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Autore: Red Moon    07/02/2017    2 recensioni
A volte voler vivere la propria vita non significa effettivamente voler vivere la propria vita.
Genere: Mistero, Science-fiction, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Helen si trascinò davanti allo specchio e levò sulla sua immagine riflessa uno sguardo stanco. Le costò non riabbassarlo subito, e mentre esaminava il proprio corpo calde lacrime le bagnarono le guance. 
Sono così brutta, pensò.
Così disgustosamente orrenda. Un insulto per gli occhi.
Colpì lo specchio con il pugno, ma lentamente, con poca convinzione, poi cominciò a singhiozzare. I singhiozzi aumentarono d’intensità fino a scuoterle le spalle, e lei si accasciò a terra, rannicchiandosi sul pavimento del bagno. Con ogni affannoso respiro emetteva gridolini lamentosi che avrebbero reso invidioso un gattino affamato.
Quando fu stanca di piangere e la sua disperazione si fu tramutata in profondo sconforto si alzò e si diresse in cucina. Con gli occhi ancora velati aprì un paio di cassetti e, dopo aver trovato ciò che stava cercando, si passò con forza la lama sulla pelle morbida del polso.
Il metallo gelido sfilò sulla sua pelle bianca come l'aurora boreale nel cielo, e per un attimo non accadde nulla. Poi il sangue cominciò a scivolare fuori scuro e denso come melassa, e il calore pian piano abbandonò il suo corpo.
Helen si lasciò scivolare a terra.
Stelline bianche le danzarono davanti agli occhi e la consapevolezza l'abbandonò.



Si risvegliò distesa sul pavimento della cucina con una nuova cicatrice sul posto sinistro, rosea e in rilievo. Intorno a lei nemmeno una goccia di sangue imbrattava la perfezione della scacchiera di marmo che fungeva da base per ogni ambiente della sua abitazione.
Non casa. Io non ho una casa, non potrò mai.
La disperazione minacciò nuovamente di sopraffarla. Si morse il labbro e si alzò in piedi.
Casa significa speranza, progetti per il futuro.
Io sarò sola. Per sempre.
Ricacciò indietro le lacrime ed esalò un respiro esasperato e tremulo.
Si trascinò in camera e si rannicchiò nel letto, e, dopo aver singhiozzato per un tempo sufficientemente lungo, il sonno finalmente le concesse quell’oblio provvisorio di cui aveva un così disperato bisogno.



Si svegliò per via del freddo. Rabbrividì e tese la mano per cercare la coperta, ma si rese ben presto conto che il gelo che ora l'avvolgeva era maggiore sotto di lei. Con improvvisa consapevolezza abbassò lo sguardo dove avrebbe dovuto esserci il materasso coperto dalle lenzuola e si vide riflessa in uno dei grandi scacchi neri del pavimento.
Helen si guardò intorno, e il panico prese a ringhiarle nella testa come una bestia feroce.
Tutti i mobili erano spariti. Complementi d'arredo. Porte. Tutto.
Le pareti e il soffitto erano coperti da gigantesche superfici a specchio.
Lei era nuda, completamente.
Rimase immobile, senza quasi riuscire a respirare. Poi si mosse carponi, con fatica, verso il corridoio, ma, come in fondo già sapeva, e insieme temeva, in tutta l'abitazione regnava la stessa desolazione. 
Non c'era nulla con cui potesse coprirsi.
No, no, no, no, no, no...
L'unica nota dissonante colpì i suoi occhi quando Helen volse il capo verso la stanza che era stata il salotto.
A terra, proprio nel centro, l’oggetto scuro cantò per la sua mente imbizzarrita, attirandola con la forza di un buco nero.
Lei si alzò barcollando e sfrecciò in quella direzione più in fretta che poté, cercando di evitare la vista della propria immagine riflessa, ma fallendo miseramente a causa dell'ambiente saturo di specchi. Qualcuno avrebbe potuto dire che le leggi della fisica non fossero dalla sua.
Si buttò a terra davanti all'oggetto metallico, picchiando forte le ginocchia, come una sacerdotessa precolombiana davanti ad una divinità feroce e vendicativa.
Tese le braccia, lo afferrò, e si appoggiò la canna alla tempia.
Ti prego.
Il suo dito si contrasse convulsamente sul grilletto.



La ragazza giaceva riversa sul pavimento. 
Il proiettile che l'aveva colpita aveva trapassato anche la vetrata, priva di porte, che dava sul terrazzo, creando su di essa un elaborato reticolo di crepe, simile ad una tela di ragno o ai profili dei petali di una rosa.
Il sole di levava alto nel cielo.
E la ragazza tossì.



Helen si svegliò tossendo. Aveva mal di testa.
Sono tanto stanca.
Tanto... stanca...
Richiuse gli occhi, ma il sonno non arrivò.
Si tirò a sedere e si guardò intorno. 
Non era cambiato nulla. Specchi e nessun mobile al loro posto. Pavimento lindo e impeccabile.
L'unica cosa utile manca.
La pistola non c'era più.
Poi notò la vetrata, e i suoi ghirigori fragili. Aveva sempre creduto che fosse antiproiettile, anti sfondamento.
Il suo sguardo apatico riacquistò un poco di vitalità.
Si alzò e camminò in quella direzione, sempre più rapidamente.
Brutta, perché sono così brutta?
I suoi occhi vedevano, pur non volendolo, il riflesso del suo corpo chiaro e coperto di cicatrici che sfilava con poca grazia davanti agli specchi.
É perché sono debole. Debole. Tanto debole... 
Quando si schiantò, quasi di corsa, contro la vetrata, questa cedette con minor resistenza di quanta se ne sarebbe aspettata.
Se almeno potessi essere libera.
Lei non si fermò e approfittò dello slancio per scavalcare il corrimano e proiettarci nel vuoto oltre la balconata.
Libera.
Era sempre stata brava con le stime. 
Non sono mai stata brava in niente. Me la cavavo con tutto, non eccellevo in nulla.
Le sembrò ci fossero all'incirca quaranta metri a separarla dall’asfalto, ma non poteva saperlo con certezza.
Nessuno mi ha mai amata. Nessuno. Mai.
L’asfalto non si ritrasse, anzi, la attirò a sé come se non avesse altro motivo per esistere.
Per colpa mia. Ma ora sarò libera.
Da tutto. Da tutti. Da me stessa.
Helen cadde, e si schiantò sull'asfalto con una sinfonia di suoni poco orecchiabili.
Ma non le importava. Era libera.



“Signore, il Soggetto 12 non sembra recuperabile”, squittì un giovane allampanato che indossava un camice bianco, “i parametri vitali sono buoni, ma pare che i danni ai tessuti non si rinsalderanno a dovere”.
“Perché perdi tempo a raccontarmi queste sciocchezze?”. Il Dottor Waycox si prese la radice del naso tra pollice e indice e chiuse gli occhi mentre si voltava verso l'assistente.
“È mai possibile lavorare con qualcuno che non sia incompetente?”, domandò più che altro a sé stesso, sospirando rumorosamente.
Visto che il giovane non si muoveva gli rivolse un'ultima considerazione prima di tornare a scrutare il monitor del suo computer: “Esperimento fallito. Per cosa pensi che serva l'inceneritore?”.



  
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