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Autore: Ias    14/02/2017    1 recensioni
Hanno smesso di fare favori all’altro; non dopo che Galen se n’è andato, non dopo tutte le conseguenze provocate dalla sua decisione.
{ Galen/Orson | Raccolta | 11579 parole | Traduzione di Hiraeth }
Genere: Angst, Generale, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Galen Erso, Lyra Erso, Orson Krennic
Note: Missing Moments, Raccolta, Traduzione | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Note della traduttrice (Hiraeth): mi ero detta “mai più long!” e invece. Sigh. Maledizione alla Galennic per essere una ship così meravigliosa. T__T
 Questa raccolta è una traduzione dei prompt fill di Ias pubblicati sul suo blog su Tumblr. Le singole storie sono tecnicamente slegate tra loro, ma con il consenso dell’autrice (che è un tesoro ♥) le pubblico in ordine cronologico, in modo tale da essere più o meno lette come se fossero un unico grande racconto; solo non stupitevi se tra una flashfic e l’altra ci sono cambi di stile o di tempo verbale.
 Non è necessario aver letto Catalyst per approcciarsi a questa fanfiction, anche se ovviamente consiglio caldamente di farlo per capire meglio le dinamiche tra Galen e Orson, il modo con cui sono passati dalle rose e fiori di quando erano migliori amici all’angst degli eventi di Rogue One. Ah, ne approfitto per invitarvi a firmare questa petizione promossa da Star Wars Libri & Comics: sostenete la pubblicazione dei romanzi canon di Star Wars in Italia!
 Detto questo, vi auguro buona lettura. Spero vi piaccia!











Reconfigurations
di Ias






I


La prima volta che posò gli occhi su Galen Erso, Orson Krennic si accorse a malapena della sua esistenza. Lui era capace di riconoscere chiunque esercitasse una certa influenza – o meglio, chiunque avesse genitori da cui in futuro avrebbe ereditato tale influenza – dal tessuto della camicia che indossava, dal modo con cui sollevava il mento e, naturalmente, dall’impeccabile accento dei Mondi Centrali. Galen Erso non possedeva nessuna di queste caratteristiche e, cosa peggiore, non mostrava alcun interesse nell’acquisirle. Orson desiderava il potere e rispettava l’ambizione. Quando gli fu chiaro che Galen Erso non provava alcun interesse per entrambe, tracciò mentalmente una linea sul nome del compagno di scuola dalla lista delle persone degne della sua attenzione. Per anni Orson avrebbe sorriso al ricordo di come avesse del tutto sottovalutato l’amico.

 La prima volta che vide la mente di Galen in azione fu durante un progetto di ingegneria. Era uno dei primi esami pratici che affrontavano e l’istruttore l’aveva reso impossibile per impartire loro una lezione. Con a disposizione solamente le informazioni alla lavagna e dei cavi, era stato loro richiesto di creare un dispositivo in grado di intercettare le trasmissioni non protette sull’HoloNet e di riprodurne una copia audio. Orson aveva saputo sin dal principio che quella era un’impresa per stupidi, ovvero impossibile in sostanza. Era molto più istruttivo osservare come reagivano i suoi compagni di classe, identificare coloro che avevano compreso subito che il compito non era fattibile e coloro che ci provavano comunque. Orson capiva chi era inutile in base al livello di sincero impegno che uno impiegava nel farcela. Studiando gli altri, un sorriso compiaciuto gli curvò le labbra.

 Ma ci fu uno studente che, anziché tuffarsi direttamente a capofitto nel metallo e nei fili, con calma prese in mano una penna e iniziò a scrivere. L’attenzione di Orson si indirizzò a lui, i movimenti ininterrotti e pensosi della mano lungo lo schermo del proprio datapad. Nonostante il limite di tempo, Galen non parve aver fretta. Dopo cinque minuti smise di scrivere, si voltò verso le sue parti e cominciò ad assemblarle.

 Finì di montare quel maledetto aggeggio esattamente un minuto prima che l’istruttore annunciasse la scadenza. Funzionava perfettamente. Quando udì le voci metalliche e tremolanti diffondersi nell’aria tesa della classe, Orson Krennic si rese conto di aver commesso un errore. Non gli capitava spesso che una consapevolezza simile lo eccitasse tanto profondamente.

 Il giorno dopo trovò Galen nella caffetteria, seduto da solo con un libro sollevato davanti a sé. Senza tante cerimonie, Orson si buttò e occupò il posto di fronte a Galen, e lo fissò fino a quando l'altro non notò la sua presenza.

 Galen batté le palpebre come se si fosse appena risvegliato da una trance. Abbassò leggermente il libro retto tra le dita. «Ti conosco?»

 Non c’era bisogno di sprecarsi in carinerie sociali con questo qui. A Orson la cosa non dispiacque. «Mi chiamo Orson Krennic» si presentò, un largo sorriso che si estese sulle sue labbra. «Sono un grande ammiratore del tuo lavoro».

 «Il mio lavoro..?» Galen batté nuovamente le palpebre. Un tic adorabile. «Ti sbagli. Sono solo uno studente, proprio come te».

 «Non mi sbaglio». Orson si protese in avanti, un sorriso cospiratorio sulle labbra. Per sua grande gioia, anche Galen inconsciamente si avvicinò. «Vedi, io vanto l’abilità di leggere le persone» proseguì Orson. «Più precisamente, io leggo il potenziale. E dopo quello che hai conseguito ieri al laboratorio, be’». Allungò una mano oltre il tavolo. «Diciamo che sono un ammiratore del lavoro che realizzerai».

 Per un momento Galen esitò, scrutando la mano di Orson come la linea punteggiata di un contratto che aveva scorto a stento. Ma poi la strinse. Il suo palmo era caldo e leggermente incallito. E tutt’a un tratto, Galen era di Orson.






II


«Posso badare a me stesso, Orson. Non c’è bisogno che tu balzi in mia difesa tutte le volte che qualcuno fa commenti sul mio accento».

 «Quelli lì avevano parecchio da ridire anche sul mio». Una fitta di dolore alle costole lo fece incespicare di nuovo. Senza esitare, Galen allungò un braccio e glielo avvolse intorno al busto. A Orson non pesò ingoiare il suo orgoglio e permettere a Galen di aiutarlo.

 «Non far finta di importartene di quello che pensano gli altri di te» ribatté Galen. «Una parte di te se la gode».

 «Qualcuno li deve rimettere al loro posto».

 Nell’approssimarsi alla porta, Galen scosse la testa con un sospiro. «Scoprirai che lo studio comporta maggiori vantaggi rispetto ai tuoi tentativi di scalare la gerarchia sociale a forza di scazzottate».

 Orson sbuffò. «Il prestigio non è l’unica cosa che mi interessa. Dovresti saperlo». Galen mollò la presa sull’amico per agitare la mano davanti ai sensori della porta, e Orson entrò nella stanza senza perdere il filo dei suoi pensieri. «L’intelligenza non conta nulla se non hai potere» continuò, dirigendosi verso il divano di Galen e sdraiandovisi sopra. Non appena si mise in una posizione appena appena orizzontale, i suoi muscoli ricominciarono a pulsare.

 Per qualche secondo Galen si aggirò per gli armadietti dei farmaci, la voce soffocata. «Così come il potere è inutile senza la conoscenza». Quando raddrizzò la schiena e si girò, Orson vide che teneva in mano un pacchetto di batuffoli di cotone e il tubetto di un qualche medicinale.

 Lo occhieggiò aspramente. «Sul serio, Galen?»

 «Non lamentartene» lo rimbeccò severamente l’altro. «La tua faccia sembra una pietanza che servirebbero per cena».

 Ruotare gli occhi gli procurò una seconda fitta di dolore e Galen si sistemò accanto a Orson sul divano. «La tua è preoccupazione per il mio benessere? O forse mi vuoi qui con te perché sono un bel vedere?»

 «Ho sempre amato una causa persa».






III


«Allora, Galen» lo approcciò uno dei tanti esponenti dell’alta società venuti alla festa. Notando l’improvviso entusiasmo nel suo tono di voce, Galen si preparò mentalmente. «Dati i risultati promettenti che ha ottenuto con il suo lavoro sulla sintesi dei cristalli, uno non può fare a meno di domandarsi se lei al suo fianco abbia qualcuno con cui condividere il successo».

 «Abbiamo discorso circa le possibilità che il nostro genio elusivo si fosse trovato… come dire, un partner di laboratorio» rincarò qualcun altro volgendogli un sordido sorriso.

 Galen si costrinse a ritornarglielo e tentò di guadagnare tempo bevendo un lungo sorso del suo drink. Non riusciva a ricordare come avesse conosciuto le persone che lo attorniavano; teoricamente erano state suoi compagni di classe ai tempi del Programma Futuro della Repubblica, anche se quella poteva benissimo trattarsi di una bugia. Lo osservavano con occhi avidi, attendendo che facesse parola. Con un intorpidito senso di rassegnazione, Galen si chiese chi di loro avesse una sorella o un fratello o un collega che, ne erano certi, lui sarebbe stato lieto di frequentare, una volta scoperto se Galen fosse single o meno.

 Inghiottendo rigidamente il drink, elaborò la sua risposta.

 «Ah, Galen. Eccoti». Il suono della voce di Orson fu allo stesso tempo un sollievo e un ulteriore supplizio: nel momento in cui avrebbe capito l’argomento della conversazione, Galen sarebbe stato destinato a essere preso in giro per settimane. Tuttavia, quando l’altro si unì al gruppo, lui si accorse di essere cinto al busto da una mano ferma e decisamente non amichevole. Prima che potesse registrare quello che stava succedendo, avvertì le labbra di Orson sfiorargli la guancia.

 Fissò in preda a uno stato di shock assoluto l’amico, troppo stupefatto per ritrarsi o interrogarlo sulle sue intenzioni. Orson lo aveva baciato. Ancora percepiva la sensazione latente delle sue labbra sulla pelle, che sempre più si infiammava. Quello era Orson, giusto? Non uno strano doppelganger con un evidente desiderio di tenerlo risolutamente accanto a sé? Ma riconobbe negli occhi dell’ingegnere un familiare luccichio malizioso.

 «Orson?» disse, completamente sconcertato. «Che stai…»

 «Ti ho cercato dappertutto» si lamentò Orson. Con il pollice tracciò piccoli cerchi massaggiandogli il fianco, un minuscolo punto di unione talmente distraente da costringere Galen a limitarsi a scrutare irrazionalmente l’uomo nelle iridi. Il leggero colorito in faccia suggeriva che Orson era leggermente brillo, ma era improbabile che il suo comportamento fosse dovuto all’ebbrezza. Già più e più volte aveva visto Orson più ubriaco di così. E non era mai diventato tanto affettuoso.

 Orson notò le espressioni di sgranata sorpresa e di delizia lasciva attorno a se stesso e Galen, e sollevò un sopracciglio. «Non mi presenti ai tuoi amici?»

 Quando finalmente riuscirono a districarsi dall’interrogatorio collettivo, Galen cominciò a mettere in discussione il suo contatto con la realtà. Orson si era lanciato nella descrizione dell’elaborata storia del loro primo incontro, con abbastanza verità intersecate nel resoconto da far dubitare a Galen dei suoi stessi ricordi. Da quanto tempo stavano insieme? Lui non era nemmeno capace di inventarsi una bugia plausibile. Eppure Orson aveva ribattuto a ogni perplessità senz’alcuna esitazione, snocciolando una serie di aneddoti avvincenti e permettendo all’altro di intervenire il giusto numero di volte necessarie per evitare di apparire una statua inanimata. E quello non era stato tutto fumo: la mano poggiata sulla vita di Galen aveva vagato e gli aveva carezzato la nuca, giocato con i suoi capelli, ed era scivolata nuovamente in basso per tenerlo stretto a sé. A volte Orson si era avvicinato per bisbigliargli qualche sciocchezza nell’orecchio, in bella mostra e perché tutti li udissero.

 Mentre Orson prometteva a più di qualcuno di rivedersi per un tè e, allo stesso tempo, guidava con cortesia loro due via dalla folla, Galen aveva l’impressione che il suo cervello fosse stato strapazzato da un tagliacristalli.

 «Avvolgimi le spalle con un braccio» gli sussurrò nell’orecchio Orson intanto che camminavano, ancora avvinghiati l’uno all’altro. Galen deglutì con la gola secca. Ormai non aveva senso diffidare delle motivazioni dell’amico. Fece come gli venne chiesto, circondò con un braccio le spalle e posò il palmo sul fianco dell’altro. «Bene» dichiarò Orson. «Non serve dirmi grazie».

 «Grazie?»

 «Oh, prego» replicò Orson con un sorriso ironico. «Origliando ho capito che ti stavano di nuovo assillando con quelle stancanti domande. Ho pensato di risparmiarti l’onta dei loro progetti di accoppiamento».

 «È… gentile da parte tua» osservò Galen, incerto. Ancora avvertiva un bruciore nella zona della guancia dove era stato baciato, che ardeva come se fosse stata marchiata a fuoco.

 Si fermarono ai margini della sala, al che Orson lo lasciò andare. «Per il resto della notte non ti dovrai preoccupare di rifiutare appuntamenti con i parenti lontani altrui» constatò, acchiappando al volo un paio di drink da un vassoio che passava e porgendone uno a Galen. «Naturalmente, il prezzo da pagare è alto. Per qualche ora sarai costretto a fingere di non detestarmi».

 «Io non ti detesto» rispose Galen, prima di vuotare il contenuto del bicchiere nello stomaco. Con il piacevole brivido dell’alcool nelle vene, la situazione pareva molto più gestibile. Persino ridicola. L’indomani lui e Orson si sarebbero fatti due risate sulle pagliacciate combinate. Inconsciamente si toccò la guancia con le dita, come per strofinare via qualcosa che vi era rimasto attaccato.

 Il sommesso verso di disgusto che Orson emise lo riscosse dalle sue fantasticherie. «Hanno pescato l’ennesimo invitato da presentarci. Svelto, circondami il collo con le braccia».

 Questa volta non esitò. La pelle che spuntava dal colletto dell’abito di Orson era calda e leggermente sudata a causa della temperatura della stanza. Sui fianchi di Galen poggiavano le mani dell’amico. Senza che gli fosse suggerito, lui si protese in avanti, in modo da sfiorare l’orecchio di Orson con il naso. «Che stupido metodo per evitare di socializzare» commentò a bassa voce.

 Sul collo sentì il respiro della risata di Orson. «Ma non trovi che così sia più divertente?»

 Galen scorse con la coda dell’occhio i socialiti incombenti cambiare idea per non disturbarli. Malgrado il dietrofront, Orson lo cinse ulteriormente a sé, le mani strette sui fianchi. Per un po’ lui si fece pervadere dall’odore dell’acqua di colonia dell’altro, godette del calore che irradiava quel collo contro la sua guancia. «La gente continuerà a parlare» mormorò.

 Orson questa volta non rise. Alzò il mento per accostare la bocca all’orecchio di Galen, un calore morbido e vulnerabile.

 «Permettiglielo».






IV


Erano in un silenzio amichevole sul balcone. Galen sembrava perso tra i suoi pensieri mentre fissava la massa brulicante delle aerovie di Coruscant; Krennic fissava Galen. Dopo un po’, Krennic tese una mano in direzione dello spago intorno al collo di Galen che faceva capolino dal colletto, tirandolo gentilmente finché un pendente cadde dalla camicia di Galen. Krennic si rigirò il cristallo tra le dita, un sorrisino sulle labbra. «L’hai tenuto, sono commosso».

 Galen scrutò Krennic con la stessa attenzione che aveva riservato al profilo della città. Ancora non si era mosso di un passo per ritrarsi dal filo che li collegava, che gli attorniava il collo e che era in mano a Krennic. «Per me è importante».

 «Non credevo fossi sentimentale».

 «Non lo sono. Ma anch’io provo sentimenti, per quanto sconvolgente possa sembrare».

 Krennic lo squadrò, soppesando le parole. «Ti…» Si interruppe, scosse la testa, si morse la lingua in un angolo della bocca. «Ti trovo davvero impossibile».

 Galen sorrise e circondò con la mano il cristallo e le dita di Krennic che lo stringevano. «Lo so».






V


«Fa lo stesso» prosegue Krennic in tono piatto. Agita il bicchiere che ha in mano e guarda il liquore inarcarsi contro il vetro. «Sei giunto a questa scelta troppo precipitosamente».

 Seduto dall’altro lato del divano, Galen sorride. «Orson, la conosco da un anno».

 «Naturale. Un anno è più che sufficiente per stabilire come vuoi passare il resto della tua vita». Krennic beve un sorso per nascondere la curva sgradevole delle sue labbra. Galen ha dato via gli alcolici migliori che ha per annunciarglielo; tuttavia il loro sapore gli brucia la lingua come un veleno.

 Galen non nota la sua irritabilità. Si limita a scrollare le spalle, fissa il proprio drink con un sorriso sulle labbra. «È difficile spiegare perché sono tanto sicuro. Ma lo sono».

 «Eri sicuro che aumentare la temperatura dei cristalli avrebbe eliminato i problemi di risonanza».

 «L’amore non è una formula, Orson».

 «Oh, Galen, fammi il favore». Krennic si alza. Non riesce a resistere l’impulso di camminare su e giù. Si concede due passi in direzione della finestra e si blocca sul posto, puntando gli occhi sul tramonto artificiale riflesso sulle superfici dei palazzi di Coruscant. «Questa non è una decisione da prendere basandosi unicamente sulle emozioni. Ragionarci sopra è essenziale». È più facile parlare in maniera generale piuttosto che dire quello che pensa veramente. Ragiona. Non è questo che desideri.

 Una lunga pausa alle sue spalle. «Credevo che avresti gioito per me». La voce di Galen non è abbastanza sommessa da celare il senso di delusione che prova.

 Le dita di Krennic si serrano attorno al vetro. Una parte di sé si chiede se finirà per rompere il bicchiere; a un’altra, di minori dimensioni, piacerebbe frantumarlo. «Infatti sono felice» si costringe a ribattere. Il bagliore degli edifici lo acceca. Lui si lascia accecare. «Ma mi preoccupo per te».

 Sente Galen alzarsi e avvicinarglisi. Una mano calda si poggia sulla spalla di Krennic, la stringe. «Non ti allarmare» lo rassicura Galen. «Sarà una cosa meravigliosa. Per tutti noi».

 «Tutti noi» gli fa eco Krennic. Galen si allunga in avanti per fare un brindisi. È l’unica scusa di cui Krennic ha bisogno per vuotare il bicchiere.






VI


La notte trascorre lentamente e si consuma. Il divertimento di Galen a una festa è inversamente proporzionale al tempo che lui deve trascorrere alla suddetta festa. Lyra ancora lo prende in giro per essersi rifugiato nella relativa solitudine delle cucine durante il loro matrimonio. Ma ha sempre capito che gli obblighi sociali – e la gente in particolare – non sono il forte di suo marito. Gli amici di Lyra, in compenso, non sono altrettanto accomodanti.

 Adesso parlano tutti fitto fitto, conversano e ridono e bevono i loro drink mentre Galen prova a fare lo stesso. Qualche minuto fa Orson è sgattaiolato via nella folla per qualche missione clandestina, lasciando Galen a valutare i pro e i contro dell’imitarlo nella sua fuga.

 Dietro gli occhi, il suo mal di testa si intensifica. È tutto troppo illuminato, troppo rumoroso. Il suo drink si è ridotto ormai da tempo a una fanghiglia di ghiaccio mezzo sciolto e zucchero. Quando Orson ricompare al suo fianco con un cocktail fresco e una curva caustica sulle labbra, Galen gli restituisce il sorriso e inghiottisce in un sol sorso l’alcool.

 «Oh, amo questa canzone!» urla una delle amiche di Lyra – Paro, se non si sbaglia. È un segnale che gli è familiare. A Galen viene meno il cuore mentre si volta verso Lyra, pronto a patire l’ennesimo ballo. Ma Paro trascina sua moglie nel vortice rotante della pista da ballo, ridendo e facendo segno al resto del gruppo di seguirle. Galen si fa trasportare dalla massa.

 Mille facce gli mulinano accanto, sia quelle ignote che quelle conosciute, e lui prova a sua volta a sorridere a tutti loro quando gli prendono la mano o gli toccano il busto, volteggiando e volteggiando come le lame di un motore a turbina fino a sembrare una macchia indistinta di movimenti. Galen intravede Lyra che ride, tuttavia è strappata di nuovo via dalla moltitudine di silhouette. Il cuore gli batte forte nel petto mentre tenta di raggiungerla, ma lei è andata, fuori dal suo campo visivo. Avanza un passo nella sua direzione, goffo e fuori tempo. Viene spinto via da qualcuno. Incespica all’indietro sino a che non avverte una mano ferma che lo afferra.

 «Non sei granché in questo genere di situazioni».

 Agli occhi di Galen occorre un attimo per fissarsi sul viso che gli è di fronte: si attaccano a esso come ad un’ancora di salvezza, un punto di stabilità. «Orson» esclama, battendo le palpebre per scacciare via la confusione con scarso successo.

 Orson gli poggia le dita sul fianco. È solo dopo qualche secondo che Galen realizza che stanno danzando. O meglio, che Orson sta danzando con lui. Galen si limita a farsi condurre e cercare di non pestare tutti i piedi nelle sue vicinanze.

 «Avevi l’aria di uno che aveva bisogno di essere salvato» spiega Orson manovrando Galen e se stesso via dal punto più gremito della sala.

 «Era tanto ovvio?» Qui la calca è meno opprimente: Galen inizia a respirare con più facilità. È solo allora che si rende conto della stranezza, che Orson lo sta guidando attraverso tutto il salone: non con l’intento di scappare, ma di muoversi semplicemente al ritmo della musica, piano e senz’alcuna fretta.

 Non sono affatto la coppia più stravagante sulla pista: con tutta la moltitudine di colori e strutture e protuberanze aliene attorno a loro, il viso di Orson gli è familiare in maniera confortante. Eppure è in qualche modo bizzarro avere la mano stretta da Orson, la pressione delle dita intorno alla vita. Questa notte ha ballato con talmente tanti estranei da perdere il conto, ciononostante non è mai stato così nervoso come adesso, sebbene più di una volta si sia sentito uno stupido per esserlo. La faccia di Orson gli è più vicina di quanto è normalmente abituato. Può persino esaminare gli anelli più scuri che circondano le iridi di Orson, un muro costruito per contenere il blu acceso.

 È buffo riflettere su come Galen abbia visto quel volto cambiare. Ha osservato per anni la comparsa crescente di rughe. Lo sguardo di Orson è immobile – forse anche lui sta tratteggiando l’età sul viso di Galen.

 «È buona educazione chiacchierare con il proprio partner» rimarca Orson.

 Stavolta Galen non forza se stesso a sorridere. «Non è mai stata la mia specialità».

 «Ho notato». Il palmo di Orson è caldo e saldo. «Il tuo problema» prosegue, «è che conversando dai per scontato che sei tu quello a un passo indietro».

 «Se proprio dobbiamo parlare, insisto perché l’argomento riguardi tutto fuorché me» ribatte seccamente Galen.

 Le labbra di Orson si contraggono in un sorriso. «La gente vuole parlarti, Galen. Sei un uomo affascinante, a dispetto degli sforzi che compi per nasconderlo».

 Galen ride. «Hai mai considerato l’idea che, a differenza tua, non tutti mi trovino affascinante?»

 «Sai, no, in realtà». Il sorriso permane sulla bocca di Orson, ma Galen si accorge di un fremito – che quasi sparisce. Quando guarda Orson negli occhi non è sicuro di capire cos’ha davanti. Il blu opaco che lo scruta con un interrogativo che lui non riesce a comprendere, men che meno rispondere.

 La canzone finisce. Lui e Orson si separano.

 C’è qualcosa di curiosamente formale nei gesti di Orson adesso che si gira per squadrare il resto degli invitati. «Allora, dov’è Lyra?» domanda, apparentemente tra sé e sé, data la nota ironica nella sua voce che Galen non sa come classificare.

 La mano di Galen è ancora calda per la pressione delle dita di Orson. Fissa la folla e ignora l’impulso di toccarsi il palmo.

 «Andiamo a cercarla» suggerisce sommessamente Galen, e si immerge nuovamente nella massa.






VII


C’è sempre una festa a Coruscant. Questa volta la presenza degli Erso è tassativa.

 Il posto è decadente come Lyra si aspettava, con pavimenti scintillanti e colonne di pietra importata. Cammina al fianco di Galen e subito distingue dal contegno chi tra gli invitati è un pezzo grosso. Per la maggior parte degli ospiti, loro due sono un ingegnere e una geologa, entrambi brillanti e prevedibilmente noiosi. Coloro che li squadrano di sfuggita non hanno mai sentito parlare della Cellula di Consulta Strategica o del Gruppo per lo Sviluppo di Armi Speciali della Repubblica. Lyra ne è quasi gelosa.

 Guarda suo marito con la coda dell’occhio e lui le offre un sorriso ironico. «Dovremmo socializzare» dice, per cui si fanno strada tra la folla.

 A Lyra non sono mai piaciute le infinite chiacchierate e i convenevoli di questo genere di occasioni, e oggi lei è particolarmente a disagio. La rotondità del ventre sporgente la fa sentire aliena persino quando passano davanti a degli umanoidi con le facce del colore del tramonto inquinato o i tentacoli che arrivano fino ai fianchi. La sua mano vaga sulla pancia come per comprimerla e farla tornare alle sue normali dimensioni, come per schiacciare un sacchetto affinché l’aria esca. Galen non lo nota. Sta scandagliando con gli occhi la folla intorno a loro.

 Non molto tempo dopo Lyra è intrappolata a discorrere con un sarto di Coruscant sulle diverse tendenze di moda in voga tra i politici quando si riuniscono al Senato e quando sono sui loro pianeti d’origine e, nel momento in cui commette l’errore di fare una domanda, si rende conto che suo marito è scomparso. L’irritazione che prova è seguita da una fitta di ansia che trova spazio nelle profondità dello stomaco. Allunga il collo e prova a rintracciarlo, ma il suo interlocutore si è lanciato in un sermone sulle implicazioni politiche della lavorazione di perle su Naboo, e trascorrono parecchi minuti prima che con grazia le sia concesso di fuggire.

 Evitando ulteriori conversazioni, Lyra vagabonda nella tempesta di colori e suoni. Un sordo colpo echeggia all’interno del suo grembo – un calcio che si ripete e si ripete, un rimbombo non sincronizzato con il battito del suo cuore. Lei si volta, scrutando oltre i vestiti confezionati e gonfi che occupano il suo campo visivo, e poi lo vede.

 Si tiene appartato in un angolo del salone e non è solo. Anche se non lo avesse riconosciuto, le sarebbe bastata l’uniforme candida e pulita per identificare il suo proprietario. Krennic è poggiato al muro al fianco di Galen; mentre gli occhi di Galen sondano la festa, Krennic ha gli occhi solo per suo marito. Nessuno si avvicina per attirarli in una discussione, nonostante i benefici che potrebbe accordare la confidenza di un astro nascente come Krennic. Sono rinchiusi nella loro bolla di pubblica intimità, e nessuno cerca di violarla.

 Nemmeno Lyra. Non appena accortasi dei due con l’intenzione di affrettarsi a soccorrere suo marito dall’uomo che, per qualche ragione, considera suo amico, ha avanzato un passo in avanti. Ma il primo è anche l’unico. Galen ride per qualche battuta di Krennic, e lei scorge la curva delle labbra di quest’ultimo quando si china per sussurrare piano nell’orecchio di Galen. È solo allora che suo marito alza lo sguardo, che si blocca su quello di Lyra come se lei avesse urlato il suo nome. Sulle labbra di Galen persiste la letizia causata dalla battuta di Krennic, ma lei nota una differenza nella sua espressione, nel suo viso. Il senso di colpa. O forse la vergogna.

 È allora che Lyra realizza che Galen la sta tradendo. Non fisicamente – non lo farebbe mai, non adesso –, ma in tutti gli altri modi che contano.

 Non prova rabbia. Aveva compreso sin dall’inizio la natura del loro legame, quando aveva incontrato l’amico più intimo di suo marito e si era chiesta perché Galen avesse permesso che le proprie spalle venissero drappeggiate da una serpe, e aveva capito che la sua influenza su Galen sarebbe stata sempre in competizione con quella di Krennic. Fino ad adesso ha commesso l’errore di credere che il potere fosse l’unica cosa che l’uomo bramasse. Un errore di valutazione che Lyra può leggere con facilità nella maniera con cui Krennic inclina il capo, gli occhi socchiusi. Non è interessato unicamente alla mente e al lavoro di Galen. Lui vuole l’anima di suo marito. Forse la vuole con la stessa intensità con cui la desidera Lyra.

 Costringe se stessa a indossare un sorriso e muovere i piedi, una mano sul pancione e lo sguardo fisso su quello di suo marito, un decennio di pratica passato a fare conversazioni spicciole con gente che detesta. Krennic la avvista e si ritrae: ha praticamente ammesso la propria colpevolezza. Non c’è alcuna traccia di essa sul suo volto, però. Krennic la osserva e le sorride. Lyra discerne la sfida. È suo dovere contrattaccare.

 Si alza in punta di piedi per stampare un bacio sulla guancia di Galen; il peso dello stomaco le fa quasi perdere l’equilibrio, per cui Galen le circonda le spalle con un braccio. Una presenza salda. Lei alza la mano per intrecciare le dita con suo marito.

 Quando incrocia nuovamente gli occhi di Krennic, lui non le sorride. Lei piega la testa da un lato. Accetto.






VIII


«E come sta…» Una breve pausa mentre Krennic pondera le sue parole. «…Il membro più basso della tua famiglia?» Lo dice in un modo che potrebbe quasi passare per un soprannome vezzeggiativo.

 Galen batte le palpebre. «Bene».

 «Ah. D’accordo».

 «Sono piuttosto curioso» continua Galen, «di scoprire come la chiamerai quando eventualmente supererà sua madre in altezza».

 Beccato. Krennic simula un sorriso sardonico. «Il membro più giovane della tua famiglia».

 Un tremore attraversa la guancia di Galen, che lotta per contenere una risata. «Ti ho già avvisato che non ti avrei ricordato il suo nome una seconda volta, Orson. Sono certo che prima o poi ti verrà in mente».

 Krennic decide di etichettarla come “la bambina” da adesso in poi.






IX


Krennic ricorda raramente i motivi per cui litigano. Le uniche cose che gli restano successivamente sono le conseguenze: la gola dolorante per le troppe parole vomitate tutte in una volta a un livello troppo alto di decibel; la collera residua, tumefatta come il rhydonium nelle sue vene, che attende solo una scintilla per prendere fuoco; i mobili d’arredamento leggermente disallineati – una sedia rovesciata, un datapad rotto ai piedi della parete opposta contro cui Krennic l’ha scagliato.

 Di quando in quando Krennic rovista tra i detriti che Galen emotivamente si lascia dietro di sé, alla ricerca di una spiegazione. Dopo ogni litigio è sempre la stessa storia: una risoluzione assente. Ormai è trascorso talmente tanto di quel tempo da quando si sono conosciuti che hanno esaurito le motivazioni per discutere, ma ciò non li frena. Non si sprecano in riconciliazioni. Litigano, e occasionalmente non lo fanno. Non c’è nulla nel mezzo.

 Galen non si sofferma a dare una mano con il processo di ricostruzione: si limita ad allontanarsi, si tuffa nel lavoro e nei calcoli sicché non rimangono parti di sé che Krennic possa raggiungere. Per cui Krennic è colto di sorpresa quando, due giorni dopo la loro ultima lite, si ritrova in ufficio Galen che lo aspetta con le mani congiunte dietro la schiena.

 L’andamento della camminata di Krennic da frenetico si fa lento, circospetto. Istintivamente agita la mano perché la porta si chiuda alle sue spalle. Galen ha un aspetto stanco: Krennic immagina le lunghe nottate che Galen ha passato al laboratorio senza che nessuno lo esortasse ad andare a riposarsi. Le amenità sulla punta della sua lingua di cui farebbe normalmente uso per chiacchierare vengono soffocate e represse. «Cos’è successo?»

 A sorpresa, un sorriso strattona verso l’alto uno degli angoli della bocca di Galen. «Dev’essere per forza avvenuta una catastrofe se desidero parlarti?»

 «Certo che no. Ma ho notato il nesso ricorrente».

 Krennic è tentato di dirigersi verso la sua scrivania e accomodarsi sulla sedia, una barriera tra se stesso e qualunque cosa stia per accadere. Ipotizza che si tratti di qualcosa di negativo. La collera generata durante l’ultima litigata gli ronza sotto la superficie della pelle. C’è la possibilità che finiscano nuovamente per urlarsi addosso, a prescindere dalle ragioni con cui Galen è armato.

 «Ti ho portato un regalo». Galen elimina la distanza tra loro due e gli porge una scatoletta, minuta e marrone e impacchettata con cura, non più grande del palmo della sua mano.

 Krennic studia il viso di Galen e accetta il dono. «Cos’è?» Non riceve risposta. Per un breve e malato istante, pondera la possibilità che contenga dell’esplosivo. Strappa senza alcun riguardo la confezione per fare un dispetto alla paranoia e scopre al suo interno un piccolo cristallo blu, appuntito come la scheggia di un vetro rotto.

 «L’ho ultimata» mormora piano Galen. «La varietà finale di kyber sintetizzato, capace di incanalare il novantotto per cento in più di energia rispetto al suo campione originale».

 Krennic alterna lo sguardo tra Galen e il frammento sul suo palmo. Galen fruga nella propria tasca mentre avanza un passo: rimuove il cristallo dal guanto nero di Krennic e lo attacca a una cordicella sottile color ebano. Krennic osserva le dita dell’amico legare insieme le due estremità con precisione ed efficienza. Quando incontra gli occhi di Galen, l’altro gli circonda gentilmente il collo con il ciondolo. L’aria si increspa come se stessero vivendo un miraggio. Per un attimo il viso di Galen è di qualche decennio più giovane, e Krennic rivede se stesso premere un cristallo sul palmo di Galen, un cristallo di vero kyber, a simbolo di tutto ciò che Krennic prometteva di offrire a Galen.

 Quando batte le palpebre Galen è vecchio e stanco e non sorride, ma c’è una certa delicatezza sulle sue labbra, il luccichio di qualcosa di lontano nei suoi occhi.

 «Non dovevi» dice Krennic.

 «Consideralo come le mie scuse».

 Una fitta si insedia nel centro del petto di Krennic, pesante e doloroso. «Per cosa?»

 Galen si limita a scrollare le spalle. La morbidezza nei suoi lineamenti scompare. «Non abbiamo già abbastanza di cui scusarci?» Allunga un braccio per toccare il cristallo che pende dal collo di Krennic, poi cambia idea a metà strada. «Volevo informarti che ho fatto come mi hai domandato. Non osar sostenere che ho ciondolato».

 È dopo che Galen se ne va, mentre Krennic siede e studia le sfaccettature del cristallo così somigliante a una daga posatagli sul cuore da Galen, che lui riflette che è la prima volta che uno dei due ha chiesto scusa all’altro.

 È solo parecchio tempo dopo che si rende conto che è anche l’ultima.

   
 
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