Senza anima
Il
cigolio della carrucola era diventato quasi un rumore di sottofndo,
mentre davanti ai suoi occhi non facevano che scorrere segni e crepe.
I mattoni di quel muro erano davvero vecchi, corrosi dalle intemperie
e dal tempo, non era certo difficile immaginare perché ci
fosse
bisogno di così tanta manutenzione. Quando il grigiore dei
mattoni
invecchiati lasciò spazio al primo azzurro del cielo, gli
occhi d
Mari andarono spalancandosi, chiedendosi quali meraviglie ci fossero
al di sotto di esso. La delusione la colpì malamente quando
vide un
altro muro a coprire l'orizzonte: il Wall Maria. Solo case e alberi,
lo stesso identico scenario ovunque guardasse. La stessa identica
gabbia.
«Avanti!
Seguitemi!» ordinò il capitano Ludwing al gruppo
di reclute che con
lui si sarebbe occupato di sostenere alcuni lavori di manutenzione
del muro.
«Beh,
fa il suo effetto, non c'è che dire»
commentò Brown, uno dei
cadetti scelti da Ludwing per quel noioso lavoro di routine ma che
avrebbero dato un po' di esperienza in più a quelle mele
acerbe.
«Già!
Guarda che panorama» gli diede corda Annalise, una ragazza
alta
tanto quanto mascolina, perfino nel taglio di capelli.
«Si
vede solo il muro» si intromise Mari, benchè
certamente nessuno
avesse chiesto il suo parere. Lo sguardo abbassato, le sopracciglia
corrucciate e il tono di voce avvilito con cui aveva parlato non
lasciava spazio a fraintendimenti: qualcosa la turbava.
«Cosa
succede? Ti è morto il gatto?» la
punzecchiò Paul. Un ragazzetto
basso e dalla folta chioma scura, tanto ispida da sembrare un riccio.
«Paul!
Razza di insensibile, non lo sai che lei ci è cresciuta in
mezzo ai
gatti?!» l'ammonì Annalise.
«Ah!
Sul serio?» sobbalzò Paul, dimostrando che
veramente non sapeva
niente e la sua voleva solo essere un'ingenua battuta. «E
quindi sai
parlare il gattese? Dimmi! Che significa "miao miao miao"?»
«Sei
idiota per caso?» chiese Brown, alzando un sopracciglio.
«Significa
"sei un'idiota, l'hai solo fatto arrabbiare"»
sospirò
Mari, accelerando il passo e cercando di allontanarsi da quei tre.
Brown
si fermò, chinando a testa da un lato e guardando la rossa
con
l'aria di chi ha appena visto passare un folle.
«Non
diceva sul serio, vero?» chiese poi a Annalise, che aveva
assunto la
stessa identica espressione stralunata. «È
così da quando siamo
partiti. Chissà che le è successo»
aggiunse poi.
«Non
state lì impalati! Forza, abbiamo del lavoro da
fare!» li richiamò
Ludwing e questo li costrinse a rimettersi in cammino. Mari
proseguì
a testa bassa. Dalla mente non riusciva a togliersi le immagini della
chiacchierata avvenuta quella mattina stessa con Levi, rammaricandosi
e colpevolizzandosi di come fossero andate le cose. Il desiderio di
ottenere una sua approvazione l'aveva spinta a impegnarsi tanto,
poteva dire di aver trovato un motivo più forte al
"desiderio
di volare come lui" che la spingesse a inseguire l'Armata
Ricognitiva con tanto affanno: lei voleva essere con lui.
Ma erano bastati dieci minuti a distruggere tutto.
"Non
ho nessuna intenzione di portarmi appresso un cadavere che cammina"
aveva detto con tale astio e convinzione che pensare e sperare in un
suo ripensamento era diventato sempre più difficile.
In
un delicato gesto, le dita della mano destra andarono a chiudersi su
se stesse, cercando il contatto con la stoffa di quel fazzoletto che
si ostinava a portare legato alla mano benchè ormai la
ferita fosse
chiusa. Le dava sicurezza, averlo con sè. Era un dono a cui
non
avrebbe voluto mai rinunciare. Com'era stato gentile la sera che si
era preoccupato di andarla a cercare, com'era stato gentile quando la
prima volta, nel bosco, le aveva detto di essere stata brava, e
quanto era stato gentile nel fermarsi a insegnarle qualche tecnica di
combattimento. La sua schiena che si allontanava in volo, il suo
sguardo di astio e disapprovazione, dopo averla urtata, stavano
sfumando come gesso su una lavagna strofinata con insistenza. Sarebbe
riuscita a riottenerli, quei gesti? O questa volta le avrebbe portato
rancore per sempre?
Che
persona complicata era Levi e quanto sapeva essere stupida lei!
Sospirò,
portandosi la mano fasciata al petto, solo per poter avvicinare quel
pezzo di stoffa al cuore. Avrebbe provato a chiedergli perdono,
avrebbe provato a rimediare, ma era difficile accettare tutto
quell'astio dopo che finalmente aveva ottenuto dei sorrisi da parte
sua. Non le interessava più dimostrare che avesse ragione,
non le
interessava più costringerlo a comprenderla, ma desiderava
solo...
solo che le scompigliasse ancora i capelli. Il tocco apparentemente
burbero, ma sorprendentemente delicato in verità, delle sue
dita che
le accarezzava la cute, infiltrandosi tra le sue ciocche. Un soffio
di vento fece quello che aveva appena desiderato: là sopra
il vento
era più forte che altrove e spesso bisognava fare grande
forza con
le gambe per riuscire a contrastarlo.
"Se
si chiude gli occhi, si riesce a percepire il soffio del vento sulla
pelle, la melodia degli uccellini, la morbidezza al tatto di un
prato, il profumo di un fiore... e il dolore sparisce come per
magia."
Strinsele
dita contro la stoffa della sua camicia e fece come lei stessa aveva
detto: chiuse gli occhi. Il soffio del vento era pungente contro la
sua pelle, non morbido come aveva sperato e sempre sognato. Sotto le
sue mani, sotto i suoi piedi, c'era solo ruvida e fredda roccia. Non
riusciva a percepirlo il tocco del prato. Ispirò l'aria,
sperando in
almeno i profumi, ma percepì solo l'odore della pietra e del
metallo.
Perché
non ci riusciva? Perché non riusciva più a farla
quell'incredibile
magia dove riusciva a eliminare tutto il dolore? Per anni era stato
così semplice quando voleva scappare dalla fogna in cui
viveva,
quando voleva scappare dal tocco di quelle mani sudaticce e violente.
Fece
un profondo respiro, cercando di calmare il cuore in petto che
scoprì
battere più forte del previsto. Ma niente, era come una
maledizione.
Il dolore non se ne andava neanche con la più potente delle
immaginazioni.
Fu
in quel momento che lo sentì: suoni gutturali, sembravano
quasi
urla, una sfida a chi imprimeva più forza nelle corde
vocali.
Provenivano da sotto le mura, versante esterno, tra le case di quella
città che l'anno prima apparteneva agli uomini ma in cui ora
invece
primeggiavano solo Giganti.
Mari
aprì gli occhi e senza pensarci oltre, corse verso
l'estremità
esterna del muro.
Doveva
vederli, doveva vederli bene, scrutare loro negli occhi, coglierne i
segreti e apprenderne come sopravvivere. Doveva farlo non per se
stessa, ma per comprenderlo. Comprendere Levi e la sua ira.
«Mari!»
richiamò Annalise, terrorizzata, quando la vide scattare
verso il
bordo.
«Si
butta?» chiese Paul ingenuamente, curioso, forse
inquietantemente
speranzoso.
Ludwing
si voltò ad osservare i cadetti che si era portato appresso
per il
lavoro, chiedendosi perché facessero tutto quel baccano, e
vide
appena in tempo Mari arrivare al bordo e inchiodare, fermandosi a
guardare sotto di sè. Sobbalzò, spaventato
all'idea che la ragazza
avesse potuto per un attimo pensare al suicidio, ma poi si
ricordò
di Levi che gli aveva chiesto di portarsela per "mostrarle i
giganti". Non ne aveva mai visto uno, e tutto ciò che
desiderava fare era colmare quella lacuna.
Mari,
dall'alto delle mura, osservò gli esseri che sotto di
sè si
dimenavano, arrancando sulla pietra scivolosa, e allungavano le
braccia verso il cielo nella vana speranza di raggiungere le proprie
prede. Come dicevano i libri, ce n'erano di alti e di bassi,
dall'anatomia più o meno simile e lo sguardo assente. Il
corpo di
alcuni sembrava disgustosamente sproprzionato o disarticolato, ma
alla fine non erano poi tanto diversi dagli esseri umani.
Si
inginocchiò sul bordo, avvicinandosi un po' nella loro
direzione e
continuò ad osservarli. Il cuore in petto le batteva forte,
mentre
realizzava quanto fossero terrificanti e, soprattutto, reali. Niente
ombre, niente mostri nell'oscurità, solo la pura
verità.
«Chi
siete, voi?» chiese lei, sovrappensiero.
E
si buttò.
Le
urla di Annalise partirono all'unisono di quelle di Brown e del
capitano Ludwing, che invece chiamarono il suo nome, prima di correre
verso di lei nella vana speranza di riuscire ad afferrarla e
impedirle la caduta.
Mari
si ammorbidì, lasciandosi trascinare giù dalla
forza di gravità,
premurandosi solo di mantenere sempre un contatto visivo con le
creature che si facevano sempre più grosse sotto di
sè. Cercava
risposte, cercava qualcosa che neanche lei sapeva cos'era.
Però il
cuore ardeva.
"Ma
cosa saprai fare quando ti troverai davanti il tuo "gatto
mangiatore di carne"? Avrai tempo e forza di soppesare paure e
desideri?"
Roteò
rapidamente e fece scattare il suo meccanismo per il movimento
tridimensionale. L'arpione si conficcò nel muro e presto il
cavo
bloccò la caduta della ragazza a pochi metri prima di
raggiungere i
mostri sotto di sè. Si voltò, tornando a
guardarli, quasi con aria
di sfida, mentre loro si allungavano e cercavano di afferrarla. A
bocche aperte, come bestie, si affaccendavano... ma nei loro occhi
primeggiava il vuoto.
«Siete
terrificanti» commentò Mari.
Sopra
di lei le voci dei suoi compagni la raggiunsero nell'eco della valle.
La chiamavano, le dicevano di tornare su, il capitano la
minacciò di
punirla severamente per il colpo di testa. Ma Mari restava immobile,
come se non percepisse e non vedesse altro che quelle bocche
gigantesche che nell'aprirsi sembravano tanto dei sorrisi. Le mani,
le enormi mani, che grattavano contro la roccia e cercavano di
raggiungerla. Gli occhi vuoti, le cui palpebre neanche sbattevano. Un
urlo gutturale la raggiunse, riuscendo a distogliere la sua
attenzione e puntarla su un nuovo gigante. Aveva corso per
raggiungerli e riuscì a notarlo appena in tempo per vederlo
balzare
nella sua direzione. Mari fece scattare il meccanismo, permettendogli
di trascinarla su appena in tempo per non essere afferrata. Quando
era arrivato? Se non l'avesse visto e non avesse reagito per tempo
sarebbe stata presa e divorata. La sua sicurezza per la distanza
ottimale che sentiva di avere era stata stracciata in un istante. Per
quante altre persone doveva essere andata così? Quanti erano
morti
perché non erano riusciti a notarli o reagire per tempo?
Quanti
avevano abbandonato dolorosamente quel mondo pensando "è
stata
colpa mia"?
Il
cavo si riavvolse rapidamente e Mari in pochi secondi fu di nuovo al
sicuro sopra il muro, tra i suoi compagni. Le ginocchia si
ammorbidirono e lei si accasciò, inginocchiandosi,
improvvisamente
indebolita, ma Ludwing le impedì di toccare terra.
L'afferrò per il
colletto e avvicinò il proprio viso al suo, urlando con gli
occhi
furiosi: «Hai idea del pericolo che hai corso? Ti
è dato di volta
il cervello?»
«Mi
dispiace» bofonchiò lei, senza però
esserne realmente turbata. Il
suo sguardo ora sembrava vuoto proprio come quello dei giganti.
«Ho
capito.»
Una
frase che forse non aveva niente a che vedere con quanto stava
accadendo, ma che si riallacciava a quello stesso filo di pensiero
che l'aveva spinta a buttarsi. Ma Ludwing, che non si trovava dentro
quella testa, non poteva saperlo.
«Quando
torneremo ci penserà l'istruttore Keith a darti una
punizione
esemplare! Questo tuo comportamento sconsiderato, se attuato in
esterno, avrebbe potuto mettere in pericolo tutti noi! Ha ragione
Levi! Ti manca la disciplina! Mandarti lì fuori sarebbe un
rischio
per tutti!»
A
sentire quel nome Mari parve rianimarsi appena, ma tutto ciò
che
cambiò fu solo il suo sguardo, ora addolorato.
«Mi
dispiace» mormorò.
«Sciocca
sconsiderata!» ringhiò Ludwing lanciando via la
ragazza, contro gli
altri compagni. Brown, vedendosela arrancare contro, la
bloccò per
le spalle, impedendole di caderle addosso. «La prossima volta
che
hai questi colpi di testa assicurati di non sopravvivere,
così da
non complicare ulteriormente la vita a chi ti sta attorno! Non
perdiamo altro tempo, abbiamo del lavoro da fare!» disse
ancora il
comandante e voltandosi tornò a procedere lungo il muro.
«Dimmi,
sei pazza?» chiese Brown.
«Startene
rinchiusa sottoterra con i gatti ti ha mandato in fumo il cervello
ragazza mia» disse Annalise, contrariata per quanto appena
successo.
Odiava essere ripresa dai superiori e per quanto non fosse stata
rivolta a lei il rimprovero, sapeva che ora il capitano Ludwing era
di pessimo umore e qualsiasi sgarro sarebbe stato pagato caro. Brown
lasciò andare Mari e la superò, seguendo il resto
dei suoi compagni
dietro al capitano. I sensi di colpa e il dispiacere per una tale
situazione si fecero sentire nel petto di Mari, ma non si
pentì di
quanto successo. Lei doveva vedere, doveva capire. Era necessario e
loro questo non l'avrebbero mai potuto comprendere.