una volta messosi l’Artefatto in spalla avrebbe avuto le mani libere, così da poter ricaricare velocemente il pulse rifle con cui era scesa, sia con i caricatori che all’occorrenza con proiettili sfusi. Altrettanto importanti erano le due granate che si assicurò con delicatezza ai fianchi. Il coltello invece sarebbe stato del tutto inutile ma lo stesso lo assicurò alla cintura, insieme alla pistola d’ordinanza, quasi fossero amuleti che la facevano sentire tranquilla.

Tracolla assicurata dietro la schiena, colpo in canna, sicura tolta e il pulse rifle impostato su “fottuto inferno”, cioè raffica ammazza-tutti. Qualcosa di sconsigliabile, visto che dopo qualche secondo l’arma diventa incandescente e rischia di esplodere, ma in una montagna piena di mostri “qualche secondo” può essere la differenza tra la vita e la morte.

Davanti a sé ora Dunja aveva l’ultimo “ferro del mestiere”: una siringa contenente lo XenoZip, il mix metamfetaminico creato dalla Weyland-Yutani per dare sprint alle imprese di un soldato, che garantiva resistenza alla fatica, innalzamento della soglia del dolore, euforia e abbandono di ogni inibizione. Esattamente quello che serviva per lanciarsi in una missione così fottutamente assurda.

La donna prese la siringa e se la assicurò in una piccola tasca sul petto, dove fosse comodo prenderla poco prima di cominciare la corsa verso l’uscita. Un’uscita che non rappresentava necessariamente la sopravvivenza.

~

Boyka assicurò l’ultimo lembo di catena attorno alla Regina.

«Dici che reggerà?» si sentì chiedere da Dunja.

La fulminò con gli occhi. «Non c’è altro che possiamo fare, quindi mi sembra una domanda inutile.»

Con pochi agili balzi il lottatore scalò la catena fino a sedersi sulla schiena della Regina: con raccapriccio si rese conto che il corpo della creatura era tutt’altro che rigido: era un essere vivente tenuto in una qualche sorta di stasi dall’Artefatto, e chissà che non fosse perfettamente conscio della presenza dell’uomo. Boyka si incastrò dietro l’enorme testa allungata dello xenomorfo e afferrò saldamente le catene che aveva intrecciato, in modo che stringessero sul collo della creatura: provocando dolore nel suo punto debole, sperava di poterla gestire. O per lo meno limitare per qualche minuto la sua forza titanica.

Una volta sistemato, Boyka guardò Dunja. «Io ci sono. Ora tocca a te.»

La donna rispose al suo sguardo annuendo. «Comunque vada, ti sono grata per non avermi lasciato qui a morire.» Il tono di voce era neutro, quasi asettico: non era qualcosa che Dunja fosse abituata a dire.

Boyka digrignò i denti. «Pensa invece a correre veloce e a far scendere la navetta: sarà lì che dimostrerai la tua gratitudine.»

~

La donna si avvicinò alla base dell’Artefatto e premette la sequenza di pulsanti per disattivare il raggio di stasi, come Rykov le aveva insegnato. In un lampo l’Artefatto cadde giù e finì tra le sue mani: velocemente lo imbrigliò nelle corde che aveva preparato e se lo assicurò dietro la schiena. Quasi fosse una continuazione dello stesso gesto, la donna estrasse la siringa e si iniettò la speciale metamfetamina della Compagnia. Il tempo di far cadere a terra la siringa vuota e di imbracciare il pulse rifle... e già sentiva che quella folle impresa era dannatamente fattibile. Miracoli della chimica...

~

Dunja era già scomparsa nel tunnel, diretta verso l’uscita a gran velocità, quando Boyka si rese conto di quel che aveva visto. «Perfetto, sono nelle mani di una drogata.»

Non finì di sibilare la frase che avvertì chiaramente una potente scossa sotto di sé: anche attraverso l’armatura poteva avvertire l’enorme xenomorfo rianimarsi, poteva sentire la potente forza vitale dell’essere tornare a scorrere nelle sue carni chitinose. Era come assistere in diretta alla nascita di un terremoto, come essere partecipe della roccia che prende vita.

Appena sentì che la Regina iniziava a scuotere lentamente la testa, Boyka tirò forte le catene che stringeva tra le mani: la risposta fu un grido strozzato che nacque come un rantolo nella gola dello xenomorfo e salì d’intensità fino quasi a stordire l’uomo. Era un grido di sorpresa misto a dolore e disperazione, ma c’era da scommettere che quello fosse solo un lamento: il vero “messaggio” l’uomo non l’avrebbe mai potuto sentire.

Non passò che qualche secondo prima che degli xenomorfi iniziarono a riversarsi nella sala, quasi titubanti ma ben decisi a correre in aiuto della loro Regina. Da lassù sembravano piccoli, a Boyka, ma sapeva che ognuno di loro era un pericolo mortale... e ne stavano arrivando a frotte.

La Regina iniziò a muoversi facendo forza sulle catene che la imbrigliavano, e sembrò subito chiaro che queste non avrebbero retto a lungo. Boyka diede un altro strattone provocando un altro grido di dolore ma non si faceva illusioni: stava prendendo tempo davanti all’inevitabile.

Un alieno si arrampicò velocemente sul corpo della Regina e il lottatore lo scalciò via facilmente, facendolo ricadere: sarebbe stato così facile anche con gli altri? Già subito due creature salirono insieme ai due lati: Boyka invece di affrontarle strattonò la Regina tanto che fu questa stessa, balzando verso l’alto dal dolore, a far cadere i due alieni.

Un rumore inequivocabile sancì la fine dei giochi: un anello della catena aveva ceduto alla possente forza dell’enorme creatura, la quale ora iniziava ad agitarsi liberandosi. Almeno cinque xenomorfi nel frattempo si stavano arrampicando e la velocità dei loro tentativi non lasciava spazio a speranze: il piano era già nella fase finale, e le speranze iniziali erano state decisamente ottimistiche. Non aveva un orologio sott’occhio, ma Boyka dubitava fossero passati due minuti: figuriamoci cinque o addirittura dieci.

Lasciate andare le catene, ormai inutili, il lottatore afferrò l’enorme cresta che fuoriusciva dalla nuca della Regina. «È il momento di instaurare la repubblica!» sibilò, prima di strattonare la testa della creatura con tutta la forza che aveva... spezzandogliela a metà.

~

Non sapeva da quanto correva, ma non aveva importanza: non era una gara, era solo sopravvivenza.

Dunja non provava la minima paura né aveva il fiatone, malgrado stesse correndo come mai prima d’ora aveva fatto, come anzi mai avrebbe pensato di poter fare. Si potevano dire tante cose della Weyland-Yutani, ma era dannatamente brava a sintetizzare droghe da combattimento. Lo XenoZip aveva rischiato di diventare una piaga sociale, visto che bastava una dose a fare di un teppista un nemico pubblico, ma nelle mani giuste era un’arma fenomenale. Paradossalmente un’arma creata sintetizzando la pappa reale della Regina Aliena... proprio quella da cui Dunja stava fuggendo.

Dunja sghignazzò e poi si rese conto che quella strana euforia rischiava di farle perdere la concentrazione: il dolore e la fatica servono a capire quando si arriva al limite, ma lei non provando nessuno dei due rischiava di esplodere. Rischiava di raggiungere l’uscita ma di morire d’infarto un attimo dopo.

Cercò di ritrovare la concentrazione ma qualcosa la distrasse, pur se continuava a correre. Un rumore strano e di intensità crescente la spinse a girare leggermente la testa all’indietro... e nessuna droga sintetica le avrebbe potuto impedire di provare un brivido di terrore.

Perché vide Boyka che correva verso di lei... inseguito da un esercito di alieni.

~

Lo scontro non fu indolore, ma per fortuna la droga non fece sentire nulla alla donna, che venne raggiunta da Boyka e dalla sua armatura che gli permetteva di correre più veloce di lei. Ma in realtà l’uomo non la “raggiunse”: la travolse nella sua corsa, afferrandola e sollevandola da terra. Solo quando lo XenoZip si sarebbe disciolto la donna avrebbe avvertito il dolore di quello scontro.

«Che cazzo fai?» gridò Dunja stordita.

«Cambio di piano», gridò Boyka per superare l’osceno concerto di sibili acuti emessi dagli xenomorfi. «Accetto nuove idee.»

Mentre pendeva dalla spalla di Boyka, gli occhi della donna, appannati dalla droga, videro l’orda aliena che li inseguiva avvicinarsi a gran velocità, ma lo stesso non arrivò alcuna paura.

«Tu continua a correre», disse lei con voce neutra, «al resto penso io.»

Dunja allargò le gambe e con rapidi gesti si avvinghiò alla vita dell’armatura, guardando le spalle di Boyka. Afferrò una delle granate che portava in vita e sganciò la sicura. «Venite da mamma, stronzi...» bisbigliò, contando mentalmente. Quando lasciò andare delicatamente la granata, questa esplose solo un paio di secondi dopo, quasi al centro dello spazio fra loro e gli alieni: come immaginato, la montagna tremò mentre pesanti detriti cadevano sull’avanzata delle creature.

«Questo per sfoltire un po’», disse la donna, che poi afferrò il pulse rifle assicurato alla tracolla e cominciò a mirare con calma man mano che dalla polvere e dai detriti fuoriuscivano alieni. Raffiche brevissime per non far surriscaldare l’arma. «Avvertimi quando siamo vicini all’ascensore, che uso la seconda granata.»

«Non rischi che ti arrivino schizzi di sangue acido?»

La donna rispose con il suo tono privo di emozione. «Per questo getto la granata davanti agli alieni e non addosso a loro, così l’esplosione fa schizzare il sangue all’indietro.»

«Bel trucco.»

«La frana deve aver ostruito un po’ il tunnel e bloccato molte creature, però prima dell’ascensore è meglio gettare l’altra granata e chiudere di più il passaggio.»

«Ma... Dunja! Sei tu?»

Si erano entrambi dimenticati di Rykov e vennero colti di sorpresa dal sentire la sua voce. Disattivato l’Artefatto il segnale era tornato a funzionare, e visto che la donna non si era mai tolta l’auricolare sia lei che Boyka sentirono all’unisono la voce del generale. «Avete recuperato l’Artefatto?» stava chiedendo ora la voce.

«Sì, sono ancora viva e sto bene: grazie per averlo chiesto», gridò Dunja mentre con la sinistra afferrava dalla cintura un caricatore e lo inseriva velocemente nel pulse rifle. Un alieno particolarmente veloce stava per raggiungerli e lei fece appena in tempo a falciarlo con una raffica.

«Non è il momento delle spiegazioni», gridò Boyka per sovrastare il rumore d’inferno che avvolgeva il tunnel. «Stiamo salendo con il tuo soprammobile: comincia a mandar giù qualcuno a prenderci.»

Il lottatore non aveva in corpo una dose di XenoZip e sebbene l’armatura aiutasse molto iniziava a sentire la stanchezza. Portare in braccio la donna avvinghiata, che sparava agli alieni alle sue spalle, era facile con i muscoli d’acciaio dell’armatura ma lo stesso il peso cominciava a stancare i muscoli veri. Per fortuna riconobbe la strada e questo gli fu di conforto: sorpassare velocemente i cadaveri degli alieni uccisi all’andata lo rincuorò decisamente.

«Ci siamo», gridò. «Fai quello che devi fare.»

Dunja senza rispondere afferrò la sua ultima granata e ripeté la tecnica di prima, provocando un’altra frana ed ostruendo ancora di più il passaggio alle frotte di alieni.

«Perché non ci abbiamo pensato prima?» gridò. «Doveva essere questo il nostro piano sin dall’inizio. Ad averlo saputo che potevi portarmi in braccio per tutta questa strada...»

«L’ho scoperto anch’io strada facendo, e sì che sei una falsa magra.»

Dunja smise di sparare e con un colpo di reni si posizionò davanti la visiera di Boyka. «Ripetilo, se hai il coraggio.» Nessuna droga sintetica immunizza una donna dalla vanità...

~

Arrivati sulla pedana elevatrice uno strano silenzio aleggiava nell’aria. Dopo la seconda esplosione solo un paio di creature erano fuoriuscite dai detriti e Dunja le aveva subito inondate di proiettili ad espansione. Li aveva scelti apposta, quei proiettili, perché esplodendo all’interno dei corpi riducono al minimo gli schizzi di sangue acido.

Saliti sulla pedana, Boyka sciolse le gambe della donna per togliersela di dosso, e subito azionò il meccanismo di salita mentre Dunja teneva sotto mira il tunnel. Quando iniziò la salita, degli alieni si sentiva qualche eco lontana ma niente di più.

«Non ci credo che siamo arrivati fin qui», sibilò il lottatore.

La donna, per nulla stanca e con gli occhi ancora appannati dalla droga, lo guardò sorridente. «Una volta un tizio venne fatto scendere in un alveare alieno, e sai cosa disse man mano che superava i livelli verso l’inferno?»

Boyka abbozzò un sorriso. «Fin qui tutto bene...»

Dunja rise di gusto. «Vale anche per chi risale, da quell’inferno.»

7

«La navetta vi raggiungerà in pochi minuti», stava dicendo Rykov. «L’ho lasciata apposta a sorvolare la zona nella speranza che tu... che voi... be’, che qualcuno ce la facesse.»

Boyka e Dunja erano troppo felici di essere tornati in superficie per mettersi a discutere con il generale. Anche lo squallido panorama di quel planetoide era splendido, dopo essere passati per l’inferno.

«Non ti sembra strano che all’ultimo momento gli alieni abbiano smesso di attaccarci?» chiese il lottatore.

«Non hanno smesso: non hanno più potuto farlo. Le frane hanno stretto il tunnel e quelle bestiacce sono grosse, e poi a forza di sparare ne ho fatte fuori un bel po’.»

«Oppure...» Boyka alzò un dito davanti a sé. «Hanno deciso di usare la porta di servizio.»

Dunja fissò per nulla spaventata la macchia nera che da lontano si stava avvicinando a loro: dopo qualche secondo riuscì a distinguere un folto manipolo di alieni urlanti. Nelle vene le scorreva ancora lo XenoZip che la proteggeva dal panico, quindi disse senza scomporsi: «Ora ti mostro un vecchio trucco dei Colonial Marines.»

Prese due bende da una tasca e si avvolse per bene le mani, poi caricò al massimo il pulse rifle, si piantò bene sui piedi e aprì il fuoco. O per meglio dire vomitò l’inferno sulle creature.

Iniziò un’unica raffica infinita di colpi che si abbatté potente sugli xenomorfi, falcidiandoli, ma erano così tanti che non sembrò essere una soluzione utile. Finché un sibilo fortissimo indicò che l’arma era andata in surriscaldamento, ed allora Dunja con un gesto deciso la scaraventò verso gli alieni, sempre più vicini: velocemente estrasse la pistola dalla fondina e sparò due colpi in rapida sequenza addosso al pulse rifle incandescente. L’esplosione che ne seguì fu addirittura superiore a quella delle due granate che aveva lanciato nel tunnel.

Mentre la massa di alieni si contorceva nelle fiamme, Boyka guardava allibito la donna. «Mi sa che devo cambiare opinione sui militari...»

La donna gettò via le bende ustionate dalle mani. «Attenzione però che non sono tutti cazzuti come me», rispose sorridendo.

Alcune creature continuavano ad avanzare, sebbene ustionate. Boyka accennò un inchino alla volta della donna. «Posso avere l’onore di finire quei mostri?»

Dunja annuì con il capo. «Concesso», e sbottò a ridere.

Boyka partì alla volta delle creature superstiti, che avevano scavalcato le altre che continuavano a contorcersi tra le fiamme. Con pochi balzi fu addosso ai primi xenomorfi che uccise senza fare nulla: con la velocità acquisita, l’armatura piombò loro addosso massacrando gli scheletri chitinosi.

Il lottatore iniziò a sferrare pugni veloci ma precisi per spaccare i crani degli xenomorfi più vicini, così da poter raggiungere quelli più distanti ruotando sul busto e colpendoli alla testa con calci a grande velocità. Qualche artiglio riusciva a raggiungere l’uomo, ma l’armatura lo proteggeva e nessuna presa durava per più di un secondo: subito il possessore dell’artiglio veniva spazzato via.

Ormai il mucchio di cadaveri era ingente e rendevano difficoltosi i movimenti, così Boyka si fece un po’ indietro... ma nessuno lo seguì. La pausa che ne seguì fu colma di tensione, con l’uomo che fissava le creature in attesa di un attacco che sembrava non dovesse più arrivare. Gli alieni si limitavano a starsene fermi.

«Che vi prende?» gridò Boyka. «Avete finalmente capito chi comanda, qui?»

Gli alieni si voltarono e velocemente indietreggiarono verso l’apertura nel terreno dalla quale erano fuoriusciti, una voragine che plausibilmente portava al loro nido sotterraneo. I mostri dovevano essersi parlati... e aver deciso che quello era un nemico impossibile da battere. Almeno in uno scontro diretto.

Boyka era stordito dalla sorpresa. «Dunja, hai visto che roba?» Mentre poneva la domanda intanto si girava, e già con la coda dell’occhio aveva capito che qualcosa non andava.

Voltato verso la donna, guardandola in lontananza gli sembrò che l’espressione negli occhi fosse strana. «Che succede, Dunja?» chiese il lottatore rimanendo immobile, indeciso sul da farsi. «Parlami...»

La donna continuava a fissarlo e Boyka fu attraversato da un brivido: era quello il momento in cui lo avrebbe tradito? Era quello il momento in cui la prima volta che dava fiducia ad una donna si ritrovava fregato? Durò tutto meno d’un secondo, poi vide il corpo di Dunja scuotersi profondamente, schizzare in avanti e cadere a terra scompostamente come un bambola di pezza, senza un solo gemito. La droga che aveva in corpo probabilmente non le aveva fatto provare alcun dolore.

«Dunja!» si ritrovò a gridare Boyka... ma la voce gli si gelò in gola quando al posto della donna vide un soldato, che era in piedi dietro di lei: Dimitri. Rapidamente questi afferrò il corpo di Dunja e se lo mise in spalla: non c’era tempo di slegare l’Artefatto dalla sua schiena, perché Boyka aveva cominciato a correre.

Mentre il lottatore urlava imprecando, Dimitri lanciò un segnale e la corda che lo assicurava si tese issandolo. Quando Boyka arrivò dov’era Dunja ormai Dimitri era troppo in alto per raggiungerlo, trainato dai suoi compagni a bordo della scialuppa che solo in quel momento apparve dal nulla. Una mimetizzazione perfetta che ormai non serviva più.

«Eri in debito con me!» gridava Boyka, tra una bestemmia e l’altra, alla volta del soldato.

«Vedo che ricordi la nostra ultima conversazione», replicò Dimitri, con tono calmo ma gridando per farsi sentire. «Ricordi anche quella precedente?»

«Cosa? Che vuol dire?» gridava il lottatore confuso.

«Spero che tu ricordi la nostra conversazione sulla scialuppa: hai tempo per pensarci.»

Boyka vide il soldato scomparire nella pancia della navetta: tutto era perduto. Ma che volevano dire quelle ultime parole?

«Sono desolato, figliolo, ma capirai che non avevo scelta.» La voce di Rykov negli altoparlanti del casco non fu una sorpresa.

«Ti sei comportato come ci si aspettava che facessi, generale», sibilò Boyka con disprezzo, agitando i pugni in aria in segno di frustrazione. «Sapevo che mi avresti fregato e l’hai fatto.»

«Credimi quando ti dico che non avrei voluto farlo...»

Ricordi la nostra conversazione?

«... io ammiro e rispetto la tua forza, ma è proprio quella che mi impedisce di lasciarti senza controllo.»

La nostra conversazione precedente

Boyka non riusciva a seguire il generale, troppi pensieri gli ruotavano nella mente. «Me ne frego delle tue emozioni, Rykov: usa il tuo comando a distanza ed uccidimi, così chiudiamo questa storia.»

Il generale sospirò. «Sarebbe una morte onorevole e mi piacerebbe dartela... ma temo di non potere: non ho alcun controllo sulla tuta, ho dovuto mentirti per ovvie ragioni.»

Hai tutto il tempo per pensarci

«Quindi è questo il piano? Lasciarmi qui a morire di fame così poi torni a prendere l’armatura?»

«Non sono così crudele, impiegherai molto meno a morire. Non te ne ho parlato prima, ma la tua armatura ha una autonomia di ossigeno che sta per esaurirsi...»

Ossigeno

«... Ci hai impiegato più del previsto a risalire ma per fortuna l’ossigeno è stato sufficiente...»

“Idiota! La tua armatura è già dotata di ossigeno”

«... Tra qualche ora al massimo sarà completamente esaurita, così la scialuppa rimarrà in volo aspettando di poter recuperare l’armatura...»

Ossigeno significa anche pressione...

«... Ci sei ancora?»

Boyka cominciò ad agitare in modo forsennato gli occhi, aprendo i menu del software dell’armatura. «E tutte le promesse che mi hai fatto? Avrei dovuto addestrare i tuoi uomini...»

Rykov sospirò. «Mi sarebbe davvero piaciuto, te lo giuro...»

Deve esserci... DEVE esserci

«... Trovare combattenti fenomenali come te è rarissimo, mi sarebbe piaciuto sfruttare le tue capacità...»

Ancora un sotto menu, ancora un altro...

«... Insieme avremmo fatto grandi cose, ma tu non lavori in gruppo e peggio ancora non rispetti l’autorità...»

Aspetta... non è possibile...

«... In un’altra vita saremmo stati una squadra perfetta...»

Eccolo... ECCOLO!

«... In un’altra vita sarei sceso io stesso a prenderti...»

Boyka distorse la bocca in un ghigno. «Tranquillo, Rykov... salgo io a prendere te

~

Dall’oblò della navetta Dimitri vide il lampo di luce e la scia infuocata che salì rapidamente verso il cielo. «Ora siamo pari, stronzo», borbottò sorridendo.

Si voltò e raggiunse il corpo di Dunja, steso al centro della stiva, inchinandosi a fissarle il volto. Estrasse una siringa dalla tasca e piantò l’ago nel collo della donna, che qualche secondo dopo iniziò a tossire scuotendo l’intero corpo. Con degli schiaffetti sul volto Dimitri si assicurò che si svegliasse completamente.

«Ma che... cazz...» balbettò la donna e il soldato le fece segno di tacere.

«Era piena di XenoZip, maggiore, abbiamo dovuto sedarla per portarla via. E abbiamo dovuto usare narcotici da elefante così da farla crollare immediatamente.» La donna cercò di dire qualcosa ma Dimitri continuò parlarle sopra. «Rykov ci ha dato l’ordine di ucciderla e recuperare l’Artefatto, così abbiamo dovuto fare una messinscena perché stava guardando. Ora le somministro qualcosa per far sparire l’effetto di tutta la droga che ha in corpo, perché ci serve lucida.»

«Boyka...» bofonchiò Dunja.

Dimitri sorrise. «Sta lavorando per noi, possiamo dire. Sta andando ad ammazzare il generale così finisce questo incubo: Rykov ha perso ogni contatto con la realtà e prima poi ci sacrificherà tutti in nome dei suoi deliranti piani.» Il soldato si portò la mano alla tempia in un saluto militare. «Ora siamo tutti con lei... generale Dunja.»

La donna fissò allibita Dimitri per qualche secondo, poi balbettò: «Iniettami quello che ti pare... ma rimettimi in sesto: è un ordine.»

~

«Perché nessuno mi risponde?» gridava Rykov nel microfono, disperato. L’ultima frase di Boyka suggeriva che avesse scoperto come far volare l’armatura e questo ovviamente era un male.

Aveva provato a contattare la scialuppa ancora in volo per ordinare di aprire il fuoco, ma nessuno gli rispondeva e non ne capiva il motivo. Ora l’unica speranza era che non potesse essere possibile per l’armatura volare fino a livelli così alti, addirittura superando l’orbita di un pianeta per raggiungere l’astronave.

«È assurdo che superi l’atmosfera», ripeteva tra sé il generale. «Non può resistere a temperature così elevate...» Il problema però era che nessuno lo aveva mai dimostrato: nessuno era stato così folle da provare a fare quello che stava facendo Boyka.

«È impossibile...» ripeteva il generale, ed ogni volta ci credeva meno.

~

Il cielo cambiava colore e il fuoco lambiva l’armatura: Boyka non avrebbe mai mantenuto il controllo a lungo, se non avesse impostato il pilota automatico. Come immaginava, la stiva della USS Verloc era la “casa” dell’armatura ed era bastato trovare il menu delle coordinate di destinazione per impostare il campo già previsto: “ritorna a casa”.

Quanto poteva fidarsi ad azionare i motori di volo? Quanto ne sapeva di astronomia per sentirsi pronto ad un’azione del genere? Domande inutili, visto che non c’erano altre alternative se non morire asfissiato su un pianeta abitato da soli mostri.

Non aveva nulla perdere, e non esiste niente di peggio che un lottatore messo alle strette...

~

Una enorme scossa, un rumore lancinante e un allarme rosso scattato: i tre rapidi eventi che confermarono a Rykov che quanto temeva stava davvero avvenendo.

«Generale, l’impatto con un oggetto sconosciuto ha aperto una falla nella stiva della nave!» gridò agitata una voce nell’interfono.

«Magari...» rispose Rykov.

«Come dice, signore?»

«Magari fosse un oggetto sconosciuto...» Il generale si lasciò andare sullo schienale della sua poltrona. «Sigillate la stiva, depressurizzate la zona e tappate quella falla da fuori», snocciolò nell’interfono. Probabilmente quelli erano gli ultimi ordini di una lunga carriera militare.

Quando sentì aprirsi la porta alle sue spalle non fu per nulla sorpreso. «Mi stupisci una volta di più, Boyka», disse ad alta voce, senza voltarsi.

«E tu mi hai fregato una volta ancora, Rykov», sibilò il lottatore. «Ero io che dovevo pronunciare la frase ad effetto, entrando.»

Il generale si voltò lentamente, ed era lui stesso a sorprendersi a sorridere. «Chi l’avrebbe detto che dopo tanti anni a combattere gli alieni... alla fine sarei stato battuto da un avanzo di galera?»

«Non buttarti giù», rispose il lottatore. «Sono il più forte lottatore dell’universo: è un onore essere battuti da me.»

Rykov non sapeva cosa rispondere e si limitava a fissare stupefatto i movimenti dell’uomo: in poche mosse Boyka era sgusciato fuori dall’armatura ed ora era in piedi, mezzo nudo, a grattarsi davanti a lui. «Quella roba dopo un po’ pizzica...»

«La scialuppa con i miei uomini sta tornando, non te la caverai.» La voce del generale non aveva inflessione: era il primo a non credere a quanto diceva.

«In realtà li ho intravisti mentre “entravo”: eccoli», disse il lottatore indicando una spia luminosa sul quadro comandi. «Dopo aver affrontato un esercito di xenomorfi e la Regina Aliena pensi che mi spaventino i tuoi soldatini?»

«Cosa vuoi per lasciarmi in vita?» provò a chiedere il generale: tentare non costava nulla, a quel punto. Boyka sorrise e con un gesto della mano indicò l’armatura dietro di sé. «È tua!» sbottò il generale. «Puoi farci ciò che vuoi.»

Il lottatore sorrise. «Che gentile che sei, a regalarmi quel che è già mio.»

Rykov non fece in tempo a chiedersi il significato di quella frase che la porta si aprì. Quando vide entrare Dunja e gli altri Colonial Marines, il generale sembrò tornare in vita. «Maggiore, è un sollievo vederti. Uccidi immediatamente questo criminale: ha aperto una falla nella nave e ha attentato alla mia vita.»

Boyka sghignazzava. «È più forte di te, non ce la fai a non pugnalare la gente alle spalle.»

«Sono qui per rilevare il comando, generale Rykov», disse ad alta voce Dunja, in posa militare. «Da questo momento lei è in arresto e relegato ai suoi alloggi: i miei uomini si assicureranno che osservi questi ordini.»

Queste parole ustionarono la pelle del generale. «I tuoi ordini? I tuoi uomini?» cominciò a gridare Rykov. «Chi cazzo credi di essere, puttanella? Io ti ho creato e io ti...»

Non finì la frase che crollò a terra, falciato da una tecnica acrobatica di Boyka. «Almeno questa soddisfazione dovevo togliermela», disse il lottatore.

~

«Grazie per non averlo ucciso», stava dicendo Dunja, seduta in rigida posa militare allo stesso tavolo in cui Boyka era chino sul piatto a mangiare rumorosamente. «So che dev’esserti costato fatica non spezzare in due quel verme.»

Il lottatore si pulì con le mani. «Quando si è fatto rozzo ho però dovuto metterlo a tacere: non sopporto quella volgarità», e ruttò in faccia a Dunja, scoppiando a ridere.

La donna sorrise. «Una lezione base di buone maniere credo sia in effetti la prima cosa da fare... e non parlo di Rykov.»

«Lo consegnerai davvero ai suoi nemici, come mi hai detto nell’interfono mentre ero nello spazio?»

Dunja annuì. «Da vivo, Rykov ci è infinitamente più utile che da morto. Come ti dicevo, possiamo barattarlo per ricevere molti favori: un sacco di gente vuole la sua pelle, abbiamo solo l’imbarazzo della scelta.» Dopo qualche secondo di silenzio la donna continuò. «Guarda che nessuno ti ruba il piatto, puoi anche mangiare con calma.»

Con rapidi gesti Boyka mangiò tutto ciò che aveva davanti. «Abitudini da carcerato, non è facile cancellarle.»

«Dovrai farlo, se vuoi lavorare per me: mi serve un agente sul campo, non un galeotto senza controllo.»

L’uomo si pulì la bocca lentamente con il dorso della mano e guardò la donna sorridendo. «Lavorare per te... generale Dunja?»

Lei rispose al sorriso. «Sono sempre maggiore, ma puoi chiamarmi solo Dunja. So trattare bene gli uomini che valgono, per questo i marines hanno scelto me invece di Rykov. E sai che rispetto i patti. Allora, lavorerai per me?»

Boyka la guardava in modo strano. «Dipende da quanto mi tratterai bene. Per esempio c’era qualcosa che ero abituato a fare in galera, dopo cena, con le donne che il direttore mi forniva.» L’uomo strizzò un occhio. «Vecchie abitudini difficili da cancellare.»

Dunja continuò a sorridere mentre si alzava lentamente. «Eccoti il primo trattamento di favore: non ti sbatto agli arresti per proposte oscene ad un tuo superiore. Però ora la carta te la sei giocata e la prossima volta pensa bene a quello che chiedi...» Si avvicinò alla porta e la chiuse... con lei dentro. «Perché magari potresti ottenerlo...»

«Credo che questo sia l’inizio di una bella amicizia...» commentò il lottatore.

FINE

LE FONTI

Questa fan fiction è una storia originale che utilizza però personaggi e situazioni pre-esistenti, estratti da varie fonti: ecco la specifica del materiale a cui ho attinto per la stesura di Aliens vs Boyka.

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Armatura - «L’armatura potenziata rappresenta metà della ragione per cui siamo definiti Fanteria spaziale mobile e non semplicemente Fanteria»: così spiega Robert A. Heinlein nel suo romanzo Starship Troopers (dicembre 1959), ampliamento del racconto Starship Soldier apparso su “The Magazine of Fantasy & Science Fiction” (ottobre-novembre 1959), tradotto in Italia come Fanteria dello spazio (“Urania” n. 276, Mondadori 25 febbraio 1962).

«Le tute ci forniscono vista più acuta, orecchie più sensibili, schiena più robusta per trasportare più armi pesanti e munizioni, gambe migliori, intelligenza più pronta (in senso militare, s’intende: un uomo in tuta può essere stupido come qualsiasi altro, solo che è meglio che non lo sia), maggiore resistenza, minore vulnerabilità. La nostra non è una tuta spaziale, sebbene possa svolgere anche tale funzione. Non è nemmeno una vera armatura, per quanto i cavalieri della Tavola rotonda disponessero di corazze molto meno solide delle nostre. Non è un carro armato, ma un soldato della Fanteria spaziale mobile, da solo, potrebbe affrontare un intero squadrone di carri armati e distruggerli se qualcuno fosse così avventato da opporglieli.» (Traduzione di Hilia Brinis.)

Il successo del romanzo di Heinlein ha portato l’esercito americano a studiare forme di armature che esaltassero l’impegno fisico dei soldati, e ancora oggi sono allo studio soluzioni più o meno efficaci. Per dare un’idea di quanto l’armatura da battaglia colpì l’immaginario collettivo, basti notare che dopo quattro anni dall’uscita del romanzo di Heinlein vide la luce il personaggio a fumetti Iron Man.

James Cameron ha immesso nell’universo alieno un concetto un po’ diverso, quello del “montacarichi” (powerloader) che poi ha perfezionato in Avatar (2009). Mark Verheiden poi ha immaginato un powerloader “in miniatura”, che cioè proteggesse il corpo ma lasciando liberi i movimenti delle gambe, per Aliens: Earth War (giugno 1990), ma una vera e propria armatura viene sviluppata nel mondo alieno con Aliens: Stronghold (maggio 1994), dove il grande John Arcudi introduce il concetto di una corposa armatura per tenere a bada gli alieni, dalla grafica però molto rozza.

La Dark Horse Comics porta regolarmente negli USA molte serie manga, quindi è facile che all’epoca avesse conosciuto il mondo narrativo di Alita, personaggio che nelle prime avventure “indossava” un corpo che altro non era se non un’armatura Berserker, ispirata ai romanzi di Fred Saberhagen senza però citarli esplicitamente. Forse stuzzicata da questa idea, la Dark Horse nel gennaio 1995 presenta Aliens: Berserker di John Wagner, in cui protagonista è una enorme armatura - graficamente più appetibile - con un uomo al suo interno che si “fonde” con il software, fino ad impazzire: esattamente come faccio raccontare a Rykov.

Fumetti e videogiochi iniziano a presentare armature da battaglia a misura d’uomo sempre più frequentemente - come nell’universo di Halo - ma la mia fonte di ispirazione è lo splendido manga All You Need is Kill (2014) di Ryosuke Takeuchi, tratto dal romanzo omonimo del 2004 di Hiroshi Sakurazaka che è stato da ispirazione per il film americano Edge of Tomorrow (2014). Gli splendidi disegni dinamici di Takeshi Obata ritraggono un protagonista racchiuso in un’armatura super-tecnologica che combatte i mostri alieni con tecniche vagamente marziali: non potevo non sfruttare questa ispirazione per Boyka!

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Armatura volante - «Una tuta non è un’astronave ma può volare, un po’ almeno». Non mi bastava questa annotazione di Heinlein, così ho preferito rifarmi a ben altre fonti.

«Il corpo si inarcò, partì in una traiettoria verso l’alto. Dopo un attimo fendeva il cielo, diretto verso la Luna. Sotto Pellig, la Terra rimpicciolì. [...] Il corpo era un razzo in miniatura, capace di volare nello spazio come un'astronave. E... pensò, ammirato... non aveva bisogno d’aria. Perciò poteva compiere viaggi interplanetari» (traduzione di Laura Grimaldi).

Da ragazzo mi è rimasta impressa questa trovata del romanzo Il disco di fiamma (Solar Lottery, 1955) di Philip K. Dick (“Urania” n. 193, Mondadori 1958) così ho voluto omaggiarla con Boyka che, grazie all’armatura pressurizzata, può addirittura volare nello spazio!

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Boyka - personaggio cinematografico nato nel film Undisputed II: Last Man Standing (2006) di Isaac Florentine, prodotto dalla NU Image / Millennium Films. Nato come cattivo, conquista talmente il pubblico che diventa protagonista assoluto del successivo Undisputed III: Redemption (2010): dopo un vano tentativo dell’attore Scott Adkins di diventare “attore normale”, nel 2016 gira il terzo film nei panni del personaggio, la cui uscita però è ripetutamente slittata.

Personaggio venerato in ogni angolo del mondo, tranne in Italia dove è totalmente inedito, Boyka è un detenuto del carcere duro di Gorgon, campione indiscusso dei combattimenti illegali finché il buono del secondo film gli ha spezzato una gamba. Diventato buono (e religioso), riesce a riabilitarsi e sebbene zoppo partecipa al campionato di Gorgon sbaragliando ogni avversario.

Dopo Fang, lo spadaccino monco cinese, e Zatôichi, lo spadaccino cieco giapponese, Boyka è un nuovo grande crippled master del cinema marziale.

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Dunya, generale Rykov e Dimitri sono personaggi del videogioco Aliens vs Predator 2 (2001) prodotto della Sierra, ma ho preso in considerazione anche l’espansione Primal Hunt (2002).

Dimitri è giusto una comparsa mentre Rykov è il motore delle storie di entrambi i giochi, ma è Dunya la protagonista della missione “umana0 del secondo titolo. (Ho scelto di scriverla con l’europea “j” invece dell’anglofona “y”.) Primal Hunt infatti si apre con lei che viene incaricata dal generale di recuperare l’Artefatto dal Sito Zeta, e il giocatore deve far scendere la soldatessa con l’ascensore nelle profondità della montagna e lì guidarla fino alla sala dell’Artefatto, portandolo via e iniziando la pericolosa fuga, inseguiti dagli alieni. Mi sono divertito ad immaginare invece la donna incastrata nella sala, raggiunta poi da Boyka.

La missione di Dunya poi si svolge nel settembre del 2230 mentre io l’ho spostata a dicembre semplicemente perché è quello il mese in cui ho cominciato a presentare questa storia.

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Linguafoeda acheronsis - Qui ho commesso un piccolo anacronismo ma era irresistibile. Questo nome latino dato agli xenomorfi risale al fumetto Aliens vs Predator vs Terminator (aprile 2000) di Mark Schultz, che però ambienta la storia poco tempo dopo gli eventi del film Alien Resurrection (1997), con tanto di Ripley 8 e Call contro alieni e robot vari. Quindi solamente nel XXV secolo viene creata la tassonomia degli alieni, mentre la storia di Boyka l’ho ambientata nel XXIII secolo: facciamo finta che fosse già nota duecento anni prima della sua invenzione!

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Xeno-Zip - Droga sintetica sviluppata dalla Weyland-Yutani a partire dalla royal jelly: la pappa reale della Regina Aliena.

Nasce nel novembre 1991 dal mitico fumetto Aliens: Genocide di Mike Richardson (il capo della Dark Horse!), e nella relativa versione romanzata del 1993 di David Bischoff acquista il nome slang di Fire. Ritorna nel febbraio 1992 in Aliens: Hive di Jerry Prosser come elemento fondamentale della sceneggiatura, trasformata nel 1994 in splendido romanzo da Robert Sheckley. (In Italia: Aliens: dentro l’alveare, “Urania” n. 1294, Mondadori 1996.)

La droga verrà citata di sfuggita in Aliens: Rogue (aprile 1993), Aliens: Cargo (dicembre 1993) e Aliens: Music of the Spears (gennaio 1994), prima di scompare dall’universo alieno.

   
 
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