Edit: Perchè è una brava ragazza, perchè è una brava ragazza, perchè è una brava
ragazzaaa... Nessuno lo può negar!
Capitolo dedicato a Lady Vibeke per
un compleanno che sto festeggiando in ritardo.
AUGURI LIEBE!
*_*
Che il pantheon sia con te! XD
È corto. È romantico. È un capitolo incentrato solamente
su Gustav e Dorcas. E non è l’ultimo.
11. Let it be
wonderful.
Say
“I am wonderful”
Cause we are all miracles
wrapped up in chemicals
We are incredible
Don’t take it for granted, no
We are all miracles
La prima cosa di cui mi resi conto l’indomani mattina, fu
come il tessuto delle lenzuola si fosse pigramente avviluppato attorno alle mie
gambe ed al bacino, strusciando sulla pelle ad ogni minimo movimento con la
stessa lentezza di un serpente dalla pelle fresca e liscia al tatto, che più
che riscaldare, serviva a proteggere dalle occhiate indiscrete di chiunque
passasse di lì.
Ma chi poteva passare di fronte ad una finestra al quinto
piano di un complesso residenziale di Santa Monica? A meno che ad un Aladdin,
che passasse di là in compagnia del suo fido tappeto magico, non venisse una
forte tentazione di sbirciare dentro la mia camera da letto, per altro in
condizioni disastrose, nessuno avrebbe saputo nulla.
A parte forse il cardiologo di David Jost, che avrebbe
borbottato tra i denti una lunga sfilza d’imprecazioni dopo essere stato al
capezzale di un manager con l’ennesimo attacco d’isteria, vista la quantità
innumerevole di volte che aveva chiamato, a vuoto, al telefono di Gustav.
“Dio benedica la modalità silenziosa”, mi ritrovai a
pensare, mentre stiracchiavo le labbra in un sorrisetto divertito.
Stesa sulla schiena, ancora ad occhi chiusi, sospirai
lievemente, restia ad uscire dal dormiveglia ed ancora piacevolmente avvolta da
quel senso di placida sonnolenza che mi faceva sentire stranamente calma e
rilassata, come forse non ero mai stata in vita mia.
Sospirai più forte, mentre sottili raggi di luce mi
pizzicavano fastidiosi le palpebre. Girandomi di fianco, cercai di sfuggire
alla consapevolezza che ormai era tarda mattinata e, sicuramente, mi sarei
dovuta svegliare. Ma prima ancora di capire quello che stesse succedendo, un
accavallarsi di sensazioni a metà tra il dolore e sibillino piacere mi tolse il
fiato per qualche secondo. L’essere scossa di una fitta di dolore in
corrispondenza del bacino, sommata allo scorrere quasi languido delle lenzuola
fresche sulla mia pelle, mi fece strizzare gli occhi per la sorpresa ed
emettere un lieve gemito.
Definitivamente, ero sveglia.
Eppure non ero del tutto sicura di ricordarmi perchè mi
sentissi la metà inferiore del corpo così stranamente intorpidita. Era da
tempo, sei mesi a dirla tutta, che non riuscivo a dormire decentemente, dato
che tutte le mattine mi ritrovavo tutta sudata e nervosa, come se, al posto di
dormire, il mio cervello non avesse fatto altro che borbottare tra sè e sè.
Ma allora perchè adesso l’unica cosa che sentivo era una
strana calma diffusa per tutto il corpo, come se non fosse solo uno stato
mentale, ma anche fisico?
Fu solo quando i ricordi di ieri sera mi precipitarono
addosso con la forza di un pugno, che mi ricordai chi, come, e perchè.
Una scarica di adrenalina mi serpeggiò lungo la schiena
quando aprii gli occhi e mi resi conto di chi avesse casualmente poggiato un
braccio sul mio petto, quasi a coprirmi il seno.
Il sole si rifletteva sui suoi capelli come avrebbe
potuto farlo su un fascio di metallo puro. Strani riflessi iridati che
assumevano tutte le tonalità dell’oro, in contrasto stridente con la pelle
chiara del collo, diventata di un bianco abbacinante per la luce del sole. Il
raggi illuminavano la linea forte della mascella, seguendo poi la curva morbida
con cui s’univa al collo, mentre il petto glabro si abbassava e rialzava al
ritmo del suo respiro regolare, una leggera e calda carezza che arrivava a
sfiorare la mia mano, abbandonata per caso vicino alla sua guancia. Le labbra socchiuse
erano rosse, ancora tumide e leggermente gonfie da tutte le volte che le aveva
premute, che fosse per un bacio o per qualcosa di più, sulla mia pelle.
Rendendomene conto solo adesso, mi leccai le labbra con
la punta della lingua, sentendo ancora una volta il sapore lievemente ferroso e
salino che mi era rimasto dalla notte precedente.
Che non era l’unico ricordo che, imperiosamente, chiedeva
di essere preso in considerazione. Socchiusi gli occhi, per paura di cedere a
quella valanga di sensazioni miste a ricordi, rubati in brevi e sporadici
attimi di lucidità, ricordi che, come bollicine effervescenti, risalivano con
estenuante lentezza dai recessi più reconditi del mio corpo fino a scoppiare in
piccoli brividi, su, nella mia testa.
Chiudendo gli occhi, mi ordinai imperiosamente di non
muovermi.
Forse è tutto
un sogno, mi sorpresi a temere.
Forse non è lui.
Forse non è qui.
Forse il mio
incubo non è ancora finito. Pensai mentre mi coprii il viso con
una mano.
Un piccolo abisso inghiottì il mio stomaco, lasciandomi
in preda ad un forte senso di vertigine. Probabilmente, se non fossi stata
coricata, sarei potuta cadere.
Forse non è
stato che un sogno, un lungo e bellissimo sogno in cui sono tornate a galla,
dopo anni di seria repressione, le mille ed una voglia su cui ti eri ritrovata
a fantasticare nei momenti meno opportuni. Le sue braccia aperte, le sue labbra
screpolate e dal vago retrogusto asprigno, la pelle cedevole sotto le tue
mani...
Tutta
un’illusione?
Tutto un
dannatissimo sogno che, se non altro lui, ti ha messo con le spalle al muro e
fatto capire cosa realmente stavi cercando per tutto questo tempo?
Serrai la bocca e aggrottai le sopracciglia in
un’espressione di dolore, pronta a vedermi portare via anche quell’illusione,
quella come tante altre prima di lei.
E mi ritroverei di nuovo in preda alla disperazione, se
non fosse che il suo braccio, dal petto, scivola lentamente fino alla vita,
lasciando dietro di sè una scia di calore che imbeve ogni singolo centimetro di
pelle su cui passa.
Poi, quasi non credendoci, sento un lieve fruscio di
lenzuola smosse, che termina nel momento in cui sento il respiro di Gustav
farsi più forte sul mio viso.
Ed è temendo ogni singolo istante in cui questo miraggio
potrebbe dissolversi, soffiato lontano dal vento del destino, che sposto la
mano dagli occhi e li riapro, lentamente, con cautela.
E la prima cosa che sento, dopo il silenzio spesso ed
ovattato che mi ha avvolto fin dal risveglio, è il suono di una risatina sommessa,
leggermente divertita.
E adesso so che Dio esiste e mi sta guardando dritto
negli occhi.
.-.-.-.-.
Quando percepisco che la luce sta sfilacciando lentamente
il velo nero del sonno, decido di non muovermi. Gradualmente, come se tornassi
a galla dopo aver battuto il record in apnea, centinaia di piccole sensazioni
mi pulsano delicatamente nella testa, fino a divenire pressanti e poi
dissolversi, lasciandomi sveglio però restio ad aprire gli occhi.
Il fruscio delle lenzuola spiegazzate, il calore dei
raggi di sole sulla mia pelle, il dolore di mille ed una punzecchiatura sulle
spalle, il calore di un corpo che non è il mio sotto il braccio.
Semplicemente, mi lascio trascinare dalla lenta deriva
delle sensazioni, lasciando che si accavallino e si confondano senza nessun
criterio logico, uno strano guazzabuglio di emozioni, ricordi, parole che si
limita a vagare senza direzione alcuna nella mia testa, sprofondando a tratti
in uno strano dormiveglia da cui, puntualmente, vengo strappato da un movimento
involontario del corpo che riposa vicino al mio.
Nessuno si è mai reso conto di quanto siano potenti e
penetranti, certi tipi di ricordi?
Nessuno ha mai provato a descrivere a parole la
consapevolezza stordente dell’avere sotto di sé il corpo, l’intero essere,
della persona di cui si è disperatamente cercato il contatto?
In pieno contrasto con il fresco delle coperte, la cosa
che meglio ricordo, adesso, è il sapore bruciante della sua pelle sotto le mie labbra. Quel vago sapore polveroso, dolce,
eccitante.
Pelle che non finiva, pelle di cui avevo imparato a
memoria ogni più piccolo centimetro, cicatrice, increspatura che fosse.
Pelle colorata, tatuata, pelle del polso, del collo,
pelle più morbida di quanto già non fosse intorno all’ombelico... e ancora più
giù.
Mi mordo le labbra prima di poter dare il via ad un’altra
ondata di ricordi nè casti nè puri, di cui non racconterei niente a nessuno per
paura di rovinare la mia reputazione di bravo ragazzo.
È colpa mia se
lei tira fuori il peggio di me?
Più per un gesto involontario che per reale voglia,
socchiudo gli occhi per osservarla di sottecchi. E mi sorprende il trovarla
raggomitolata su se stessa, una mano a coprire gli occhi, l’altra ancora
abbandonata vicino al mio viso.
Sospiro al vedere la piega dura delle sue labbra,
stranamente prive di piercing. Un pulsare sordo al collo mi ricorda perché non
li abbia indosso.
Devo avere un livido grosso quanto una fragola vicino
alla mascella. E non solo là.
Posso sentire il suo respiro affannato, segno che c’è
qualcosa che non va. Per tranquillizzarla, cerco di attirarla verso di me per
il bacino, sentendo come un sorrisetto soddisfatto stira le mie labbra al
vederla rilassarsi.
Poi, puntellandomi sui gomiti, mi ritrovo a farle ombra con
il mio corpo. E andiamo, non si può non ridacchiare dell’espressione a metà tra
l’incredulo ed il sorpreso che le compare quando, finalmente riesco ad
incontrare i suoi occhi.
Dio, che occhi.
Socchiusi, sonnacchiosi, increduli, dannatamente
splendenti, brillanti come di vita propria, come se non avessero realmente
bisogno del sole, per essere due fari. Due fari che sono profondi quanto un
oceano, di un blu che cambia colore ad ogni cambio d’espressione, che stordisce
con la stessa potenza di un cavallone di mare in pieno petto.
Occhi che guardano me, solo e soltanto me. Ma non il mio
corpo con un’espressione intrigata, oppure che mi squadrano con sfiducia o
addirittura fastidio. Non sono occhi in cui trovo solo sincero affetto, ma
neppure occhi che si soffermino solo al mio aspetto fisico, qualunque esso
possa essere.
C’è fuoco, là dentro. C’è la potenza della rabbia, la
determinazione, la disperazione di una donna che pur facendosi continuamente
male, si sforza di affrontare tutto e tutti con lo stesso sorriso ironico di
sempre.
C’è passione, dietro quello specchio di cristallo blu.
C’è una passione per la quale i muscoli gementi della mia schiena ringraziano,
c’è un vivere di sentimenti così al limite del possibile che l’unica cosa che
ho potuto fare è volerne ancora, e ancora, sempre di più di lei, fino a
scoppiare, fino a capire che no, non esistono parole per descriverla e l’unica
cosa che puoi fare è gridare, gridare fino a farti scoppiare i polmoni.
E al diavolo l’inquilina del secondo piano.
-Ehi.
Soffio contro il suo viso, così vicino al mio da poterle
contare tutte le piccole lentiggini sul naso.
-Questo sì che è un discorso profondo ed introspettivo,
non trovi?
Credo che volesse fare dell’ironia, lei ed il suo sorriso
storto, con tanto di sopracciglio inarcato al seguito. Ma la voce di tre ottave
più bassa la tradisce. E io so perché è di tre ottave più bassa.
Tocca a me sorridere, adesso.
-Volevi forse l’enunciazione del primo principio di
libero commercio tra Stati membri dell’Unione Europea?
Espressione incredula da parte sua.
-Ma tu sei sempre così, a letto?
Ah, questa se l’è voluta: distrattamente, faccio scorrere
il mio dito per tutta la lunghezza del suo collo con un’esasperante lentezza.
-No- rispondo ridacchiando- sono meglio. È che ieri mi
hai preso in contropiede.
-Oh. In contropiede. E se eri preparato cosa tutto
sarebbe successo?
Schiocco la lingua, non rispondendole subito. Senza
smettere di guardarla mi abbasso lentamente fino a sentire la pelle morbida del
collo sotto le labbra. Un bacio così, di sfuggita.
-Bum.
Rispondo finalmente io, tornando a all’altezza del suo
sguardo.
Quel sopracciglio non sembra voler accennare ad
abbassarsi, eh?
-Ma dopo sì che
eri preparato.
Mi sventola la sua manina di fronte al viso, quattro dita
di cinque alzate.
-Quattro volte, Gustav. Quattro volte.
-Cos’è, un numero per la lotteria?
Cerco di fingermi stupito io.
-Oh, certo.-sbuffa lei- Tatuatelo anche sul polso, visto
che ci sei. In gotico, magari.
-Non darmi idee pericolose, Dorcas.
Inquietante sentire il calore della sua pelle
direttamente a contatto con la mia. Dannatamente eccitante, tanto per cambiare.
-Jost non ne sarebbe contento.
Mi squadra ironica lei, mordicchiandosi poi le labbra.
-Quando
Chiedo, intontito dal suo muovere le labbra. Cercando di
distrarmi, seguo la linea delle spalle, fino ad intopparmi con l’inizio del
tatuaggio che le avvolge per intero il braccio sinistro. Cerco di definire con esattezza
il confine tra pelle pallida ed inchiostro, ma l’unica cosa che posso fare è
perdermi in un groviglio di rovi che, impietoso, prosegue oltre la spalla,
circondando il seno all’altezza del cuore.
Che batte veloce sotto la mia mano, batte sempre veloce.
Per lo meno il cuore di Dorcas.
-Mi piacerebbe sentire ancora una volta
Lo sento persino io, che in questo momento sono tutto
meno che lucido. Trasognato, sarebbe più esatto. Ma più che trasognato sono distratto,
abbindolato, in trance ed in apnea, perchè la sua presenza, vicinanza, tatto,
tende a monopolizzare così a fondo la mia attenzione da farmi dubitare di
riuscire a svolgere funzioni vitali quali respirare, vivere.
Chissà se il suo cuore batte abbastanza per tutt’e due?
-Ma come, l’hai sentita tante di quelle volte...
Riesco a sollevare gli occhi dalla sua pelle quel tanto
da incontrare i suoi, socchiusi e scettici. Ed è buffo come ormai non mi
preoccupi neanche più di quello che possano leggermi dentro.
Sorrido, mentre torno a percorrere con le labbra una
scritta in gotico sulla spalla particolarmente complicata.
-E tu raccontala lo stesso.
Non vedo il mezzo sorrisino che sicuramente le sta
stirando le labbra, eppure posso sentirlo, come un bacio dell’aria sulla pelle.
-Allora...- inizia lei, lentamente –la lunga storia del
tatuaggio di Dorcas è nata una lontana notte di taaanti anni fa- la squadro
sogghignando, ma lei non può che tapparmi la bocca con la mano -E non diremo
quanti perchè sennò mi si notano di più le rughe- ribatte divertita lei, mentre
io le afferro la mano, accarezzandole il dorso –ed avevo deciso che se il polso
mi faceva così male, e sembrava non si potesse fare nulla per anestetizzarlo,
allora forse si trattava di un qualcosa che non obbediva alle leggi della
medicina. Dai, ero una piccola seducenne con due piercing ancora rossi sul
labbro inferiore, che si sentiva in dovere di mostrare al mondo quanto dentro
di lei ci fosse di ributtante e malsano.
Sospira, chiudendo gli occhi.
-Ma in te non c’è nulla di ributtante, Dorcas. Non c’è e
non c’è mai stato.
Riapre gli occhi, ma solo per guardarmi noncurante.
-Chi può dirlo, Gustav?
-Perchè allora anch’io sono molto peggio di qualsiasi
psicolabile che si vede in giro.
Ribatto io stancamente, certo che adesso risponderà con
il suo solito tono polemico.
-Ti offendi se ti dico che è possibile?
Eccolo, infatti. Mi prendo la testa tra le mani,
consapevole che forse si sta preparando un casino. Ma ci vorrà ancora un po’ di
miccia, prima che scoppi.
-No, perchè lo so. Ne ho avuto... la prova, se così
possiamo dire.
Dorcas non può che
squadrarmi basita, aspettando altre parole da parte mia, parole che non
vengono. La situazione si limita a rimanere sospesa così, con noi due che ci
guardiamo negli occhi, quasi sfidandoci a trovarne un fondo.
Saremmo più sicuri se lo trovassimo?
Mi rivolge un’ultima occhiata che mi fa capire che la
discussione in merito al mio lato pericoloso è solo rinviata, prima di
continuare a raccontare.
-Un qualcosa di ributtante che sembrava incendiarmi il
polso, e da lì l’avanbraccio, il gomito, la spalla... centimetro dopo
centimetro, si stava divorando una parte di me senza la quale non avrei pensato
di vivere. Eppure sono ancora qua, viva.
Distratto per un momento dai suoi capelli, mi riscuoto in
tempo per seguire il suo dito che indica uno per uno tutti i tatuaggi più
vistosi.
-Una rosa che va dal polso al gomito, frasi intrecciate
all’orchidea sul braccio, piccole stelle... e spine, spine, spine.
Mi guarda fisso negli occhi, ripetendolo come una strana
cantilena.
-Spine, spine, spine.
Eppure, seguendo il suo dito, mi accorgo che lì non ci
sono solo rovi e fiori esotici.
-Cè anche una G, qui.
-Potrebbe essere.
-Come sarebbe a dire, potrebbe essere?
Mi squadra intensamente per un momento, dubbiosa sul
parlare o meno. Si decide infine con un sospiro.
-Tre “G” per tre anni.Tre anni guardandoti da lontano,
vedendoti ridere una volta abituato alla mia presenza, ma diffidente quando ancora
non ci conoscevamo. Tre anni facendomi assillare controvoglia da quel tuo
maledettissimo sguardo imperscrutabile anche nei giorni di ferie, dando il
massimo in tour, consolando in sala prove, standoti vicina senza mai toccarti,
maledizione, perchè tu mi vedevi, ma non mi guardavi.
La guardo stupito, eppure trovandomi d’accordo con lei ad
ogni singolo ricordo evocato. Quante volte è stata Dorcas l’amica, Dorcas dalle
gonne buffe, Dorcas “che ne ferisce più la lingua che la spada”, quella da
trattare come un partner di lavoro particolarmente affiatato?
Chiude gli occhi, improvvisamente lucidi.
-Sai quanto faceva dannatamente male vederti preoccupato
per il fatto che non riuscissi ad uscire con nessuno, quando, se ero
particolarmente fortunata, ti sentivo soltanto parlare con... come si chiamava?
Karola? Kathleen? Figurarsi quando mi toccava vedervi insieme.
Si protegge il viso con il braccio, ora, mentre l’altra
mano risale a coprire il petto.
-Oppure quando altro, Gustav? Quando tua madre ti faceva
quelle indirette direttissime indicandomi scherzosamente con il dito,
ammiccando e noi non potevamo che ridere? Oppure quando Bill mi prese da parte
e mi disse che avevi iniziato a metterti la maglietta anche durante i
soundcheck solo perchè gliel’avevano chiesto sia lui che Tom e Georg, pur di
non vedermi più così distratta?
Ridacchiò, ma la sua voce grondava amarezza. Poi, come se
avesse ricevuto l’illuminazione, tolse il braccio dal viso e riaprì gli occhi,
fulminandomi.
-Oppure quando non volevi suonare quella dannatissima
batteria perchè eri “stanco”? e poi te la prendevi con me, se anche solo ti
ricordavo che avevamo tutti quanti delle scadenze e che la tua era,
puntualmente, l’ultima?
Adesso tocca a me corrugare le sopracciglia, preso in
contropiede.
-Ehi, ehi, ehi.
-Ehi un corno, Gustav Klaus Wolfgang Schäfer.
Inarco il sopracciglio, mettendomi di colpo a sedere,
tirando il lenzuolo per avvolgermici meglio.
-Le uniche persone che mi chiamano così quando sono
incazzate sono Tobi, mia madre e tu.
Anche lei si tira a sedere, la bocca stretta in una linea
sottile, gli occhi che promettono fuoco e fiamme.
-Oh, beh, se non altro te ne sei reso conto.
-Del fatto che sei incazzata?
-Del fatto che io sia giustamente incazzata, Schäfer!
Alza leggermente la voce lei, spalancando le braccia e
scrollando le spalle, infastidita. Non mi piace affatto come abbia calcato la
mano su quel “giustamente”, affatto. Mi sento attaccato a viso aperto,
esattamente quando non me l’aspettavo. Quindi piego la testa su una spalla,
osservandola critico. Ma lei, decisamente, non ha perso il potere di farmi
vacillare sotto quel suo sguardo infuocato.
-Cosa significa per te puntare ad un obbiettivo,
dedicargli ogni tuo sforzo, renderlo parte integrante del tuo modo di pensare e
del tuo tran tran quotidiano, per poi vedertelo strappato dalle mani a forza,
nonostante tu abbia lottato, invano, contro tutto e tutti pur di non permettere
che si tramutasse in cenere e ti sfuggisse dalle dita al minimo alito di vento?
Vive le emozioni al limite, senza fermarsi a chiedersi se
siano giuste o no, se sia meglio nasconderle o sbatterle in faccia a chiunque.
Non esistono freni, se lei decide che non ce ne devono essere. E allo stesso
modo con cui lei ti scruta fin nel profondo, così elimina anche ogni tentativo
di difesa.
Come si può ribattere a chi non si limita a dirti la
verità, ma addirittura a sbattertela in faccia con la forza di uno schiaffo?
-Non so per te –scuote furiosamente la testa- ma per me
ha significato qualcosa di peggio che “cambiare i piani”.
Spossata, chiude gli occhi, coprendosi il viso con le
mani per un breve momento, quasi annegasse nei ricordi. E mi si stringe il
cuore con un ansito strozzato, quando la vedo scrollare debolmente le spalle,
lasciandosi sfuggire un lamento doloroso.
-Sai cosa ho
pensato quando sono salita sul taxi che mi avrebbe portato all’aereoporto?
La sua voce, soffocata dalle mani, mi fa accapponare la
pelle. Non ha bisogno di specificare che taxi, né tantomeno quando tutto questo
sia avvenuto.
Sei mesi.
-Che mi aspettavano mesi
di pura follia.
Lascia cadere le mani in grembo, le spalle ingobbite e
gli occhi privi di espressione. E io non posso far altro che trattenere il respiro,
perchè so che quella sensazione che percepivo come sfondo di ogni nostro gesto
o parola di ieri, si è avverata, si è mostrata per quello che è: ricordi.
E ciò che andrebbe detto adesso, ciò che entrambi stiamo
solo aspettando di sentire risuonare in quest’aria viziata , è la conferma che,
pur non avendo vissuto l’uno la vita dell’altro, abbiamo una vaga idea di
quello che è successo.
Un’idea che dobbiamo mettere in chiaro, prima d’illuderci
che tutto è sistemato e che sì, saremo una perfetta coppia modello con alle
spalle un passato facile da dimenticare.
Perchè il passato è ciò che rende possibile il domani,
pur quanto duro possa essere. Il passato e ciò che ti da’ materiale per poter
affrontare l’oggi, il passato è quello con cui ti ritrovi a fare i conti nei
momenti meno opportuni, esattamente quando speravi di tutto cuore che fosse
finalmente tutto finito, la pagina girata ed il capitolo concluso.
Eppure no, noi non saremmo stati certamente ortodossi, né
giusti nel rinfacciarci cosa avevamo perso l’uno dell’altro. Ma se c’era una
cosa che ci aveva già separato, in passato, era stata l’incapacità di
comprendere l’enorme mole di ricordi che ci portavamo dietro, chi più grande,
chi più piccola.
E forse il futuro ci avrebbe diviso e l’oggi ci stava
sicuramente facendo la vita più difficile, ma almeno non saremmo più caduti
nella trappola del passato.
-Sei mesi.
Dobbiamo
raccontarci questi sei mesi.
Per quanto sia difficile da accettare.
Per quanto suoni edulcorato, se raccontato a voce.
Per quanto sia leggero, per chiunque non l’abbia vissuto.
Fu così che giunsi le mani in grembo, cercando con lo
sguardo gli occhi di Dorcas, il suo muto assenso nel completare la frase.
Con una voce a metà tra disperato ed atono, vissuto
eppure ancora bruciante.
-Sei mesi. D’inferno.
Bruciava la lingua anche il solo ammetterlo.
.-.-.-.
Perchè questo non è un racconto di favole, il principe
azzurro era vestito di nero da capo a piedi, era biondo sì, ma con due occhi
più neri che castani per il turbine di sentimenti che lo faceva sembrare una
bomba pronta esplodere al minimo tocco. Il mio principe azzurro, nero a questo
punto, aveva una cicatrice sullo zigomo ed una sulla fronte, mentre le occhiaie
viola sotto gli occhi gli invecchiavano lo sguardo, velandolo di quella sottile
disperazione che, pruriginosa e snervante, portava poi al collasso.
E, soprattutto, il mio principe non-in-azzurro mi aveva
portato a letto prima di sconfiggere la strega cattiva.
Spiacevole spiazzarvi così, con poca classe e
romanticismo, ma il fatto che i nostri abiti siano dappertutto tranne che ad
una distanza ragionevole dal nostro letto mi fa seriamente dubitare di esserci
proprio arrivati, al letto. Non in un primo momento, almeno.
Comunque sia, il mio principe nero si è reso conto di
come tutto questo non sia una favola, a partire dal fatto che il mostro
crudele, l’Orco Divora Principesse, è proprio quello che ci si lascia alle
spalle ogni giorno.
C’è chi la chiama ombra, chi lo chiama più poeticamente
“passato”.
Io mi limito a non chiamarlo affatto. Mi basta sfiorare
il mio polso sinistro, lavare sotto la doccia l’intera estensione del mio
tatuaggio, per rivivere tutto il vortice di ricordi che non accenna a sparire neppure
nei momenti più felici.
-D’inferno, già.
Continuai a guardarlo fissamente negli occhi, rendendomi
conto di come, in realtà, c’era ben più di semplici ricordi, a dannarci
l’esistenza. C’era il fatto che lui era un batterista.
Ed io no.
Ma tu sai perchè non riesci più ad impugnare un paio di
bacchette. E sai benissimo che non è più per colpa del polso che, pace
all’anima sua, adesso sembra in grado di sostenere qualsiasi cosa.
No, il problema è un’altro.
Con una fitta di dolore, mi resi conti di aver strizzato
gli occhi, quasi volessi mettere a fuoco ogni singolo particolare di lui, come
se volessi veramente capire.
Capire l’incomprensibile.
-Ed il peggio di quei mesi, è che sono stati pressocchè
inutili.
Il problema è un altro.
Appagante l’espressione di stupore sul suo volto. Sì,
decisamente appagante. Corrugo le sopracciglia, quasi ponderassi con somma
attenzione cosa tirare fuori, ed in quale ordine.
Il problema è sempre un altro, risolto il primo ci
creiamo il prossimo.
-Vediamo, da dove iniziare?- dissi grattandomi
ironicamente una tempia. –dalla maledettissima speranza che tu non vuoi ti
nasca nel petto? Dalla sensazione di soffocamento che ti da una maschera da
anestesia premuta sul naso? Dal fatto
che ho dovuto sopportare mesi, fottuttissimi mesi, cercando di eseguire alla
lettera ogni singola fase di una riabilitazione angosciante?
Un misto di
orgoglio calpestato, illusioni senza scopo, superbia mal bastonata e uno
sprezzante senso di superiorità appena celato.
Ad ogni domanda la mia voce si affievolisce una volta di
più, ad ogni ricordo che scorre veloce nella mia testa segue una puntura
dolorosa nel cuore. Ad ogni punto interrogativo che aleggia senza un reale
perchè nella mia testa sembra che un nuovo cumulo di certezze, frasi, frammenti
praticamente polverizzati di speranze calpestate più e più volte, mi crolla
sulle spalle, mi grava sulla lingua.
Perchè tu non
hai paura del dolore, delle ripercussioni sulla tua carne.
Di quello te n’è
fregato sempre ben poco, piccola incosciente.
E lui non può che sussultare, continuando a guardarmi da
lontano, stringendo gli occhi e trattenendo lacrime, che, forse, sono dedicate
a me.
-Eppure nulla è peggio della paura, sai?
Paura, sì.
La mia voce si fa improvvisamente leggera, quasi
inesistente. Si affievolisce fino a spegnersi su quell’ultimo “sai?” banale,
retorico. Inutile.
Paura di non saper più suonare come prima, non di non
saper suonare.
Vero, piccola perfezionista frustrata?
-Paura?
La sua voce mi arriva lontana, attutita dalla massa di
pensieri che continuano a turbinarmi dietro occhi chiusi.
-Paura, sì.
-Di cosa?
Ed è riaprire gli occhi, guardarlo e capire che,
nonostante lo ami, perchè sì, è strano ammetterlo dopo troppo tempo passato in
un incubo claustrofobico di cui avevo immaginato una fine diversa, lui certe
cose non le può capire.
-Di suonare, Gustav. Di riprendere in mano un paio di
bacchette...
E forse è vero, forse a certe cose non c’è fondo e non
c’è fine: i suoi occhi, il dolore con cui a volte ti tocca fare i conti.
Eh, beh.
L’unica cosa che hanno in comune entrambi è che dopo
averli fissati a troppo a lungo ti ci perdi, non sai come uscirne.
E rischi di rimanere svuotata da loro.
-Ho paura di prendere in mano un paio di bacchette e non
riuscire più a suonare come facevo prima. E non potrei resistere di nuovo a
quella delusione.
Deglutisco un groppo amaro, saliva che sembra acido sulla
lingua. Occhieggio distratta alla mia camera in affitto, cornice poco consona
all’uragano di sentimenti che si sta scatenando tra queste quattro mura. Pareti
di un bianco polveroso, enormi finestre e spesse tende, moquette nera e un
armadietto regurgitante una valanga di abiti dai colori deprimenti.
Carte, scarpe sparse, abiti buttati a casaccio come buffa
aureola da santo per un letto dalle lenzuola sfatte e spiegazzate, e due
persone che ancora hanno tanto da dirsi nel mezzo.
Troppo intime per aver bisogno di coprirsi, troppo
estranee per parlare senza mezzi termini.
Mi prendo la testa tra le mani, sospirando stancamente.
Pensieri ovattati si fanno ingombranti nella mia testa, mentre mi accorgo con
un tentennare goffo che la mia coscienza sta cautamente ammettendo nuove
possibilità per una vita vecchia, la mia. Possibilità che
E poi, le sue mani tese entrano nel mio ristrettro campo
visivo. Osservo senza reagire per un’istante, prima di sollevare lo sguardo
lungo le sue braccia, collo, bocca sorridente.
-Vieni qui, prima.
Tende ancora di piu le braccia verso di me, come se fossi
una bambina piccola che ha bisogno di vedere un paio di braccia spalancate per
accennare i primi impacciati passi.
Mi stringo nelle spalle, cercando di trovare un vero,
valido motivo per il quale, effettivamente, siamo uno di fronte all’altra,
piuttosto che uno affianco all’altra. Vicini.
-Ma dobbiamo parlare.
Protesto debolmente io, perchè non si puo resistere molto
al suo sorriso.
Scuote la testa, continuando a sorridere in quella
maniera così spensierata, come io credo di non aver mai fatto.
-Cosa ti impedisce di farlo qui?
Chiede lui, sicuro di sè. Lo guardo di sottecchi,
diffidente.
-Basta che non mi abbracci. Non riesco ad essere
obbiettiva, quando mi abbracci.
Il suo sopracciglio s’inarca, pericolosamente ridanciano.
-Solo? Tu mi fai effetto se sei nel raggio di tre metri,
ed io solo se ti tocco?
Scuoto la testa, occhi al cielo.
-Dipende da come lo fai, Gustav.
Solo troppo tardi mi rendo conto di tutti i doppi sensi
di cui si può caricare la frase, se interpretata male. Esattamente come la sta
interpretando Gustav in questo momento, visto il sorrisetto malizioso e la
bocca atteggiata in un’espressione di muta sorpresa.
-Oh-oh!
-Scemo!
-No, semplicemente sei stata sincera.
Ridacchia lui, mentre si becca una cuscinata in faccia da
parte della sottoscritta, leggermente rossa.
Le piume volano, fiocchi di neve improvvisati che ballano
nell’aria che ancora crepita di elettricità e domande a cui non si è data
risposta.
-Sì, ma tu vieni qua lo stesso.
Ribatte lui, afferrandomi per la vita e abbracciandomi da
dietro, mentre poggia con molta nonchalance la testa nell’incavo del mio collo.
-Quando ho lacerato la fodera del cuscino più grande che
c’era nella suite, le piume volavano via più leggere di queste.
Respira piano sulla mia pelle pallida, io che lo ascolto
attenta, raggelata dalla frase pronunciata così pacatamente.
-E più ne volavano, più ne volevo veder volare. Mentre il
telefono non era volato, si era semplicemente schiantato contro lo specchio tre
metri per due. Era stato bello vedere i frammenti dello specchio frantumarsi al
suolo, anche se uno mi ha procurato un taglio sulla fronte che ha sanguinato un
bel po’.
Sussurra lui, voce roca e tono sognante, mentre mi da un
bacio dietro l’orecchio.
-Mentre credo di essermi fatto il taglio al naso quando un
pezzo di cornice dorata è rimbalzato dal pavimento su cui si era schiantato.
Forse è stata la sua vendetta personale.
Tace, mentre io trattengo il fiato.
-Ho distrutto quella suite, Dorcas. Fino all’ultimo
mobile. Gli altri erano in corridoio e sentivano rumori agghiaccianti, i danni
sono stati un conto esorbitante da pagare e ho girato con i cerotti e mi
facevano male le mani. Ma io, in quel momento, non ci stavo affatto pensando.
Mi chiedevo solo, ogni minuto, ogni istante, “perchè non sei qui con me?”.
Poggia la testa sulla mia spalla, e con la coda
dell’occhio vedo il suo sguardo assente.
-“Perchè non sei qui con me?”
Ripete lui, catatonico, senza più parlare. I secondi
scorrono lenti, fino a quando non capisco che tocca a me riempirli dei miei ricordi.
Gli accarezzo lentamente la testa, alla cieca,
affidandomi solo al tatto e ai suoi capelli corti che scorrono lenti sotto le
mie dita.
-Quando il dottore che si prendeva cura di me alla
clinica di riabilitazione mi disse che il mio polso era perfettamente guarito
ed io potevo andare, mi regalò un paio di bacchette. Mi tremavano talmente
tanto le mani, quando le presi, che mi cadde la custodia.
Chiusi gli occhi, lasciandomi stringere più forte, le sue
labbra sul collo, la mia mano che stuzzica l’orecchio.
-Sono ancora là, da qualche parte sul pavimento. Non le
ho mai provate.
Silenzio.
-Non ho mai avuto la forza di provarle.
Mormoro io, più all’aria che a lui, consapevole però che
sentirà tutto, ad una distanza così ridotta. Poi, svogliando distrattamente tra
i miei ricordi sgualciti, ne trovo uno che mi fa sorridere. È un sorriso amaro,
ma pur sempre sorriso è.
-E che dire di quando Simon, il direttore della
Sorride contro la mia pelle. Ma è anche vero che i
ricordi felici sono pochi, e scivolano via dalla memoria come acqua tra le
mani, mentre i cattivi grattano ancora, sabbia su vetro, dolore nuovo scaccia
dolore vecchio. Ecco perchè il mio sorriso scivola via.
-E ho chiuso tutte le mie gonne colorate in una scatola
che devo aver buttato da qualche parte in salotto.
-Peccato, mi mancano.
Un sussurro leggero come il tocco delle sue dita sulle spalle,
che scivolano senza fermarsi in un punto preciso, ruvide per i calli da
batterista.
Cerco la sua mano
e la trovo là, vicino a me. Non posso fare altro che stringerla forte, per poi
lasciarmi andare contro il suo petto e via, quello che dev’essere sia. Il suo
cuore mi risuona forte in petto mentre guardo dritta davanti a me il sole
accecante fuori dalla finestra, la sua pelle contro la mia e la consapevolezza,
dolce quanto un bacio di zucchero, che non se ne sarebbe andato da un momento
all’altro.
Guardo in sù, verso di lui. E, affatto stranamente, trovo
che anche lui cerchi il mio sguardo.
-Mi manchi tu.
Lo dice tranquillaente, però con un tono così spesso e
basso che mi fa socchiudere gli occhi per la devastante tranquillità con cui mi
fa sprofondare il cuore nello stomaco, una voce calda e spessa dalla quale
faccio fatica a districarmi.
-Ma io sono qui, ora.
Stringe gli occhi, improvvisamente stanco.
-Ma non mi dire che resterai per sempre.
Scuoto la testa, distratta dal castano alcolico, il cuore
una goccia bruciante di cera e il battito accellerato.
-Non l’avrei detto comunque.
Sciolgo l’abbraccio, allontanandomi leggermente,
girandomi verso di lui. L’osservo fissamente per un istante, cercando di non
dimenticare la maniera in cui i raggi di sole gli fanno socchiudere gli occhi,
il tatuaggio sul braccio che risalta come sangue sulle sua pelle bianca, le
spalle curve come se portassero un peso immane, le mani abbandonate in grembo,
scure contro il lenzuolo bianco. È una foto fatta d’ombre, dove le sue labbra
sono rosse, screpolate ed ancora hanno la forma della mia bocca, dove gli occhi
sono incognite conosciute, lividi dalla forma di dita premute con forza e
frammenti di specchio che sfioriscono in cicatrici, e via, giù, nel profondo
del suo sguardo senza prendere fiato.
-Ti amo.
Sussurro io, mai realmente certa del suono di queste
parole, del pronome personale e del verbo che ha lo stesso valore di vivere,
per me. Sfioro delicatamente la guancia con le dita, una carezza goffa dal
valore incerto.
E lui sorride.
-Tornerai a suonare una batteria, sappilo.
Mi prende il mento, ridacchiando, ed io non posso che
sorridere.
-So che lo farai. In fondo sei Dorcas, no?
È un bacio diverso
dagli altri, questo. È a fior di labbra, solo per sentire che ancora siamo
vivi, la sua bocca continua ad avere lo stesso sapore delle lacrime e la mia
quello aspro della polvere mangiata, il tutto misto a rabbia, sangue, una base
di fiducia ed il minimo di amore sindacale. Un bacio lento, ad occhi chiusi,
che non si approfondisce rimanendo a fir di labbra, stranamente innocente, così
difficile da gestire per chi non ha mai avuto tempo per prendere le cose con
calma.
E continuo a tenere gli occhi chiusi anche mentre le sue
labbra si allontanano un istante, per prendere fiato e farmi scoppiare il
cuore, ancora una volta. Giusto perchè tutto ciò che è venuto prima non
dev’essergli bastato.
-Avrei paura, se non sapessi che ci sei tu.
E via, di nuovo ad occhi serrati e labbra socchiuse, mani
indiscrete e bisogno di vicinanza. Senza bisogno di spiegarsi esattamente cosa
tutto questo voglia dire.
.-.-.-.-.-.-.
Falling è di nuovo qui, signori e signore. Con molti
cambi e crisi, incazzature e sfoghi, magicamente e per intercessione di non so
quale entità divina, vi posto il qui presente aborto di una mente malata,
consapevole del vostro incazzo, del fatto che non è l’ultimo capitolo e del
fatto che diffetta totalmente di una trama plausibile.
È pieno di errori, minimo, e nell’ultima parte mi è
costato l’ira stessa di Dio.
Prendetene atto e consideratelo all’ora di commentare,
danke. ^^
Ah, piccolo annuncio: non è l’ultimo captolo che verrà
ivi postato.
Il prossimo (il 12º, e che qualcuno lassù preghi per noi)
sarà un epilogo di quelli belli complicati, succosi, con tanti sbalzi temporali
e mille una novità, che si spera spieghino il perchè di tutta una storia, lenta
come un’agonia.
Vi direi che sono di maturità, quest’estate, ma tanto non
smetterete di smadonnarmi dietro solo per questo. vero?
Una storia lunga un anno e fruscia, e che ancora non è
finita, per vostro dispiacere! *__*
Ma i commenti strappalacrime li riinvio al prossimo ed
ultimo capitolo. E fatemi il favore di non tirare fuori fazzoletti!
Grazie mille a...:
Lady Notorious:
perchè tu non manchi mai, anzi. Il tempo passa, i silenzi ci sono stati, ma
spero non durino mai troppo. Grazie, schiavista. Lo sai che ti voglio bene!
Lady Vibeke: io
ti direi di continuare a non sperarci, ma con un postaggio come queto
diverrebbe un ossimoro. Cara, donna di mondo, sono semplicemente entusiasta di
tutto, dai cmmenti alle lavate di capo che mi fai per Falling. Mi mancano le
chiaccherate, ma in quelche modo recupereremo. Stessa dedica che per
_Princess_:
l’epilogo, l’epilogo... intanto pensa a fare a pezzi questo mini capitolo, poi
vediamo. Donna del mistero, mi mancano le chiaccherate su MSN, e non solo
quelle. Riusciremo a sopravvivere indenni a Giugno? Lo sapremo all’epilogo,
visti i tempi di postaggio. XD
NeraLuna:
cara, troppo buona. ^^ Sarai ancora viva dopo tutto questo tempo per farti
ancora sentire? Grazie di tutto e baci!
SimmyListing:
cerca di trovarle le parole, invece! Mi serve il tuo commento, è uno dei
fedelissimi e non intendo rinunciarvi. Sempre che tu sia ancora in attessa di
un aggiornamento di Falling, cosa di cui dubito. Grazie mille, caVa. *__*
Black_DownTH: beh,
grazie. ^_^ ci sono cose che semplicemente mi fanno felice, e la tua recensione
è una di quelle. Grazie!
VivienneWest:
invece quella che ha voglia di sorridere come una demente per la felicità sono
io, sappilo. Grazie delle parole, delle emozioni che hai provato, grazie di
esserti immedesimata nelle mie parole, di aver vissuto le mie fantasie per un
po’. Sono sicura che non possono che essere state felici di ciò. Io tuoi
commenti sono tra quelli più attesi, quelli che mi fanno sentire come le mie
schifezzuole possano piacere agli altri, pur non piacendo a me. Grazie, e non
saprei come altro ringraziare.
_Princess_:
doppio commento? Doppio ringraziamento! Grazie della pazienza e dei continui
incoraggiamenti, grazie-grazie-grazie. Non vedo l’ora di trovare cinque minuti
per disqusire su The Truth, ho una recensione in sospeso! **