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Autore: mars_gold    12/02/2017    0 recensioni
"Questa vita è così ingiusta, da ad alcuni ciò di cui non hanno bisogno e nega ad altri ciò che li fa vivere... Con noi due l'universo ha avuto un gran senso dell'umorismo, non c'è dubbio, ma almeno una cosa buona l'ha fatta: ci ha fatti incontrare."
Genere: Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Scolastico
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~~Ancor prima di aprire gli occhi decisi che quel giorno avrei fatto di tutto per apparire e sembrare una persona normale, volevo proprio vedere quanto sarebbe durato.

Mi strofinai gli occhi e mi rigirai nel letto, poco dopo la sveglia suonò puntualissima le 7.15.

Si comincia. Pensai. Sbuffando mi alzai a sedere, tirai via la coperta e lasciai che la tiepida aria di Settembre mi investisse, come al solito avevo dimenticato di chiudere la finestra prima di addormentarmi.

Mi alzai, raccolsi il libro che stavo leggendo la sera prima, doveva essermi caduto per terra quando mi ero addormenta, e lo appoggiai sul comodino sopra una pila di altri libri, prima o poi avrei dovuto sistemarli nella libreria al piano di sotto. Mi strinsi nel pigiama leggero e mi diressi verso la finestra dall’altro lato della stanza. Il sole era già alto, lo osservai lasciando che la sua luce mi inondasse, sapevo che da lì a poche settimane le giornate si sarebbero accorciate sempre di più, meglio approfittare della luce finché c’era.

Fuori il mondo si era già svegliato comunque, nonostante abitassi vicino ad un parco riuscivo a sentire benissimo il rumore del traffico nelle strade vicine: macchine che correvano sulle strade ancora umide, clacson che suonavano, persone che gridavano. Mi chiesi se ci fosse mai un momento in cui in quella città ci fosse un po’ di pace, di notte si spegneva mai? O continuava sempre, ininterrottamente ad essere brulicante di persone e rumori? La gente non si stancava?

Io lo trovavo stancante la maggior parte delle volte, c’era qualcosa di terribilmente bello nel silenzio, io lo sapevo bene.

Stranamente però quel giorno il rumore del traffico servì a rilassarmi, per molte persone quella era una semplice giornata come tutte le altre, dovevo solo comportarmi come se lo fosse anche per me e tutto sarebbe andato bene.

Sentii mia madre chiamarmi dal piano di sotto, l’ennesima voce aggiunta a tutte le altre provenienti da fuori, alzai gli occhi al cielo ma mi allontanai comunque dalla finestra e mi diressi verso il bagno per iniziare a prepararmi.

Finché me ne stavo per conto mio era facile essere una persona come le altre, i problemi iniziavano quando ero con altre persone, appena si rendevano conto di quanto fosse difficile per me stare al passo con tutte le cose che dicevano i loro sguardi si riempivano sempre di tenerezza (che non era poi così fastidiosa) e compassione (che invece odiavo).

Finché ero da sola l’unica cosa a cui dovevo rispondere era la mia mente e per quella non avevo bisogno delle parole, mi bastavano i miei pensieri.
Circa dieci minuti dopo ero già pronta per uscire, avevo deciso cosa indossare quel giorno settimane prima, dovevo solo riguardarmi allo specchio per essere sicura che tutto fosse come lo avevo immaginato.

Avevo deciso di lasciare i capelli sciolti, mi scendevano sotto le spalle in morbide onde color nocciola creando contrasto con la maglietta nera che avevo deciso di mettere abbinata al mio paio di jeans preferito, chiari e stretti. L’ombretto che avevo sugli occhi era dello stesso colore, mia madre diceva che sottolineava le sfumature azzurre dell’iride. Per le scarpe poi avevo deciso di prendere gli stivaletti leggeri, con quelli almeno sarei sembrata un po’ più alta.

Nel complesso sembravo una normale studente liceale, con lo zaino in spalla e il giubbino slacciato, esattamente quello che volevo.
Sorrisi persino. Forse quel giorno non sarebbe stato poi così male. Forse sarebbe andato tutto bene.

Controllai di avere tutto poi mi diressi verso il piano di sotto dove mia madre e mio padre mi aspettavano, avevamo deciso di andare a fare colazione al bar tutti insieme quel giorno.

Mia madre era una signora ben curata, quel giorno aveva una giacca abbinata ad una gonna blu scuro e i capelli castani sollevati in un morbido chignon sulla nuca. Mi sorrise sistemandomi i capelli dietro l’orecchio.

-Nervosa?  – Mi chiese. Ed ecco il mio tentativo di normalità andato completamente a puttane.

Grazie mille mamma, davvero, non mi fai mai domande dirette a meno che non ci sia da rispondere sì o no e oggi, proprio oggi, quando volevo cercare di essere come tutti gli altri tu te ne esci così. Fantastico.

Mio padre, forse intuendo i mei pensieri, diede una leggera gomitata alla mamma.
-Ovvio che sia nervosa, ma scommetto che andrà tutto benissimo. –

Mentalmente lo ringraziai. Aveva la stessa espressione della mamma sul viso, un misto di apprensione e gioia. Anche lui era stranamente elegante, invece del solito paio di jeans portava dei pantaloni beige.

Quel giorno era un nuovo inizio anche per lui, aveva finalmente ricevuto l’incarico che aspettava da tutta una vita: essere un professore di storia dell’arte.

Era stata una vera fortuna per entrambi, visto che avrebbe lavorato in una scuola pubblica avevo ricevuto il permesso di frequentarla anch’io, dopo 18 anni passati con l’insegnante privato avrei frequentato l’ultimo anno in una vera scuola.

Ero nervosa? Sì, assolutamente. Spaventata? Un po’, forse. Felice? Da morire.

I miei genitori stavano iniziando ad allentare un po’ la cinghia che mi teneva legata a loro (sinceramente era anche ora, non che non gli volessi bene ma... andiamo, quale adolescente che si rispetti vuole passare tutta la sua vita in compagnia dei genitori?), non vedevo l’ora di buttarmi in quel mondo fatto di libri, armadietti, aule, mense e laboratori.

Uscimmo di casa e ci dirigemmo verso l’auto. Mia madre e mio padre non dissero nulla per tutto il tragitto, sapevano che odiavo quando mi si parlava finché ero in macchina, la maggior parte delle volte non riuscivo a rispondergli che eravamo già arrivati, che senso aveva commentare con me il paesaggio che si vedeva dal finestrino se tanto non potevo esprimere la mia opinione in tempo?
Mentalmente li ringraziai di nuovo, visti dall’esterno saremmo sembrati una normale famiglia con una figlia taciturna, era passata una mezz’ora da quando mi ero svegliata e non avevo ancora tirato fuori il cellulare o il block-notes per scrivere qualcosa. Un vero miracolo.

Papà parcheggiò davanti all’entrata di un bar all’angolo (non quello della scuola per fortuna, che figura avrei fatto ad entrare il primo giorno di scuola accompagnata da entrambi i miei genitori?). Nonostante fosse piuttosto piccolo comunque gli interni erano carini, le pareti erano rosse fuoco con decorazioni in legno scuro e davano una sensazione di calore all’ambiente.

Ci sedemmo in uno dei tavolini, papà andò subito a ordinare sapevo già cosa volevamo, sulla colazione io e la mia famiglia non ammettevamo errori: brioches con cappuccino per tutti e tre.
Così mi evitai di nuovo di dover rispondere a qualcuno. Quella giornata era iniziata davvero con il piede giusto!

Mentre aspettavamo mamma non fece altro che ripetermi tutte le sue raccomandazioni (che mi aveva già detto la sera prima, la mattina prima, la settimana prima quando papà aveva saputo di aver ottenuto l’incarico e... ah sì! Due mesi prima quando avevo provato a proporre l’idea di fare l’ultimo anno in Inghilterra). Inutile dire che annuii senza ascoltarla.

Quando papà tornò non ci mettemmo molto a spazzolare via la colazione, non eravamo tipi che se la prendevano comoda.
Uscimmo, mia madre ringraziò la barista e poi si mise lei al volante, dopo aver accompagnato me e papà a scuola sarebbe andata in ufficio in centro, dove lavorava.
Passammo per un paio di vie alberate e più la macchina andava avanti e più diventavo nervosa.

Quando infine parcheggiammo trattenevo il fiato. Scesi dall’auto molto lentamente, Dio, mi sentivo come un uccellino quando esce per la prima volta dal nido.
La scuola non era male, aveva un ampio parcheggio e dal bar lì vicino usciva un dolce odore di brioches appena sfornate. L’edificio scolastico di per sé era enorme, color crema con mattoni rossi a vista, finestre rettangolari coperte da tende bianche.
Non era Hogwarts ma come sostituta poteva andarmi bene.

La cosa più bella comunque era la folla di studenti, non avevo mai visto così tanti ragazzi e ragazze tutti insieme nello stesso luogo, il rumore del loro chiacchiericcio e delle loro risate mi scaldò il cuore.
Avrei potuto essere come loro.

Salutai la mamma frettolosamente, non volevo che ricominciasse a farmi la predica e persi di vista papà dopo aver varcato il cancello. Che gentile, non voleva farmi sentire come una bimbetta delle elementari accompagnata dai genitori.

Feci un respiro profondo e mi diressi verso la porta d’entrata. Avevo visto tanti film e serie tv basati sulla “vita alle superiori” ma un conto era vederla sullo schermo, un altro viverla per davvero. I miei occhi non facevano che osservare e catturare tutto ciò che vedevano, gli studenti, i loro visi, i loro modi di gesticolare, gli abbracci, le pacche sulle spalle, le biciclette, le automobili, gli zaini lanciati in aria... Sapevo che per la maggior parte di loro tornare a scuola era un incubo ma a vederli così mi facevano rimpiangere di non essermi iscritta alla scuola pubblica qualche anno prima.

La campanella suonò nel momento in cui aprii la porta. Mi incamminai subito verso i corridoi cercando la mia aula, grazie a papà sapevo già in quale dovevo andare, alla prima ora avevo lezione di letteratura con la professoressa White.

Il soffitto dei corridoi era piuttosto alto, le pareti erano dello stesso color crema dell’esterno interrotto solo dal metallo degli armadietti e il marrone chiaro delle bacheche.
Provai a svoltare a destra e tadaaan... avevo trovato l’aula.

Entrai senza esitazione, un paio di ragazze erano già sedute nei banchi della prima fila, parlottavano a bassa voce avvolte nelle loro felpe leggere con i capelli raccolti come quelli di mia madre, sembravano gemelle.
Non mi salutarono, troppo prese nei loro discorsi, meglio così.

Mi sedetti una fila più indietro vicina al muro, qualcosa mi diceva che se mi fossi appropriata di un posto nell’ultima fila avrei fatto incazzare qualcuno, meglio evitare.

In pochi minuti l’aula si riempì, in totale dovevamo essere una ventina di alunni, alcuni posti rimasero vuoti (tipo quello vicino al mio ma non ne feci una tragedia, era chiaro che tutti lì dentro avevano già i propri amici). Cercai di osservare i miei compagni nel modo meno sfacciato possibile, eravamo dodici femmine e otto maschi, alle due gemelle in prima fila se n’era aggiunta un’altra (sempre con quella stessa capigliatura), immaginai che dovessero essere le perfettine della classe ma non mi andava di giudicarle così in fretta. Tutti gli altri erano ognuno diverso dall’altro, chi era vestito con colori sgargianti, chi completamente di nero, chi portava occhiali da sole, chi da vista, ragazzi con i jeans strappati, una ragazza con i codini alti... Quel miscuglio di persone e preferenze mi piaceva.

La professoressa entrò, era una signora che doveva avere circa l’età di mia madre, aveva dei capelli corti biondi e un dolce sorriso in volto. Sulla sua borsa era stampata la scritta “Una casa senza libri è come un uomo senza anima”.
Inutile dire che mi stava già simpatica.

Cominciò a fare l’appello leggendo i nomi sulla lista, quando arrivò al mio disse:
-Come vedete abbiamo una nuova compagna di classe, Alexandra che ne dici di venire qui e presentarti? –

Oh, no. Sentii gli sguardi di tutti addosso, alcuni erano curiosi, altri interessati, altri ancora dolci, altri menefreghisti.
La professoressa mi sorrise e ciao ciao al mio tempo da persona normale.
Grandioso.
Mi alzai in piedi e mi diressi verso la cattedra, guardai l’orologio sul polso, erano le 8.15.
Un’ora.
Ero riuscita a durare un’ora.

La professoressa si posizionò dietro la cattedra per lasciarmi spazio, vidi una leggera sorpresa nei suoi occhi mentre, invece che girarmi verso la classe, mi diressi verso la scatola dei gessi.
Incominciai a scrivere sulla lavagna.
Sentivo gli occhi di tutti alle mie spalle, sentivo la loro curiosità crescere mentre io mi impegnavo a scrivere più lentamente possibile.

Perché quel momento era già arrivato?

Quando terminai mi spostai in modo che tutti potessero leggere, abbassai leggermente lo sguardo mentre tornavo al mio posto, non volevo vedere che espressione avevano sul loro volto.

Mi ero impegnata così tanto perché quel giorno fosse perfetto, certo sapevo che prima o poi lo avrebbero scoperto o capito, ma speravo di poter tenere il mio segreto ancora per un po’.

Quando mi sedetti al mio banco alzai lo sguardo sulla lavagna, la mia calligrafia era piuttosto minuta ma ero riuscita a scrivere senza andare storto, almeno quello.
Bianco su nero sulla lavagna spiccavano le mie parole:

“Mi chiamo Alexandra Smith, ho sempre avuto un insegnante privato e questa è la prima volta che frequento una vera scuola, questo perché sono muta dalla nascita.”

 

   
 
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