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Autore: altman    11/02/2017    5 recensioni
FF che si colloca temporalmente prima di "La Mandragola".
Dal testo:
- Dopo tanti anni, sei ancora così bella.-, le aveva scandito, languido, sussurrandole all’ orecchio.
In quale inferno l’ avrebbe scagliata, se gli avesse permesso di prenderla tra le sue braccia?
Ormai seduto, le avvolse i fianchi con un braccio per tirarla a sé, schiacciandole il seno col proprio petto quando si sporse per posare le labbra sottili sulla nuca di lei.
Era sempre stata sensibile lì: il dannato se lo ricordava.
- Lasciati andare, Tsunade. Questa volta sarò qui per sorreggerti.- Lo odiava, quando parlava in modo così credibile… talmente tanto che la sua sembrava una promessa, l’ ennesima, ma la prima dopo tanti anni.
Quanto altro dolore vi avrebbe istillato, se gli avesse di nuovo aperto il proprio cuore?
- Piangi tutte le lacrime che hai trattenuto finora. Adesso puoi farlo.-
Le labbra dell’ uomo si posarono, lenitive e delicate come farfalle, sugli zigomi e poi sull’ angolo della bocca, corsero a sigillare le palpebre chiuse e tremanti.
Quanto tempo le restava, prima di innamorarsi di lui una seconda, una terza, una centesima volta?
Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Orochimaru, Tsunade
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Dopo la serie
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L' opera al Nero




Bianco.

Come il niente dell’assenza di ogni colore.

Bianco.

Come i capelli di Jiraya, lunghi e folti e ispidi, che lo stupido eremita faceva roteare nell’aria prima di passare all’attacco.

Bianco.

Come il viso di suo fratello quando la morte lo aveva accolto tra le sue braccia, proteggendolo dal dolore che la vita infligge a chi resta.

Bianco.

Come il mazzo di rose che Dan le aveva consegnato tra le mani tremanti, mentre le si dichiarava, promettendole con una strizzata d’occhio che un giorno si sarebbe presentato con un anello al posto dei fiori. Ma, come tutti sanno, gli uomini non sono di parola, e lui non aveva fatto eccezione: non aveva mantenuto la sua promessa, e non l’aveva sposata. Perché era morto prima di poterlo fare.

Bianco.

Come la distesa di anonime tombe di marmo freddo e liscio, su cui le gocce di pioggia scendevano mute come il dolore.

Negli anni Tsunade aveva imparato ad associare a quel non colore una desolata ed asettica disperazione, vi aveva legato il senso di oppressione schiacciante che sentiva premerle sulla cassa toracica, durante le notti in cui gli incubi tornavano a bussare alle porte del sonno. Da bambina il bianco era stato il manto candido su cui rotolarsi con gli amici per fare angeli sulla neve, il latte caldo la mattina, le braccia morbide di sua madre, il vestito estivo di lino indossato per far colpo sui ragazzi. Ormai, invece, era solo la paura che ti assale prima di cadere in un precipizio, nel momento esatto in cui ti accorgi che sotto di te non c’è altro che vuoto.

-Tsunade, Tsunade. Non imparerai mai che agli appuntamenti importanti è meglio non tardare.-

Un fremito le contrasse le dita, non appena udì la voce roca che il vento le aveva portato da dietro le spalle.

Si girò di scatto, accendendo gli occhi dello sguardo più furioso che riuscì a sfoderare.

-Quello con te non era un appuntamento importante. Non per me, almeno.-

Orochimaru avanzò fino a raggiungerla, silenzioso come suo solito: sembrava scivolasse sul terreno umido. Piegò le labbra in un sorriso sardonico, quando spostò lo sguardo sui caratteri neri e piatti incisi sulla lapide davanti a loro.

-Non ero mai stato prima di oggi alla tomba di Jiraya. Ma deduco che per te, invece, sia una frequentazione assidua.-

La donna si morse il labbro e strinse il pugno, conficcando le unghie nel palmo, cercando di controllarsi per non dare a quel bastardo sadico la soddisfazione che cercava.

-Vattene.- disse solo, invece di sputare tutti gli insulti e il risentimento che neanche la fine della guerra era riuscita a portarsi via.

-Non senza di te.-

Tsunade alzò meravigliata gli occhi, dorati e sgranati, su di lui; fu solo un attimo: quello che le occorse per capire che non c’era affetto nelle parole del vecchio compagno di squadra, ma solo un egoistico e sterile bisogno. E infatti…

-Ti aspettavo in ospedale e, vedendo che tardavi, ho pensato a dove potessi essere: qual è il posto in cui si recherebbe una donna sentimentale e morsa dai rimpianti, che ha votato i migliori anni della propria vita al lutto e all’alcolismo? Ed eccoti qui, dal buon vecchio Jiraya, dopo essere passata a fare una tappa dal maestro Sarutobi. Sei prevedibile, Tsunade, e ridicolmente melensa per aver ricoperto la carica di Hokage. Debole come tutti quelli che ti hanno preceduta. Lascia stare i morti, non tornano mai.- la schernì lui, per poi ripensarci e concludere con un sogghigno: -Beh, quasi mai.-

-Ti senti meglio, dopo avermi sputato addosso il tuo veleno?- gli chiese rigida Tsunade, non avendo neanche la premura di guardarlo in faccia.

-Se ti aspetti che io perda la calma e ti attacchi per farti divertire, Orochimaru, stai sprecando il tuo tempo così prezioso e non più illimitato.- aggiunse, con un sorriso amaro, -Non so quale diletto trovi nel deridere chi piange i propri cari, e non mi interessa. Non sono più la ragazzina che urlava e ti picchiava per farti notare i tuoi sbagli. Non è più un mio problema, e al massimo sarà l’inferno a presentarti il conto dei tuoi errori. Non io.-

-Sei cresciuta.- osservò piatto lui, tentando di intercettare con le sue iridi innaturalmente gialle quelle della donna, che gli sfuggivano imperterrite. Le avrebbe trovate adesso umide di lacrime, a smentire le parole sprezzanti?

-Sono invecchiata.-

-Ma non si vede.- sussurrò quello che, nel bene e nel male, continuava a essere uno degli uomini più importanti della sua vita.

-Mi era sembrato di capire che avessi fretta di sfruttare le mie abilità. Andiamo.-

Tsunade adagiò l’ennesimo mazzo profumato che aveva portato perché quella lastra di pietra non restasse mai sguarnita, arricciando il naso nel constatare che, come ogni volta, altri fiori erano già lì, pronti a far compagnia a quelli che portava lei: dei manjushage bellissimi, fulgidi nel loro color vermiglio intenso. Ironico, che qualcuno si ostinasse a portarli a Jiraya, ignorando che erano i fiori che lui detestava di più: quando era in vita gli provocavano una terribile allergia, e Tsunade ricordava benissimo gli impacchi che era stata costretta a preparargli ogni autunno, nel periodo della loro fioritura, per evitare che l’amico venisse messo al tappeto dall’asma.

Spaccata tra una lacrima e un sorriso, la donna non aggiunse altro e si incamminò verso l’uscita del cimitero, non girandosi neanche una volta per accertarsi di essere seguita.

*

-Spogliati.-

-Sei davvero spudorata.-

Le code bionde di Tsunade fendettero l’aria quando si voltò per fulminarlo, le labbra strette in una linea livida.

-Non ho tempo da perdere!- sputò tra i denti, costretta a trasformare l’urlo che le era nato in gola in un bisbiglio strozzato, per non disturbare i pazienti che riposavano nelle altre stanze dell’ospedale, -Sono un ninja medico di Konoha, e sfortunatamente tu sei tornato a infestare questo villaggio con la tua presenza, imponendomi il dovere morale di curarti. È l’unico motivo per cui non ti lascio ad agonizzare nel corpo abominevole in cui ti sei condannato a vivere. Ma se hai intenzione di continuare a fare il simpatico, per me puoi anche contorcerti sul pavimento.-

-Abominevole, addirittura. Così mi offendi.- rise Orochimaru, tutt’altro che turbato dall’ostilità che si respirava nello studio medico.

Tsunade cercò di non osservarlo, mentre con deliberata lentezza il suo odioso paziente si sfilava il kimono e la maglia, scoprendo la pelle liscia e mortalmente pallida. Orochimaru aveva sempre compensato la magrezza con una muscolatura tonica e flessuosa, armoniosa, di una virilità elegante e discreta. Le lampade al neon colpivano il petto glabro, e si riflettevano metalliche sulla fibbia della cintura sottile che portava sopra ai pantaloni neri di stoffa morbida e lussuosa.

-Stenditi sul lettino.- gli ordinò, turbata dal nervosismo che la colpiva quando era costretta a stare nella stessa stanza con lui. Era ragionevole pensare che fosse colpa della rabbia cieca che le pugnalava il cuore ogni volta che lo vedeva, ogni volta che lo pensava: non era riuscita a farsi bastare una redenzione dell’ultima ora, dovuta a un viaggio mistico nella mente delirante di Kabuto Yakushi, per perdonargli il male che aveva fatto, i danni che aveva causato, i propositi di morte e distruzione che aveva perseguito. Per scusargli, ancor prima di tutto questo, la sua assenza devastante, che aveva scavato un altro cratere nel petto di Tsunade.

Ma, per quanto quell’odio fosse giusto e ragionato, non spiegava il motivo per il quale adesso non riusciva a staccare gli occhi da quelli dell’uomo, che la scrutava, con la fissità con cui si punta la propria preda, mentre docile si sdraiava sul lettino delle visite.

-Ecco, sono a tua disposizione. Tocca il mio abominevole corpo come più ti aggrada.-

Gli avrebbe cancellato quel ghigno indecente dalla bocca a suon di pugni, se solo non avesse significato ammettere quanto potere avesse su di lei.

-Se dovessi agire in base ai miei desideri, non ti sfiorerei neanche con un’unghia. Ma le regole qui non le faccio io, le fa l’etica professionale.-

Senza tanti complimenti Tsunade aveva afferrato una siringa dall’ago lungo e spesso e gli aveva trapassato il braccio con gusto perverso.

Per poi digrignare i denti, nel ricevere in risposta una risata ancora più arrogante delle precedenti. Orochimaru sembrava spassarsela un mondo.

-Tsunade, pensi di impressionarmi con un prelievo poco delicato? Non immagini nemmeno che dolori io abbia sopportato in questi lunghi anni.-

-Accogliamo il nostro eroe.- sbottò sarcastica, irritata al pensiero dello scempio che quello stupido aveva fatto del proprio corpo per rincorrere la chimera dell’immortalità. Esperimenti, trapianti, kinjutsu. Il medico che era in lei si ribellava a quell’affronto all’integrità fisica. Fermo restando, ovviamente, che di lui e della sua pellaccia di serpente non le importava assolutamente niente, e che se avesse fatto a tutti la grazia di andare al creatore lei avrebbe offerto da bere all’intero villaggio per festeggiare.

Gli prese il braccio che non era attaccato alla canula della flebo per sentirgli il polso e contare i battiti, scoprendo con piacere che la tachicardia, che non l’aveva mai abbandonato durante tutto il trattamento, si stava affievolendo: le pulsazioni, regolari e continue, erano ormai quelle di un normale essere umano, anche se lievemente accelerate.

Con occhio clinico valutò il colorito dell’uomo e le occhiaie, le iridi allungate, le pupille dilatate a causa dei sedativi che aveva assunto per la terapia.

Portò le dita a tastargli il collo, partendo dalla nuca e soffermandosi alla base, dove si congiungeva alle clavicole; insistette in alcuni punti per valutare che le articolazioni e le giunture fossero stabili. Rabbrividì, ricordandosi della prima volta che aveva visto Orochimaru estendere quella parte del proprio corpo. E tuttavia non era mai riuscita a vederlo davvero come un mostro.

-Sembra che siamo riusciti a bloccare i tuoi disgustosi allungamenti. La cartilagine è compatta, la muscolatura è fibrosa abbastanza da non elasticizzarsi più in quel modo. E dalle ultime analisi risulta che anche lo scheletro abbia riacquistato una struttura e una calcificazione regolari. Bentornato nel mondo dei mammiferi.-

Lui annuì, studiandosi con una punta di curiosità. Il volto serio non tradiva nessuna espressione, e Tsunade non riusciva a capire se fosse mosso dal compiacimento o dal rimpianto. Non era mai riuscita a capire niente, di lui, e lo aveva realizzato a pieno solo quando si era presentato, mesi prima, nel suo studio.

Shizune era entrata trafelata nello studio di Tsunade, ansimante e piuttosto pallida, scontrandosi con l’occhiata perplessa che la maestra le aveva rivolto per quell’intrusione improvvisa.

-Tsunade-sama, avete visite.- aveva esalato la mora con un soffio.

-Le visite possono aspettare. Sono a un passo dal…-

-No, Tsunade-sama, qua fuori…-

-Shizune! Non mi interessa chi vuole vedermi! Adesso sono occupata, di’ a questo scocciatore che non ha nessuna esclusiva sul mio tempo, e che può prendere appuntamento come fanno tutti i miei pazienti.- Perentoria, burbera, irremovibile Tsunade.

-Sei sempre la solita maleducata.- l’aveva raggiunta una voce gutturale, sibilata tra i denti, sprezzante come la ricordava nei suoi incubi peggiori -e nei suoi sogni più belli e inopportuni-.

Allibita, non aveva prestato attenzione alle proteste di Shizune e ai suoi tentativi di far tornare nell’atrio Orochimaru; lui che, anche quando veniva relegato in sala d’attesa, di attendere non ne voleva proprio sapere; che doveva aver ritenuto più che magnanimo, da parte sua, avere la premura di lasciarsi almeno annunciare.

-Fuori dal mio studio!- aveva urlato Tsunade, ripresasi dopo essere trasalita alla vista dell’uomo. Non riuscendo a scacciare la serie di spiacevoli immagini che le tornavano alla mente, a fare a meno di contare quante fossero state le volte in cui lui aveva cercato di ferirla… di ucciderla.

-Che accoglienza fredda…- aveva commentato l’uomo distrattamente, incedendo lento verso la grande scrivania di mogano e lasciandosi cadere, graziosamente, su una sedia libera, - Non puoi ignorare così uno shinobi di Konoha che ha bisogno del tuo aiuto, Quinto.-

-Non sei più uno shinobi di Konoha.- aveva replicato la donna dura -Non so che motivo ti spinga a restare al villaggio, e non posso cacciarti dopo l’amnistia che io e gli Anziani abbiamo deliberato a favore di chi ha dato un suo contributo alla guerra. Ma per me resterai sempre un pentito, non un redento, e di certo non un mio compagno.-

-Anche se ti ho salvato la vita? Mi ringraziasti, allora.- Orochimaru si era alzato, aveva iniziato a passeggiare per la stanza con la disinvoltura che solo lui avrebbe potuto sfoggiare in un momento simile, soffermandosi inespressivo sulle foto, sui disegni, sulle onorificenze che adornavano le pareti, su quei frammenti di vita di cui non era stato spettatore.

Tsunade aveva stretto le labbra, amareggiata dal ricordo di quella piccola umiliazione che custodiva nel cuore: esanime, immersa nel limbo dello stato di incoscienza in cui era sprofondata dopo la lotta con Madara, si era sentita richiamare alla vita e, dopo minuti di lotta, aveva riaperto gli occhi per trovarsi riparata da braccia forti, prepotenti anche nella loro delicatezza, per essere stordita dall’odore familiare della sua pelle. Gli aveva poggiato la testa sulla spalla, annebbiata. Lo aveva ringraziato per essere infine tornato da lei, per averle fatto credere, per un solo istante, che tutto quello che era successo tra di loro negli anni potesse scomparire e basta.

In quel momento, lucida e vigile, nuovamente in sé, era stata invece del parere che colpa, dolore e morte fossero le uniche cose eterne che all’uomo era dato di conoscere.

Si era alzata di scatto, avanzando verso di lui con ampie falcate scandite dal ticchettio dei tacchi a spillo sul pavimento, lo aveva afferrato per il collo della maglia e se lo era portato a un soffio dal viso, allungandosi sulle punte per poterlo guardare negli occhi.

-Non siamo più bambini, e non mi presto più ai tuoi giochetti. Mi hai salvato la vita, tante grazie. Io l’ho salvata a te risparmiandoti l’esecuzione capitale che ben meriteresti. Adesso, esci di qui. Sono sicura che nessun tuo desiderio potrebbe trovare la mia approvazione.- Caustica, pragmatica, prevenuta Tsunade.

-Non puoi saperlo prima di ascoltare quello che ho da dirti.- Si era leccato le labbra, e allora lei aveva semplicemente ripreso in mano il plico di fogli di poco prima, considerando chiusa la questione e stabilendo che il Sannin non meritava altra considerazione da parte sua.

-Shizune, fa’ in modo che se ne vada, e possibilmente per sempre. Interverrei io, ma mi rincrescerebbe sporcare di sangue l’uffic…-

-Voglio che il mio corpo torni ad essere quello di un comune essere umano.- la aveva interrotta lui, con la tranquillità di chi sta proponendo una gita domenicale.

L’unico rumore percepibile nella stanza era stato, per un intero minuto, il respiro brusco preso da Tsunade e trattenuto a lungo prima di essere rilasciato.

-Shizune, lasciaci soli.-

La donna aveva obbedito alla maestra, rivolgendole un ultimo sguardo di apprensione, ma intuendo che quel discorso era ancora più intimo di quanto già non sembrasse. Aveva accostato con discrezione la porta e se ne era andata, segretamente sollevata di tornare a respirare liberamente, fuori da quella stanza la cui l’aria si era fatta pesante di sottintesi, di cose mai dette, di promesse conosciute solo dalla notte a cui erano state sussurrate.

-Non ho più intenzione di cambiare involucro, preferisco che questo diventi il mio corpo definitivo. Ma perché sia possibile ho bisogno di te. Mi aiuterai, Tsunade?-

-Perché?- aveva soffiato lei, lottando contro alla contrazione allo stomaco che l’aveva colta dopo aver sentito quelle parole, che grondavano pericolosamente di una speranza da lei riposta molti anni or sono in un cassetto.

-Mi chiedi il perché di questa decisione…- sospirò Orochimaru, flemmatico, appendendola di proposito all’attesa di una risposta bramata e temuta, -…tu cosa faresti, se avessi annullato te stessa al fine di perseguire un unico obiettivo, fossi stata sconfitta dai tuoi stessi ideali e, da osservatrice tagliata fuori dal mondo, avessi capito che niente di tutto quello era ciò che desideravi? Cosa faresti, Tsunade?-

Tsunade si riscosse dai propri pensieri quando le iridi gialle di Orochimaru entrarono prepotentemente nel proprio campo visivo: il Sannin si era puntellato su di un gomito e si stava sporgendo col busto verso di lei. Le catturò il viso in una carezza, e alla donna occorse un secondo di troppo per allontanare quella mano bianca con un gesto brusco. Un secondo che fu sufficiente per dare all’uomo un pretesto per sorridere irriverente.

-Il tuo corpo è più lento della tua mente nel decidere la strategia da usare contro di me, Tsunade-hime. Ti tradisce nei suoi ritardi.- Velenoso, come la serpe che era. Ammaliante nei suoi colori insoliti. Forte nella presenza che le imponeva: non distanziandosi da lei, facendola tremare dentro con quella dolcezza di fiele che colava dai suoi occhi ingannatori.

-Insinuazioni, giri di parole… non hai niente di più concreto da offrire, come uomo? - lo provocò, serrando la mandibola in una linea dura. Lo respinse con foga sul lettino, premendogli una mano sul petto per impedirgli di alzare nuovamente la schiena, infondendo il chakra nei palmi delle mani e continuando imperterrita quella visita settimanale che, ogni volta, sembrava divenire più interminabile della precedente.

Si chiese nervosa se fosse solo una sua sensazione, quella di avere le mani sudate.

Lo shinobi, placido, continuava a esibirsi nel suo sorriso obliquo da manuale e a tenere un sopracciglio inarcato, concentratissimo nella deliziosa arte di metterla a disagio pur stando muto e immobile. Sarebbe risultato altrettanto carismatico, se gli avesse spaccato l’arcata sopracciliare con un pugno? Tsunade avrebbe tanto voluto scoprirlo.

“Paziente, è un paziente. Non si fa del male ai pazienti”, si ripeteva come un mantra, inserendo sporadiche riflessioni del tenore di “dopo tanti anni, è ancora così ingestibile”.

-Allora? Ti piace ciò che vedi?- chiese l’uomo, girandosi docile su un fianco come la spinta delle mani di Tsunade gli suggeriva.

-No!- sbraitò lei -Guardandoti, provo più nausea di quando mi risveglio dopo una sbronza colossale. Ora stai zitto e lasciami lavorare in pace.-

-Nausea? Pensavo fossi eccitata.-

-NON SONO ECCITATA DA TE!-

Se ne era accorto, della vaga vena isterica impressa nel suo timbro?

Orochimaru rise, in uno scroscio argentino di subdolo divertimento.

-Oh, no, non intendevo sessualmente eccitata.- come riusciva a marcare in modo così osceno tutte quelle “s”? -Mi riferivo all’ottimo esito della cura. Per te deve rappresentare un grande risultato scientifico, e ormai di questo successo ne sono visibili i segni. Sul mio corpo.-

Tsunade deglutì, borbottando poi qualcosa sul fatto che effettivamente non sarebbe -ahimè- crepato e che avrebbe avuto l’aspettativa di vita di una persona normale.

-Chissà perché hai frainteso in questo modo.- si interrogò lui in tono leggero -Tsunade, mi fa male qui.-

Le afferrò una mano -lottava, Tsunade, con la bramosia di quel contatto così sbagliato, che si ostinava a non cedere il posto alla repulsione-, portandosela sull’anca scoperta, in corrispondenza della striscia di pelle sopra alla cintura.

-Non c’è motivo per cui ti dolga il fianco.- osservò la donna, scettica, tuttavia non tirandosi indietro e cominciando a massaggiare quell’area, con i piccoli movimenti circolari dei polpastrelli che emanavano il tenue bagliore azzurro del chakra.

-Nella vita sono tante le cose per cui non c’è un motivo. Ma tu continua.-

Orochimaru si era abbandonato sullo schienale, con gli occhi chiusi. La testa reclinata all’indietro lasciava esposta la cute tenera della gola, e il petto si gonfiava in respiri lenti e regolari.

Senza accorgersene, Tsunade aveva spostato il suo massaggio sugli addominali, risalendo poi ai fianchi, aprendo le mani in prossimità del busto, percorrendo la curva delle spalle, insistendo sul rilievo della clavicola delicata, aprendo infine un palmo sul pettorale sinistro. Odiandosi, quando si ritrovò a reprimere il moto di commozione che la lambiva, adesso che lo poteva toccare, adesso che lui era vivo, che era umano, che erano insieme. Tremando, quando incrociò lo sguardo impenetrabile dell’uomo, riconoscendo il guizzo vivo d’intelligenza e profonda comprensione che l’aveva sempre stregata, quello di cui aveva tanto sentito la mancanza quando si era spento. Pregando, lei che non sapeva più pregare, quando le dita lunghe e affusolate di Orochimaru si incrociarono alle proprie, portandole e premendole sul petto di lui, dove il battito cardiaco era più percepibile.

-Senti: ho ancora un cuore che batte.-

Dove avrebbe condotto, quell'ironia canzonatoria?

-Hai la bocca spalancata, Tsunade.- sbuffò Orochimaru divertito, solleticandole il collo col suo respiro, racchiudendole il mento tra le dita per chiuderle la bocca che lei non si era neanche accorta di aver aperto. Una remota parte della propria mente vagò fino al ricordo sbiadito di una conversazione che avevano avuto da bambini: “I serpenti mi piacciono perché non sono forti, ma vincono sempre: immobilizzano la preda col loro veleno, e non importa quanto questa sia grande o feroce. Non sarà più capace di muoversi, sarà in completa balia del serpente, che potrà farne ciò che desidera." le aveva detto quando lei gli aveva chiesto, perplessa, in una delle tante ricreazioni dell’Accademia, perché i rettili gli piacessero così tanto da restare ogni volta da solo ad osservarli.

“Tu sei come un serpente” gli aveva risposto allora, assorta, ricevendo in cambio un sorriso di gratificazione da parte del bambino che Orochimaru era stato; poi era arrossita ed era fuggita di gran carriera, verso uno dei suoi goffi spasimanti che la chiamava a gran voce.

E lei adesso era così, immobile, mentre osservava quel viso elegante che si avvicinava sempre di più.

-Dopo tanti anni, sei ancora così bella.- le aveva scandito, languido, sussurrandole all’orecchio.

In quale inferno l’avrebbe scagliata, se gli avesse permesso di prenderla tra le sue braccia?

Ormai seduto, le avvolse i fianchi con un braccio per tirarla a sé, schiacciandole il seno col proprio petto quando si sporse per posare le labbra sottili sulla nuca di lei. Era sempre stata sensibile lì: il dannato se lo ricordava.

-Lasciati andare, Tsunade. Questa volta sarò qui per sorreggerti.- Lo odiava, quando parlava in modo così credibile… talmente tanto che la sua sembrava una promessa; l’ennesima, ma la prima dopo tanti anni.

Quanto altro dolore vi avrebbe istillato, se gli avesse di nuovo aperto il proprio cuore?

-Piangi tutte le lacrime che hai trattenuto finora. Adesso puoi farlo.-

Le labbra dell’uomo si posarono, lenitive e delicate come farfalle, sugli zigomi e poi sull’angolo della bocca; corsero a sigillare le palpebre chiuse e tremanti.

Quanto tempo le restava, prima di innamorarsi di lui una seconda, una terza, una centesima volta?

Tsunade non provò neanche a trattenere la propria forza quando lo colpì: la mano che si era alzata in aria, per schiaffeggiarlo, si era chiusa invece in un pugno che, calibrato e violento, lo aveva colpito sullo stomaco, costringendolo a piegarsi in due. Approfittando di quell’attimo di smarrimento, Tsunade lo tirò per le spalle facendolo alzare dal lettino, concentrando tutto il chakra nei palmi delle mani e spingendolo al muro, che si crepò per l’impatto. Fu felice del fatto che lui avesse chinato la testa, immensamente grata di non doverlo guardare in faccia mentre si lanciava verso di lui col braccio teso in un altro colpo.

Orochimaru non sollevò lo sguardo neanche quando la intercettò e la bloccò, circondandole il polso con le dita.

Tsunade provò a colpirlo con l’arto libero, e si dimenò quando venne intrappolata in un’altra stretta ferrea. Non riuscendo a liberare le braccia, scalciò, colpendolo in uno schiocco secco e minaccioso all’altezza del ginocchio.

Furiosa, stava per chiedergli per quale maledettissimo motivo lui si limitasse a schivare quegli attacchi -e non tutti- e non la colpisse, perché non le desse un’altra provvidenziale scusa per odiarlo… quando sentì una scia umida, bollente, percorrerle la guancia, ghiacciandole il sangue nelle vene.

Spalancò gli occhi, smarrita, elettrizzata da quella piccola debolezza a cui non cedeva da troppi anni.

Lui adesso la stava guardando, con la faccia di qualcuno che la tua anima l’ha comprata e che adesso la pretende, scardinando l’anta dell’armadio per tirarne fuori tutti gli scheletri che Tsunade vi aveva accuratamente riposto.

Non parlava, si limitava ad approfittare della stasi della sua assalitrice per allentare la presa sui polsi della donna, adesso arrossati, trasformando quel contatto in una carezza annichilente.

Tsunade represse la sua ira in un fremito, realizzando che, nonostante tutto, gli aveva obbedito: stava piangendo tutte le lacrime che aveva trattenuto; pensare a quante di quelle fossero dedicate a lui, le faceva desiderare di ardere tutto il loro mondo per mutarlo in cenere, e di cospargere poi questa sul capo di lui, per redimerlo da quello per cui un perdono non era stato mai neanche chiesto.

-Colpa tua… - ringhiò, allucinata, aggiungendo il sale del sangue a quello delle lacrime, laddove si era morsa il labbro fino a spaccarlo, -È TUTTA COLPA TUA!-

Un calcio, spietatamente mirato, che lui non schivò.

-Ti odio. Io ti odio, il villaggio ti odia, tutti quelli che hai spedito all’altro mondo ti odiano. Dovevi essere morto, dannazione! Morto! Perché non stai marcendo sotto terra?- urlò febbricitante, eccitata dal senso di liberazione che la invadeva, prendendo il posto di tutta la frustrazione che gli stava riversando contro.

-Hai ucciso il nostro maestro, tu lo hai trapassato da parte a parte… E io ti sto aiutando a guarire; che io sia dannata, insieme alla tua anima nera!-

Una torsione del busto, con cui conficcò il gomito nello sterno di Orochimaru, causando lo scricchiolio delle costole, troncandogli il respiro: il tentativo di trafiggere quel cuore marcio che un tempo aveva così tanto desiderato possedere.

-Anche Jiraya è morto per colpa tua, lo sai? Se tu fossi stato con lui forse adesso sarebbe ancora con noi, se a causa tua non fosse stato divorato dai sensi di colpa non si sarebbe buttato in quella missione suicida. Lo sai? No che non lo sai, feccia che non sei altro! TU NON LO SAI! Non hai pianto per lui, hai riso della sua morte. Hai scoperto solo oggi, per caso, in quale remoto angolo del cimitero fosse sepolto. Maledetto… MALEDETTO!-

Continuava a piangere Tsunade, graffiandosi la gola con tutto quell’odio affilato, sentendo solo il bisogno che anche lui iniziasse a colpirla. Voleva soffrire, voleva vivere quell’attimo di follia cieca in cui stava annegando, vagamente consapevole che qualcuno l’avrebbe fatta riemergere; voleva annientarsi nella remota speranza di rinascere.

-Mi hai rovinato la vita, fottuto bastardo. Hai cercato di distruggere Konoha. Insicuro. Malsano. Meschino. Geloso di un posto nel mondo che non ti apparterrà mai. Sei putrido, mi fai pena. E per cosa, Orochimaru? Perché non avevi superato il trauma infantile della morte dei tuoi genitori? È solo un bene che tua madre sia morta, e che non abbia potuto assistere all’abominio miserabile che sei diventato!-

Uno schiaffo, quello con cui Tsunade lo colpì spietata, così fulmineo da non poter essere evitato. Tsunade rideva, chiedendosi se dopo tutto quello avrebbe mai potuto sentirsi nuovamente normale. Era come se un buco nero si fosse spalancato tra le proprie viscere e la stesse inghiottendo, in un vorticare confuso di emozioni maldestre a cui non riusciva a dare un nome; emozioni che fuggivano ancora, spaventate, scivolando dai suoi occhi.

Orochimaru stava deludendo tutte le sue aspettative, non reagendo in alcun modo agli insulti e alle percosse, dandole modo di specchiarsi nelle sue iridi ipnotiche e di vedere quanto apparisse triste quella Tsunade riflessa.

Con una delicatezza ridicola, che stonava in modo grottesco, l’uomo sollevò una mano e la appoggiò sopra al dorso di quella di lei, che ancora non aveva abbandonato lo zigomo colpito, rosso e già gonfio. La ricoprì tutta, strusciando i polpastrelli freddi, spedendole piccole scosse dalle terminazioni nervose a un punto indefinito all’altezza dello stomaco. Se la portò alla bocca, per baciare, una a una, quelle dita crudeli che avevano offeso la propria pelle.

L’energia distruttiva che aveva alimentato Tsunade si dissolse, e le gambe non la ressero: le ginocchia si piegarono, schiacciate da una forza che la calamitava al suolo. Sarebbe caduta, se lui non l’avesse sorretta. L’aveva stretta a sé, inspirando calmo tra i suoi capelli, le aveva cinto la vita con un braccio e le aveva avvolto le spalle con l’altro, inducendola a poggiare la fronte al suo petto, accarezzandole la testa che, arrendevole, si era inclinata.

A ogni respiro aveva mosso le labbra, desideroso di rispondere qualcosa che potesse compensare le scelte sbagliate e le vite spezzate… tacendo, sconfitto, incapace di riparare a quegli anni che lo avevano lasciato, stanco e disilluso, a stringere nel pugno brandelli di sogno con la stessa consistenza dell’aria.

-Permettimi di farti capire quello a cui le mie parole non riescono a dare un senso.- le aveva detto, in una supplica celata dietro all’ordine, stupendosi per primo della tenerezza anomala che aveva lasciato le sue labbra con la voce, quella che non ricordava di aver un tempo posseduto.

Decise di scacciare il turbamento, che lo agitava beffardo, con la celerità: scostò Tsunade quel tanto che bastava per sollevarle il mento con uno scatto e, prima che lei potesse reagire, calare sulla sua bocca.

La donna sgranò gli occhi lucidi, realizzando con ritardo che la calda morbidezza che sentiva era quella del bacio di Orochimaru, schiudendo spontaneamente le labbra senza poterlo decidere.

Avrebbe dovuto reagire, colpirlo ancora, spingerlo via, essere coerente nella sua ostilità…

Il Sannin sembrò leggere i suoi pensieri, perché la avvolse in un abbraccio spietato, privandola di ogni libertà di movimento, soffocandola tra le sue spire inclementi. Impaziente, spinse rude la lingua, facendosi strada inesorabile. Assassino anche di quella che poteva essere la libera scelta della donna che sembrava intenzionato a divorare.

Assalita, Tsunade chiuse gli occhi, arrendendosi alla scusa che le veniva offerta come un balsamo per la propria coscienza. Fu facile portargli le mani al petto, fingendo di provare a respingerlo, e poterle lasciare lì, giustificate dalla resistenza che avevano incontrato come sperato. Se anche toccarlo avrebbe avuto un prezzo, quel saldo poteva attendere. Un languore diffuso si irradiava dai punti in cui quelle mani forti la serravano, e quello che era nato come un bacio leggero si era trasformato in qualcosa di corrosivo, conturbante, potente. La bocca di Orochimaru si era modellata vorace alla propria; coi denti le torturava il labbro, mordendolo come a scongiurare una ribellione che era pronto a neutralizzare. Lottava con la lingua, allacciando quella di lei, non lasciandole scampo, minacciandole una schiavitù dolce e letale -forse, il colpo di grazia che aveva aspettato per anni a infliggerle-. Le riversò un gemito soffocato sul palato, arpionandola per i fianchi, stringendola ancora fino al parossismo, facendole formicolare le braccia, premendola ancora di più a sé come a volerla inglobare. Tsunade dovette farsi una piccola violenza per non ansimare come avrebbe voluto, quando sentì il proprio bacino schiacciato contro quello dell’uomo. Un rigonfiamento la pressava all’altezza del fianco, diventando più duro man mano che i movimenti di Orochimaru si facevano sempre più indecenti. Sentì la testa girarle quando lui infilò una mano nello scollo della maglia e le strizzò possessivo un seno, curvando la mano a coppa per catturarlo.

Fu un dolore atroce riacquistare la consapevolezza di sé, ammettere che quello poteva appartenere solo a un’altra vita.

Contò, delirante e disperata, il tempo che si sarebbe concessa prima di mettere la parola “fine” a quella storia mai iniziata. Dieci secondi ancora, dieci secondi di lui e di loro…

Uno…

Nero.

Come il buio, obnubilante e confortevole, che la cullava da dietro le palpebre chiuse.

…Due…

Nero.

Come i capelli lisci e lunghi che le solleticavano la piega del gomito. I capelli che, impudica, aveva sempre immaginato scivolarle setosi tra le cosce.

…Tre…

Nero.

Come il merlo dall’ala rotta che gli aveva portato da bambina, abbattuta, dopo averlo trovato ai piedi di un albero. Mentre lui lo curava Tsunade, incantata, non aveva distolto per un solo attimo lo sguardo da quelle dita pazienti e gentili, sognando che un giorno toccasse in quel modo anche lei.

…Quattro…

Nero.

Come l’orecchino che avevano comprato insieme quando, passando davanti a una vetrina, Tsunade gli aveva detto ridendo che un tocco trasgressivo lo avrebbe reso più affascinante. Lui lo aveva indossato, per non toglierselo più.

…Cinque…

Nero.

Come le loro ombre, che li seguivano quando camminavano a fianco, sereni, per le vie di Konoha; lei senza farsi notare le ammirava, pensando che, quando si allungavano allo zenit, quelle sagome vicine sembravano starsi tenendo per mano, e sentendosi stupida subito dopo per le sue fantasticherie.

…Sei…

Nero.

Come il liquore corposo che aveva distillato per lei quando gli aveva detto, scherzando, di volersi prendere la sua prima sbronza insieme a lui dopo gli esami dei Chunin.

…Sette…

Nero.

Come le lenzuola leggere del letto di Orochimaru, che si drappeggiava al seno nudo quando, la mattina, si svegliava e si tirava a sedere per cercare di capire che ore fossero dalla luce che entrava, timida, dalle finestre socchiuse; prima che lui contrariato le intimasse di continuare a dormire ancora per un po’.

…Otto…

Nero.

Come gli occhi comprensivi di Jiraya quando, mesi dopo il tradimento del Sannin, le aveva chiesto semplicemente: “Tu lo ami?”

…Nove…

Nero.

Come la copertina del suo Bingo Book in cui, nonostante tutto, non era mai riuscita a scrivere il suo nome.

…Dieci.

Nero.

Come il tutto che è l’insieme di ogni colore.

***

Orochimaru si massaggiò, con aria truce, l’ennesimo livido che aveva trovato sul proprio corpo, dovuto al pestaggio con cui aveva lasciato che Tsunade si dilettasse.

Camminava nervoso per la sua stanza, al tempo stesso eccitato e irritato dal ricordo surreale di qualche giorno prima. L’aveva baciata. Ancora non riusciva a crederci. Le aveva prosaicamente ficcato la lingua in bocca e aveva respirato il profumo fruttato della donna, carico di matura sensualità, passando le mani su quella pelle lattea che desiderava marchiare a fuoco perché fosse sua.

Aveva sperato, per pochi attimi, che anche lei fosse ebbra di desiderio come lo era stato -come lo era- lui, illudendosi che non fosse stato solo merito dell’impeto con cui l’aveva sopraffatta e non le aveva lasciato scampo, annullando ogni possibile pronta reazione.

Ma proprio quando tutto gli era sembrato essere divenuto reale, e si era preparato a mordere e avvelenare quelle carni morbide, a sporcarle affinché nessun altro le volesse più, lei lo aveva energicamente respinto, guardandolo accusatoria e sdegnosa, colma di un disgusto ostentato… troppo per essere credibile. Orochimaru aveva spalancato gli occhi, mentre un dubbio gradito si era affacciato in lui: che quella fosse solo una recita.

“Non ci sono parole, Orochimaru” lo aveva apostrofato fredda, sferzante nella sua beffarda incuranza, mentre gli lanciava addosso la maglia che si era tolto per farsi visitare e lo sbatteva senza tanti complimenti fuori dal proprio ufficio. Il Sannin aveva accettato quel trattamento ignominioso -nessuno, tranne Tsunade, era mai riuscito a farlo sentire in quel modo una puttana, e non era nemmeno la prima volta- solo perché pregustava già l’idea di lasciarla presto davvero senza parole, zittirla una volta per tutte e farlo in un modo che per lui si sarebbe rivelato oltremodo piacevole.

Perso nelle sue fantasie, che tentavano di darsi un tono calcolatore per non rivelare il loro substrato romantico, intercettò con lo sguardo dei riverberi rossi risaltare sulle mattonelle asettiche della propria cucina.

Sbuffò, chinandosi a raccogliere quei petali che si erano rifugiati sotto al tavolo, sfuggendo alle sue maniacali pulizie domestiche; fece per buttare i petali di manjushage ma ci ripensò, adagiandoli sul bancone. Non riuscì a reprimere il sorriso che gli increspò le labbra, e rise pensando alle imprecazioni che adesso probabilmente Jiraya stava sboccatamente proferendo dall’aldilà, a causa dei fiori che Orochimaru si ostinava a portargli ogni settimana da quando era tornato a vivere al villaggio.

Irrequieto, si diresse allo stanzino che aveva adibito a laboratorio, dicendosi che forse ultimare il veleno commissionato dagli ANBU lo avrebbe distratto.

Incolore, insapore, inodore. Quando gli avevano chiesto se davvero fosse in grado di offrire loro un prodotto del genere, Orochimaru aveva arcuato il sopracciglio sprezzante, rispondendo solo che lo avrebbe depositato al quartiere generale entro il fine settimana.

In realtà si era rivelato un compito piuttosto impegnativo, ed era stato costretto ad utilizzare ingredienti in disuso da secoli, andando a tentativi per cercare una qualche combinazione che sprigionasse le proprietà necessarie.

Prese una manciata di polvere fosforescente dal recipiente di vetro che la ospitava, per versarla in una terrina che bolliva sul fuoco. Il sibilo prodotto non fu per niente incoraggiante. La sostanza granulosa iniziava a sciogliersi col calore elevato e si diluiva mutando colore, fino a diventare completamente nera.

Scettico, Orochimaru sfogliò le pagine del suo manuale, non ricordando che la sostanza dovesse reagire in quel modo.

Era davvero irritante, non avere la mente lucida per colpa di quella donna terribile.

Controllò l’indice, cercando l’appendice che gli serviva, puntando il dito alla “M” di Mandragola e iniziando a leggere, una volta aperto il libro alla pagine giusta:

“La Mandragola. Veleno letale, capace di condurre alla morte in pochi giorni senza lasciare alcun segno.”

Tsunade era maledettamente ostinata, e se anche avesse ancora provato qualcosa per lui avrebbe negato fino alla morte, senza dargli alcun segno.

“Molti sottovalutano le caratteristiche di questa pianta ormai alquanto rara, reperibile solo nelle zone in cui può disporre dell’adeguata protezione dall’esposizione solare che ne secca le foglie delicate”.

Fredda e algida, a volte sembrava non ci fossero crepe in quella corazza d’acciaio; altre, invece, sembrava solo delicata e bisognosa di protezione, quella che lui non era stato in grado di offrirle.

“Se combinate con una giusta dose di calmante, le radici ridotte in polvere sono in grado di introdurre nel soggetto uno smarrimento cosciente che inizialmente presenta come unico sintomo una discreta debolezza, che tuttavia non scema ma persiste, inducendo colui che ha ingerito a riposarsi, riuscendo cosi a entrare in circolo ancora più velocemente nel sistema linfatico”.

Si era preparato a dover sbattere contro ad un muro eretto per tenerlo fuori, fuori da qualsiasi cosa... eppure era stato certo di aver intravisto un attimo di smarrimento, una debolezza a cui appigliarsi.

“Uno dei pregi della sostanza è quello di essere totalmente impercettibile al gusto. Assume un sapore dolciastro solo se unita a una miscela di asperio, che rende gli effetti letali più tempestivi ma lascia tracce nell’organismo che possono essere rilevate facilmente da un’autopsia”.

Sentiva ancora il sapore di lei, dolce e fresco, sulle labbra; ogni tanto se le leccava per constatare che non fosse svanito.

“Assunta isolatamente, invece, la mandragola porta al decesso rapidamente e la vittima è destinata a cedere. Il decesso sarà con assoluta convinzione imputato a causa naturale”.

Lei lo desiderava ancora, doveva aggrapparsi a quella convinzione. Ma sapeva che la donna avrebbe lottato con tutte le sue forze per non cedere.

“Alcuni effetti indesiderati sono ancora per noi sconosciuti. Questo perché la tradizione mitologica che ruota intorno alla pianta in questione ha portato a uno scomodo intreccio di notazioni scientifiche e folklore popolare, che ci rende difficile discernere cosa sia accertato empiricamente e cosa sia opera della fantasia.”

Per Tsunade lui doveva rappresentare un’attrazione scomoda e indesiderata; temeva che la donna sarebbe presto riuscita a discernere i propri sentimenti dalla ragione, e che li avrebbe accantonati in favore di quest’ultima. Se avesse potuto scegliere, avrebbe sempre scelto qualsiasi cosa che non fosse lui.

“Tra i molti usi di dubbia attendibilità delle radici, uno in particolare lo riteniamo improbabile: gli antichi avevano sviluppato un corposo insieme di riti propiziatori alla fertilità intorno alla pianta, ritenendo che questa fosse il più potente degli afrodisiaci, in grado di dissolvere ogni inibizione e di rendere incapaci di resistere ai propri impulsi”.

Doveva farle credere di non avere scelta, liberarla da quel peso come aveva fatto quando l’aveva baciata a tradimento e l’aveva trattenuta con la forza. Gli serviva un modo per farla arrendere al suo stesso corpo, per convincerla di non poter resistere. Già, come un afrodisiaco.

Un afrodisiaco…

Un afrodisiaco!

Orochimaru si alzò in piedi di scatto, rovesciando il contenuto dei barattoli e delle ampolle, ustionandosi con la fiamma che si era scordato di abbassare.

Ma non ci badò, mentre la mente lavorava frenetica.

Non poteva drogare Tsunade, no, proprio non poteva.

Non che si ponesse problemi di eticità: per averla avrebbe accettato ben più di un compromesso morale.

Ma come uomo non poteva tollerare di averla senza che lei lo ricambiasse in modo autentico: voleva guardarla negli occhi e vedere la sua Tsunade, agguerrita e appassionata, mentre la faceva sua. Quindi non le avrebbe somministrato nessun afrodisiaco.

Ma cosa sarebbe accaduto, se lei avesse creduto di averlo ingerito? Forse sarebbe stato come nel suo studio, quando si era lasciata andare per una manciata di secondi: quelli in cui lui le aveva offerto una scappatoia, facendo sembrare che l’avesse costretta, permettendole di nascondersi dietro a una bugia.

Elettrizzato, strappò con foga un pezzo di carta, macchiandosi le dita d’inchiostro mentre prendeva il pennino e iniziava a vergare, in piedi, righe scarne e frettolose:

“Tsunade, non ho più avuto modo di parlarti dall’ultima volta nel tuo studio. Ho provato a cercarti in ospedale, ma mi hanno detto che eri molto occupata. Volevo solo informarti che i farmaci che mi hai somministrato non fanno più effetto: i dolori sono notevolmente peggiorati. Il processo di normalizzazione del corpo, anche se sembrava ormai quasi a termine, sembra essersi arrestato bruscamente. Tanto che non credo di poter uscire di casa, domani, per raggiungerti in ospedale per la solita visita settimanale. Passa da casa mia, finito il turno. Non te lo chiederei se non fosse urgente. Ti aspetto.”

Sorridendo scaltro, Orochimaru arrotolò il pezzo di carta e si diresse baldanzoso verso la voliera, assicurandolo alla zampetta del piccione viaggiatore che lo avrebbe recapitato alla destinataria.

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Eh, già: per chi avesse letto “La mandragola”, questa storia è stata pensata come suo antecedente! Nella Mandragola i protagonisti sono Naruto e Sasuke, ma compaiono anche Tsunade e Orochimaru come una coppia consolidata. E si intuisce che lui l’ha…corteggiata?Vabbè, diciamo pure sedotta e circuita con metodi poco consoni e ancor meno onesti. E qui viene raccontato di come la buona vecchia serpe abbia partorito questa idea, che in futuro sistemerà più di una coppia :D.

In secondo luogo, vorrei spendere due parole sul titolo della storia. Mi è venuto un amletico dubbio: ma sembrerò antipatica e snob, a dare tutti questi titoli altisonanti alle mie storielle da fangirl? Beh, spero di no! È che per scovarli penso a riferimenti artistico/letterari/cinematografici (chiariamo, si tratta di spicciola cultura generale, non mi ritengo assolutamente un’esperta né di arte, in qualsiasi delle sue forme, né di letteratura). E a volte sono titoli ironici (come per “La grande bellezza”: non definirei mai “grandemente bello” qualcosa che scrivo!), a volte penso semplicemente che abbiano dei collegamenti col contenuto. Mi sembrano titoli “giusti”, e poi anche se ne cerco altri un po’ più sobri non riesco a trovarne nessuno che mi sembri altrettanto adatto. In questo caso, lungi da me definire una misera oneshot UN’OPERA -perchè sono ben altre, le opere-, “L’ Opera al Nero” si riferisce al romanzo storico M.Yourcenar. L’ ho scelto per vari motivi…prima di tutto perché questa storia per me era dedicata davvero tutta al nero, che è stato il fulcro della svolta e del cambiamento. Inoltre nel romanzo il protagonista, Zenone, è un alchimista piuttosto sopra le righe… e non ho potuto fare a meno di associarlo ad Orochimaru. Ultimo, ma non meno importante: i colori del romanzo sono simbolici, e io ho inteso dare loro un significato simile: anche nel romanzo il bianco è associato, insieme al rosso, alla morte; mentre il nero è associato alla purificazione e alla rinascita, alla spoliazione da tutte le “sovrastrutture” e da tutte le convenzioni e i limiti che ci eravamo imposti. E quindi niente, non ho potuto fare a meno di chiamare così questa storia.

Finita l’apologia del titolo :D.

Detto questo, poche altre cose.

1. I manjushaje sono davvero dei fiori della tradizione funebre giapponese. Molto belli, e molto rossi. Vi sarà capitato sicuramente di vederne qualche immagine.

2. A proposito di immagine, volevo precisare che l’ immagine che ho inserito non è mia (fortunatamente per voi). Il disegnatore è jesterry, e lascio il link: http://jesterry.deviantart.com/art/Almost-Dali-267328485 (ho preso l’immagine da DeviantArt).

Fine delle noiose disquisizioni d’autore.

Altman <3

   
 
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