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Autore: _Pulse_    10/02/2017    2 recensioni
[Dal Capitolo 2]
«Come sta?», gli chiese Alex, rompendo quel silenzio che l’avrebbe fatta diventare matta se sommato all’innocente bellezza degli occhi di Merlino.
«Molto meglio. Ora dorme».
«Bene. Come hai detto che si chiama?».
«Artù».
«E tu e lui… vi conoscete da molto?».
«Da sempre».
Alex sollevò di scatto gli occhi e trovò i suoi luminosi, anche se velati di lacrime. Si chiese se fosse il caso di continuare con quell’interrogatorio o se fosse più opportuno aspettare che fosse Merlino a parlarle di lui. Dopotutto l’aveva soccorso – se non salvato – e l’aveva ospitato a casa sua: qualche informazione in più era un suo diritto, se la meritava.
Ma forse l’unica vera ricompensa che desiderava era proprio quella che Merlino le offrì, prendendole inaspettatamente una mano e stringendola forte tra le sue, facendo sì che i loro occhi si incatenassero.
«Ti sei tuffata nel lago per aiutarlo, vero?».
Genere: Fantasy, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Merlino, Nuovo personaggio, Principe Artù
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Spoiler! | Contesto: Nel futuro
Capitoli:
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Buonasera a tutti! :)
Beh, non so veramente cosa dire... Non mi aspettavo proprio ci fosse ancora tutto questo seguito, ma ne sono felicissima e commossa. Grazie, grazie di cuore.
Non dico altro, vi lascio immediatamente alla lettura!

Vostra,

_Pulse_


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17. A lesson in vegeance – Part II


«Scusami se ti ho fatto aspettare, c’era coda».
Alex inghiottì le arachidi che si era appena messa in bocca ed abbozzò un sorriso scrollando il capo. «Figurati, non c’è problema».
Keith si sedette nuovamente sullo sgabello ed incrociò le mani sotto il mento, fissandola. L’infermiera passò un dito sul bordo del proprio boccale di birra, poi iniziò ad arricciarsi tra le dita le punte dei capelli raccolti. Sapeva che avrebbe dovuto rompere quel silenzio imbarazzante e chiedergli finalmente ciò che voleva sapere a proposito dei problemi economici dell’ospedale e del galà di beneficienza a Windsor, ma il nervosismo le aveva completamente tolto la voce. Nervosismo forse dovuto a ciò che le aveva detto prima di andare al bagno: delle numerosissime cicatrici ed abrasioni, di ogni forma e dimensione, che il chirurgo che aveva operato Merlino aveva notato su ogni angolo del suo corpo; delle domande che le aveva rivolto in proposito; oppure ancora della curiosità che aveva iniziato a tormentarla non appena era entrata nel pub in cui era stata proprio con Merlino, Artù e Cathleen solo qualche settimana prima: qual era l’impegno che il mago aveva affermato di avere?
«Va tutto bene, Alex?», le chiese ad un tratto, con la fronte corrugata.
«Sì, certo. Perché me lo chiedi?».
«È da quando ho nominato Merlino che non apri bocca. Stai pensando a lui, per caso?».
Alex prese un lungo sorso di birra, cercando disperatamente una scusa. Appoggiò di nuovo il boccale di vetro sul tavolino ornato di graffi e scritte di vario genere, opera indelebile di qualche ragazzino ansioso di lasciare un segno nel mondo.
«Mi dispiace, non avrei dovuto parlare di lui adesso. È stato tremendamente stupido», disse ancora Keith.
Alex trasse un profondo respiro e lo interruppe: «Non importa. Non stavo pensando a lui, ma al vero motivo per cui ti ho chiesto di uscire questa sera».
«Oh». Il dottore si addossò allo schienale del proprio sgabello alto e rimase in silenzio per qualche istante, poi accennò una risata. «Dovevo immaginarlo».
«No, no. Keith, ascoltami. Quello che hai fatto è acqua passata ormai, veramente, ma non potremo più essere quello che eravamo. Mai più».
«Capisco».
Alex inarcò le sopracciglia, sorpresa. «Davvero?».
«Sì, davvero», rispose sospirando e massaggiandosi la fronte. Rivolgendole un sorriso amareggiato, aggiunse: «Ho fatto un vero casino, eh?».
L’infermiera ricambiò e posò la mano sulla sua. «Forse era destino».
«Forse. Allora, qual è il vero motivo per cui mi hai chiesto di uscire?».
«Ecco…». Alex si schiarì la gola, fissando il liquido ambrato nel boccale. «Ho saputo dei problemi economici dell’ospedale. Probabilmente ero l’unica a non esserne a conoscenza, sai?».
Keith scosse il capo, respirando a pieni polmoni. «Alex, io non posso parlarne, lo sai».
«Lo so, non ti ho chiesto di farlo. Voglio solo che tu sappia che non starò con le mani in mano in attesa che i bambini vengano trasferiti chissà dove e che il reparto venga smantellato. Ho intenzione di provarle tutte, ma come saprai da sola non ho alcuna speranza di farcela».
«E qui dovrei entrare in gioco io? È vero, mio padre fa parte del Consiglio d’Amministrazione dell’ospedale, ma non fa miracoli. Da quello che so le ha provate tutte pure lui perché non si arrivasse al punto di chiudere il reparto, ma…».
«Il galà di beneficienza al Castello di Windsor», esclamò Alex, fissando gli occhi nei suoi e piantando entrambe le mani sul tavolino.
«Che cosa? Sono anni che l’ospedale non riceve più fondi dalle associazioni che organizzano quell’evento».
«Perché? Non è per caso all’altezza degli ospedali oncologici di Londra, di Edimburgo, di Belfast? Decine di bambini sono ricoverati da noi, provengono da ogni parte del Galles perché è la struttura migliore della regione. E per le loro famiglie è già difficile così, immagina che cosa succederebbe se dovessero essere trasferiti fuori dal Galles».
Keith si strofinò il viso e si strinse nelle spalle, guardandola mortificato. «Non so che cosa dirti, Alex. Vorrei davvero poterti aiutare…».
«Fammi parlare con tuo padre o con qualcun altro del Consiglio. Ti prego, Keith, se non vuoi farlo per me fallo per i bambini. È tutto ciò di cui mi importa».
Il dottor Ellis la guardò intensamente, gli occhi di ghiaccio incredibilmente caldi ed apprensivi, ma quando aprì la bocca per darle la propria risposta slittarono verso la porta del pub. Alex fece per girarsi, ma il medico le afferrò entrambe le mani e scosse il capo, un tacito consiglio a non farlo. Alex ovviamente non gli diede peso, anzi… il suo gesto le fece venire ancora più voglia di voltarsi e quando lo fece desiderò ovviamente di non essere stata tanto stupida. Myra era stretta al braccio di un Merlino quasi inespressivo, ma la fitta che provò al cuore fu comunque tanto dolorosa che le mancò il fiato.
Ecco l’impegno di Merlino: l’agente Chandra, con i suoi lucenti capelli corvini sciolti sulla schiena, i pantacollant color denim stretti intorno alle lunghe ed affusolate gambe e, sotto al cappotto, la camicetta verde smeraldo che lasciava ben poco all’immaginazione.
Pensava di aver provato il dolore più grande della sua vita quando aveva perso sua madre, ma si sbagliava. Il dolore più grande lo provò quella sera, quando Merlino si guardò intorno ed incrociò i suoi occhi lucidi di lacrime e quelli di Keith, seduto di fronte a lei e con le mani ancora sui suoi polsi. Furono i suoi occhi a causarle quel dolore, o meglio tutto ciò che vi lesse: stupore, confusione, sofferenza, delusione e infine rabbia, una rabbia tanto cocente da sfigurargli il viso, in grado di fargli dimenticare totalmente Myra e di farlo uscire dal locale sbattendosi la porta alle spalle.

***

«Merlino!».
Lo stregone si fermò nel bel mezzo della strada e strinse forte i pugni lungo i fianchi, forte quasi quanto gli occhi. Il buio dietro alle palpebre non fece altro che peggiorare il dolore che sentiva in mezzo al petto e che si estendeva pian piano in tutto il corpo, come un veleno di cui non conosceva l’antidoto. Ascoltò i battiti sordi del suo cuore vecchio e stanco, fragile e dimentico di tutte le esperienze che aveva vissuto negli anni. Non imparava mai.
«Merlino, guardami».
Il mago aprì gli occhi, ma non si voltò. «Non lo farò. Non ti guarderò negli occhi mentre mi dici che ti dispiace, raccontandomi l’ennesima bugia».
«Se ti riferisci a ciò che ti avevo detto, che non sarei mai uscita con Keith, beh…».
«Risparmiami le spiegazioni, ti prego».
Stranamente Alex lo ascoltò e rimase in silenzio, un silenzio così profondo che Merlino trovò la forza di girarsi e rivolgerle uno sguardo quasi sprezzante.
«Sei proprio una degna Pendragon», esclamò, annuendo. «Non importa quanto si faccia per proteggervi, che cosa si è disposti a sacrificare… voi troverete sempre il modo per farvi del male con le vostre stesse mani».
«Stai zitto, Merlino!».
Il volto di Alex, sfigurato dalla rabbia e dall’urlo che aveva appena lanciato, fu tanto simile a quello di Artù da fargli annebbiare la vista. Perciò non ebbe il tempo necessario ad arretrare, quando l’infermiera lo raggiunse in mezzo alla strada per prendergli il volto tra le mani e baciarlo con forza sulla bocca.
Stordito dal suo gesto e dalla facilità con cui tutta la rabbia e la delusione svanirono, facendolo sentire di nuovo leggero come una piuma, in alto come lo era stato solo in uno dei rari viaggi su Kilgharrah, impiegò diversi secondi a racimolare tutta la razionalità rimastagli e a scostarsi.
«Credi che questo risolvi le cose?», le domandò a bassa voce, evitando di osservare troppo a lungo le sue labbra, così calde e morbide, di cui sentiva già la mancanza.
«Non c’è niente da risolvere, a quanto mi risulta. Non c’è nessun noi, giusto? Quindi sicuramente le peggiora. Sono proprio una degna Pendragon, hai ragione».
Il mago si portò due dita alle tempie martellanti. «Non capisco…».
«L’unica cosa da capire qui è che io…», si interruppe di colpo, come se le parole che avrebbe voluto dire le fossero andate di traverso. «Che tu mi creda o no, sono uscita con lui questa sera perché ho bisogno del suo aiuto per salvare l’ospedale. Tu, invece?».
Merlino incrociò i suoi occhi accusatori, venati di gelosia, e davvero non poté credere di star avendo quel tipo di conversazione proprio con Alex, la ragazza che avrebbe dovuto essere irraggiungibile per almeno un milione di motivi.
«Myra mi ha chiesto di uscire», iniziò a spiegare, ma si bloccò improvvisamente quando gli ritornò alla mente il pensiero che aveva avuto quella mattina: uscire con Myra sarebbe stata sicuramente una distrazione per rendere Alex un terreno sempre più off-limits, ma non solo; Myra sarebbe stata anche l’espediente perfetto perché Alex lo dimenticasse e capisse che tra loro non avrebbe mai potuto funzionare. Si trattava di ingannarla e di mentirle spudoratamente, ma l’aveva già fatto prima per il bene di un Pendragon e sapeva che poteva conviverci.
«Myra mi ha chiesto di uscire e io ho accettato perché è da quando l’ho rivista che non faccio che ripensare a lei», riprese, guardandola negli occhi e vedendovi sparire ogni traccia di luminosità. «Non l’ho mai dimenticata. Inoltre lei non sa il mio segreto e, cosa più importante, non è di sangue reale come te».
Alex non interruppe mai il contatto visivo e per Merlino fu una tortura vera e propria, specialmente quando una lacrima rotolò sulla pelle chiara del suo viso e dovette costringersi a non alzare la mano per spazzarla via.
«Sono tutte cazzate», mormorò dopo infiniti attimi di silenzio. «Ti stai inventando tutto, tu…».
«Non è così», rispose e cercò di essere il più convincente possibile, nonostante il dolore si fosse trasformato in agonia. «Ma se così fosse, allora sai cosa dovresti fare. Avevi giurato che se ti avessi mentito non saresti più riuscita a starmi vicino, dico bene?».
Non lo vide nemmeno arrivare, lo schiaffo; sentì soltanto il bruciore intenso lasciato dalle sue cinque dita sulla guancia sinistra. E non sollevò più gli occhi, nemmeno quando Alex si strinse le braccia al petto e a capo chino, trattenendo le lacrime per una questione di orgoglio, rientrò nel pub. Fu costretto a farlo, invece, quando un’auto gli fece gli abbaglianti e l’assordò con il clacson, intimandogli di levarsi di mezzo. Per un attimo Merlino pensò di farsi tirare sotto, per poi convenire che farsi fuori non avrebbe aiutato. Quindi raggiunse il marciapiede opposto a quello del pub ed iniziò ad incamminarsi verso l’auto, parcheggiata dietro l’angolo.
«Hai intenzione di lasciarmi qui?», urlò Myra alle sue spalle, raggiungendolo più in fretta possibile, con i tacchi e la gamba.
Merlino sentì un’ondata di rabbia travolgerlo non appena fu al suo fianco e si sottrasse immediatamente dalla sua stretta quando provò a prendergli una mano.
«Sei arrabbiato a causa di Alex e Keith?», gli chiese allora, cercando di catturare il suo sguardo.
Il mago strinse i denti e tirò fuori dalla tasca del giubbino le chiavi dell’auto, ma Myra non si arrese.
Entrando nell’abitacolo, esclamò: «Forse quello che ho sempre pensato su di lei non era così sbagliato, dopotutto. Come può piacerti una sgualdrina del genere?».
Il sangue gli andò al cervello così in fretta che non riuscì nemmeno a dire addio all’ultimo briciolo di razionalità che era riuscito a conservare sino a quel momento. Scattò verso l’agente Chandra, bloccandola contro il finestrino freddo con un avambraccio premuto contro la sua gola, tanto forte da trasformare il suo respiro in un rantolo.
«Non sono io quella da incolpare per le decisioni della tua Alex», sibilò con un ghigno ad incurvarle le labbra.
Merlino dovette ammettere che era vero, e dovette ammettere anche che quella era anche la sola ed unica cosa vera che gli avesse propinato da quando era venuta a trovarlo all’ospedale. Tutti i suoi sospetti e i suoi brutti presentimenti erano sempre stati fondati.
«Potevamo andare ovunque, questa sera, ma tu hai scelto di venire qui. Una strana coincidenza che ci fossero anche Alex e Keith, non trovi?».
Il ghigno di Myra si allargò mentre scrollava le spalle. «Non troppo. È l’unico pub del paese, sai?».
«Tu volevi che li vedessi, volevi che…», si interruppe, colto alla sprovvista da un’illuminazione: come faceva Myra a sapere che Keith e Alex sarebbero usciti quella sera e che sarebbero andati al pub? C’era un’unica risposta logica: aveva un complice.
«Tu e Keith avete organizzato tutto, eravate d’accordo. Perché, Myra? Qual era il vostro scopo?».
«Proprio non ci arrivi, eh?». Myra scoppiò in una risata intrisa di rancore e lasciò che le lacrime iniziassero a scorrerle sul viso, rovinandole il trucco. «Volevo farvi provare un po’ del dolore che ho provato io in questi mesi, volevo che quella puttanella ti odiasse tanto quanto ti odio io».
«Kajri…», mormorò dolcemente Merlino, allontanando il braccio dalla sua gola per provare a scostarle una ciocca di capelli dalla guancia.
«Ti ho già detto di non chiamarmi in quel modo!», gridò e con un gesto rapido tirò fuori dalla borsa la sua pistola d’ordinanza, puntandogliela in mezzo agli occhi. «Kajri è morta! È morta quando tu l’hai abbandonata!».
«E mi dispiace, non avrei mai dovuto farlo. Ora però abbassa la pistola, hai bisogno di aiuto. Lasciati aiutare, Myra».
«Io non ho bisogno di aiuto! Avevo bisogno di te e tu non c’eri!», continuò a gridare, singhiozzando tanto forte da far tremare persino la pistola che teneva tra le mani.
«Quindi pensi davvero che la soluzione a tutto sia spararmi?», le domandò piano, quasi con dolcezza. «Avanti, fallo. Non ho paura».
Myra sgranò gli occhi gonfi di pianto e lentamente tolse la sicura, mentre Merlino ricambiava il suo sguardo con un debole sorriso sulle labbra, un sorriso quasi sereno.
«Avrai la tua vendetta. È questo che cerchi, vero? Vendetta. La otterrai, se premerai il grilletto. Ma non starai meglio, questo no. Te lo posso assicurare».
Myra si umettò le labbra e tirò su col naso, stringendo più saldamente il calcio della pistola. «Come… Come puoi dire una cosa del genere?».
«Ci sono tante cose che non sai di me, cose che non saprai mai, che non saprà mai nessuno. Prima parlavi di odio e di dolore… Tu non sai nemmeno che cosa sia, il vero dolore. Non sai cosa vuol dire odiare se stessi e convivere coi sensi di colpa più atroci, ricordare tutti i nomi e i volti delle persone scomparse, sentirsi gli unici al mondo…».
«Che cosa?», mormorò, accigliata.
Merlino sollevò le mani con cautela e le posò su quelle di Myra, ancora strette intorno alla pistola. Erano gelate e sudate, contratte come se fossero disperatamente aggrappate alla sua stessa vita.
«Mi dispiace, Kajri», sussurrò ancora il mago, avvicinando il viso al suo mentre le faceva abbassare la pistola.
L’agente Chandra provò ad arretrare ma, già premuta contro la portiera del passeggero, non poté andare da nessuna parte. Merlino le sfiorò i capelli con le labbra, in un bacio appena accennato, poi abbatté una delle tante barriere a contenimento della magia e le sussurrò all’orecchio una formula magica che la fece cadere immediatamente in un sonno profondo.
Rimase per qualche minuto appoggiato a lei, col viso nascosto nell’incavo del suo collo, a riprendere fiato e a sopportare il dolore indicibile che la magia continuava a provocargli, in un modo o nell’altro. Quindi si sollevò e le allacciò la cintura, girò le chiavi nel cruscotto e sgommò lungo la strada deserta.

***

Quando alla fine aveva trovato il coraggio e aveva chiamato Cathleen, aveva percepito dell’imbarazzo anche in lei e questo gli aveva permesso di non fare la figura del completo idiota chiedendole se quella sera poteva passare da lei.
Il paramedico, nonostante avesse deciso l’orario, gli aveva aperto la porta avvolta in un accappatoio di morbida spugna viola e con i capelli bagnati, appiccicati come rivoli di sangue scuro al suo collo e all’incavo del suo pallido seno. Si era scusata, mortificata, spiegandogli che aveva perso la cognizione del tempo, e l’aveva invitato ad accomodarsi e a fare come se fosse a casa sua mentre lei finiva di prepararsi.
Artù aveva percorso nuovamente con lo sguardo la sua collezione di fate, esseri magici e draghi, dopodiché si era fermato accanto ad una libreria su cui erano impilati libri di vario genere e decine di DVD. Ne aveva letto i titoli, realizzando che anche Merlino ne possedeva qualcuno, fino a quando non era stato distratto dalla figura di Cathleen: era comparsa quasi all’improvviso nel rettangolo della porta aperta della sua stanza e si era tolta l’accappatoio, restando in sola biancheria intima di fronte all’armadio in cui stava cercando dei vestiti da indossare.
Se i suoi capelli rossi, ancora bagnati ma legati in un alto chignon, erano in netto contrasto sulla sua pelle diafana, la sua biancheria nera era come una grande macchia d’inchiostro su un foglio ancora immacolato, tanto fastidiosa che Artù avrebbe dato qualsiasi cosa per levarla di mezzo. Quando si rese conto di ciò che quel pensiero comportava scostò subito lo sguardo, il volto ormai in fiamme, e si sedette su un angolo del divano.
Cinque minuti dopo il paramedico si mostrò a lui con indosso una tuta di almeno due taglie più grande, il viso struccato e quell’acconciatura semplice e a suo parere molto regale. Lo guardò con un sorriso incerto sulla bocca e le braccia strette al petto come se avesse freddo.
«Allora…», esordì, guardando a tratti il suo viso e a tratti le sue spesse calze arancioni. «A che cosa devo la tua visita?».
Artù scrollò le spalle, posando gli occhi sullo schermo nero della televisione. «Merlino e Alex sono usciti e io non volevo stare a casa da solo».
«Nel senso che Merlino e Alex sono usciti insieme?». La sua espressione stupita mutò in una entusiasta in una frazione di secondo, sedendosi al suo fianco sul divano.
Artù la osservò senza riuscire a levarsi dalla testa il pensiero che poco prima gli aveva attraversato la mente – quello di volerla spogliare e di percorrere con le mani e le labbra ogni centimetro della sua pelle lattea. Dovette scuotere il capo e deglutire con decisione prima di poter rispondere: «Sì. Cioè, no. Non credo. Se fosse così Alex me l’avrebbe di certo detto, ne sono sicuro».
«Uhm, capisco», mormorò meditabonda, sfiorandosi il labbro inferiore con il pollice.
Il re di Camelot fu come ipnotizzato da quel gesto e la sua mente gli ricordò la morbidezza e il sapore di quelle labbra, tanto intensamente che se non avesse trovato la forza per controllarsi si sarebbe sporto su di lei per assaggiarle ancora e non lasciarle più.
«Questa storia non mi piace nemmeno un po’».
«Nemmeno a me», rispose automaticamente Artù, rendendosene conto solo qualche secondo dopo, quando Cathleen lo fissò con un sopracciglio inarcato. «Cosa hai detto, scusa?».
Il paramedico scosse il capo e ridacchiò, alzandosi. «Hai già cenato?».
«Sì, ma se vuoi ti faccio compagnia».
«No, tranquillo, anche io ho già mangiato. Perciò… che cosa facciamo?».
Artù arrossì e, nonostante fosse a secco di saliva già da un po’, deglutì ancora. Per fortuna Cathleen si rispose da sola, sorridendo.
«Ti va di vedere un film?».
«Sì, mi piacerebbe».
«Perfetto, quale scegliamo?».
Artù la raggiunse accanto alla libreria e la guardò scorrere le custodie di plastica con un dito, senza nemmeno ascoltare i brevi riassunti che gli faceva, film dopo film. Ormai gli era perfettamente chiaro che non sarebbe riuscito pensare ad altro che a lei e alla tempesta di reazioni chimiche che gli scatenava.
«Scegli quello che ti piace di più», la interruppe.
Cathleen lo fissò con un grande punto interrogativo sul volto. «Ma…».
«Mi fido di te», mormorò e le sorrise dolcemente, tornando a sedersi sul divano.
Il paramedico sospirò e senza aggiungere altro scelse un DVD.

***

«Siamo quasi arrivati, un piccolo sforzo».
Keith scortò Alex fino alla camera da letto, con un braccio avvolto intorno alla sua schiena, e quando fu sul punto di accendere la luce la ragazza, in un attimo di estrema lucidità, gli prese la mano e la portò insieme all’altra sulla sua schiena, come se avesse voluto che l’abbracciasse.
Era la sua occasione, l’occasione che aveva sperato di avere da quando, per puro caso, aveva sentito parlare di Myra ed era riuscito a coinvolgerla nel suo piano. Quindi perché non l’aveva ancora colta? Era così semplice…
«Alex, non vedo niente», disse cercando di leggere nei suoi occhi – grandi, lucidi ed arrossati dall’alcool – tutto ciò che le stava passando per la mente.
«Vuoi dirmi che non ti ricordi come arrivare al mio letto?».
Arretrò di qualche passo, sempre barcollando, e Keith fu costretto ad assecondarla perché non cadesse. Alla fine l’infermiera sbatté contro il bordo del materasso e si lasciò cadere all’indietro, trascinando il medico con sé.
«Eccoci», esclamò con euforia, ridacchiando.
«Bene. Puoi lasciarmi andare, adesso».
Alex scosse il capo con un sorriso malizioso sulla bocca e faticosamente si sollevò fino a trovarsi ad un soffio dalle sue labbra. Gli accarezzò il naso col proprio, esitando e lasciandosi prendere da quel gioco perverso, poi gli diede un fuggevole bacio, un altro e un altro ancora. Piegò una gamba e gliela strofinò contro il fianco mentre gli prendeva una mano e gliela faceva posare contro il suo seno, inarcando appena la schiena.
«Sei ubriaca», mormorò Keith quando riuscì a sottrarsi dalla sua bocca famelica.
«E quindi? Non è la prima volta che succede. Mi ricordo che una volta mi hai detto che preferivi fare sesso con me quando ero ubriaca perché ero più… come avevi detto? Ero più disinibita. Sì, di-si-ni-bi-ta».
Keith la guardò ancora negli occhi, quegli occhi annebbiati dall’alcool e languidi, eccitati ed assenti. La migliore occasione della sua vita.
«All’epoca stavamo insieme, Alex. Adesso…».
«Sono consenziente, Keith!», gridò frustrata, interrompendolo. Nel suo tono c’era rabbia, impazienza e tanto, tanto dolore. «Che cosa vuoi, un permesso scritto per scoparmi?». Provò a spingerlo via, ma tutti i chupito che aveva ordinato senza che Keith riuscisse a farla smettere le avevano tolto le forze.  
«Pensavo che lo volessi», iniziò a dire in tono lagnoso. «Pensavo davvero che…».
«E io lo voglio, Alex. Io ti voglio più di qualsiasi altra cosa».
«Che cosa stai aspettando allora?».
Il medico si diede per la decima volta dello stupido e sorrise, chinandosi di nuovo su di lei. Ad un soffio dalle sue labbra mormorò: «Niente».
Alex lo afferrò per la nuca e lo baciò con prepotenza, lasciandosi spogliare e spogliandolo a sua volta. Il bruciore allo stomaco causato dall’alcool si mischiò a quello del piacere e desiderosa com’era di cancellarsi dalla testa il ricordo delle parole che le aveva detto Merlino, di fargliela pagare sbattendogli in faccia che era andata a letto con il suo ex, lo pregò di penetrarla subito, lasciando perdere i preliminari.
Dall’altro canto Keith, che era riuscito a mettere da parte la sgradevole sensazione di rimorso che gli aveva fatto sprecare così tanto tempo, si bloccò nuovamente udendo quella richiesta. Gli sembrò quasi che non fosse Alex a parlare e si rese conto che non era lei, non era l’Alex che amava quella che aveva di fronte. Quell’Alex era persa, lui l’aveva persa per sempre, e non sarebbe più tornata indietro. Era stato stupido illudersi che avrebbe potuto riaverla, la cosa più stupida che avesse mai pensato.
«Non posso farlo», disse rotolando dall’altra parte del letto, sulle lenzuola già stropicciate che profumavano della sua Alex. Quella che aveva di fianco sapeva di alcool e sale, il sapore delle lacrime che senza che se ne rendesse conto avevano iniziato a scivolarle sul viso.
«Che cosa stai dicendo? Certo che puoi», rispose l’infermiera, biascicando.
Si sollevò e provò a salire su di lui, ma rischiò soltanto di cadere giù dal letto; se Keith non l’avesse afferrata per le braccia si sarebbe di sicuro fatta male, ma quel dolore non sarebbe stato nulla in confronto a quello che già provava in mezzo al petto.
«Mi dispiace, Alex», sussurrò mestamente, accarezzandole i capelli intorno al viso. «Mi dispiace, non avrei mai dovuto… La verità è che era tutta una messinscena, io e Myra ci siamo messi d’accordo perché tu e Merlino vi allontanaste. Sono stato io a proporti per il trasferimento al pronto soccorso, sono stato io a dire a Myra che avrebbe potuto riavere Merlino tutto per sé se io avessi riavuto te. Pensavo di poterlo fare, che avevo tutto il diritto di farlo perché pensavo che ci fosse ancora speranza per noi due. Ma non è così, l’ho capito finalmente. Tu ami Merlino e ora stai facendo la stessa cosa che abbiamo cercato di fare io e Myra: vendicarci sulle persone che ci avevano portato via ciò che amavamo di più. Ma non è la cosa giusta da fare; fare sesso con me non lo è, te lo garantisco».
Keith serrò le labbra e continuò a guardarla negli occhi e ad accarezzarle il viso e i capelli mentre le lacrime scendevano copiose dai suoi occhi. E capì di aver fatto finalmente la cosa giusta.
«Dì qualcosa, Alex. Qualsiasi cosa».
L’infermiera si strinse nelle spalle, poi posò la fronte nell’incavo del suo collo ed iniziò a singhiozzare forte, tremando tra le sue braccia.
«Se potessi tornare indietro… Ho fatto tanti sbagli, Alex; ti ho fatto soffrire così tanto e non voglio più ripetermi. Ti prometto che sistemerò tutto, ci proverò. Hai capito?».
Alex sollevò la testa per annuire e subito dopo provò ad alzarsi, reggendosi a malapena in piedi da sola. Keith la sostenne e l’accompagnò quasi di corsa fino al bagno, dove le tenne la fronte mentre vomitava.

***

All’improvviso l’immagine si bloccò e Artù schizzò seduto sul divano, indicando a bocca aperta il televisore e posando poi gli occhi su Cathleen, sorridente e felice al suo fianco, come se stesse assistendo allo spettacolo più bello del mondo.
«Fallo ripartire!», gridò Artù con un insolito tono di voce stridulo, ma imperioso.
«Tra un attimo. Li vuoi i popcorn?».
Il re di Camelot cercò di ricordare se avesse mai visto o sentito nominare “i popcorn”, ma la sua mente era talmente scossa da quell’interruzione inaspettata proprio nel momento più teso del film che rispose sgarbatamente: «L’unica cosa che voglio è che tu faccia ripartire il film, adesso».
«Vedo che sei un tipo che vuole sempre tutto e subito, eh?».
Cathleen pronunciò quella frase in tono quasi provocante, sporgendosi su di lui fino a trovarsi ad un palmo dal suo viso. Artù iniziò a sentire il suo profumo e i battiti del suo cuore aumentarono a dismisura, mentre il suo volto diventava paonazzo.
«Non te l’ha mai insegnato nessuno che per le cose belle vale la pena aspettare?», concluse a bassa voce e si alzò, diretta verso la cucina.
Artù non la perse di vista nemmeno per un momento e si strinse forte le mani sulle gambe, cercando disperatamente di riprendere il controllo. Forse poteva sfruttare quel momento, forse poteva trovare il coraggio di fare ciò che andava fatto: chiederle scusa per averla chiamata come la sua compianta moglie.
Si alzò dal divano e la raggiunse dietro la libreria con i draghi. La osservò mentre prendeva un sacchetto da uno degli armadietti, leggeva le istruzioni sul retro e poi regolava il forno a microonde.
«Se proprio non vuoi aspettarmi il telecomando è sul tavolino», esclamò Cathleen, dandogli le spalle per osservare il sacchetto che come per magia iniziava a gonfiarsi.
«No, devo dirti una cosa».
«Che cosa?».
Artù rimase in silenzio tanto a lungo che Cathleen si voltò e lo fissò con un misto di preoccupazione e trepidazione negli occhi.
«Sei per caso preoccupato per la TAC di domani? Andrà bene, te lo prometto. Starò tutto il tempo lì nei paraggi, se vorrai».
Il re di Camelot corrugò la fronte, rispondendo: «Mi farebbe davvero piacere se tu ci fossi, ma non è di questo che si tratta. Io volevo scusarmi».
«Scusarti?».
Gli improvvisi scoppiettii provenienti dal sacchetto dentro il forno furono la distrazione perfetta per Artù, imbarazzato e a disagio come poche volte in vita sua.
«È normale che faccia così?».
Cathleen annuì rapidamente. «Scusarti per che cosa?».
«Beh, per… per averti chiamata “Ginevra”, qualche tempo fa».
«Oh. Non c’è problema, davvero».
«Tu non… non vuoi sapere chi era?», le domandò, davvero sbigottito. Alex aveva detto che se fosse stata in Cathleen avrebbe voluto delle spiegazioni, allora perché non faceva domande?
Il paramedico fece un passo verso di lui, ignorando gli ormai frenetici pop provenienti dal forno a microonde, e sorridendo dolcemente disse: «Ginevra era la tua anima gemella, era la persona che amavi e che ti è stata portata via. In qualche modo sono riuscita a fartela tornare in mente e ne sono felice, perché doveva essere una ragazza davvero straordinaria se era degna di stare al tuo fianco. Sono orgogliosa di avere qualcosa che aveva anche lei».
Artù abbassò gli occhi lucidi e si morse un sorriso, prima di annuire e rispondere: «Sì, hai ragione. Gwen era davvero straordinaria».
Cathleen annuì a sua volta e al din del microonde si voltò.
Stava tirando fuori il sacchetto di popcorn, tentando di non ustionarsi le dita, quando sentì una mano di Artù sulla base del collo. Chiuse gli occhi a quella carezza e si appoggiò a lui, chino sul suo orecchio per sussurrarle: «E anche tu lo sei».
La fece voltare con delicatezza e le prese il mento tra due dita, osservando i suoi occhi sgranati e le sue labbra rosse appena dischiuse.
«Tu hai il mio stesso sguardo, Cathleen; lo sguardo di chi ha perso tutto».
Il paramedico si passò la lingua tra le labbra, scostando la sua mano e dandogli di nuovo le spalle per prendere finalmente il pacchetto di popcorn tra le mani. Doveva scottare da morire, ma Cathleen non fece una piega, anzi lo strinse più del necessario.
Versò i popcorn in una ciotola di plastica e quando incrociò di nuovo il suo sguardo gli rivolse un largo sorriso, come se nulla fosse accaduto, esclamando: «Facciamo ripartire questo film, forza».
Artù lasciò ciondolare le braccia lungo i fianchi e sospirò, seguendola in silenzio.

***

Merlino trovò con facilità le chiavi dell’appartamento di Myra nella sua borsa e dopo averle tolto cappotto e scarpe la stese sul letto, rimboccandole bene le coperte.
Rimase seduto al suo fianco, al buio e con le mani intrecciate davanti alla bocca come se stesse pregando anziché riflettendo, per quasi un’ora. Poi perlustrò ogni centimetro della casa e nel bagno trovò ciò che aveva sperato di trovare: antidolorifici. Perfettamente normale che ci fossero – dopotutto l’incidente le aveva causato danni permanenti alla gamba – ma gli bastò contare i barattoli e rispolverare le sue conoscenze di medicina per capire che Myra aveva qualche problema con le dosi.
Fece qualche foto col cellulare e sistemò tutto esattamente come l’aveva trovato. Poi uscì per attuare la seconda parte del suo piano. Guidò lentamente fino in aperta campagna, fermò l’auto e senza spegnere il motore né le luci, scese. Respirò profondamente, guardando il cielo scuro sopra di sé, ed accarezzò il cofano della propria piccola, mortificato, mentre faceva il giro per sedersi sul lato del passeggero. Si mise nella stessa posizione in cui aveva bloccato Myra appena qualche ora prima e con la sua pistola stretta tra le mani, protette dai guanti, puntò verso il finestrino e sparò. Il rumore del vetro infranto fu molto simile a quello del suo cuore, ma si disse che non aveva avuto scelta.
Continuò a mormorare «Mi dispiace, mi dispiace» per un bel po’, durante il tragitto che lo riportò a casa di Myra.
In cucina trovò un blocchetto per appunti, una penna e dei sacchetti gelo. Dispose tutto sul tavolo, inclusa la pistola dell’agente Chandra e i guanti che aveva usato per sparare. Dalla tasca del giubbotto tirò fuori il bossolo che aveva raccolto sulla “scena del crimine” e lo infilò in uno dei sacchetti, poi si sedette ed iniziò a scrivere la lettera per Myra.
“Ho visto le tue medicine. Un poliziotto non dovrebbe essere in servizio se abusa di antidolorifici, è come se facesse uso di stupefacenti.”
“Ho raccolto un campione di polvere da sparo dalle tue mani e ho trovato per strada il bossolo della pallottola che era diretta alla mia testa. Hai tentato di uccidermi, Myra.”
“Nessuno sospetta niente, ho fatto qualche domanda. È un paese così tranquillo, questo… Avranno sicuramente pensato ad un petardo. Ma io so, Myra, e giuro che se ti rivedrò ancora ti rovinerò la vita. È la tua ultima chance, l’ultima chance che hai per sistemare le cose. Lasciati aiutare, Kajri.”
Apposta la propria firma alla fine della lettera, Merlino si alzò e tornò in camera da letto, dove trovò Myra come l’aveva lasciata. Tornò a sedersi al suo fianco e si preparò per la parte più difficile, quella di modificare i suoi ricordi. Pensò intensamente alla scena che doveva imprimerle nella mente: la pistola nelle sue mani, la paura e l’adrenalina che scorrevano nelle sue vene, il dito che si abbassava sul grilletto, la pallottola che Merlino schivava quasi per caso, abbassandosi con le mani sulla testa; il rumore del finestrino infranto, il colpo che Merlino fu costretto a darle perché mollasse la presa sulla pistola e il braccio che le strinse intorno alla gola, togliendole il fiato, la voce e alla fine i sensi. Poi più il nulla.
Respirò profondamente un’ultima volta, poi posò una mano sulla sua fronte e i suoi occhi dorati brillarono nel buio della stanza.

***

Cathleen infilò la mano nella ciotola dei popcorn, ma dentro vi trovò solo dei semi di mais inesplosi. Voltò la testa verso Artù e lo trovò con le guance piene e lo sguardo fisso sullo schermo del televisore, nonostante ormai scorressero i titoli di coda.
«Menomale che non li volevi», borbottò per poi scoppiare a ridere, facendo scontrare la sua spalla sinistra con la sua destra.
Il re di Camelot batté rapidamente le ciglia, come se fosse appena uscito da uno stato di ipnosi, e non poté fare a meno di venir contagiato dalla sua risata. Poi guardò l’ora sull’orologio appeso alla parete e il cuore gli balzò in gola rendendosi conto di quanto fosse tardi e dello strano silenzio di Merlino e di Alex. Non gli avevano mandato né messaggi né avevano provato a chiamarlo: che fossero ancora ai loro appuntamenti? Aveva un brutto, bruttissimo presentimento.
«Ehi, va tutto bene?».
Artù guardò con la coda dell’occhio la mano che Cathleen gli aveva posato sulla spalla e dovette sforzarsi per non raggiungerla con la propria.
«Sono preoccupato per Merlino ed Alex».
Il paramedico annuì, massaggiandogli la spalla. «Quei due sono fatti l’uno per l’altra… Spero davvero che non abbiano fatto qualche stupidaggine».
«Che cosa vuoi dire?». La fissò con la fronte corrugata, sedendosi meglio al suo fianco. «Cathleen, sai qualcosa che io non so?».
«Ma no, no. Sono sicura che si risolverà tutto».
Gli rivolse un tenue sorriso e gli tolse la ciotola dei popcorn dalle mani, quindi si alzò dal divano. Una volta in cucina, gridò: «E per quanto mi riguarda puoi stare qui tutto il tempo che vuoi».
«Grazie, ma non penso che sia una buona idea».
Cathleen rimase in silenzio più tempo del previsto e Artù non aprì più bocca. Aspettò che chiudesse l’acqua del rubinetto e si ripresentasse in salotto con uno straccio tra le mani.
«In che senso?».
Il re di Camelot scrollò le spalle. «Non sono bravo in queste cose, ma… temo che più tempo passo con te, più il rischio che mi affezioni diventi alto. E né io né tu vogliamo che accada, giusto? Non siamo pronti».
«Già, è vero», rispose balbettando.
Lo fissò per istanti che sembrarono eterni, mentre la colonna sonora dei titoli di coda riempiva il silenzio tra loro. Quando cedette, si portò il dorso di una mano sulla fronte e l’altra sul fianco, affranta.
«Tu almeno riesci a pronunciare il suo nome, tu riesci a ricordarla e a sorridere… Io non ce la faccio. Artù, non ce la faccio». Si coprì il viso con entrambe le mani per celare le lacrime e il biondo si alzò per cingerla delicatamente tra le braccia.
«È tutto okay», sussurrò respirando il profumo dei suoi capelli. «È normale che sia così».
«Da quanto tempo è morta Gwen?».
Quella domanda a bruciapelo gli fece chiudere gli occhi e tremare il cuore di dolore. Con la bocca improvvisamente impastata, rispose: «Una vita fa, ma fa male come se fosse accaduto ieri».
«Scusami, non dovevo chiedertelo».
«Ehi, non c’è problema». Le accarezzò una guancia, cancellando il percorso di una lacrima. «Un amico mi diceva sempre che il dolore non bisogna tenerlo dentro, va affrontato. Ed è ancora meglio se non lo si fa da soli. Quando vorrai farlo, quando sarai pronta… io ci sarò, te lo prometto».
Cathleen annuì con un cenno del capo, mostrando il suo sorriso migliore, poi sciolse l’abbraccio per tornare in cucina a lavare i piatti lasciati a mollo nel lavello. Artù tornò a sedersi sul divano e controllò ancora una volta il cellulare. Si sdraiò con la testa su uno dei braccioli e si girò nel dito uno dei suoi anelli fino a quando i suoi occhi non si chiusero, vinti dal sonno.
Fu così che mezz’ora dopo lo trovò Cathleen: addormentato. Decise di non svegliarlo e gli stese addosso una coperta, rimanendo ad osservarlo dolcemente per una decina di minuti prima di posargli un bacio sulla fronte, tra i capelli biondi, e di andare prepararsi a sua volta per la notte.
Si stava giusto lavando i denti quando ricevette un SMS. A quell’ora lo avrebbe di certo ignorato se non avesse avuto il cellulare accanto e non avesse scorto sul display il nome di Merlino.

Prenditi cura di Artù.


Questa è bella, pensò. Ma gettando un’occhiata verso il salotto si disse che sì, per Artù avrebbe fatto qualsiasi cosa Merlino le avrebbe chiesto, anche la più impensabile.

***

Merlino aprì lentamente gli occhi, abbagliato dal debole raggio di sole che da chissà dove penetrava le profondità della terra e si rifletteva su quasi tutti i cristalli che lo circondavano.
La testa gli faceva un male terribile, come se avesse un nido di vespe arrabbiate al posto del cervello, e i suoi vestiti erano sporchi e puzzolenti. Si sollevò lentamente, con una mano sulla fronte e l’altra all’altezza dello stomaco, e la sua immagine riflessa in uno dei cristalli lo fece sobbalzare: gli occhi stanchi ed incavati che mostravano la sua vera età; la pelle rugosa, chiazzata qua e là da macchie e talmente sottile da mostrare tutti gli intricati reticoli di vasi sanguigni sotto di essa; la barba lunga e i capelli bianchi spettinati, presenti in maniera sempre meno uniforme sul suo cranio.
Scostò lo sguardo e si massaggiò il viso, cercando di dimenticare l’immagine di quel vecchio, ciò che era veramente sotto il suo attuale aspetto, giovane e ancora piacevole. Rinnegare se stesso: l’aveva fatto per tutta la vita, era l’unica cosa che gli riusciva veramente bene.
Cercò il cellulare e nello svuotare le tasche trovò un flacone di antidolorifici. Mentre lo apriva per poter inghiottire un paio di pillole, ricordò a sprazzi di averlo preso dal bagno di Myra giusto prima di uscire, forse immaginando che gli sarebbe tornato utile. Non ricordava però se ne avesse già presa qualcuna prima di svenire, sfibrato dalle convulsioni e dall’agonia che più di una volta gli aveva fatto implorare l’arrivo della morte.
Il cellulare alla fine lo trovò sul pavimento di nuda roccia, macchiato di sangue. Pulì lo schermo sui pantaloni e quando lo sbloccò si ritrovò nella sezione dei messaggi inviati, in cui spiccava quello che aveva inviato a Cathleen quella sera stessa.
Guardando l’orario si ricordò dell’appuntamento che attendeva Artù: la TAC che avrebbe o meno rivelato ciò che gli provocava quei non-attacchi cardiaci. Non poteva assolutamente mancare.
Si alzò in piedi e barcollò fino alla cassapanca dentro cui aveva sistemato alcuni vestiti di ricambio. Si tolse la felpa e i jeans, macchiati di vomito e sangue. Ora ricordava: prima di entrare nella grotta di cristallo aveva rimesso; ecco da dove proveniva il sangue che aveva notato sul cellulare.
Con i vestiti puliti addosso e una lanterna elettrica in mano attraversò un paio di cunicoli bui fino a raggiungere il punto più profondo della grotta, dove si trovava un piccolo lago sotterraneo. Le sue acque erano così scure ed immobili che sembrava un vero e proprio specchio, in grado di riflettere il soffitto costellato di stalattiti. Si inginocchiò sulla sponda e guardò il proprio viso sporco e con una pessima cera, ma ancora giovane. Si lavò via il sangue e rimase diversi istanti sott’acqua, godendo della sensazione di gelo sulla sua pelle. Poi si asciugò e tornò tra i cristalli, dove recuperò il giubbino e le chiavi dell’auto per correre al fianco di Artù, dove doveva stare, dove sarebbe sempre stato.

***

«Sono preoccupato per Alex e Merlino».
Cathleen gli posò una mano sulla guancia e con l’altra gli sistemò la spalla della leggera camicia azzurrina che un infermiere gli aveva detto di indossare.
«Ti ho già detto che l’unica cosa di cui devi preoccuparti adesso è te stesso, sperare che la TAC non riveli nulla di grave».
«E se lo facesse? Se avessi davvero qualcosa di grave?».
Si guardarono negli occhi per una dozzina di secondi. Quindi il paramedico si chinò e gli posò un delicato bacio sulla fronte, sussurrando: «In quel caso lo affronteremo insieme, lo prometto».
Artù annuì e ricambiò debolmente, lasciando andare la sua mano non appena l’infermiere scostò bruscamente la tenda che circondava il suo letto e aveva protetto la sua privacy mentre si cambiava.
«È tutto pronto, andiamo».
Cathleen lo aiutò ad infilarsi il vecchio accappatoio bianco che aveva trovato sul fondo di un armadio e poi gli offrì il braccio, sorridendo furbescamente. Artù lo accettò chinando un poco la testa, come avrebbe fatto una vera dama con il suo cavaliere, ma non riuscì a fingere a lungo che il sorriso che aveva sulle labbra fosse sincero: la tensione per l’esame e l’assenza di Merlino ed Alex, la sensazione che l’avessero abbandonato in un momento così critico e la paura che ogni sospetto sulla causa dei suoi attacchi si rivelasse fondato gli facevano quasi tremare le gambe.
Guardò Cathleen stretta al suo fianco, quel giorno con i lunghi capelli ondulati sciolti sulla schiena e il viso delicato truccato, ma in modo leggero.
Il suo volto era stata la prima cosa che aveva visto quella mattina svegliandosi e si era sentito vagamente in colpa, come se fosse stato sbagliato, ma era stata una sensazione passeggera: aveva ricordato le parole di Merlino, la sua convinzione a proposito di Ginevra e di che cosa avrebbe voluto per lui, e in qualche modo aveva capito che ancora una volta aveva ragione. Perciò si era lasciato accarezzare da quello che sembrava un barlume di felicità, senza respingerlo, e non poteva negare che si era sentito bene, bene come non si sentiva da tempo.
«Ehi, perché mi fissi in quel modo?».
Artù ridacchiò e tornò a guardare quel corridoio quasi infinito di fronte a sé. «Ti sono davvero riconoscente, Cathleen».
«Per che cosa? Non ho fatto niente».
«Hai fatto moltissimo invece: ti sei presa cura di me, nonostante tu mi conosca appena. Non eri obbligata a farlo».
Il paramedico si grattò dietro l’orecchio sinistro, cercando di ignorare il rossore sul suo volto. «Beh, prego».
«Per questo, se avrai bisogno di me non dovrai far altro che chiedere. Intesi?».
«Intesi», rispose col petto in fuori e portandosi una mano sulla fronte, un gesto che lì per lì non riconobbe e che poi ricordò di aver visto in un film alla TV: un saluto militare.
Giunsero finalmente davanti alla stanza in cui si sarebbe svolta la TAC e Cathleen si fermò sulla porta, il braccio teso e la mano ancora stretta nella sua.
«Sarò dall’altra parte del vetro», gli spiegò scorgendo una punta di agitazione nel suo sguardo.
Cathleen lo incitò a proseguire con un cenno del capo e un sorriso incoraggiante sulle labbra. Artù lasciò lentamente la sua mano, ma non ruppe il contatto visivo fino a quando la porta non si chiuse alle sue spalle, lasciandolo solo con l’infermiere e quell’enorme macchina che solo a guardarla gli fece correre un brivido di freddo lungo la spina dorsale.

***

Merlino gettò nervosamente il centesimo sguardo all’orologio dal vetro crepato che aveva al polso – Quando era successo? Quella notte, alla caverna, oppure prima? – e colpì il volante con una mano, imprecando contro quell’esasperante semaforo. Ebbe quasi la tentazione di far scattare il verde con l’uso della magia, ma si costrinse a trattenersi: doveva conservare tutte le energie che era riuscito a recuperare per affrontare le eventuali conseguenze a cui Alex ovviamente non aveva pensato quando era riuscita a prenotare quella TAC per Artù.
Era dovuto passare a casa per recuperare alcune cosette che avrebbero potuto tornargli utili ed ora era in un ritardo mostruoso. Sperava soltanto che il loro sistema sanitario non avesse deciso di diventare improvvisamente puntuale ed efficiente.
Con uno stridio di gomme parcheggiò l’auto, col finestrino ancora mancante e alcuni pezzi di vetro sul tappetino. Quindi corse verso l’entrata del pronto soccorso con lo zaino che gli rimbalzava sulle spalle.
Fu davanti alle porte scorrevoli che incontrò Alex, proveniente dall’altra parte del parcheggio e in ritardo tanto quanto lui. Si squadrarono in silenzio per un po’, fermi immobili e con maschere d’inespressività ben calcate sui loro visi terribilmente sciupati.
«Hai un aspetto orribile», esclamò per prima Alex.
«Grazie, anche tu», rispose Merlino, invitandola ad entrare al suo fianco.
A passo svelto si diressero verso il reparto di radiologia. Nessuno dei due si fermò quando Merlino si chinò sul suo orecchio per sussurrare: «Hai pensato a che cosa accadrebbe nel caso in cui trovassero nel suo petto qualcosa che non potrebbe umanamente trovarsi lì? Un frammento di spada incantata, per esempio».
Alex lo fissò ad occhi sgranati, occhi arrossati e circondati da lividi violacei che gli facevano immaginare l’infermiera nel bel mezzo di un incontro clandestino di boxe.
«No, certo che no», si rispose da solo Merlino, inarcando le sopracciglia. «Per fortuna Artù ha me al suo fianco».
«Stai per caso insinuando che io non sono alla tua altezza?», esclamò Alex, serrando innervosita la mascella.
«Sto solo dicendo che se davvero vuoi far parte di tutto questo, allora devi seguire le mie regole. Un’altra stupidaggine come questa, un altro errore che potrebbe costare la sicurezza di Artù… Sarò costretto a prendere provvedimenti».
Alex si fermò di colpo e si esibì in una finta risata. «Ah! E che tipo di provvedimenti? Sentiamo».
Lo stregone si guardò intorno e si avvicinò a lei tanto da sfiorarle il naso col proprio, gli occhi fissi nei suoi. «Credi che in più di millequattrocento anni non sia mai capitato che qualcuno di scomodo abbia scoperto il mio segreto? Ho fatto quello che dovevo e lo farò ancora, se necessario». Le rivolse un’occhiata eloquente e le afferrò un braccio per riprendere a camminare ed essere sicuro che lo seguisse.

***

«Fermatelo! Fatemi uscire di qui, è un ordine! FATEMI USCIRE!».
Le urla di Artù si sentivano fin dal corridoio. Alex e Merlino entrarono nella stanza di monitoraggio facendo sbattere la porta contro la parete, così bruscamente che sia il tecnico col camice bianco chino sull’interfono, sia l’infermiere che Cathleen sobbalzarono dallo spavento.
«Che cosa diavolo succede?», urlò Alex, fissando inorridita Artù che si agitava in maniera disumana dentro la cavità della TAC per uscirne.
«Credo sia nel bel mezzo di un attacco di panico», rispose il tecnico.
«Certo che lo è, soffre di claustrofobia», mugugnò irritato Merlino, come se tutti in quella stanza, eccetto lui ovviamente, fossero dei perfetti idioti. E Alex dovette convenire con lui, dato che lei sapeva perfettamente di quella sua fobia e non ci aveva pensato. Davvero, dove aveva la testa?
Il tecnico gli lanciò un’occhiata gelida e riprese a parlare nel microfono: «Signor Pendragon, si calmi, adesso spengo tutto e manderò l’infermiere ad aiutarla».
«No, non può farlo».
Tutti quanti si voltarono verso Alex, confusi ed increduli.
«Invece sì, e lo farà», rispose Cathleen, il volto contratto dall’ira. «Guardalo, sta male!».
«Ma così non avremo mai più l’occasione di capire che cos’ha che non va!».
«Alex ha ragione», la sostenne Merlino, cosa che le fece spalancare la bocca per lo stupore: o quel giorno era particolarmente lunatico, o la sua insensibilità avrebbe dovuto farle paura.
Il mago scansò chiunque si trovasse sulla sua strada e strappò il microfono dalle mani del tecnico: «Artù, sono Merlino».
«Merlino! Merlino, sei davvero tu? Ti prego, tirami fuori di qui!».
«Mi dispiace, non posso farlo. Ho bisogno che vi calmiate. È necessario che restiate completamente immobile, solo così riusciranno a completare l’esame e noi otterremo che risposte che vogliamo».
«Merlino…», lo sentì singhiozzare, ma aveva già iniziato a rilassare le gambe sul ripiano su cui era sdraiato.
«Sono qui, non vi lascio. Concentratevi sul vostro respiro, fate respiri profondi e rimanete immobile. Non vi succederà nulla di male, ve lo prometto».
«Alex è lì con te?».
Merlino sollevò gli occhi in quelli di Alex ed abbozzò un sorriso. «Sì, è qui al mio fianco. Siamo qui Artù, insieme».
Alex chinò il capo, sentendo la stessa fitta di dolore che aveva provato da ragazzina quando aveva capito che sua madre e suo padre, dopo una litigata, si sforzavano di sembrare felici solo perché lei fosse felice.
Sentì la mano di Merlino avvolgerle delicatamente il polso e sollevò di scatto la testa trovando il suo sguardo, stanco ma dolce, ad attenderla. Le indicò l’interfono e l’infermiera si chinò al suo fianco: «Ciao Artù, sono qui».
«Ho quasi fatto», sussurrò il tecnico, controllando le scansioni del petto di Artù sui due schermi di fronte ai suoi occhi, l’unica fonte di luce in quella piccola stanzetta sovraffollata.
«Manca poco, Artù», disse ancora Merlino, sorridendo come se il re di Camelot potesse anche vederlo. «Continuate a rimanere immobile. Come quella volta che siamo stati costretti ad attraversare quei tunnel abitati dai wildeon e ci siamo spalmati quelle bacche puzzolenti sulla faccia. Vi ricordate? Rischiavamo di diventare il pranzo di quei mostri, invece siamo rimasti così immobili che se ne sono andati. Pensate di riuscirci ancora per un po’?».
Tutti quanti lo guardavano come se fosse appena diventato matto, ma le sue parole ottennero il risultato sperato: Artù non si mosse e la TAC andò a buon fine, tanto che il tecnico e l’infermiere esclamarono contemporaneamente: «Ma che diavolo…?», prima che Merlino acciuffasse dallo zaino due fazzoletti di stoffa e li tenesse premuti sui loro nasi e sulle loro bocche dopo averli inumiditi con il liquido contenuto in una bottiglietta di Pepsi. I due persero conoscenza nel giro di pochi secondi e Merlino li adagiò senza troppa cautela sul pavimento, uno appoggiato alla spalla dell’altro. Quindi, sempre sotto gli occhi sbarrati di Alex e Cathleen, si sedette sulla poltrona del tecnico ed iniziò ad armeggiare con le tastiere dei computer ed una chiavetta USB, dando ordini a destra e manca: «Alex, infilati uno di quei camici e quando ti do’ il segnale vai a recuperare Artù. Cathleen, tu stai fuori dalla porta e avvisami nel caso qualcuno volesse entrare. Poi dovrai coprirci mentre ce ne andiamo, trovare questi due e dare l’allarme. Tutto chiaro?». Non aspettò la sua risposta – sapeva che non ne avrebbe avuta alcuna, dato il suo stato di shock, – ed attivò di nuovo l’interfono per dire ad Artù: «È finita, mando Alex a prendervi».
Quando trovò il modo di spegnere tutta l’apparecchiatura fece segno ad Alex di entrare nella stanza. L’infermiera esitò, tanto da beccarsi un’occhiataccia dallo stregone, poi corse al capezzale di Artù, lo liberò dagli elastici che gli avevano stretto all’altezza delle spalle e del basso ventre perché non si muovesse e lo aiutò ad alzarsi. Tremava come una foglia, ma la sua espressione seria ed orgogliosa non lasciava trasparire alcuna emozione.
«Abbiamo portato a termine la missione?», le chiese soltanto, a bassa voce.
Alex abbozzò un sorriso e gli strofinò una mano tra le scapole. «Sì, missione compiuta».
Nonostante Cathleen avrebbe dovuto fare da palo fuori dalla stanza di monitoraggio, quando Alex e Artù raggiunsero Merlino la trovarono ancora lì, in piedi accanto ai due uomini che lo stregone aveva messo K.O., e la sua espressione non prometteva nulla di buono.
«Artù, potete dire alla vostra nuova fiamma di fare ciò che le dico, per cortesia? Forse voi sapete come farvi ascoltare».
«Ehi!», urlò Cathleen, attirando l’attenzione di tutti sul suo volto paonazzo ed accartocciato dal nervosismo. «Uno, io non sono la fiamma di nessuno; due, non farò un bel niente senza sapere perché rischio di cacciarmi in un guaio di proporzioni epiche!».
Merlino si addossò allo schienale della sedia girevole e la fece roteare fino a quando non fu perfettamente davanti a lei. La serietà e la schiettezza con cui riassunse la loro situazione fece venire i brividi ad Alex, ma non solo: erano i suoi occhi a serrarle il cuore in una morsa gelata, o meglio ciò che non c’era più in essi. Qualunque cosa fosse.
«Io e Artù siamo i famosi Merlino ed Artù delle storie, il potente mago e il re di Camelot della Tavola Rotonda e di Excalibur. Io ho più di millequattrocento anni e ho vissuto su questa Terra, immortale, per un’unica ragione: riportare la magia nel mondo per impedirne così la distruzione. Non ti sto a spiegare il perché, ma chi ha scritto il mio destino ha deciso che non avrei potuto farcela senza Artù, perciò è stato riportato in vita proprio ora che la Terra ne ha più bisogno. Dubito che tu sappia che durante quella che dagli storici è stata chiamata la Battaglia di Camlann Artù sia stato ferito mortalmente da una spada incantata. Beh, vedi questo rettangolino qui?», con una penna trovata sulla scrivania indicò un punto avvolto da un’ombra scura su uno degli schermi che mostravano da varie angolazioni l’interno della gabbia toracica di Artù. «Questo è un frammento di quella spada, si suppone ancora impregnato di magia, che di quando in quando decide di far patire terribili sofferenze al cuore del nostro Artù. Ora dimmi, che cosa farebbe un qualunque chirurgo nel caso in cui si trovasse queste lastre tra le mani?».
Cathleen abbassò lo sguardo, quasi con vergogna. «Non sono un chirurgo».
«Per favore, Cathleen… Basta aver guardato qualche episodio di Gray’s Anatomy per saperlo. Persino Artù potrebbe dirmelo!».
Alzò rapidamente gli occhi per incrociare quelli del biondo, improvvisamente pallido come un cencio, e si morse le labbra mormorando: «Lo opererebbe per estrarre il corpo estraneo».
«Corretto!», esultò Merlino con un sorriso forzato sul viso, battendo le mani. «Non possiamo permettere che accada».
Solo Alex fu tanto stupida da rompere il silenzio agghiacciante che li aveva circondati non appena Merlino aveva smesso di fissare Cathleen per tornare alle tastiere dei computer.
«Perché?», chiese e se ne pentì immediatamente.
La risata sadica di Merlino le fece accapponare la pelle e il suo sorriso maligno fece anche di peggio.
«Scusami, è che pensavo fosse ovvio. Abbiamo detto che la spada di Mordred era incantata e che quel frammento è impregnato di magia oscura, una magia così potente che è riuscita a sopravvivere per più di quindici secoli. Non sappiamo cosa potrebbe accadere se qualcuno tentasse di tirargli via quel pezzo di lama dal petto. E se la magia si ribellasse e lo uccidesse? Non possiamo rischiare».
«E quindi saresti disposto a lasciarlo lì e a starmi sempre accanto per intervenire durante gli attacchi, rischiando la tua vita usando la magia per salvare la mia?», domandò Artù con un nuovo fuoco negli occhi, divampato all’improvviso.
«Perché no? È quello che ho sempre fatto: sacrificare la mia vita per la vostra». Merlino abbozzò un sorriso e con quella luce azzurrognola riflessa sul viso Alex pensò che sembrava ad un fantasma vecchio e solo. «È l’unica cosa in cui sono bravo».
Artù fece un passo avanti e lo afferrò per la spalla, voltandolo perché i loro sguardi si incatenassero. «Non te lo permetterò ancora».
«E sentiamo, come avete intenzione di fermarmi?».
Il re di Camelot esitò, infastidito ed addolorato allo stesso tempo dal sorriso sereno di Merlino, il sorriso di un condannato a morte che aveva accettato da tempo la sorte che era stata decisa per lui. Quindi, inspirando forte dal naso, rispose: «Diventerò Iron Man».
«Questo è troppo», borbottò Cathleen, mettendosi entrambe le mani nei capelli. La sua espressione esasperata non aveva affatto bisogno di spiegazioni ed infatti nessuno ne chiese.
«Vado a fare quel maledetto palo, ma vi voglio fuori di qui entro dieci minuti. Ci siamo capiti bene?».
Merlino annuì con un solo cenno del capo a cui Cathleen ricambiò, anche se incerta, prima di uscire dalla porta evitando accuratamente lo sguardo dispiaciuto di Artù.
«Era proprio necessario che Cathleen sapesse?», esclamò irritato proprio quest’ultimo, fulminando Merlino con lo sguardo.
Lo stregone scrollò le spalle. «Era proprio necessario che Alex sapesse?».
Artù sospirò massaggiandosi gli occhi con due dita e nessuno osò più fiatare. La tensione si tagliava a fette, ma Merlino, proprio come se nulla fosse, continuò a scrivere parole immaginarie sulle tastiere dei computer, riempiendo intere schermate nere di codici. Stava per caso hackerando il sistema interno dell’ospedale?
Solo successivamente Alex avrebbe scoperto che in quei pochi minuti aveva cancellato ogni traccia della loro presenza: la prenotazione elettronica della TAC a nome Artù Pendragon, i filmati delle telecamere che li avevano ripresi entrare al pronto soccorso, i risultati degli esami… insomma, qualsiasi cosa avrebbe potuto portare a loro se ci fossero state delle indagini interne.
Dopo aver estratto la chiavetta USB, Merlino si voltò verso Alex e la fissò così intensamente che ebbe paura che il sangue le si congelasse nelle vene. «Se non avessi già forzato la mano ieri sera, non te lo chiederei mai».
«Forzato la mano?». Artù inarcò le sopracciglia prima per la confusione, poi per la rabbia. «Hai usato la magia. Dovevo capirlo, ne hai tutti i postumi. Ma non capisci che ti sta consumando, Merlino?!».
Lo stregone non lo degnò nemmeno di uno sguardo, la sua attenzione era ancora tutta focalizzata su Alex, la quale deglutì rumorosamente e sistemandosi una ciocca di capelli dietro l’orecchio chiese: «Che cosa devo fare?».
«Sostenermi».
Le porse una mano e l’infermiera la osservò per diversi istanti, fino a quando non si rese conto che non avevano più tempo e che se c’era una persona di cui poteva fidarsi ciecamente, quella persona era Merlino.
Afferrò la sua mano e si inginocchiò al suo fianco di fronte ai due uomini svenuti. Solo in quel momento, raccogliendo i fazzoletti di cui dovevano sbarazzarsi, Alex realizzò che la sostanza che aveva fatto loro perdere conoscenza era cloroformio. Non si chiese dove Merlino l’avesse preso né volle mai saperlo.
«Devo cancellare i loro ricordi e rimpiazzarli con altri», le spiegò a bassa voce, il viso decisamente troppo vicino al suo.
«Perché devi anche rimpiazzarli? Ci metterai il doppio del tempo e delle energie…».
«E lasciargli un vuoto di memoria? No. Troppi rischi, troppe domande».
«Che cosa gli farai ricordare?».
Merlino accennò un sorriso quasi divertito. «Un qualcosa che non andranno a raccontare a nessuno, puoi giurarci».
Alex non ebbe nemmeno il tempo di prepararsi con un respiro profondo: la magia di Merlino la investì come un treno ad alta velocità e sentì il corpo andarle a fuoco, prima dolorosamente e poi donandole sempre più energia, tanto da farle passare il mal di testa e la nausea causate dall’alcool e dalla notte insonne. Vide sprazzi di ciò che Merlino immaginò per i due uomini, come se fosse dentro la sua mente, e pensò che non avrebbe proprio voluto essere nei loro panni al momento del loro risveglio.
Scoprire di essere gay così all’improvviso… Che shock!
Poi tornò il dolore, un dolore quasi insopportabile: il fuoco si era trasformato in un vero e proprio incendio e dovette sforzarsi terribilmente per non urlare.
Stava giusto per cedere, quando sentì Merlino sorreggerla per la schiena, trovandosi così abbracciato a lei, e sussurrarle tra i capelli: «Immagina una barriera in grado di contenere la magia, rendila vera e poi lasciala andare».
Le venne subito in mente il video animato della canzone “Another brick in the wall” dei Pink Floyd, un video che suo padre, fan della band, le aveva fatto vedere centinaia di volte, nonostante lei, piccola com’era, fosse terrorizzata da quel professore deforme e spietato.
Immaginò quello stesso muro di mattoni richiudersi sul fuoco dorato che le faceva male persino alla vista, ma fu faticoso e anche quando fu perfettamente sigillato non riuscì a staccarsene; continuò a spingere e a spingere con le spalle contro quei pallidi mattoni freddi, per paura che la magia fuoriuscisse e la riducesse in cenere.
La voce di Merlino la raggiunse a malapena: «Lasciala andare».
«Non posso, non posso», mugugnò scuotendo il capo contro i mattoni umidi e contro il petto di Merlino.
«Sì che puoi. Ci sono qui io, ti proteggerò. Ti proteggerò sempre».
Alex strinse forte gli occhi e respirò profondamente facendo un passo indietro. Aspettò che la magia la investisse nuovamente, ma non accadde. Quando aprì gli occhi, tutto ciò che vide fu il volto di Merlino, sudato ma sorridente.
«Sei stata bravissima», le sussurrò prima di svenire tra le sue braccia.
«No. No, no, no. Ehi, Merlino, dobbiamo uscire di qui. Apri gli occhi».
Gli tirò uno schiaffetto leggero sulla guancia, scrollandolo poi per le spalle, e Merlino parve riprendersi, tanto da alzarsi in piedi, stando aggrappato alle spalle di Alex ed Artù. Controllarono di aver preso tutto, compresa la bottiglietta di Pepsi col resto del cloroformio, poi aprirono un poco la porta ed intravidero Cathleen intrattenere un’infermiera dietro l’angolo del corridoio. Il paramedico li notò con la coda dell’occhio e con una mano dietro la schiena indicò loro di passare in fretta. Alex e Artù si scambiarono uno sguardo d’intesa e sgattaiolarono fuori con Merlino di nuovo a peso morto tra loro, la testa ciondolante contro lo sterno.
Camminarono il più velocemente possibile lungo il corridoio che conduceva alla cappella, ma sulla loro strada si imbatterono in un paio di giovani infermieri, un ragazzo e una ragazza tra cui sicuramente c’era qualcosa, e furono costretti a nascondersi dietro una delle colonne del porticato. Solo allora Alex si rese conto dell’abbigliamento di Artù: la camicia dell’ospedale e un accappatoio bianco troppo stretto per le sue spalle larghe.
«Non puoi uscire così», sussurrò ad occhi sgranati.
Artù si gettò una rapida occhiata e scrollò il capo: «Tutto ciò che mi interessa è portare Merlino a casa. Ha bisogno di riposo».
«Me ne rendo conto benissimo, ma attireresti troppa attenzione e renderemmo vani tutti i suoi sforzi».
I due Pendragon si scambiarono un lungo sguardo. Fu Artù a spezzarlo, respirando profondamente.
«Va bene», esclamò. «Qual è il tuo piano?».
Alex non aveva un piano, o almeno non l’avrebbe definito tale, perciò finse di dimostrarsi sicura di ogni parola: «Più avanti c’è una porta d’emergenza che dà sull’ingresso dei magazzini: aspettatemi lì. Io vado a recuperarti i vestiti e vi raggiungo. Ah». Si sporse su Merlino e gli infilò le mani nelle tasche del giubbotto e in quelle dei pantaloni, fino a quando non trovò le chiavi della sua Pininfarina.
Artù sgranò un poco gli occhi. «Andrà su tutte le furie, quando lo scoprirà».
«Me ne farò una ragione», rispose distrattamente Alex, per poi trarre un respiro profondo per farsi coraggio. Quindi assunse un’andatura normale e girò l’angolo, mostrandosi vagamente scocciata di trovare i due infermieri sul punto di scambiarsi un bacio. Si portò entrambe le mani sui fianchi, con le sopracciglia inarcate, e si schiarì la gola con prepotenza, facendoli sussultare.
«Farò finta di non aver visto nulla se tornate immediatamente al lavoro», disse con tono di rimprovero e i due ragazzi, a capo chino per l’imbarazzo, corsero via senza aprire bocca.
Quando furono lontani, Alex si voltò verso Artù e Merlino e gli fece segno di muoversi. Il re di Camelot le rivolse un ultimo cenno col capo, traducibile in un «Mi raccomando», poi sorresse lo stregone fino alla porta che l’infermiera gli aveva indicato.

***

«Allora?».
Alex si sollevò e gettò un’occhiata ad Artù, appoggiato con una spalla allo stipite della porta.
«Come un’ora fa: non ci sono peggioramenti, né miglioramenti. Sembra stabile, ma lo sai, Merlino non è un paziente comune. Chissà cosa sta succedendo dentro di lui…».
Il re di Camelot entrò nella stanza dello stregone e si abbandonò sul piccolo pouf accanto alle porte della cabina armadio. «E tu, invece?».
«Io che cosa?».
L’infermiera si sedette con delicatezza sul letto ed osservò il volto di Merlino, pallido ed inespressivo, fino a quando non allungò una mano per scostargli delle ciocche di capelli dalla fronte umida. Solo in quel momento si rese conto che c’era qualcosa di diverso.
«Si sono ingrigiti», mormorò avvicinandosi di colpo per osservare meglio la sfumatura di colore che avevano perso.
«Che cosa hai detto?», chiese Artù, le sopracciglia aggrottate.
«Niente, dev’essere una mia impressione. Che cosa volevi sapere?».
«Se tu ti senti bene: anche tu hai la faccia di chi ha passato una brutta serata».
Alex scrollò le spalle e si strinse le braccia al petto. «Sto bene».
«Sei una pessima bugiarda», le rispose con l’abbozzo di un sorriso sul volto, sorriso che si trasformò nell’accenno di una risata. «Ti ho trasmesso pure questo, a quanto pare».
L’infermiera non poté impedire ai ricordi della sera precedente, anche se frammentari e confusi, di invaderle la mente e farla sentire uno straccio. Chiuse gli occhi per cercare di cancellare l’immagine di Keith, il suo viso dispiaciuto mentre le confessava di aver fatto quello che aveva fatto per allontanarla da Merlino, ma fu ancora peggio. Li riaprì e fissò quelli di Artù, ancora posati su di lei.
«Non vedo perché dovrei essere onesta con te, quando voi non avete fatto altro che tenermi all’oscuro della verità», esclamò.
Il re di Camelot fece una smorfia ed evitò il suo sguardo. Nonostante sapesse benissimo a che cosa si riferisse, sussurrò: «Di che cosa stai parlando?».
«Di quello che ha detto Merlino all’ospedale: che il suo destino è quello di riportare la magia nel mondo per impedirne la distruzione. Perché non ne sapevo niente?».
«Perché tu devi stare fuori da tutto questo, ed è l’unica cosa su cui siamo entrambi d’accordo».
«Ecco, ci risiamo; lo state facendo di nuovo».
Artù si alzò in piedi di scatto e si avvicinò a lei con occhi fiammeggianti. «Vogliamo solo che tu sia al sicuro, perché non lo capisci?».
Anche Alex si alzò e lo fronteggiò senza paura, il viso a pochi centimetri dal suo. Parlò con determinazione e rabbia, sentendo il fuoco della magia scorrerle nelle vene, domabile a stento.
«Si tratta della mia vita, è un mio diritto poter fare le scelte che ritengo più giuste per me, e né tu né Merlino riuscirete a togliermelo».
Artù sostenne il suo sguardo così a lungo e con così tanta intensità che Alex credette che non ce l’avrebbe fatta, che l’avrebbe abbassato per prima, ma alla fine il biondo arretrò di un passo e si lasciò cadere nuovamente sul pouf alle sue spalle, una mano sulle labbra e il viso rivolto verso la finestra, verso il cielo coperto.
«È inutile scegliere», mormorò ad un tratto, a voce così bassa e con la bocca ancora coperta dalla mano che Alex faticò a distinguere le parole.
«Che cosa intendi dire?».
Artù scosse il capo come se non si fosse reso conto di aver parlato ad alta voce ed abbozzò un sorriso dolce. «Dimentica quello che ho detto. Saresti così gentile da preparare del tè?».
Alex aprì la bocca per rispondere che non era la sua cameriera personale, ma la richiuse quando si rese conto che comunque non avevano più nulla da dirsi. Si alzò sospirando lievemente ed uscì dalla stanza di Merlino.
Prima di chiudersi definitivamente la porta alle spalle però osservò di nascosto Artù mentre prendeva il suo posto accanto allo stregone e lo guardava con espressione talmente apprensiva che sentì una fitta al cuore. Ma fu ancora peggio quando lo sentì sussurrare: «Credi sia stato un caso che tu e mio figlio siate stati separati? Era destino. Separarvi era l’unico modo perché noi, oggi, potessimo avere al nostro fianco Alexandra. E sappiamo benissimo entrambi che alla fine non ci tireremo indietro: noi salveremo questo mondo, o almeno ci proveremo, perché non farlo sarebbe come abbandonare Alex. E né tu né io abbandoneremmo mai di nostra volontà qualcuno che amiamo, non è così?».
Artù si lasciò scappare una mezza risata e quando voltò il capo Alex si ritrasse, ma aveva fatto in tempo a vedere lo scintillio di una lacrima sulla sua guancia.

***

Merlino si svegliò urlando e traendo una lunghissima boccata d’ossigeno, come se fosse stato in apnea per tutto il tempo in cui era rimasto privo di conoscenza. E in effetti così era stato, almeno nella sua testa. Aveva sognato di essere ancora nella caverna di cristallo, col viso immerso nell’acqua gelida della falda, paralizzato da ciò che aveva visto sul fondale scuro rischiarato di tanto in tanto da qualche debole raggio di sole riflesso dalle pietre: Alex, con indosso lo stesso vestito che aveva regalato a Freya poco prima che venisse ferita a morte, e i lunghi capelli biondi che le ondeggiavano intorno al viso pallido.
Era assurdo quello che aveva visto, ma non riusciva a smettere di tremare di paura. Solo vedendo Alex sana e salva, il rossore sulle sue guance per aver fatto le scale di corsa, e sentendo la sua voce riuscì a calmarsi un poco.
«Ti senti male?», gli chiese preoccupata, mentre Artù la raggiungeva.
«No, era solo un incubo», mugugnò passandosi entrambe le mani sul viso. Quindi si ricordò di quello che era successo quella mattina all’ospedale e del vuoto che c’era dal momento in cui aveva usato la magia sul tecnico e sull’infermiere al suo risveglio nella propria camera da letto.
«Raccontatemi tutto quello che è successo da quando sono svenuto», ordinò, interrompendo Alex ancor prima che potesse porgergli qualsiasi altra domanda.
L’infermiera gli fece un breve riassunto su come erano riusciti a sgattaiolare via senza che nessuno li vedesse, anche se era stato a tratti un po’ complicato.
Gli raccontò di essere riuscita a recuperare tutti i vestiti e gli oggetti personali di Artù, ma non come (Alex aveva la sensazione che non sarebbe stato felice di sapere che aveva usato un pizzico della magia che aveva assorbito da lui).
Gli raccontò che era riuscita a prendere la sua auto e che era andata a recuperare lui e Artù senza che nessuno la notasse.
«Ah, il finestrino era già così quando sono salita in auto, quindi non te la prendere con me», aprì e chiuse parentesi, mordendosi il labbro per l’ansia.
«Sì, lo so», rispose Merlino con indifferenza, cosa che fece strabuzzare gli occhi sia ad Alex che ad Artù: entrambi sapevano quando fosse legato alla sua auto, eppure non aveva fatto una piega né sul fatto che l’avesse guidata Alex né, soprattutto, sul finestrino mancante.
Merlino li fissò con gli occhi leggermente sgranati e le sopracciglia inarcate, in attesa. «E poi?».
«Beh… ti abbiamo portato a casa e tu hai dormito per tre ore filate», concluse Artù per Alex, ora insospettita dal suo comportamento.
«E la tua auto?», chiese lo stregone indicando l’infermiera.
«La mia…? Oh, non sono arrivata con la mia auto stamattina, mi hanno accompagnata».
Merlino chiuse gli occhi ed annuì, dicendosi che avrebbe dovuto immaginarlo, poi si lasciò cadere ancora una volta sul letto, con la testa immersa nei cuscini: si sentiva a pezzi, non solo fisicamente ma anche mentalmente.
«Cathleen?», domandò a bassa voce, di nuovo privo di forze.
«Ho provato a scriverle, ma non ho ancora ricevuto risposta», disse Artù, demoralizzato.
Nonostante non ritenesse Cathleen all’altezza del suo re, Merlino si sentì come sempre in dovere di tirarlo su di morale: «Ha solo bisogno di un po’ di tempo. Si farà sentire, prima o poi».
«Lo spero».
Il mago riaprì gli occhi e si tirò sui gomiti, ricordandosi all’improvviso dell’insensata e folle risposta che gli aveva dato subito dopo la TAC.
«Che cosa intendevate dire esattamente con le parole: “Diventerò Iron Man”?».
Alex, interessata alla questione, si sedette sul fondo del letto senza staccargli gli occhi di dosso, senza perciò rendersi conto dello sguardo di Merlino, a tratti ancora terrorizzato da ciò che aveva sognato. Che poi, si era trattato solamente di un sogno, di uno scherzo della sua fantasia?
«Ieri sera con Cathleen ho visto il film e ho pensato che… sì, se non possiamo tirarmi fuori dal petto questo pezzo di spada perché rischiamo di fare danni peggiori, potremmo trovare il modo di controllarlo dall’esterno, come ha fatto l’uomo che ha salvato Tony Stark con quel coso che gli ha messo nel petto».
«Un elettromagnete», lo corresse Alex, arricciandosi subito dopo una ciocca di capelli tra le dita con espressione meditabonda. «Quindi una specie di calamita attira magia negativa, in grado di tenere il pezzo di spada lontano dal tuo cuore. Pensi si potrebbe fare?».
Merlino si rese conto che Alex stava parlando con lui solo quando Artù gli sventolò una mano di fronte al viso. Solo l’idea che il re di Camelot avesse avuto un’idea così geniale lo aveva sconvolto, immaginare un progetto così ambizioso lo aveva completamente mandato nel pallone.
Scosse il capo, troppo stanco anche solo per formulare un pensiero concreto: «Non lo so».
Artù annuì, dandogli una leggera pacca sulla spalla. «È meglio se ti riposi ancora un po’, uhm? Andiamo, Alex».
Ma l’infermiera non si mosse. Accarezzò con un dito la trama del piumone sul letto dello stregone e senza alzare gli occhi disse: «Ti dispiace se ti raggiungo tra cinque minuti? Ho bisogno di parlare con Merlino».
Il re di Camelot esitò, poi annuì ed uscì chiudendosi delicatamente la porta alle spalle.
Merlino gettò la testa all’indietro, sospirando con tono esasperato. «Non si potrebbe rimandare?».
«Non sai nemmeno quello che ti voglio dire».
«Sì che lo so. Vuoi dirmi che il fatto che tu e Keith foste lì insieme in quel pub non significa per forza che volevate riprovarci, che sono stato uno stupido a reagire in quel modo e che non credi a nessuna delle cose che ho detto riguardo a Myra. E fai bene, perché ho mentito: volevo che mi dimenticassi, che mi detestassi a tal punto da non volermi nemmeno più vedere. Questo era l’unico motivo per cui ho accettato di uscire con lei. Poi ho scoperto che il vero motivo per cui lei invece voleva uscire con me era cercare vendetta: era in combutta con Keith perché litigassimo e ci allontanassimo l’uno dall’altra, lo sai?».
Alex chiuse gli occhi ed annuì, umettandosi le labbra. Quando li riaprì, erano lucidi di lacrime.
«Me l’ha detto ieri sera», disse, schiarendosi la gola. «È stato lui ad insistere perché venissi trasferita al pronto soccorso».
Merlino si tirò su seduto di scatto e la stanza iniziò a girargli intorno, facendogli provare un vago senso di mal di mare.
«Ma non era questo che volevo dirti», aggiunse prima che il mago potesse replicare. Deglutì rumorosamente e fissando finalmente gli occhi nei suoi esclamò: «C’è una cosa che ho sempre voluto dirti, una cosa che non ho mai avuto il coraggio di dirti. Mi crederesti, se ti dicessi che l’ho pensata anche quella notte di Capodanno, quando ti sei presentato alla festa dell’ospedale al posto di tuo –?», si morsicò un sorriso. «Quando ti sei presentato con un altro aspetto e un altro nome?».
Merlino inspirò silenziosamente dal naso, sentendo il cuore appesantirsi di varie tonnellate e allo stesso tempo fluttuare libero nel suo corpo, pulsando ovunque e sempre più velocemente.
«Io ti amo, Merlino. Ti amo come non ho mai amato nessuno e qualsiasi cosa tu faccia, qualsiasi dolore tu possa farmi patire… non potrà mai sovrastare l’amore che provo per te. E se pensi che tra noi non possa funzionare, che è semplicemente sbagliato… è okay, non posso costringerti a pensare il contrario. Però dovevo dirtelo».
Si alzò dal letto con un tenue sorriso sulle labbra, intriso di amarezza, e senza aggiungere altro lo lasciò solo. Merlino raggiunse la porta troppo tardi, quando se l’era giù chiusa alle spalle. Scivolò con la schiena lungo il legno chiaro e si sedette per terra, col mento abbandonato contro lo sterno.
Cosa sarebbe successo se le avesse detto che anche lui aveva pensato la stessa cosa quando i loro sguardi si erano incrociati, nonostante fossero ai lati opposti della grande sala e divisi dalla gente che si era già arrischiata a calcare la pista da ballo? E che cosa sarebbe successo se le avesse detto che l’aveva saputo ancora prima, inconsciamente, e che per lei, per non farle fare una brutta figura a quella festa di Capodanno, si era tolto la vita?

Alzò gli occhi sullo specchio ancora una volta, si accarezzò la lunga barba bianca e le rughe che gli contornavano gli occhi, poi guardò la bottiglietta che aveva lasciato sul ripiano del lavandino e sospirò togliendone il tappo con le dita tremanti.
«Ad Alexandra Greenwood», mormorò in un brindisi col suo stesso riflesso ed inghiottì tutto in una volta il potente veleno.

Quando si risvegliò, steso nella vasca da bagno vuota, la prima cosa che fece fu quella di vomitare sul pavimento ciò che rimaneva della dose di veleno che non era servita ad ucciderlo e gli era rimasta in circolo.
Poi guardò l’ora sull’orologio che portava al polso. Mancava un’ora a mezzanotte. Era in ritardo.
Uscì dalla vasca facendo attenzione a non scivolare e prima di sciacquarsi la bocca si osservò allo specchio, chiedendosi per la centesima volta come mai ogni volta che moriva il suo aspetto tornava quello del giovane uomo che aveva sacrificato la propria vita per proteggere la sua regina.  
Ad ogni modo, ciò che vedeva nello specchio era proprio quello che aveva desiderato. Perché Alexandra Greenwood aveva bisogno di un cavaliere della sua età, non di un vecchio decrepito.

La festa di Capodanno era stata organizzata come al solito nella grande sala comune del reparto di oncologia, per il personale di turno ma anche per i pazienti che erano in condizione di poter festeggiare. I più piccoli erano stati messi a letto da un pezzo, ma Merlino era certo che avrebbero trovato il modo di celebrare l’arrivo del nuovo anno come tutti gli altri.
Godette appieno delle sue articolazioni ora più scattanti e dei suoi polmoni meno affaticati dagli anni, ma si pentì di non aver preso l’ascensore non appena raggiunse il quarto piano. O forse il suo cuore stava per scoppiare per un altro motivo?
Respirò profondamente per farsi coraggio e spinse avanti una delle porte della sala comune, rimanendo affascinato da come avevano letteralmente trasformato quell’ambiente solitamente a misura di bambino in una grande pista da ballo con tanto di angolo bar e postazione per il DJ. Il volume e i drink serviti non erano certo da far girare la testa, erano pur sempre in un ospedale, ma quell’anno avevano fatto davvero un lavoro fantastico!
Sotto le luci colorate e i riflessi di una piccola palla stroboscopica cercò Alex tra le persone che si erano già buttate in pista. Non trovandola, si avvicinò al tavolo con le bibite e gli stuzzichini e si versò un bicchiere di punch. Lo bevve tutto d’un fiato continuando a passare da un viso all’altro nel disperato tentativo di trovare il suo, scorgendo solamente un nonnino addormentato sulla sua sedia a rotelle e una ragazza dai capelli rosso fuoco – un paramedico, vista l’uniforme che indossava – sgattaiolare verso l’uscita di servizio seguita da un chirurgo che non aveva alcuna intenzione di lasciarle andare il sedere, col rischio di farli cadere entrambi faccia a terra.
Aveva incominciato a pensare che forse se n’era andata, che si era stancata di aspettarlo e aveva preferito tornare a casa da sua madre, quando si aprì una specie di varco nella pista da ballo e la vide proprio di fronte a lui, dall’altra parte della sala.
Stava parlando con un ragazzo della sua età, un dottore che conosceva solo di vista e di fama – suo padre faceva parte del Consiglio d’Amministrazione dell’ospedale – ma Merlino non si diede per vinto ed iniziò a camminare con passo deciso verso di lei.
Era bellissima, una delle ragazze più belle che avesse mai visto in tutta la sua vita, regine incluse: i capelli acconciati in morbidi boccoli d’oro che le accarezzavano le spalle nude, la vita sottile e le gambe longilinee accarezzate morbidamente dal vestito rosso cremisi che gli ricordava tanto il colore del mantello dei Cavalieri di Camelot, e un paio di occhi verdi, luminosi e determinati, splendidi.
Con un brivido che gli percorse tutta la spina dorsale ebbe la sensazione di essere stato riconosciuto: Alex, nonostante non l’avesse mai visto prima e non sapesse chi fosse, stava ricambiando il suo sguardo con intensità, dimentica di quel ragazzo che le stava raccontando qualcosa di divertente.
Il tempo si fermò mentre si andavano incontro, guardinghi ed impazienti, preoccupati e frementi, due calamite impossibili da tenere lontane.
«Tu sei Alexandra Greenwood», esclamò sorridendole dolcemente quando furono l’uno di fronte all’altra.
«Alex va benissimo. E tu conosci Dragoon, non è così?».
Merlino annuì, colpito dalla sua perspicacia. «È mio nonno. Mi ha detto di dirti che sarebbe stato sconveniente farti vedere con lui».
«Perciò ha mandato il suo giovane ed affascinante nipote?».
Alex arrossì non appena finì di porre quella domanda e lo guardò quasi terrorizzata, ma tutto si risolse con una risata che li coinvolse entrambi.
«È da lui, no?».
L’infermiera annuì con un cenno del capo, ma il suo sorriso svanì di colpo. «Lui sta bene? Ti prego, dimmi che sta bene».
Merlino aprì la bocca per mentirle o per dirle la verità, ancora non era sicuro delle parole che ne sarebbero uscite, ma fu interrotto dal conto alla rovescia. Guardò Alex negli occhi durante tutti e dieci i secondi che dividevano il Duemilanove dal Duemiladieci – i dieci secondi più belli di quella sua nuova vita. In quei dieci secondi, capì che si era innamorato di lei e capì che avrebbe sempre tenuto un occhio su di lei.
«Buon anno!», gridarono le persone accanto a loro e Merlino le scostò delicatamente una ciocca di capelli biondi dal viso, soffermandosi poi con le dita sulla sua guancia.
«Ora capisco perché ti voleva tanto bene», le sussurrò e lasciò che Alex si appoggiasse a lui, nascondendo il viso oltre la sua spalla per non mostrargli la lacrima che le era rotolata fino alle labbra, mentre tutto il resto del mondo festeggiava e roteava vorticosamente.

***

«Ehi, dove stai andando?».
Alex tirò su col naso e senza voltarsi verso Artù, seduto al tavolo della cucina con una tazza di tè tra le mani, mugugnò: «A casa, ho bisogno di una dormita».
«E ci vai a piedi? Ci metterai un’eternità!».
«Tranquillo, non ho impegni».
Artù la raggiunse prima che finisse di infilarsi il cappotto e la costrinse a voltarsi afferrandole un braccio. L’infermiera provò a divincolarsi e a tenere il viso rivolto verso il basso perché non notasse i suoi occhi lucidi e pieni di dolore, ma il re di Camelot sapeva essere insistente.
«Hai litigato con Merlino? Vuoi che gli dia una botta in testa? Farò tutto quello che vorrai».
Alex riuscì ad abbozzare un sorriso e gli accarezzò una mano, per poi scostarla dal suo braccio e dirigersi verso la porta.
«Voglio stare un po’ da sola, tutto qui. Ci sentiamo più tardi».
L’espressione impotente sul viso di Artù le fece tanta tenerezza, ma non ritornò sui suoi passi. Si lasciò la strana villa di Merlino alle spalle e pian piano la sua camminata svelta si trasformò in una corsa sfrenata, accompagnata dalle lacrime e dal cuore che le batteva furiosamente nella cassa toracica.
Ma la corsa non bastò: non alleviò il peso che le schiacciava il petto, non spense il fuoco che le bruciava nelle vene, non lenì le ferite che sentiva sanguinare in modo sempre più copioso.
Senza neanche rendersene conto aveva raggiunto il lago, lì dove tutto era  iniziato, lì dove si era trovata costretta a prendere una scelta che a quanto pareva aveva segnato non solo il suo destino, ma anche quello di Merlino e di Artù.
Una folle idea le attraversò la mente e Alex la cavalcò senza pensarci su due volte: nascosta dal folto del bosco, si spogliò e rimasta in intimo si tuffò nell’acqua gelida di Avalon.
Il sale delle lacrime che le irritava la pelle scivolò via e con esso tutti i suoi pensieri, ma non quella rabbia cieca e folle contro il mondo. Galleggiando a pancia in su, Alex urlò contro il cielo e qualcosa dentro di lei si strappò: il muro era crollato. L’acqua assorbì tutta la potenza della magia e vibrò come se si trattasse di un terremoto, creando intorno a lei cerchi che si ripeterono per una dozzina di secondi. Poi un punto del fondale, a una ventina di metri più a largo, iniziò a brillare.
Alex nuotò, sentendosi attratta in maniera irresistibile da quella luce dorata, e quando fu proprio sopra il bagliore si immerse. Nonostante il freddo le stesse mordendo ogni centimetro di pelle, ciò che vide tra le alghe e alcuni lunghi rami le fece dimenticare persino di aver bisogno di ossigeno: una spada dall’elsa e dalle incisioni dorate, una spada che non poteva che essere la spada. Excalibur.
   
 
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