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Autore: shoomie    13/02/2017    0 recensioni
Tamara è un'affermata scrittrice di romanzi e dalla vita ha avuto tutto quello per cui ha tenacemente lottato.
A quindici giorni dal giorno del suo matrimonio con l'erede delle industrie Carson, Tamara, riceve la funesta notizia dell'avvenuta scomparsa del padre.
Il rientro nella cittadina natia la porterà a scontrarsi con un passato che è ancora fortemente presente nei colori, nelle strade e soprattutto nelle persone.
Lasciare Norwood non sarà così semplice come sperato.
L'unica eredità che il padre le ha lasciato è infatti la casa dove è nata e cresciuta, ma anche quelle che ha abbandonato lasciandosi alle spalle molto più di quanto fosse mai stata disposta ad ammettere.
Solo quindici giorni la separano dal fatidico sì e quindi dal ritorno alla sua patinata vita New Yorkese ma si sa che il destino spesso è crudele e ci mette difronte a sfide sempre più dure, soprattutto se si crede di aver brillantemente superato le precedenti; quando non è così.
Sì, Tamara ha avuto tutto dalla vita che si era prefissata di vivere, tutto tranne quello che gli occhi di Cole le ricordano di non aver mai avuto il coraggio di tornare a prendersi.
(storia su Wattpad @julietwasanidiot)
Genere: Romantico, Sentimentale, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Triangolo | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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'Lancia quella dannata palla, McDugal.
Cristo, lanciami quella maledetta palla, zucca vuota!'
Cole non era certo noto per la sua pazienza e a pochi giorni da una delle partite più importante per il campionato studentesco ancora meno.
'Si, coach.'
La palla rotolò sino ai suoi piedi e con un grugnito si abbassò per raccoglierla.
'Contro chi credi di giocare il giorno della partita? Eh? Un branco di manichini? Rispondi.'
Gli gridò contro mettendo a tacere il brusio degli altri componenti della squadra, il ragazzo difronte a lui abbassò lo sguardo cercando di trovare il coraggio necessario per rispondergli.
'No, coach.'
'E allora perché giochi come se sperassi di trovarti difronte dei fantocci? 
Quelli non ci mettono niente a buttarti a terra, hai capito? 
Devi essere veloce, non devi avere esitazioni. 
Ogni esitazione corrisponde ad un punto regalato e io non ho intenzione di permettertelo, ragazzino. 
Sei il capitano perché hai del potenziale ma non sei insostituibile, quindi lancia questa cazzo di palla come sai di poter fare o giuro che ti sbatto fuori.'
Cole sapeva essere un allenatore molto duro ed in particolar modo lo era con chi sapeva avere un vero e proprio dono, esattamente come McDugal. 
Era uno dei tanti insegnamento che il suo ex Coach gli aveva lasciato in eredità e che ad oggi ancora riuscivano a scuotere gli animi dei giovani atleti, il suo compreso.
Ogni volta che teneva tra le mani quel pallone la voglia di giocare lo logorava e il senso di impotenza finiva per schiacciarlo.
'Andatevene adesso, per oggi può bastare. Tornate a casa, studiate per i test, cercate di riposarvi e soprattutto non bevete. Capito Miller?'
Un coro di risate si levò in aria e svariate allusioni sulla veridicità delle sue parole colpirono il mal capitato Miller, che con tono solenne giurava di non aver mai toccato alcool.
Quando il campo si fu svuotato, Cole si prese qualche secondo per ammirarne i colori e la sua vastità.
Un tempo che ad oggi sembrava lontanissimo aveva percorso quel campo correndo come un folle, gustandosi la sensazione che dava la consapevolezza di essere bravo in qualcosa.
I cori delle cheerleader, le grida dei tifosi, quei sogni che lo volevano in uno stadio con i grandi del football e che riscaldavano le sue notti.
A vent'anni era diventato uno storpio, un rottame incapace di andare a pisciare da solo senza crollare per lo sforzo di arrivare in bagno.
Aveva disprezzato se stesso e la sua vita per molto tempo dopo la convalescenza e non molto era cambiato in quegli anni, il dolore si era attenuato ma la ferita interiore che l'incidente gli aveva lasciato non si sarebbe mai rimarginata. 
Guardò nuovamente all'orizzonte e si sentì ancora una volta come quel ragazzino pieno di sogni e speranze. 
Uno dei palloni usati per l'allenamento catturò la sua attenzione lo raggiunse con l'iniziale idea di rimetterlo insieme alle altre attrezzatura ma quando lo strinse tra le dita sentì il bisogno di compire un lancio.
Tolse il capello e lo piegò infilandolo nella tasca posteriore dei jeans, afferrò la palla in maniera salda compiendo tutti i movimenti che precedevano il lancio vero e proprio in maniera meccanica e ben calibrata e poi rimase immobile fino a quando il pallone non gli scivolò via dalla dita.
Era inutile, per anni ci aveva provato e per anni non era riuscito a compire un lancio completo, la paura del fallimento che lo avrebbe messo definitivamente e inequivocabilmente difronte alla sua disfatta lo spaventava a tal punto.
Rimase immobile per diversi minuti a fissare il pallone difronte ai suoi piedi con il desiderio pressante di calciarlo via, di calciare via i suoi dolori e i demoni interiori che lo perseguitavano.
Senza ragionare aveva caricato tutta la forza sulla gamba malandata e lo aveva colpito con rabbia gettandolo contro la rete che delimitava la fine di quella mattonella verde.  
La fitta alla gamba sinistra fu così forte da farlo tremare interiormente, chiuse gli occhi cercando di concentrarsi su qualcosa che rendesse quelle ondate di dolore meno aggressive. 
Stringeva la gamba tra le mani imprecando per la sua stupidità, gli occhi ludici per lo sforzo di mantenersi in piedi e difronte a lui un tratto di strada che avrebbe dovuto per forza percorrere da solo. 
Come un animale ferito si era trascinato sino alla recinzione e appoggiato ad essa aveva raggiunto il cancello d'uscita. 
Raggiungere l'auto nel parcheggio principale della scuola voleva dire percorrere tutto l'enorme corridoio e anche la breve, ma si ardua, scalinata all'ingresso.
Con la fronte imperlata di sudore e il fiato corto si appoggiò con la schiena ad uno degli armadietti, cercando di distendere la gamba e di evitare così di collassare proprio dentro l'edificio.
'Cazzo.'
Imprecò tra i denti stringendo forte gli occhi quando si rimise in marcia, nell'auto custodiva un flacone di antidolorifici che lo avrebbero certamente aiutato.
A pochi passi dalla grossa porta verde allungò la mano per afferrare ed abbassare velocemente la maniglia, con la spalla la aprì e si gettò fuori dalla scuola.
La Camaro nera era l'unica rimasta nel parcheggio, individuarla fu più semplice che raggiungerla, con mano tremante aveva aperto la portiera ed era scivolato dentro tirando un lungo respiro di sollievo.
Rimase qualche secondo immobile prima di allungare il busto nella direzione del vano portaoggetti posizionato sotto il cruscotto e aveva iniziato a cercare quel flacone arancione come un dannato.
'Cazzo! Cazzo.'
Con le mani colpì ripetutamente il volante imprecando, furioso.
Dopo aver sbollito la tensione ed essersi fatto forza aveva messo in moto e si era gettato nella disperata corsa verso casa.
Erano passati quasi nove anni e mezzo e ancora non riusciva a fare a meno di quelle pastiglie, almeno una volta al giorno doveva prenderne una.
Sembrava quasi che qualsiasi cosa influenzasse la percezione che aveva del dolore, storpiandolo e amplificandolo per mille.
Sapeva di avere un problema ma non così grave come quello dei tossici di strada perché a lui servivano per guarire da quel dolore, o almeno questo era quello che si raccontava.
Percorse la strada verso casa a tutta velocità, sentiva che sarebbe impazzito se non si fosse sbrigato.
Detestava quella sensazione ancor più del dolore stesso, si sentiva così debole a non riuscire a combattere o a sopportare. 
Ma forse era il solo epilogo che una vita fatta di rinunce e perdite poteva dargli.
Era certo che vi fosse un limite alle sofferenze che una persona possa superare e lui era oltre il limite già da molti anni.
Schiacciato dalle ombre del suo passato, dal ricordo degli uomini e delle donne che non facevano più parte del suo presente e da quel futuro incerto che ogni mattina filtrava dalla sua finestra con l'arrivo del sole.
Imboccò la solita stradina secondaria che gli dava la possibilità di godersi la pittoresca immagine del lago circondando da alberi altissimi.
La casa che aveva acquistato sei mesi prima si erigeva propio ai piedi di quel lago, a qualche metro di distanza da un pontile ormai inutilizzato, e rappresentava per Cole il suo personale angolo di paradiso.
Il tempo lì si fermava o comunque scorreva più lentamente per lasciargli il tempo di godere dei colori sgargianti del tramonto di quasi giugno.
Spento il motore lasciò andare la testa contro il volante, prese un lungo respiro per prepararsi mentalmente al dolore che avrebbe infiammato la sua gamba una volta messo il piede a terra. 
Aprì lo sportello e reggendosi al tettuccio si apprestò ad uscire.
La mascella serrata e un rivolo di sudore che gocciava lungo la sua tempia sottolineavano lo sforzo appena fatto. 
Un lungo brivido gli percorse la spina dorsale, sollevò lo sguardo nell'esatto momento in cui la donna seduta nella sua veranda si mise in piedi.
Incrociò il suo sguardo e ne fu rapito.
Ne era sempre stato rapito e dubitava che in un prossimo futuro avrebbe smesso di essere così.
Tamara sarebbe potuta tornare tra altri dieci anni e lui sarebbe stato ancora incantato dal suo sguardo curioso, pronto a divorare tutto quello che la circonda.
Ciò che nel suo sguardo non voleva vedere era la pietà, per questo il suo tempismo era totalmente fuori luogo.
Cercò di non zoppicare in maniera troppo evidente, serrando la bocca per non imprecare e tenere la schiena ben dritta per conservare almeno in apparenza un po' di fiducia in se stesso.
'È stato Padre Davis a dirmi che adesso vivi qui.'
In passato era accaduto spesso che tra di loro non vi fosse bisogno di chissà quante parole per comprendersi, a volte -come in quel caso- erano bastati solo pochi sguardi.
Cole aveva annuito e superandola era entrato in casa, alle sue spalle la porta ancora aperta valeva come un invito a seguirlo.
'Cole, stai bene?'
La sua voce era come un soffio, il dolore era troppo acuto per dare retta a qualsiasi altra cosa gli stesse intorno.
Febbricante e con la vista appannata aveva percorso tutto il corridoio ed in salone e poi si era gettato sul cassetto della cucina alla ricerca del suo sacro Graal. 
'Cole!'
Ancora una volta non si voltò o curò di risponderle, doveva prima fare qualcosa per se stesso poi si sarebbe occupato di carezzare il suo ego o di fare qualsiasi altra cosa gli avesse voluto chiedere.
Quando finalmente intravide il flacone seppellito sotto diverse cianfrusaglie lo afferrò e con forza cercò di svitare il tappo, un'altra imprecazione gli sfuggì tra i denti quando lo sforzo risultò del tutto inutile.
Con le dita tremanti e la pazienza ormai esaurita lanciò il flacone contro il muro ma neanche in quel caso il tappo si svitò.
La mano di Tamara scivolò sul suo braccio, per un attimo aveva quasi pensato che fosse solo un'allucinazione e che lei non fosse veramente lì con lui.
L'aveva vista piegarsi a raccogliere il contenitore di plastica arancione e aprirlo.
Le pasticche scivolarono sul palmo della sua mano, due a due, ne strinse una tra le dita e rimise le altre dentro la confezione.
Tornò da lui stringendo la pastiglia tra il pollice e l'indice, la fece vagare sotto il suo sguardo sofferente e poi l'avvicinò alla sua bocca.
La ingoiò senza l'ausilio dell'acqua e in quell'esatto momento percepì il sangue fluire nuovamente all'interno delle sue vene, la mente rischiarata e quella foschia davanti ai suoi occhi dissolversi.
Il viso di Tamara a pochi centimetri dal suo.
Se fosse stato quello il giorno della sua morte non se ne sarebbe minimamente curato, erano state le sue dita a dargli la pace che bramava.
'Vieni con me.'
Non ancora del tutto a riparo dal dolore, Cole, aveva accettato di appoggiarsi a lei per raggiungere il salotto.
Lo aiutò a scivolare nella poltrona reclinabile che spesso usava anche come letto e poi gli si era seduta accanto, con le ginocchia poggiate sul pavimento, sfiorandogli la fronte bollente come si fa ai bambini quando sono piccoli. 
Un gesto che aveva sempre amato e una premura che lei gli aveva sempre riservato nei momenti difficili.
'La mia Tammy..'
Sussurrò sistemandole una ciocca dietro l'orecchio, fece scivolare la mano dietro la sua nuca e avvicinò il viso della donna al suo.
La mente sgombra di qualsiasi pensiero era una conseguenza così piacevole, anche lo sguardo se non del tutto vigile era meno sfocato.
La bocca della donna che aveva follemente amato a pochi centimetri della sua, poteva sentire il suo fiato caldo sfiorargli le labbra.
'No..'
Fu un sussurro, un rumore appena accennato poteva persino essere tutto nella sua testa ma poi la mano di Tamara scivolò dal suo viso al petto e con una leggera pressione lo costrinse a stendersi nella poltrona.
'Perché?'
Gli sembrava così banale chiederlo ma non aveva potuto esimersi.
Cosa voleva allora? 
'Non sono qui per questo, Cole.'
Si passò una mano sul viso cercando di rimanere concentrato, sentiva gli occhi farsi pesanti, di quel passo avrebbe perso il tramonto.
'Non possiamo parlarne adesso. Guarda come sei ridotto.'
'Mi hai detto che avrei dovuto farti scegliere. 
Guarda qua! È questo che sono. È questa la vita che avresti fatto se avessi scelto me.'
Rise amaramente, doveva mandarla via perché sapeva che quell' ipotetica conversazione non sarebbe andata a finire bene. 
'Cole, smettila.'
'No, smettila tu. È giusto il modo in cui è andata, Tamara. 
Non guardarmi con quegli occhi lì, non siamo i personaggi di un tuo libro, le cose nella vita reale prendono pieghe inaspettate e non sempre si finisce a condividere un caffè a Central Park parlando di un possibile futuro insieme. 
Questa è la vita vera.
Questa!!'
Esclamò sollevando il pantalone sino al di sopra del ginocchio mostrandole la lunga cicatrice che gli era rimasta dopo l'incidente e senza vergogna o pudore afferrò la sua mano per far sì che toccasse davvero il suo dolore.
'Questa è la cosa più reale che posseggo.
Hai fatto bene ad andare avanti, qualsiasi cosa ti passi per quella testa devi sapere che l'unica verità è questa.
Io sono così per colpa mia, solo per colpa mia.'
Era certo di aver toccato il tasto giusto, ancora una volta senza il bisogno di troppe parole, il suo viso contratto, lo sguardo ferito ma non abbastanza da mostrare il pianto che la inondava dentro.
'Devi farti aiutare, Cole.'
'Devo solo dormire, Tamara.'
Le palpebre erano diventate improvvisamente così pesanti, le immagini sfocate e lo sforzo di rimanere cosciente totalmente vano.
Avrebbe perso il tramonto per quel pomeriggio.


   
 
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