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Autore: Mayth    09/02/2017    2 recensioni
Erik insiste con l'uscire, nonostante una tempesta di neve impervi per tutto lo stato di New York.
Genere: Sentimentale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Charles Xavier/Professor X, Erik Lehnsherr/Magneto, Raven Darkholme/Mystica
Note: AU, Lime | Avvertimenti: nessuno
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Parte prima di una raccolta divisa in tre ♥ (Essendo che il mio tempo è limitato dall’università, preferisco per ora scrivere storie autoconclusive. Ma non preoccupatevi, i seguiti giungeranno!)
I personaggi non mi appartengono, sono proprietà della Marvel Comics, 20th Century Fox, Marvel Studios. Questa storia è scritta senza alcuno scopo di lucro.
 
 
During the snow
 
Erik insiste con l'uscire, nonostante una bufera di neve impervi per tutto lo stato di New York.
 
Nella sua modesta opinione, questa stagione è un'incredibile merda; basti rendersi conto della frequenza di raffreddori, strade bloccate, cumuli di neve di fronte all'ingresso, di lavoro bestiale da intraprendere per creare un passaggio accessibile al suo scooter dal garage alla strada. Malgrado ciò, deve categoricamente sradicarsi dalla comodità dei riscaldamenti e delle coperte e addentrarsi nel vile mondo, poiché anche l'università è una gran figlia di puttana. La biblioteca, poi, non è neanche tanto vicina. Ci vogliono un numero troppo elevato di strade per poterla raggiungere, e da qualche parte nel retro del suo cervello, Erik può percepire una vocina saggia avvisarlo che prendere lo scooter equivale a firmare la propria condanna a morte. Eppure non ha altra scelta: i mezzi pubblici sono off limits (governo ladro e pure incapace) e l'idea di andare a piedi è abortita immediatamente.
 
Non gli rimane che tentare la morte in nome della laurea.
 
Che gran vita del cazzo.
 
“Se muoio, ricordami alle generazioni postume come un eroe.”
 
“Se muori, ti ricorderò alle generazioni postume come un grande imbecille,” dice Charles, sempre consono a quel suo personaggio costantemente spazientito nei confronti di una qualunque esperienza più pericolosa del bere il caffè al posto del tè; ed Erik... Erik questa volta non se la sente di biasimarlo, seppur stringa il cellulare e sbuffi un: “Gran bell'amico che ho.”
 
“L'unico e il migliore.”
 
Erik aveva tentato di chiedere aiuto alla memoria eidetica di Charles. Era sicuro al cento per cento che lui avesse letto il libro di cui necessitava – perché Charles ha questa strana mania di scegliere una facoltà e nel tempo libero esplorarne altre – e che, magari non in ogni suo preciso particolare ma in una generale sintesi dei capitoli più esaustivi, avrebbe potuto aiutarlo e risparmiargli l'imminente dipartita dal mondo terreno. Ma Charles aveva detto che non aveva idea di che stesse blaterando. E i PDF su internet erano inesistenti, ogni sua ricerca si era rivelata inconcludente o, nelle parole di Charles, tanto puoi sforzarti quanto ti pare che avrai sempre la sfiga alle calcagna; nemmeno le chiamate disperate al professore avevano potuto risolvere il problema apocalittico, ed Erik aveva concluso di avere una sola, disperata opzione.
 
“Hai mai fatto qualcosa di avventato?” dice e Charles, dall'altro capo della cornetta, si lascia sfuggire un verso incredulo, come se fosse evidente che, certo, l'avventatezza sia il suo secondo nome.
 
“Hai persino il sentore di chiederlo? Soprattutto dopo che decisi di portarti ubriaco marcio a casa mia la prima volta che ci incontrammo, perché sostenevi che non appena ne avresti avuto l'occasione avresti lanciato il quarterback di una scuola avversaria dalla finestra. Robert “Bob” Cliffort, se ricordo correttamente.”
 
Erik ruota gli occhi al cielo anche se sa di non poter essere visto (ma sa pure che Charles lo conosce abbastanza bene da poterselo immaginare); nonostante l'ammontare di anni trascorsi da quel loro primo, catastrofico incontro, Charles non perde mai l'occasione di riportare a galla i fatti di quella sera, neanche avesse salvato il mondo intero con quella sua azione benevola.  
 
“Be', ho bisogno di quel libro e, be', là fuori impervia la fine della civiltà come l'abbiamo sempre concepita, dunque pondera per bene le tue ultime parole nei miei confronti e inizia a preparare il discorso per il funerale; e non scordarti di accennare a quanto io, una volta conclusa la mia educazione, avrei potuto migliorare il pianeta–”
 
“Okay,” dice o urla Charles, non ne è sicuro col vento che ulula al di fuori delle quattro mura dentro le quali è ancora al sicuro e le veneziane che sbattono contro i vetri delle finestre. “Okay,” ripete, perché sicuramente anche lui fatica a sentire i suoi stessi pensieri. Charles prosegue col fare un sospiro profondo, uno di quelli che Erik ha imparato ad associare a se stesso e nessun altro. Certamente non dovrebbe, ma si ritrova leggermente fiero nel constatare di essersi infilato nella realtà di Charles tanto prepotentemente da guadagnarsi un sospiro esacerbato tutto per sé. “Perlomeno, a differenza di altre volte, sei conscio di quanto questa tua idea sia un'immensa pazzia.”
 
“Fosse per me,” rincara Erik, “non mi sarei mosso dal letto questo pomeriggio.”
 
In risposta, non sente più nulla. Stacca il cellulare dall'orecchio e osserva l'icona dell'operatore segnalare l'incompetenza delle aziende del duemilasedici di poter offrire una possibilità di comunicazione certa anche con la fine del mondo che minaccia di estinguere la specie umana; sullo schermo lampeggia chiamata conclusa e ad Erik verrebbe da scaraventare il tutto contro la parete, ma si trattiene.
 
“Forza, Lehnsherr,” mormora, lasciando ricadere il telefono oramai inutile sulla superficie del tavolo. Poi annuisce e fa un respiro profondo. Si stringe nel suo cappotto e s'infila il casco sulla testa, prima di tirare fuori dalla tasca le chiavi dello scooter e stringerle fra le dita. I fiocchi di neve gli si scaraventano addosso come tante pallottole e–
 
Ed Erik marcia in direzione della sua (tomba) meta.
 
*
 
Non sa quanto tempo sia passato, potrebbe essere un'ora, potrebbe essere l'intero pomeriggio o una vita. L'unica cosa che sa, è che la porta della biblioteca è serrata, entrata negata, fottutissimamente chiusa, e ora Erik non si sente più la pelle nonostante gli strati di protezione che diligentemente si era messo addosso, e il motore del suo scooter ha esalato il suo ultimo peto una manciata di metri fa.
 
Ha cercato di ripararsi nascondendosi alla protezione della tettoia, ma quest'ultima può fare ben poco, se non ridurre di un quarto l'ammontare di neve e vento che gli sfreccia in faccia.
 
La prima volta che si era trasferito nello stato di New York, Erik era ingenuamente convinto che nulla potesse essere peggio del rigido inverno del Land della Renania Settentrionale-Vestfalia, ma a seguito di una broncopolmonite – o, come Charles è solito ricordarla, quella volta in cui Erik si zombificò e per giustizia divina, a detta sua, tentò di infettare il campus intero – si era dovuto ricredere sulle potenzialità distruttive di sessantotto centimetri di neve precipitati all'improvviso da solo Dio sa dove. E neanche sarebbe dovuta essere una sorpresa, il freddo; Charles lo aveva avvisato: aveva trasportato dal suo appartamento a quello di Erik – privo di sorelline pestifere – tutte le coperte più morbide e calde che aveva trovato negli armadi e si era preoccupato di assicurarsi che Erik avesse almeno un paio di calzettoni di lana perché: “Per cortesia, Erik, non desidererei mai che tu vada in ipotermia!”. Erik, neanche a dirlo, aveva sbeffeggiato tutti quei timori riguardo ad un inverno che, a quanto i film lasciavano immaginare, non poteva essere quel gran gelo.
Lo era, freddo. Certamente. Ciononostante, forse, anche uscire in mutande per non perdere la scommessa con Azazel non era stata una delle sue idee più brillanti al fine di prevenire una polmonite batterica.
 
Erik, da sotto la tettoia, non demorde.
 
È sempre stato quel genere di persona – coglione, davvero – da non ammettere un errore anche se quello è grande come una casa e si protrae di fronte a tutti senza ritegno. L'elefante nella stanza, come si suol dire. Quel dannato elefante che Erik non vede mai, il quale gli è spesso costato più di quanto avrebbe voluto. Ora osserva l'orizzonte – per quanto sia possibile guardare qualcosa, dal momento in cui tutto è bianco e bianco e ancora, wow che sorpresa, bianco – e s'immagina la faccia dolorante dei suoi amici e di Charles in particolare, quando ritroveranno il suo cadavere congelato davanti a quella dannatissima biblioteca, e di come – e lo sa, perché li conosce bene, quel branco di pezzenti ingrati; e lui ancora a chiamarli amici – scriveranno sulla sua lapide: RIP Erik Lehnsherr. Morto siccome scemo.
 
(E che morte, pensa, con una punta di rammarico. Una riproduzione perfetta di quei suicidi, perché di suicidi si tratta, rappresentati in quei film di “paura” nei quali la vittima sopravvivrebbe se solo si degnasse di avere reazioni logiche).
 
Poi, un puntino nero compare sulla linea lontana che dovrebbe essere la strada. Erik gli concede appena uno sguardo, sicuro che non sia nulla d'importante, magari un'allucinazione indotta dal congelamento dei suoi occhi; ma ci riporta l'attenzione una volta che questo abbia acquisito delle sembianze prettamente umane. Molto umane. È decisamente una persona, quella piegata contro la bufera di neve, con le braccia flesse di fronte al viso e le gambe sprofondate nei cumuli di neve. No, non è qualcosa che si sarebbe immaginato. No, non è un abbaglio. No, il viso che spunta dietro a due sciarpe è–
 
Charles?
 
“Mpfh–” Charles si divincola tentando di pulire la neve sciolta sulla maschera da sci che minuziosamente ha indossato. Striscia, fendendo la coltre bianca. Erik si allunga in avanti per afferrarlo a un gomito e trascinarlo sotto la tettoia. Sa che in un certo qual modo se lo sarebbe dovuto aspettare da uno come Charles, ma onestamente rimane sorpreso lo stesso.
 
“Questo mi fa guadagnare una quantità immane di favori da parte tua,” ciarpa Charles, alzando il mento e sfilandosi la maschera con un'aria super-eroica.
 
Non può dargli torto.
 
“Che cazzo ci fai qui?” protesta Erik. Successivamente sorride, però, c'è troppa ironia in una situazione del genere.
 
“Ti salvo il culo, ovviamente. Non rispondevi ad alcuna chiamata e col cavolo che ho tempo di prepararti un funerale! Sto scrivendo una tesi, io.”
 
Erik alza lo sguardo verso i nuvoloni neri in cielo: non capisce veramente come sia possibile che un tipo come Charles gli sia capitato fra i piedi.
 
“Be', è tutto molto...” Erik si guarda in torno, soppesando l'aggettivo più consono per specificare una situazione tanto ridicola. Checché ne pensino quelli che lo hanno conosciuto in questi anni, Erik non è tipo da rimuginare troppo su cosa dire. Ma ogni tanto lo fa. Per Charles. Un po' crede che se lo meriti, siccome Charles è l'unica persona al mondo che si sia auto-definita sua amica, un po' è certo che Charles abusi di questa sua inclinazione. “Imprevisto,” pondera infine, che non è poi così male.
 
Erik scuote la testa, ricordando tutte quelle volte in cui ha avuto bisogno di farsi tirare fuori dai guai, e il pensiero lo spaventa un po’, ma poi Charles inizia a tremare come una foglia e allora tutto il resto dissipa nella parte più recondita della mente.
 
“E stupido, Charles. Tu soffri persino il fresco primaverile.”
 
“Troviamo un altro riparo, vuoi?” Charles riporta la maschera sugli occhi e si avvia verso il lato ovest della biblioteca. Erik aveva dimenticato che lui ci avesse lavorato per due anni, in preda alla sua fase di dovere sociale, senza nemmeno farsi pagare per le ore spese ad inviare lettere minatorie ai disgraziati che non riportano ciò che prendono in prestito, e che dunque potesse conoscere un entrata secondaria.
 
“Okay,” concede Erik. Lo segue, appigliandosi ad un pezzo di sciarpa di Charles scivolato dal giaccone e mosso dal vento. Charles lo guida attraverso la neve, oltre un grosso olmo che in alcune estati era stato il loro riparo dal sole cuocente. Ora come ora, Erik prova una certa nostalgia di quei momenti.
 
“Non mi lamenterò mai più del caldo,” grida, tentando di sovrastare il rumore della bufera intorno a loro. Charles non risponde, o forse lo fa ed Erik non sente, ma lo invoglia a muoversi e lo spinge fino oltre le balaustre, al di là di una porta col lucchetto rotto in due. A che cosa serva mettere una serratura spaccata va oltre la logica comprensibile da Erik, ma al momento non ha le forze di chiedere spiegazioni.
 
“È inutile cambiare il lucchetto,” dice Charles, come se gli avesse letto nel pensiero. “Ci hanno provato e lo hanno sempre rotto. Miss Wilson ha perso la speranza,” continua, guidandolo su una scalinata completamente buia e in seguito tra un'infinità di scaffali ricolmi di tomi.
 
“E per quale cavolo di motivo qualcuno vorrebbe entrare in biblioteca di nascosto?”
 
“Che ne so, sei tu il vandalo fra noi due, illuminami. Fumare di nascosto? Portarci le ragazze?”
 
“Fornicare con le ragazze nel sottoscala della biblioteca è qualcosa che farebbe qualcuno di mia conoscenza.”
 
Oh, fottiti.”
 
“Non dire che non è vero.”
 
“Dico che dovresti farti gli affari tuoi.”
 
Charles sbuffa con infinita indignazione, neanche non fosse sulla bocca di metà università il gossip che lo riguardi. Si mette a guardarsi intorno, grattandosi il collo. 
 
“Non proprio come avevo pensato di passare il venerdì,” commenta Erik, più per fare una battuta che per lamentarsi dell'ovvio.
 
Il buio della stanza si affievolisce quando Charles tira fuori da un cassetto del bancone d'entrata una pila elettrica. La prima cosa di cui si accorge Erik è la pelle cinerea del suo volto in contrasto con le sue labbra arrossate dal freddo. Muoversi è dura, ogni arto è indolenzito e protesta con vigore, nel camminare quasi rischia di rompersi l’osso del collo scivolando su una pozza di neve sciolta che loro stessi hanno portato all’interno. Charles lo osserva esasperato, poi si dirige al piano superiore.
 
“Qui?” sventola una mano in direzione di due poltrone messe a disposizione per gli studenti. Erik ne raggiunge una e vi ci si accascia sopra senza più fiato. Charles lo imita, poggiando la pila sul tavolino che si frappone fra loro e rilasciando un sospiro di vittoria.
 
“Mai più,” dice Charles, chiudendo gli occhi e ciondolando il capo sulla stoffa nel tentativo di asciugare i capelli fradici. Erik grugnisce un assenso.
 
“Ho un piano per la prossima volta, faccio una brutta figura agli esami ma non tento di ucciderci,” dice Erik, il tono basso e concitato. Si sente stanco, ma incomprensibilmente contento.
 
“Ah, sì?”
 
“No,” ammette lui, i buoni propositi sempre dimenticati a causa dell'ubriacatura post capodanno, e anche quelli partoriti a seguito di un faccia a faccia con un congelamento paiono blandi ora che il peggio è ormai un ricordo. Erik ha sempre avuto questa capacità peculiare di compartimentare ogni situazione e dopodiché relegarla ad un passato che non ha nulla a che fare, se non per alcune sfaccettature, col presente. Quel che è successo è successo e lui non può farci più niente, né avrà il sentore di imparare da ciò che non considera un errore. Charles, di fronte, arriccia le labbra e accavalla le gambe, un secondo più tardi Erik si ritrova con una maschera da sci che gli rimbalza sul petto e cade a terra.
 
“Almeno diminuire il rischio di omicidio?” Charles indica prima se stesso, poi allunga l'indice accusatore in direzione di Erik e assottiglia gli occhi, nonostante Erik riconosca il tono pacato con cui finge d'intrattenere una piccola discussione.
 
“Non è come se ti abbia chiesto di venire,” alza le spalle.
 
“No, certo che no. Prima mi chiami e ti lamenti come un bambino petulante, consideri fra te e te la possibilità di uccidere il professore nel tentativo di saltare l'esame e poi scompari per ben due ore e non rispondi ad alcuna chiamata, di sicuro questo non è affatto il comportamento melodrammatico globalmente riconosciuto di Erik Lehnsherr, che tenta coi suoi sotterfugi di farmi sentire in colpa per essere la persona ragionevole che sono – per fortuna di entrambi, – che non aveva alcuna intenzione di mettere il naso fuori di casa. Ma ho dovuto farlo, perché la tua morte avrebbe causato maggiori problemi in rapporto a quelli di venire qui.”
 
“A ragion veduta, non hai nulla da lamentarti, perché le opzioni erano due e hai scelto la meno dolorosa. Il fatto che fosse la mia salvezza è mia pura fortuna.”
 
“Altro che fortuna, sei un calcolatore incallito, ecco cosa.”
 
“Siamo sicuri che stiamo parlando di me?”
 
Charles ha la decenza di ruotare gli occhi ma non dire altro. Per quanto si dipinga come il santo della coppia – che forse è, Erik di certo non giudica, eppure può osare dire di conoscere Charles più di chiunque altro, forse, talvolta, anche più di Raven, e dunque di poter valorizzare le proprie impressioni sull'amico, – di certo non pecca di egocentrismo e della necessità di sapere che tutto scorra secondo i suoi piani. Una cosa un po' malata ma, cazzo, chi più di Erik sa che nessuno è perfetto.
 
“Be', sei venuto qui per goderti il panorama o dovevi cercare di mettere qualche nozione in quella tua testa scellerata?”
 
Erik gli rivolge giusto un secondo di sguardo stizzato e poi si alza dalla poltrona per cercare il proprio libro. Charles resta lì, irritato. Probabilmente dannandosi per ogni azione giusta che abbia compiuto nella sua vita. Non che ne abbia fatte tante, vorrebbe ricordargli Erik: un'azione corretta di cinque anni prima non ti salva dall'essere uno stronzetto viziato.
 
“Non guardarmi come se fosse tutta colpa mia,” dice Erik una volta tornato seduto.
 
“Ti guardo così forse perché è tutta colpa tua.”
 
Dovrebbe finire questa storia di dipingerlo come il capro espiatorio delle sciagure umane, non è mica causa sua se a Charles piace scegliersi amici di merda – Erik si concede questa verità – e se il gruppo di cui si è circondato è una schiera di psicopatici.
 
“Fa silenzio, che sto cercando di studiare.”
 
Erik abbassa gli occhi sul primo capitolo.
 
“E io intanto che dovrei fare?”
 
Non gli era mai capitato prima d'ora di trovarsi nella stessa stanza di Charles e cercare di ignorarlo, ma visto che la sua situazione al momento è... instabile, Erik fa spallucce e non risponde. Non è mica la sua balia, dopotutto.
 
*
 
Passano le sette di sera molto prima che loro se ne rendano conto, e la neve non cessa di cadere e ricoprire tutto di bianco.
E Charles non cessa per un attimo di sbuffare. E non cessa di cercare di attirare la sua attenzione con sotterfugi alquanto discutibili. Ed Erik è in preda ad un ansia nervosa e altamente pericolosa. Se non uccide qualcuno – Charles – stasera, allora si merita il Guinners World Record alla pazienza.
 
Chi era, poi, di loro due ad essere il santo patrono dell’educazione, l’unico che non usciva il venerdì sera per imbucarsi alle feste delle confraternite perché doveva studiare, santoddio, Erik non ha idea del perché Charles si trovi al polo opposto al suo e sia allo stesso tempo il suo migliore amico. Ad essere franchi, non c’è molto che lo attraesse di Charles, né al primo incontro, né in seguito. La sua famiglia è completamente fottuta: una madre perennemente ubriaca, un patrigno cane, un fratellastro bullo e una sorella che pare volergli bene a weekend alterni, di certo non poteva uscirne fuori un essere umano equilibrato. Ma no, Erik doveva cedere sotto le grinfie dei bisogni sociali ed ecco cosa ci guadagni a star dietro a quei due occhioni da cane bastonato.
 
“La vuoi smettere, per cortesia?”
 
“Mi annoio. Il nulla mi svoglia più della lettura approfondita di vita e morte di Bronisław Malinowski.”
 
“Di Bro-chi?” Erik alza gli occhi dalle pagine del libro e squadra interrogativamente l’amico.
 
“Lascia pardere,” il viso di Charles è severo, le braccia penzolanti oltre i braccioli della poltrona e le gambe allungate in avanti. “Concentrati sulle questioni importanti, ossia che siamo qui rinchiusi in biblioteca senza niente da mangiare e soprattutto da fare.”
 
“Ci sono scaffali pieni di libri e ancora libri, non è forse questo il tuo paradiso?” Una cosa che lo sorprende è che Charles non abbia aperto libro da quando sono arrivati. Si è fatto qualche giro, ha rimesso a posto i tomi lasciati incostuditi su dei tavoli, ha giocato coi capelli di Erik ed anche coi suoi istinti omicidi, ma non ha compiuto l’atto più charles-iano che possa esistere: non si è messo a leggere. Il che avrebbe dovuto attivare molto tempo fa un allarme nella mente di Erik. “Stai bene?” chiede quindi. Forse si è preso qualche malattia strana ad uscire di casa con una temperatura più bassa dei quindici gradi.
 
“Sto scrivendo una tesi, Erik. Passo più tempo a leggere libri che a respirare.”
 
“Credo che questo sia biologicamente impos–” Charles si alza improvvisamente dalla poltrona con uno scatto fluido; sbuffa, si guarda intorno, e poi scompare giù per le scale, mormorando sommessamente un “Vado a farmi un giro” o qualcosa del genere. Se il punto è far sentire in colpa Erik, di certo non ci sta riuscendo.
 
Non proprio.
 
Erik resiste il tempo di leggere cinque volte la stessa frase e non capirla ancora, prima di mandare tutto al diavolo, scaraventare sul tavolino il libro e andare a scoprire dove si sia ficcato quel rompiballe del suo migliore amico. Lo trova a frugare nell’ufficio della bibliotecaria, con la testa infilata in un armadietto stipato nell’angolo della stanza.
 
“Che cazzo stai facendo?” Erik ha tutto il diritto di apparire indignato, anche se non lo è davvero.
 
(La verità è che ha visto fare a Charles cose ben peggiori che frugare negli armadi di altri, e soprattutto lui stesso non è uno stinco di santo.)
 
Charles bofonchia qualcosa sul non fare l’ipocrita, ma Erik si sente magnanimo e non ribatte. Lo guarda spostare oggetti e allungarsi in avanti, per poi ritrarsi con un sorriso a trentadue denti e una bottiglia di vodka stretta fra le dita. Che cosa?
 
“Sapevo ci sarebbe stata!” esordisce Charles con fare vittorioso.
 
“Sapevi che ci sarebbero stati gli alcolici nell’armadio della Signora Wilson?”
 
Charles alza le spalle e supera Erik fuori dallo studio.
 
“Ha problemi d’alcool, ne tiene sempre una nascosta in caso gli venga voglia di un bicchierino. Credo che in pochi sappiano questo suo segreto.”
 
“E tu sei ovviamente fra questi, ficcanaso.”
 
Charles non può che scoppiargli a ridere in faccia. Si avviano nuovamente al piano di sopra, ma poco prima di tornare seduti Erik fa un balzo in avanti e gli sfila la bottiglia dalle mani.
 
“E con questa cosa vorresti farci?” chiede in tono canzonatorio, adocchiando l’etichetta. È alcool buono, questo. “Bella merda,” dice con un sorrisetto.
 
“Secondo te? Intrattenerla con lunghe conversazioni filosofiche sulle relazioni biologiche, sociali e culturali, mi pare ovvio,” lo prende in giro. Erik lo ignora e stappa la bottiglia, sorseggiando la prima lingua di fuoco che gli infiamma il petto. Lui non si reputa un esperto, ma la vodka dev’essere costata un po’; se non si trattasse di alcool gratis, e se non fosse che sono rinchiusi in biblioteca di venerdì sera, Erik proverebbe anche un pizzico di dispiacere nel scolarsi la bottiglia di qualcun altro, ma di fatto dovranno passare la nottata lì dentro e lui non ha alcuna intenzione di farlo da sobrio. Charles pare dello stesso pensiero.
 
“Passa qua.”
 
Si sdraiano sul pavimento, Erik con la schiena contro la poltroncina e Charles contro la gamba di un tavolo lì affianco. Per i primi minuti non dicono niente, si passano la bottiglia in silenzio e si gustano il bruciore che scende in gola. A fare un po’ i nostalgici, Erik deve ammettere che è da una vita che non fanno una cosa del genere, che non si prendono del tempo per loro due soltanto. Negli ultimi tempi si erano visti solo in compagnia degli altri. Erik mentirebbe nel dire che non gli fosse mancato… Ma non lo dirà comunque, perché lui non è una ragazzina e a Charles non piacciono i sentimentalismi, non troppo, perlomeno. Ad un occhio esterno sembrerebbe imbarazzante, l’atmosfera che li circonda: Erik intento a guardarsi la punta degli scarponi e Charles con lo sguardo coperto dal suo ciuffo di capelli. Non proprio come uno si immaginerebbe una bella bevuta con gli amici, ma non è come se loro due non siano un po’ vecchi nell’animo. Charles decisamente sì, se i cardigan non sono una prova già di per sé inconfutabile. Una volta Erik aveva proposto di tirar su una confraternita, quantomeno per riavvivare le loro serate di Scarabeo, qualcosa alla Cattivi Vicini, un vero e proprio delirio, ma prima che potesse stampare i volantini della «Brotherhood of Evil Men[1]» Charles lo aveva fatto ubriacare così tanto da distruggere il suo stesso appartamento e fargli ricredere sul divertimento di studiare per l’esame del lunedì a venire mentre si vomita in una pentola. Però l’idea qualche volta ancora lo diverte.
 
Charles alza la bottiglia in un finto brindisi e prende un altro sorso. Non riusciranno ad ubriacarsi, di certo, e forse è anche meglio così – Erik si guarda intorno e fa una smorfia, – ma a Charles bastano pochi shottini per andare fuori di testa e iniziare a recitare a memoria i film di Star Trek, se non «Evoluzione delle specie» di Darwin, quindi il divertimento è più o meno assicurato.
 
Ma che cazzo sta blaterando, quella è vodka pura, certo che berranno tanto da diventare marci e la risata venuta dal nulla di Erik ne è già la prova.
 
“Già ubriaco?” Charles alza un sopracciglio. “Che ne dici di andare così fuori di testa da tentare il tutto e per tutto e uscire di nuovo là fuori,” lo dice ridendo, anche se sa benissimo che se si trattasse di una sfida tutti e due sarebbero abbastanza fuori di testa da non rinunciare.
 
Erik vuole tanto bene a questo squilibrato.
 
“Non mi tentare, Xavier.”
 
Charles fa un sorriso di traverso e inclina la testa per un’altra sorsata.
 
“Forse non dovresti bere troppo,” rincara Erik. “Sei solito rivelare tutti i tuoi più sporchi segreti quando sei brillo. Ricordi quando hai ammesso di–”
 
“Sta zitto.” Erik lo vede arrossire. Certo che ricorda. “Quel che succede nel miglio, rimane nel miglio.
 
Alla fine continuano a bere e l’aver affrontato l’apocalisse per poter studiare è stato completamente inutile, ma non sarà certo lui a lamentarsi di aver rischiato l’osso del collo solo per poter guardare Charles oscillare la testa e ridere di qualunque cosa gli passi per la testa.
 
“Sei decisamente andato,” dice, quando infine Charles parte con la sua imitazione del Professor Shaw, la quale è particolarmente onesta, se dev’essere sincero. Charles sbuffa una risata, scuotendo la testa, nel mentre si sfila la giacca di dosso e rimane con un maglione azzurro pastello che sembra ridicolmente morbido e una sciarpa di lana ancora avvolta alla gola. Erik lo imita. Per l’occasione si era procurato una maglia termica che non ricorda di aver comprato e ovviamente uno di quei maglioni a collo alto che tanto ama. (Raven si lamenta continuamente della monotonia dei suoi capi di abbigliamento, ma sia Charles che Erik tendono a non ascoltare nessuno dei suoi consigli, soprattutto ora che è nella sua fase di semi-nudità – la quale sta facendo andare fuori di testa Charles, per giunta).
 
“Se ci fosse stata una scacchiera,” bofonchia Charles, “avremmo potuto giocare, e fare delle scommesse.”
 
Erik ricorda la prima volta in cui giocarono alla loro versione di scacchi: ogni pedina mangiata era un obbligo istantaneo, la vittoria vincolava il perdente a compiere, volente o nolente, un favore all’altro. Quante volte Erik si era ritrovato ad accompagnare Charles a quelle sue stupide cene di famiglia, nemmeno vuole rammentarlo, tanto quanto Charles preferisce relegare nell’oblio il giorno in cui dovette perseguitare una ragazza per tutta l’università al fine di scovare se forse, forse, lei potesse essere un pochino interessata al suo amico Erik, che sì, dai, non è poi così male, è nel suo periodo da rockettaro maledetto e talvolta pesta la gente quando gli dà fastidio, ma è un amore di uomo se lo si prende dal lato giusto; e, wow, ha proprio due biglietti per un concerto fuori città e ha anche prenotato una camera d’albergo, cosa ne dici Magda, sembri il suo tipo e lui sembra il tuo, quindi– Ovviamente Charles si era preso una sberla dritta in faccia. Era rimasto col segno di una manata sulla guancia pallida per tutto il resto del pomeriggio. Aveva deciso di non parlare con Erik per almeno ventiquattr’ore, stando sul suo letto a bisbigliare qualche maleficio. Ad Erik era fregato poco o niente, siccome alla fine Magda aveva accettato di uscire con lui ed erano stati insieme per due mesi, prima che lei gridasse qualcosa come: “Oh, ti sei ricordato della mia esistenza. Perché non chiedi di uscire al tuo caro amico Charles?!” e aveva riattaccato. Per sempre. Erik era stato un po’ dispiaciuto, gli piaceva Magda, in generale, tuttavia scorrere il tempo con Charles gli piaceva un pochino di più.
Erik scandaglia le librerie impolverate con aria vagamente nostalgica. Sono passati mesi dall’ultima volta in cui hanno fatto una partita, Erik non ricorda neanche chi sia stato l’ultimo di loro due a vincere, il che è strano, perché Erik trova piuttosto importante vantare le proprie vittorie e anche le occhiate canzonatorie di Charles tendono a ricordare a entrambi chi abbia perso o vinto. Ciò che più infastidisce Erik, poi, non è tanto il tempo che non trascorrono più l’uno in compagnia dell’altro, quanto la cecità che entrambi sfoggiano a rigurado di questa situazione. Eppure Erik non ha il coraggio di parlarne.  
 
“Erik,” dice Charles, interrompendo il suo flusso di pensieri. C’è un attimo di silenzio in cui Charles sta probabilmente riorganizzando le idee, chiedendosi cosa volesse dire e poi ricordandoselo. Fa un cenno della testa che Erik sospetta essere rivolto a se stesso e poi dice, sorridendo di un sorriso ubriachissimo: “Facciamo così, io ti faccio una domanda e tu rispondi, se non vuoi rispondere, allora bevi. E così a specchio.”
 
“E chi vince e chi perde?”
 
Charles assottiglia gli occhi e contrae la fronte, Erik ha quasi la sensazione di poter sentire la ruota di un criceto cigolare nella sua testa. Da ubriaco Charles diventa tremendamente ordinario.
 
“Vince chi cavolo ha voglia di vincere,” e così dicendo scuote le spalle. “Bene, incomincio io: hai mai rubato?”
 
Ci pensa un po su. Risponde con onestà:
 
“Sì. Il Gameboy di un mio compagno di classe delle elementari. Mia madre non poteva permetterselo e tutti mi trovavano antiquato nel non averlo, così mi arrabbiai e me lo procurai da solo. Fu la notte più grandiosa della mia vita, prima che mia madre mi scoprisse e tirandomi per le orecchie mi obbligò a restituirlo e chiedere scusa.”
 
Charles ride a crepapelle, con la faccia di uno che non si rende minimamente conto di quanto possa essere fastidioso non potersi prendere quel che si desidera. Erik non lo biasima, se non vivi qualcosa poco probabilmente la riuscirai a capire, non importa quanto tu ti auto-proclami l’individuo più empatico dell’universo. Erik ride con lui: era comunque un bel ricordo.
 
“Okay, okay,” stoppa il bel momento, “è il mio turno. Ti sei fatto o no Susy Milligan nel sotto scala della biblioteca come tutti vociferano?”
 
Erik si gode il momento in cui Charles spalanca gli occhi e boccheggia. È un tipo capace di fare filmini porno, basta che non lo si obblighi a parlarne, ma nessuno sfugge alle dicerie da mensa. Erik si gode la vittoria quando Charles afferra il collo della bottiglia e manda giù la vodka. Erik si gode le risate che si sta facendo. Erik si gode, anche, lo sguardo assassino che gli viene rivolto.
 
“Non ho detto nulla.”
 
“Il tuo silenzio era abbastanza loquace.”
 
“Così non vale,” lamenta Charles.
 
“Hai proprosto tu il gioco, Xavier.”
 
“Sì, ma perlomeno incomincia con le domande semplici!”
 
“Sei una noia, passa la bottiglia.”
 
Charles gliela scaraventa in grembo come se avessero appena dato inizio ad una battaglia alquanto personale. Erik si odia immediatamente per non aver opposto resistenza a questo genere di– cavolata, ma è troppo brillo per rendersi conto della pericolosità delle acque in cui si sta addentrando. Inoltre, Charles sa essere subdolo, molto subdolo quando vuole.
 
“Allora, Erik, dimmi, perché Magda ti ha lasciato?”
 
Erik alza le spalle. “Perché tra noi non andava.”
 
“Niente menzogne,” il sorrisino che sfoggia ha un che di irritante. “Una persona non inviperisce contro di te tutte le sue amiche e non mette in giro la voce di quanto ‘Erik Lehnsherr sia patetico e usi le ragazze’, se non è successo nulla.”
 
“Magda ha detto così?”
 
Charles scrolla le spalle. “Con più parolacce e insulti. Allora?”
 
Erik si scosta leggermente dalla poltrona, quel tanto che gli basta per allungare la schiena, la quale ha iniziato a fargli male da un po’.
 
“Non so,” dice. “Un giorno l’ho chiamata per invitarla da me e lei ha iniziato a gridare.”
 
“Così a caso?” sbuffa Charles. “Non credo proprio.”
 
“Le donne sono creature complicate.”
 
“Tu sei complicato. Che cosa ti ha detto?”
 
“Che ne so,” sussurra, occhi al cielo. “Qualcosa tipo: ‘Wow, ti sei degnato di farti vivo. Sono giorni che non chiami e ora vuoi che venga da te. Erik, sei una vera e propria persona di–’ credo che fosse di merda. Poi mi ha consigliato di chiedere a te di uscire, visto che siamo tanto uniti, e ha riattaccato.”
 
Charles lo guarda con quei suoi enormi e scioccamente azzurri occhi. “Oh,” dice.
 
“Sì, be’, neanche le piaceva il rock.”
 
“Uh,” tenta Charles.
 
“Hai perso l’uso della lingua inglese? Perché parli a versi.”
 
“Mmmh.”
 
Santocielo, Charles.”
 
“Lo sai di essere un idiota,” riferisce Charles.
 
“Come se fossi il primo a riferirmelo,” canzona lui. “Ho anni alle spalle di insulti alla mia persona, normalmente mi liberavo dei rompiscatole facendo a botte, ma non ho voglia di piacchiarti. Quella volta in cui facemmo a pugni, non mi parlasti per un mese intero. Sempre il solito drama queen.”
 
“Mi avevi rotto il naso!” esclama Charles.
 
“Sì, be’, te l’eri cercata,” rinforza Erik.
 
La faccia di Charles si plasma come a voler dire ‘esagerato’, ma Erik è piuttosto sicuro che prendere le parti di Raven in una discussione e reagire con la violenza alle cavolate che escono fuori dalla bocca di Charles sia un comportamento più che legittimo. Certo, Charles non era stato d’accordo (perché le ha prese, ecco perché). E, certo, anche sua madre Edie non aveva reagito bene alla notizia; e neppure il direttore del liceo non approvava queste falde fra amici, ciononostante Raven pareva aver goduto alla vista del naso sanguinante del fratello, questo era bastato ad Erik per determinare la situazione come buona e giusta. Tutti hanno bisogno di una lezione, prima o poi, no?
 
“Ma non ti rendi davvero conto del perché ti abbia lasciato?” butta fuori Charles.
 
“Questo dovrebbe essere il mio turno, no?” Erik dice nervoso, poi passa la bottiglia a Charles. “Vogliamo psicoanalizzarci? Bene. Perché cavolo assilli così tanto tua sorella?”
 
“Questo non vale,” dice Charles. “Giochi sporco.”
 
Erik alza le spalle.
 
“Non l’ho proposto io il gioco. Se non vuoi rispondere, bevi.”
 
Charles si passa il dorso della mano sulla bocca.  
 
“Ammetti il perché le tue relazioni non durino più di due mesi,” dice Charles. Se chiude gli occhi, Erik può ancora rievocare la morbidezza del suo materasso e le utilissime coperte con le quali al momento vorrebbe nascondersi e fingere di non avere amici. Nessuno. Nessun Charles e nessun sopracciglio alzato di Charles, come se lui avesse qualche diritto nel dire e fare quel che dice e fa.
 
Erik beve.
 
“È finita la vodka,” si accorge, scuotendo la bottiglia vuota.
 
Fuori il vento ulula. Erik tenta in tutti i modi di non incronciare lo sguardo di Charles. Gli sembra di non fare altro, ultimamente – aggiungere uno spazio fra loro, chiudere porte, stare lontano. Non che ci stia riuscendo granché. Può sentirli fissi su di sé, gli occhi di Charles. Appoggia la bottiglia sul parquet e la calcia lontano, questa rotola via, fino ad incontrare la parete.
 
“Perché è così importante per te?” chiede, continuando a fissare imperterrito le proprie mani. Lehnsherr, cazzo.
 
Charles fa un sorriso storto nel buio, alza una mano e si passa le dita fra i capelli. Ed Erik sa, e Charles sa che Erik sa, quindi c’è poco da fingere ignoranza e andare avanti, anche soppesare l’eventualità di simulare un colpo di sonno non ha poi così tanto senso. Solo che andava tutto bene quando erano esclusivamente amici: non c’erano quelle stupide complicazioni dettate dalla gelosia, non dovevano passare per obbligo sociale una quantità prestabilita di ore insieme a settimana, le persone non li guardavano con quell’aria sognante quando li incrociavano nel campus universitario e, dio, non era così imbarazzante dormire insieme e fingere che nulla fosse cambiato, quando dannazione era sotto gli occhi di tutti che prima erano amici e ora– ora Erik non sa bene cosa. E Charles sta ancora continuando a guardarlo con perseveranza, passandosi la lingua sulle labbra come fa sempre, solo con più insistenza questa volta, con una sorta di tecnica afrodisiaca che fa torcere le budella di Erik. Visto che i filtri cervello-corpo di Charles si sono bruciati con l’alcool mentre quelli di Erik ancora no – ancora, – lui un po’ si sente responsabile di quello che potrebbe succedere e che molto ovviamente non dovrebbe.
 
“Uh, Charles?” biascica, tentando di allontanarsi il più possibile dall’amico, ma incontrando infine il muro a rovinare i suoi piani. Questo non va bene, questo non va per niente bene. “Si è fatto tardi, non credi, amico?”
 
“Non è come se possiamo andare da qualche altra parte,” fa spallucce Charles, e molto poco elegantemente si accascia al suo fianco e infila la testa nell’incavo fra spalla e collo di Erik.
 
Quelli che sta percependo Erik non sono assolutamente brividi di piacere, ma che pensieri sono– “Fa davvero freddo, non trovi?” la risata stridula che gli esce farebbe vergognare anche il fantasma di suo padre.
 
“Mmh mmh.”
 
Charles stringe le braccia intorno al suo petto, come a volergli fare un favore o come se stesse adempiendo ad una richiesta che non voleva essere implicita. Non voleva essere, punto. La questione qui sta diventanto molto delicata e una bottiglia di vodka non basta a sanare la probabile apocalisse che si scatenerà fra loro. Perché accadrà. È un’altra cosa che sanno entrambi, ecco perché hanno fatto i finti tonti per tutto quel tempo, anche se pare che Charles si sia stufato di giocare.
 
Erik abbassa lo sguardo e incontra quello di Charles – insieme al suo improponibile ciuffo, il quale, poi, sa pure di shampoo al pompelmo… Erik adora il pompelmo – e, porca puttana, arrossisce. Era dai tempi delle medie che non arrossiva, non da quando sua madre lo aveva scoperto in camera sua con la mano infilata nei pantaloni e il calendario di miss America steso di fronte a sé. L’allarme inzia a suonargli nel cervello, allora.
 
“Uh, Charles– Charles io non penso…”
 
“Non pensi cosa?”
 
Charles fa quella cosa con le palpebre e a Erik verrebbe di prenderlo a pugni.
 
“Io penso che le cose siano terribilmente fantastiche così come lo sono sempre state, ecco.” Qualcuno lo investa e gli impedisca di mettersi in imbarazzo, per l’amor del cielo. “Fra di noi, intendo.”
 
“Potrei elencarti tutte le cose che non vanno bene nel com’è la nostra relazione ora, ma non lo farò, Erik. Non lo farò siccome sono sicuro che tu ne sia cosciente e tu stia solo cercando di convincerti del contrario,” dice, la voce bassa e un po’ rauca, ma Erik è quello che deve schiarirsi la gola prima di poter rispondere.
 
“Non abbiamo nessuna relazione,” sbotta. Vede Charles premere le labbra, gli occhi blu ed elettrici nonostante l’oscurità.
 
Charles si stacca da lui incrociando le braccia di fronte al petto.
 
“Puoi farmi la cortesia di non rinnegare la realtà? Un discorso serio con te è già un passo da giganti, una cosa che probabilmente solo tua madre riesce a fare al mondo, no, che dico, in tutti gli universi esistenti. Hai la testa dura come una roccia e sei dannatamente– dannatamente Erik. Se pensi che per me non sia difficile denudarmi…”
 
“Mi dispiace, ma lo striptease non è una mia passione. Potresti fare uno show ad Azazel, ricordo che lui–”
 
“Smettila,” sibila Charles. Non sembra più tanto ubriaco. Erik si chiede se avesse finto per tutto quel tempo. “Smettila di fare l’idiota e guarda in faccia al cazzo di elefante nella stanza che, per la cronaca, sarei io e la non-relazione che tu credi di non condividere con me. È stato tutto molto divertente, perlomeno spero lo sia stato per te, ma ora mi sono stufato e siamo rinchiusi qui, da soli, finalmente. Dunque parliamo e smettiamola di rincorrerci la coda come una coppia di cani con l’alzheimer.”
 
“Hai organizzato tutto questo?” un’idea guizza nella mente di Erik… Si tratta di Charles, dopotutto.
 
“Organizzato cosa?”
 
“L’isolarmi e l’ubriacatura e l’obbligarmi a parlare con te, nonostante sia evidente che secondo me non ci porterà a nulla di buono.”
 
“Oh sì, certo!” urla Charles, applaudendo. “È globalmente risaputo che io possa far venire giù la fine del mondo, e essendo cosciente di ciò mi sono accertato che tu ti dimenticassi di uno dei tuoi libri per l’esame, così a mandarti a quasi morire pur di venire qui, per poi raggiungerti – rischiando il congelamento – e passare la notte ad annoiarmi e litigare. Che gran piano!”
 
“Dico il farmi ubriacare, il farmi–” sventola una mano indicando lo spazio fra loro due. “Il farmi trovare in questa situazione a parlare di questo.”
 
“Questo cosa, Erik?! Abbi almeno il coraggio di dargli il nome appropriato!”
 
“Questo niente!” sbotta. “Non è niente. Non è mai stato niente.”
 
“E perché no?”
 
“Perché io non– Io non posso, Charles.”
 
Se anche, per assurdo, uscisse sano da questa situazione e tutto quel che si era costruito fra loro riuscisse a sopravvivere, Erik ricorderebbe per sempre questo momento. Gli occhi tondi di Charles, le sue labbra come una linea sottile, il calco della severità e della delusione dipintogli in faccia.
 
“Non ti sto chiedendo di cavalcare verso il tramonto su un cavallo bianco,” dice Charles, piano, quasi in modo da non farsi sentire. “Ma non riesco neanche…”
 
“Lo so,” sospira. Lo sa, lo sa benissimo. “Continuare così. Lo so.”
 
“E cosa dovremmo fare? Cosa dovrei farci?”
 
Erik chiude gli occhi, fa un respiro profondo, si massaggia brevemente l’attacatura del naso. Non ha neanche idea di che ore siano. È già mezzanotte? Potrebbero essere anche le otto di sera, l’oscurità che li circonda non aiuta a rendersene conto. La luce della pila elettrica poco serve ad illuminare la stanza. Nulla aiuta a fare chiarezza, grazie tante.
 
Erik percepisce Charles muoversi al suo fianco, alzarsi in piedi, fare qualche passo.
 
“Non sono te, Erik,” dice. “Non sono nella tua mente. Non posso fare le scelte per te, ma accettare una situazione che ti renda felice – accettare che esista qualcosa che ti renda felice, – farlo non distruggerebbe l’equilibrio dell’universo. La vita continuerebbe a scorrere. Le persone continuerebbero a fare quel che fanno. Non cambierebbe nulla.” Lo sente prendere un respiro. “Potrebbe esserti utile, sai.”
 
È l’attimo di panico nel sentirlo girarsi e voler andare via a farlo alzare di scatto. La nota positiva è che non ha bisogno di applicare chissà quale forza nel frenare Charles, stringergli il polso forzandolo a voltarsi. E forse si sta facendo trasportare dall’atmosfera, ma l’elettricità nell’aria è un po’ contagiosa e bere non ha aiutato nessuno dei due a ragionare con lucidità. È, in breve, una condizione alla quale Erik aveva cercato di sfuggire sin dal loro primo incontro.
 
Charles ignora il suo tumulto interno e sorride placidamente. Erik è diviso a metà fra 1) la voglia di limonarselo lì e ora, 2) prenderlo a pugni finché non cancella quell’espressione saputalla dal volto e 3) picchiarlo per poi baciarlo e baciarlo ancora un po’.
 
È Charles a prendere la decisione per entrambi. Bene. Finalmente Erik è onesto abbastanza da concedere a se stesso che sarebbe rimasto deluso di una svolta differente. Succede. Succede e non è strano come pensava che sarebbe stato. Le sue labbra posate su quelle di Charles; le sue mani sul volto di Charles; Charles. Charles che mugugna e sospira e intensifica il bacio, e se Erik avesse saputo prima quanto fosse glorioso limonarsi Charles Xavier, non avrebbe trattato la loro relazione con tutta la «coglioneria» con cui invece l’ha sempre affrontata. Perché, sia dannata la sua anima, baciare Charles è come lanciarsi da un aeroplano senza paracadute, o meglio, buttarsi e non sapere di avere o meno la sicurezza di non sfracellarsi al suolo ma fregarsene ugualmente, perché tutto, nell’attimo in cui assapori la sensazione di fendere l’aria e sentirti libero, ecco, tutto è perfetto. Erik pensa che Charles riderebbe fino a non riuscire più a respirare nel sentire quel che gli passa per la testa. Lo definirebbe stucchevole sino a rasentare il nauseante, ma pur con tutta la volontà nel non voler essere una dodicenne al suo primo bacio, il mondo di Erik esplode liberando un tepore il quale non sapeva che esistesse.
 
Poi però Charles fa qualcosa con la lingua ed Erik non ha spazio per nessun pensiero. Sa solo che non gli importa più di nulla e affonda le dita fra i capelli di Charles, stringendogli il labbro fra i denti nella maniera più oscena che gli riesca.
 
Perfetto.
 
*
 
Verrà la volta in cui si comporteranno da adulti, da persone che non rischino l'osso del collo ad ogni cambio di stagione, in cui Charles non metterà su una lamentela sul comportamento sconsiderato di Erik, ma ora, qui ingrovigliati fra loro e stremati, con una risata a minacciare il silenzio della biblioteca, possono dimenticare i doveri verso il buon senso.
 
“Vedi di ascoltarmi la prossima volta,” dice Charles, avvolgendosi contro di lui.
 
Verrà il momento anche per quello, pensa Erik. Un giorno. E giusto perché può, lo bacia.
 
*
 
Miss Wilson, la bibliotecaria, rilascia uno strillo tanto forte da farli sobbalzare entrambi.
 
“Che– Che!
 
Erik sorride. Charles lo colpisce alle costole con una gomitata.
 
“Erik, no.”
 
[1] Non «Mutants» perché qui sono tutti umani. 
  
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