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Autore: Celtica    13/02/2017    13 recensioni
Lei sollevò il dito per zittirlo e scosse il capo. «Non ci sente nessuno. Ora, Compagno Vania, hai intenzione di sprecare questa serata?»
Le dita di Vania le artigliarono la gonna. «Sprecare?»
«È quello che stai facendo…»
La guerra, la morte, il combattimento che avrebbe dovuto affrontare. Tutto divenne sfocato. Le immagini dei carri armati tedeschi che avanzavano nella loro madrepatria, la sensazione del cavallo sotto di sé mentre si lanciava al galoppo contro il nemico, mentre le esplosioni intonavano canti di morte intorno a lui; mentre uomini, animali, amici, saltavano in aria, affollando il mondo intorno a lui di caos e violenza.

Prima classificata al contest “Pazzi/e/ie… d’amore” indetto da Nirvana_04 sul forum di Efp.
Genere: Drammatico, Romantico, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Guerre mondiali
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Alba Cosacca

Prima classificata al contest “Pazzi/e/ie… d’amore” indetto da Nirvana_04 sul forum di Efp.

 

 

Alba Cosacca

 

 

Il rumore di un bacio non è forte come quello di un cannone,
Ma la sua eco dura molto più a lungo.
(Olivier W. Holmes)

 

 

U

na carezza al manto nero del suo cavallo.
Vania che la guardava come la prima volta, perso su quella pelle arrossata, sulla camicetta di cotone stretta in vita, sulla sua reazione sorpresa ai racconti di Polina.

“Tedeschi”, “invasione”, “guerra”.
Parole confuse senza alcun valore. Non avevano importanza, non se arrivavano da sua sorella.
Darya continuava ad ascoltare, la fronte corrugata.
La voce di Polina giungeva ovattata, mentre ogni respiro dell’altra tuonava nel petto di Vania, al pari di un colpo di pistola.

“È la verità, Vania.”

Un nitrito, lo zoccolo che batteva a terra, il fiato caldo del cavallo come una nuvola di vapore attorno a lei.
Era bella, brava a montare come un uomo, fiera e indomabile.
In tempi diversi sarebbe stata arruolata nel Battaglione della Morte, pronta anche a morire per lo Zar.

“Vania…”

Ma ora niente più Zar. Niente più Battaglione della Morte.
Per entrare nel battaglione cosacco di sole donne, Darya sarebbe dovuta passare al nemico.
Alcuni lo avevano fatto. Hitler aveva promesso terre e libertà, concessioni che Stalin stringeva tra i denti, lanciando occhiate malevole a chi aveva combattuto contro i bolscevichi nella rivoluzione russa.

“Vania.”

Strinse la mano intorno alla nagaika, la sua frusta, giusto un istante prima di spingere il colbacco indietro sulla fronte.
Se fossero stati altri tempi…

«Vania!»

Era Darya. Fissare le sue mani e la curva del braccio era servito solo a fargli perdere la concentrazione.
Ignorò Polina, che continuava a brandire la croce ortodossa legata al collo come un’arma.
Vania pensò che avrebbe fatto meglio a nasconderla sotto gli abiti. La sua croce, ritenuta un crimine in epoca sovietica, era diventata un’icona cucita nella fodera interna del cappello.

«Vania, hai sentito?» ripeté Darya. «Dovrai partire insieme agli altri.»

La guardò negli occhi, leggendo il suo messaggio: “e noi non ci vedremo più.”
Era possibile.
In tanti erano partiti, ma quanti erano tornati? Quanti erano tornati vivi? Alcuni avevano tradito, altri erano morti. A lui quale sorte sarebbe toccata?

«Polina è una bugiarda, Dasha.»

«Cosa?»

Vania estrasse la nagaika. «Sei una bugiarda, Pola. Torna a casa.»

Lei indietreggiò. Un altro nitrito, il sentore della violenza nell’aria. «Non puoi usarla» disse. «Il Consiglio…»

«Il Consiglio non è qui.»

Un’occhiata veloce a Darya, poi sua sorella cominciò a correre.
Il terreno era bagnato di neve, eppure Vania la vide raggiungere il villaggio senza alcuna fatica.

«Non lo avresti fatto» sussurrò Darya, posando entrambe le mani sul costato caldo dell’animale.

«No.»
«Lo so.»

Fece un passo verso di lei. «Volevo restare con te.»

«So anche questo.»

Sorrise, e Vania pensò che per un bacio, per un suo , avrebbe attraversato anche l’inferno. E ne sarebbe tornato.
Se Polina aveva detto il vero… perché lui non ne sapeva niente?
Perché nessuno gli aveva detto che i carri armati tedeschi lo aspettavano, che attendevano una loro imboscata, un loro attacco?
A cavallo, impugnando la spada, puntando i fucili contro i comandanti che sporgevano dalle torrette.

Quando un cosacco è a cavallo solo Dio è più grande di lui. [1]
Quel pensiero lo riempiva d’orgoglio. E non riusciva a idealizzarlo meglio che non posando gli occhi su Darya. Fiera, libera, indomabile… una cosacca perfetta; proprio come lui.

«Quindi andrai?»

Vania annuì. «Se andranno anche gli altri, sarà mio compito seguirli.»

«Lascerai il villaggio?»

In realtà non pensava che i tedeschi potessero spingersi così a est. I suoi compagni avevano detto che non sarebbe successo… Eppure, pensò, era per questo che erano tornati a casa.
Per difenderla.

«Sì.»

Darya voltò tutto il corpo verso di lui. «E a me non pensi?»

Vania la raggiunse, cingendola per la vita. «Dashenka…» mormorò, tirandola verso di sé.

Avrebbe voluto aggiungere mille cose, mille parole che si sarebbero perse nel rosso di quella sera. L’avrebbero aiutata a ricordare quel momento? O bastava lui, bastavano loro, per non dimenticare?

Si chinò su di lei – guance arrossate, espressione imbronciata -, facendo scontrare le loro fronti.

Darya si tirò indietro quando sentì il colbacco scivolarle dalla testa, e Vania si piegò con lei, unendo le loro risa, assorbendo il suo odore.
Sapeva di tante cose, ma più di tutto riconobbe il profumo dolciastro del pelo di cavallo, e capì che quel giorno si era allontanata per cavalcare.

«Dashenka…» mormorò di nuovo, soffiando l’alito bollente dall’orecchio alla sua guancia. «Dove sei stata?»

Lei raddrizzò il capo; strinse gli occhi. «Me lo stai chiedendo ora

Vania la cinse più stretta, come se potesse sfuggirgli. Abbassò lentamente il capo con un sorriso.
Darya incrociò le braccia al petto, costringendolo ad allentare la presa. Scosse la testa con aria divertita.

«Capitano Vania… mi aspettavo di più da lei. Mi…»

«Non sono capitano» la interruppe. «Cosa ti aspettavi?»

Stava calando il buio, eppure riconobbe quel suo sguardo, quello con il quale riusciva a incantarlo. Quella sua orrenda imitazione delle occidentali e dei loro modi civettuoli.

«Lo diventerai» disse, seria. Poi voltò il corpo verso le luci del villaggio, verso il fumo, i suoni, le voci. Sembrò perdersi in quel disegno, eppure, pensò Vania, non toccava a lei salutare tutti. Non toccava a lei partire.
Quando roteò tra le sue braccia, tornando a guardarlo, la vide sorridere. Decisa, sincera, innamorata.
Non c’era ombra di tristezza sul suo viso.

«Capitano Vania, o anzi! Anzi! Ho trovato il nome perfetto!» Si chinò appena in avanti, sollevando il mento verso di lui. «Compagno Vania.»

«Tu scherzi, ma dovresti davvero chiamarmi così.»

Lei sollevò il dito per zittirlo e scosse il capo. «Non ci sente nessuno. Ora, Compagno Vania, hai intenzione di sprecare questa serata?»
Le dita di Vania le artigliarono la gonna. «Sprecare?»

«È quello che stai facendo…»

La guerra, la morte, il combattimento che avrebbe dovuto affrontare. Tutto divenne sfocato. Le immagini dei carri armati tedeschi che avanzavano nella loro madrepatria, la sensazione del cavallo sotto di sé mentre si lanciava al galoppo contro il nemico, mentre le esplosioni intonavano canti di morte intorno a lui; mentre uomini, animali, amici, saltavano in aria, affollando il mondo intorno a lui di caos e violenza.
Corpi a terra, sangue, membra, immagini che gli sarebbero entrate negli occhi e nella mente, per sempre. E Darya. Il viso di Darya che galleggiava su una nuvola davanti a lui, mentre spingeva il cavallo al galoppo, mentre gli chiedeva di correre più veloce.

«Vania?»

Vania si riscosse. La attirò a sé, la strinse tanto da farle male. Non la sentì lamentarsi mai, nemmeno quando affondò la testa nell’incavo del suo collo, avviluppandola nel suo abbraccio soffocante.

«Vania…»

Aveva capito. Doveva averlo fatto. Era una debolezza, la sua? Era una debolezza voler trascorrere quella notte con lei, solo, invece di correre a riempirsi lo stomaco di vodka?
Non sapeva ancora quante ne sarebbero trascorse prima di ripartire. Non lo sapeva, e voleva approfittare di ogni istante per fuggire dalla realtà della guerra.

«Dashenka» la chiamò, scostandosi appena.

Parole soffocate, inutili, sprecate.

Se voleva dirle qualcosa poteva farlo in un altro modo. Una carezza rude, brusca, le mani che si rincorrevano sulla sua schiena, il respiro unito al suo.
E poi un bacio, affrettato, ruvido, bagnato, che aveva in sé il sapore della battaglia, della libertà conquistata, della sua fede ortodossa. Un altro, un altro ancora, esplosioni che si rincorrevano nella sua mente, cannoni che eruttavano come vulcani, cosacchi che cadevano come occidentali.
Cavalli sollevati da terra, gli ultimi nitriti, respiri, richieste d’aiuto.

Vania li avrebbe portati con sé: ogni tocco, bacio, sussurro. Sarebbero stati il suo amuleto, l’angelo sulla sua spalla sinistra, la sua croce tatuata addosso.

 n

Erano accampati, in attesa di un segnale.

All’alba, se il Comandante lo avesse ordinato, sarebbero partiti. I tedeschi erano vicini, Vania lo aveva sentito dire, e non vedeva l’ora di affrontarli.
Afferrò la bottiglia di vodka, incrociò le gambe davanti al fuoco semi spento, restò ad ascoltare le battute dei suoi compagni, le loro risate.

Gli mancava il villaggio con i suoi canti, con le sue risa possenti. Gli mancava il villaggio, anche se l’aveva lasciato da un solo giorno.

Decise che in battaglia, quando in sella al suo cavallo avrebbe affrontato quei mostri di ferro, avrebbe pensato a Darya. Ai suoi baci. Al tempo trascorso con lei.
Il resto della cavalleria si svegliò poco dopo, mentre la notte cominciava a perdere la sua oscurità.

Era ora.

Un cenno, gli uomini che raggiungevano i cavalli, che facevano colazione con la vodka.
Movimenti lenti negli occhi di Vania, eppure l’animo della battaglia era in loro. In tutti loro.
Montò in sella, seguì gli altri, marciò finché il braccio del Comandante non diede l’ordine di fermarsi.

Erano lì.

Due carri armati tedeschi, separati dalla battaglia. Forse aspettavano il loro momento, forse difendevano un punto.
Vania non lo sapeva. Non gli importava.
Da un momento all’altro avrebbero caricato, sparando ai comandanti sulle torrette, e attirando i carri in un’imboscata. Su una striscia di ghiaccio, o dove si sarebbero impantanati…

“Vania.”
La voce di Darya… Lei lo avrebbe accompagnato in quell’impresa, gli avrebbe dato coraggio. Più della vodka, più degli incitamenti dei compagni.

«Vania.»

No.
Non era possibile.

Vania strinse le redini. Poi le appoggiò al garrese e tolse un guanto. Erano fermi, in attesa. E la sua mano cercò il contatto con il collo caldo del cavallo, mentre lui socchiudeva gli occhi.
Non era possibile.

«Vania!»

Quando si voltò, il compagno al suo fianco sfilò la fascia rossa dal volto. Era lei. No. Non era possibile. Non doveva essere lì. Caftano, pantaloni larghi grigio-blu, stivali, cappuccio di pelliccia, colbacco. Fascia rossa.
E sotto la divisa, sotto quegli abiti maschili, c’era lei. Darya.

«No!»

Allungò le mani per rubarle le redini, ma a Darya bastò spostare il peso di lato perché il cavallo la imitasse, seguendo i suoi movimenti.
Era brava a cavalcare, brava quanto un uomo.

«Sei pazza.»

Il voltò di lei si indurì. Scorrendo gli occhi sul suo viso, Vania raggiunse l’orecchio, vide cosa c’era sotto il cappello. Rasata. Testa rasata. Come le donne del Battaglione della Morte, come le cosacche che combattevano.
«Sono qui per te» disse lei, sollevando la fascia sulla bocca.

«Non avresti dovuto. Ti farai uccidere, Dasha. Morirai, e allora cosa dirò a tuo padre? Cosa dirò al villaggio?»

Darya mandò il piede più a fondo nella staffa. Sbuffò, e il cavallo con lei. «Se è per loro che ti preoccupi…»

«Mi preoccupo per te» la interruppe. Poi fece una pausa. «Mi dispiace» aggiunse. «Ma devo dirlo al Comandante.»
Forse lui l’avrebbe rimandata a casa. Sì, l’avrebbe costretta, dicendole che una donna deve fare quanto comanda l’uomo. Il suo uomo. E per il momento, era a suo padre che Darya doveva rendere conto…
Fece per avanzare, ma Darya spinse il cavallo contro il suo, facendo innervosire l’animale.

«Voglio venire con te, Vania. Ormai ho deciso, non puoi fermarmi.»

«Dashenka…»

Era lei che amava. Era per quel temperamento, quella sua aria ribelle, che l’aveva desiderata la prima volta. Quando suo fratello l’aveva colpita, spingendola a terra. Darya si era rialzata, lo aveva sfidato con uno sguardo, con una parola, e Vania era intervenuto per fermarli.

Avrebbero combattuto insieme. Fianco a fianco. Il cannone avrebbe tuonato per loro, li avrebbe spronati a continuare, a spingere i cavalli al galoppo, ad affrontare la morte.
Se fossero sopravvissuti, allora Vania l’avrebbe presa in moglie, tornando nel villaggio senza separarsi più da lei.

«Lasciami venire» lo supplicò Darya.

Non ebbe il tempo di pensare. Il braccio del Comandante volò verso l’alto, il suo grido di battaglia riecheggiò tra le file, fino a loro.
Non un comando, non un gesto, il corpo stesso che si muoveva dominando il cavallo, incitandolo a correre verso il nemico. Verso il pericolo. Verso la morte.

Darya si mosse insieme a lui, in una danza diversa da quella che avevano condiviso; partì al suo fianco, sgolandosi in urla che chiamavano la violenza.
Il cavallo sotto di lui, lei al suo fianco, pazza e indomabile, ribelle come doveva essere un cosacco, bella come quell’alba in cui avrebbero affrontato i tedeschi.

Vania sentì salire alle labbra il sapore di quei baci, che sembravano durare in eterno. Più delle esplosioni, più delle battaglie, più del pericolo. Oltre la vita. Oltre la morte.

L’eccitazione corse lungo il suo corpo, brivido su brivido, mentre affondava i talloni nei fianchi dell’animale, mentre i carri armati erano sempre più vicini. 
La torretta di guardia ruotò verso di loro.

Poi, tuonò il cannone.

 n

Note dell’autrice:

[1] bellissima frase presa in prestito da Robin Wood.

 Ho aspettato l’ultimo giorno per pensare a una storia per il Contest. Poi ho capito che sarebbe stato più semplice dedicarmi a uno storico, il genere che ha visto crescere la mia scrittura nel corso degli anni.
Non sono solita riportare date e prove, ma questo non significa che le informazioni contenute all’interno del testo siano fasulle. I comunisti odiavano le religioni, così come odiavano i Cosacchi per aver combattuto per lo Zar. Hitler aveva davvero i suoi Cosacchi. Tradizioni e costumi sono frutto di vecchie ricerche, un pochino arrugginite nella mia mente.
Ho preferito parlare di loro in generale, senza fissarmi su un dato gruppo. In quel caso sì che avrei combinato pasticci!
Celtica

   
 
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