Fanfic su artisti musicali > Tokio Hotel
Segui la storia  |       
Autore: _Ellie_    03/06/2009    7 recensioni
{Una FF su Gustav}
Si, perchè io sono l’eterna idiota, il tipico personaggio delle favole che s’inciufola del principe azzurro, sapendo benissimo che non è stato, non è e non sarà possibile. Il masochismo esiste, gente. Il solo fatto di bramare “l’ama e sii amato” è da considerare il primo passo verso la pazzia, la frustrazione, le risate per cavolate, le uscite con altri uomini fallite per il solo fatto che loro non sono lui.
Genere: Introspettivo, Romantico, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<  
Questa storia è tra le Storie Scelte del sito.
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
La prima cosa di cui si rese conto l’indomani mattina, fu di come il tessuto delle lenzuola si fosse pigramente avviluppato attorno alle sue gambe ed al suo bacino, strusciando sulla pelle ad ogni suo minimo movimento con la stessa lentezza di un serpent

 

Edit: Perchè è una brava ragazza, perchè è una brava ragazza, perchè è una brava ragazzaaa... Nessuno lo può negar!

Capitolo dedicato a Lady Vibeke per un compleanno che sto festeggiando in ritardo.

AUGURI LIEBE! *_*

Che il pantheon sia con te! XD

 

 

 

 

 

È corto. È romantico. È un capitolo incentrato solamente su Gustav e Dorcas. E non è l’ultimo.

 

 

11. Let it be wonderful.    

 

  

Say “I am wonderful
Cause we are all miracles
wrapped up in chemicals
We are incredible
Don’t take it for granted, no
We are all miracles

Gary Go - Wonderful

 

 

 

 

La prima cosa di cui mi resi conto l’indomani mattina, fu come il tessuto delle lenzuola si fosse pigramente avviluppato attorno alle mie gambe ed al bacino, strusciando sulla pelle ad ogni minimo movimento con la stessa lentezza di un serpente dalla pelle fresca e liscia al tatto, che più che riscaldare, serviva a proteggere dalle occhiate indiscrete di chiunque passasse di lì.

 

Ma chi poteva passare di fronte ad una finestra al quinto piano di un complesso residenziale di Santa Monica? A meno che ad un Aladdin, che passasse di là in compagnia del suo fido tappeto magico, non venisse una forte tentazione di sbirciare dentro la mia camera da letto, per altro in condizioni disastrose, nessuno avrebbe saputo nulla.

 

A parte forse il cardiologo di David Jost, che avrebbe borbottato tra i denti una lunga sfilza d’imprecazioni dopo essere stato al capezzale di un manager con l’ennesimo attacco d’isteria, vista la quantità innumerevole di volte che aveva chiamato, a vuoto, al telefono di Gustav.

 

“Dio benedica la modalità silenziosa”, mi ritrovai a pensare, mentre stiracchiavo le labbra in un sorrisetto divertito.

  

Stesa sulla schiena, ancora ad occhi chiusi, sospirai lievemente, restia ad uscire dal dormiveglia ed ancora piacevolmente avvolta da quel senso di placida sonnolenza che mi faceva sentire stranamente calma e rilassata, come forse non ero mai stata in vita mia.

 

Sospirai più forte, mentre sottili raggi di luce mi pizzicavano fastidiosi le palpebre. Girandomi di fianco, cercai di sfuggire alla consapevolezza che ormai era tarda mattinata e, sicuramente, mi sarei dovuta svegliare. Ma prima ancora di capire quello che stesse succedendo, un accavallarsi di sensazioni a metà tra il dolore e sibillino piacere mi tolse il fiato per qualche secondo. L’essere scossa di una fitta di dolore in corrispondenza del bacino, sommata allo scorrere quasi languido delle lenzuola fresche sulla mia pelle, mi fece strizzare gli occhi per la sorpresa ed emettere un lieve gemito.

Definitivamente, ero sveglia.

 

Eppure non ero del tutto sicura di ricordarmi perchè mi sentissi la metà inferiore del corpo così stranamente intorpidita. Era da tempo, sei mesi a dirla tutta, che non riuscivo a dormire decentemente, dato che tutte le mattine mi ritrovavo tutta sudata e nervosa, come se, al posto di dormire, il mio cervello non avesse fatto altro che borbottare tra sè e sè.

Ma allora perchè adesso l’unica cosa che sentivo era una strana calma diffusa per tutto il corpo, come se non fosse solo uno stato mentale, ma anche fisico?

 

Fu solo quando i ricordi di ieri sera mi precipitarono addosso con la forza di un pugno, che mi ricordai chi, come, e perchè.

Una scarica di adrenalina mi serpeggiò lungo la schiena quando aprii gli occhi e mi resi conto di chi avesse casualmente poggiato un braccio sul mio petto, quasi a coprirmi il seno.

 

Il sole si rifletteva sui suoi capelli come avrebbe potuto farlo su un fascio di metallo puro. Strani riflessi iridati che assumevano tutte le tonalità dell’oro, in contrasto stridente con la pelle chiara del collo, diventata di un bianco abbacinante per la luce del sole. Il raggi illuminavano la linea forte della mascella, seguendo poi la curva morbida con cui s’univa al collo, mentre il petto glabro si abbassava e rialzava al ritmo del suo respiro regolare, una leggera e calda carezza che arrivava a sfiorare la mia mano, abbandonata per caso vicino alla sua guancia. Le labbra socchiuse erano rosse, ancora tumide e leggermente gonfie da tutte le volte che le aveva premute, che fosse per un bacio o per qualcosa di più, sulla mia pelle.

 

Rendendomene conto solo adesso, mi leccai le labbra con la punta della lingua, sentendo ancora una volta il sapore lievemente ferroso e salino che mi era rimasto dalla notte precedente.

 

Che non era l’unico ricordo che, imperiosamente, chiedeva di essere preso in considerazione. Socchiusi gli occhi, per paura di cedere a quella valanga di sensazioni miste a ricordi, rubati in brevi e sporadici attimi di lucidità, ricordi che, come bollicine effervescenti, risalivano con estenuante lentezza dai recessi più reconditi del mio corpo fino a scoppiare in piccoli brividi, su, nella mia testa.

 

Chiudendo gli occhi, mi ordinai imperiosamente di non muovermi.

Forse è tutto un sogno, mi sorpresi a temere.

Forse non è lui.

Forse non è qui.

 

Forse il mio incubo non è ancora finito. Pensai mentre mi coprii il viso con una mano.

 

Un piccolo abisso inghiottì il mio stomaco, lasciandomi in preda ad un forte senso di vertigine. Probabilmente, se non fossi stata coricata, sarei potuta cadere.

 

Forse non è stato che un sogno, un lungo e bellissimo sogno in cui sono tornate a galla, dopo anni di seria repressione, le mille ed una voglia su cui ti eri ritrovata a fantasticare nei momenti meno opportuni. Le sue braccia aperte, le sue labbra screpolate e dal vago retrogusto asprigno, la pelle cedevole sotto le tue mani...

Tutta un’illusione?

Tutto un dannatissimo sogno che, se non altro lui, ti ha messo con le spalle al muro e fatto capire cosa realmente stavi cercando per tutto questo tempo?

 

Serrai la bocca e aggrottai le sopracciglia in un’espressione di dolore, pronta a vedermi portare via anche quell’illusione, quella come tante altre prima di lei.

 

E mi ritroverei di nuovo in preda alla disperazione, se non fosse che il suo braccio, dal petto, scivola lentamente fino alla vita, lasciando dietro di sè una scia di calore che imbeve ogni singolo centimetro di pelle su cui passa.

Poi, quasi non credendoci, sento un lieve fruscio di lenzuola smosse, che termina nel momento in cui sento il respiro di Gustav farsi più forte sul mio viso.

 

Ed è temendo ogni singolo istante in cui questo miraggio potrebbe dissolversi, soffiato lontano dal vento del destino, che sposto la mano dagli occhi e li riapro, lentamente, con cautela.

E la prima cosa che sento, dopo il silenzio spesso ed ovattato che mi ha avvolto fin dal risveglio, è il suono di una risatina sommessa, leggermente divertita.

 

E adesso so che Dio esiste e mi sta guardando dritto negli occhi.

 

.-.-.-.-.

 

Quando percepisco che la luce sta sfilacciando lentamente il velo nero del sonno, decido di non muovermi. Gradualmente, come se tornassi a galla dopo aver battuto il record in apnea, centinaia di piccole sensazioni mi pulsano delicatamente nella testa, fino a divenire pressanti e poi dissolversi, lasciandomi sveglio però restio ad aprire gli occhi.

 

Il fruscio delle lenzuola spiegazzate, il calore dei raggi di sole sulla mia pelle, il dolore di mille ed una punzecchiatura sulle spalle, il calore di un corpo che non è il mio sotto il braccio.

 

Semplicemente, mi lascio trascinare dalla lenta deriva delle sensazioni, lasciando che si accavallino e si confondano senza nessun criterio logico, uno strano guazzabuglio di emozioni, ricordi, parole che si limita a vagare senza direzione alcuna nella mia testa, sprofondando a tratti in uno strano dormiveglia da cui, puntualmente, vengo strappato da un movimento involontario del corpo che riposa vicino al mio.

 

Nessuno si è mai reso conto di quanto siano potenti e penetranti, certi tipi di ricordi?

Nessuno ha mai provato a descrivere a parole la consapevolezza stordente dell’avere sotto di sé il corpo, l’intero essere, della persona di cui si è disperatamente cercato il contatto?

 

In pieno contrasto con il fresco delle coperte, la cosa che meglio ricordo, adesso, è il sapore bruciante della sua pelle sotto le mie labbra. Quel vago sapore polveroso, dolce, eccitante.

Pelle che non finiva, pelle di cui avevo imparato a memoria ogni più piccolo centimetro, cicatrice, increspatura che fosse.

Pelle colorata, tatuata, pelle del polso, del collo, pelle più morbida di quanto già non fosse intorno all’ombelico... e ancora più giù.

 

Mi mordo le labbra prima di poter dare il via ad un’altra ondata di ricordi nè casti nè puri, di cui non racconterei niente a nessuno per paura di rovinare la mia reputazione di bravo ragazzo.

 

È colpa mia se lei tira fuori il peggio di me?

 

Più per un gesto involontario che per reale voglia, socchiudo gli occhi per osservarla di sottecchi. E mi sorprende il trovarla raggomitolata su se stessa, una mano a coprire gli occhi, l’altra ancora abbandonata vicino al mio viso.

 

Sospiro al vedere la piega dura delle sue labbra, stranamente prive di piercing. Un pulsare sordo al collo mi ricorda perché non li abbia indosso.

Devo avere un livido grosso quanto una fragola vicino alla mascella. E non solo là.

 

Posso sentire il suo respiro affannato, segno che c’è qualcosa che non va. Per tranquillizzarla, cerco di attirarla verso di me per il bacino, sentendo come un sorrisetto soddisfatto stira le mie labbra al vederla rilassarsi.

Poi, puntellandomi sui gomiti, mi ritrovo a farle ombra con il mio corpo. E andiamo, non si può non ridacchiare dell’espressione a metà tra l’incredulo ed il sorpreso che le compare quando, finalmente riesco ad incontrare i suoi occhi.

 

Dio, che occhi.

 

Socchiusi, sonnacchiosi, increduli, dannatamente splendenti, brillanti come di vita propria, come se non avessero realmente bisogno del sole, per essere due fari. Due fari che sono profondi quanto un oceano, di un blu che cambia colore ad ogni cambio d’espressione, che stordisce con la stessa potenza di un cavallone di mare in pieno petto.

 

Occhi che guardano me, solo e soltanto me. Ma non il mio corpo con un’espressione intrigata, oppure che mi squadrano con sfiducia o addirittura fastidio. Non sono occhi in cui trovo solo sincero affetto, ma neppure occhi che si soffermino solo al mio aspetto fisico, qualunque esso possa essere.

C’è fuoco, là dentro. C’è la potenza della rabbia, la determinazione, la disperazione di una donna che pur facendosi continuamente male, si sforza di affrontare tutto e tutti con lo stesso sorriso ironico di sempre.

 

C’è passione, dietro quello specchio di cristallo blu. C’è una passione per la quale i muscoli gementi della mia schiena ringraziano, c’è un vivere di sentimenti così al limite del possibile che l’unica cosa che ho potuto fare è volerne ancora, e ancora, sempre di più di lei, fino a scoppiare, fino a capire che no, non esistono parole per descriverla e l’unica cosa che puoi fare è gridare, gridare fino a farti scoppiare i polmoni.

 

E al diavolo l’inquilina del secondo piano.

 

-Ehi.

 

Soffio contro il suo viso, così vicino al mio da poterle contare tutte le piccole lentiggini sul naso.

 

-Questo sì che è un discorso profondo ed introspettivo, non trovi?

 

Credo che volesse fare dell’ironia, lei ed il suo sorriso storto, con tanto di sopracciglio inarcato al seguito. Ma la voce di tre ottave più bassa la tradisce. E io so perché è di tre ottave più bassa.

Tocca a me sorridere, adesso.

 

-Volevi forse l’enunciazione del primo principio di libero commercio tra Stati membri dell’Unione Europea?

 

Espressione incredula da parte sua.

 

-Ma tu sei sempre così, a letto?

 

Ah, questa se l’è voluta: distrattamente, faccio scorrere il mio dito per tutta la lunghezza del suo collo con un’esasperante lentezza.

 

-No- rispondo ridacchiando- sono meglio. È che ieri mi hai preso in contropiede.

-Oh. In contropiede. E se eri preparato cosa tutto sarebbe successo?

 

Schiocco la lingua, non rispondendole subito. Senza smettere di guardarla mi abbasso lentamente fino a sentire la pelle morbida del collo sotto le labbra. Un bacio così, di sfuggita.

 

-Bum.

 

Rispondo finalmente io, tornando a all’altezza del suo sguardo.

Quel sopracciglio non sembra voler accennare ad abbassarsi, eh?

 

-Ma dopo sì che eri preparato.

 

Mi sventola la sua manina di fronte al viso, quattro dita di cinque alzate.

 

-Quattro volte, Gustav. Quattro volte.

-Cos’è, un numero per la lotteria?

 

Cerco di fingermi stupito io.

 

-Oh, certo.-sbuffa lei- Tatuatelo anche sul polso, visto che ci sei. In gotico, magari.

-Non darmi idee pericolose, Dorcas.

 

Inquietante sentire il calore della sua pelle direttamente a contatto con la mia. Dannatamente eccitante, tanto per cambiare.

 

-Jost non ne sarebbe contento.

Mi squadra ironica lei, mordicchiandosi poi le labbra.

 

-Quando mai Jost è contento?

 

Chiedo, intontito dal suo muovere le labbra. Cercando di distrarmi, seguo la linea delle spalle, fino ad intopparmi con l’inizio del tatuaggio che le avvolge per intero il braccio sinistro. Cerco di definire con esattezza il confine tra pelle pallida ed inchiostro, ma l’unica cosa che posso fare è perdermi in un groviglio di rovi che, impietoso, prosegue oltre la spalla, circondando il seno all’altezza del cuore.

Che batte veloce sotto la mia mano, batte sempre veloce. Per lo meno il cuore di Dorcas.

 

-Mi piacerebbe sentire ancora una volta La Lunga Storia del Tatuaggio di Dorcas, sai?

 

Lo sento persino io, che in questo momento sono tutto meno che lucido. Trasognato, sarebbe più esatto. Ma più che trasognato sono distratto, abbindolato, in trance ed in apnea, perchè la sua presenza, vicinanza, tatto, tende a monopolizzare così a fondo la mia attenzione da farmi dubitare di riuscire a svolgere funzioni vitali quali respirare, vivere.

Chissà se il suo cuore batte abbastanza per tutt’e due?

 

-Ma come, l’hai sentita tante di quelle volte...

 

Riesco a sollevare gli occhi dalla sua pelle quel tanto da incontrare i suoi, socchiusi e scettici. Ed è buffo come ormai non mi preoccupi neanche più di quello che possano leggermi dentro.

 

Sorrido, mentre torno a percorrere con le labbra una scritta in gotico sulla spalla particolarmente complicata.

 

-E tu raccontala lo stesso.

 

Non vedo il mezzo sorrisino che sicuramente le sta stirando le labbra, eppure posso sentirlo, come un bacio dell’aria sulla pelle.

 

-Allora...- inizia lei, lentamente –la lunga storia del tatuaggio di Dorcas è nata una lontana notte di taaanti anni fa- la squadro sogghignando, ma lei non può che tapparmi la bocca con la mano -E non diremo quanti perchè sennò mi si notano di più le rughe- ribatte divertita lei, mentre io le afferro la mano, accarezzandole il dorso –ed avevo deciso che se il polso mi faceva così male, e sembrava non si potesse fare nulla per anestetizzarlo, allora forse si trattava di un qualcosa che non obbediva alle leggi della medicina. Dai, ero una piccola seducenne con due piercing ancora rossi sul labbro inferiore, che si sentiva in dovere di mostrare al mondo quanto dentro di lei ci fosse di ributtante e malsano.

 

Sospira, chiudendo gli occhi.

 

-Ma in te non c’è nulla di ributtante, Dorcas. Non c’è e non c’è mai stato.

 

Riapre gli occhi, ma solo per guardarmi noncurante.

 

-Chi può dirlo, Gustav?

-Perchè allora anch’io sono molto peggio di qualsiasi psicolabile che si vede in giro.

 

Ribatto io stancamente, certo che adesso risponderà con il suo solito tono polemico.

 

-Ti offendi se ti dico che è possibile?

 

Eccolo, infatti. Mi prendo la testa tra le mani, consapevole che forse si sta preparando un casino. Ma ci vorrà ancora un po’ di miccia, prima che scoppi.

 

-No, perchè lo so. Ne ho avuto... la prova, se così possiamo dire.

 

 Dorcas non può che squadrarmi basita, aspettando altre parole da parte mia, parole che non vengono. La situazione si limita a rimanere sospesa così, con noi due che ci guardiamo negli occhi, quasi sfidandoci a trovarne un fondo.

Saremmo più sicuri se lo trovassimo?

 

Mi rivolge un’ultima occhiata che mi fa capire che la discussione in merito al mio lato pericoloso è solo rinviata, prima di continuare a raccontare.

 

-Un qualcosa di ributtante che sembrava incendiarmi il polso, e da lì l’avanbraccio, il gomito, la spalla... centimetro dopo centimetro, si stava divorando una parte di me senza la quale non avrei pensato di vivere. Eppure sono ancora qua, viva.

 

Distratto per un momento dai suoi capelli, mi riscuoto in tempo per seguire il suo dito che indica uno per uno tutti i tatuaggi più vistosi.

 

-Una rosa che va dal polso al gomito, frasi intrecciate all’orchidea sul braccio, piccole stelle... e spine, spine, spine.

 

Mi guarda fisso negli occhi, ripetendolo come una strana cantilena.

 

-Spine, spine, spine.

 

Eppure, seguendo il suo dito, mi accorgo che lì non ci sono solo rovi e fiori esotici.

 

-Cè anche una G, qui.

-Potrebbe essere.

-Come sarebbe a dire, potrebbe essere?

 

Mi squadra intensamente per un momento, dubbiosa sul parlare o meno. Si decide infine con un sospiro.

 

-Tre “G” per tre anni.Tre anni guardandoti da lontano, vedendoti ridere una volta abituato alla mia presenza, ma diffidente quando ancora non ci conoscevamo. Tre anni facendomi assillare controvoglia da quel tuo maledettissimo sguardo imperscrutabile anche nei giorni di ferie, dando il massimo in tour, consolando in sala prove, standoti vicina senza mai toccarti, maledizione, perchè tu mi vedevi, ma non mi guardavi.

 

La guardo stupito, eppure trovandomi d’accordo con lei ad ogni singolo ricordo evocato. Quante volte è stata Dorcas l’amica, Dorcas dalle gonne buffe, Dorcas “che ne ferisce più la lingua che la spada”, quella da trattare come un partner di lavoro particolarmente affiatato?

 

Chiude gli occhi, improvvisamente lucidi.

 

-Sai quanto faceva dannatamente male vederti preoccupato per il fatto che non riuscissi ad uscire con nessuno, quando, se ero particolarmente fortunata, ti sentivo soltanto parlare con... come si chiamava? Karola? Kathleen? Figurarsi quando mi toccava vedervi insieme.

 

Si protegge il viso con il braccio, ora, mentre l’altra mano risale a coprire il petto.

 

-Oppure quando altro, Gustav? Quando tua madre ti faceva quelle indirette direttissime indicandomi scherzosamente con il dito, ammiccando e noi non potevamo che ridere? Oppure quando Bill mi prese da parte e mi disse che avevi iniziato a metterti la maglietta anche durante i soundcheck solo perchè gliel’avevano chiesto sia lui che Tom e Georg, pur di non vedermi più così distratta?

 

Ridacchiò, ma la sua voce grondava amarezza. Poi, come se avesse ricevuto l’illuminazione, tolse il braccio dal viso e riaprì gli occhi, fulminandomi.

 

-Oppure quando non volevi suonare quella dannatissima batteria perchè eri “stanco”? e poi te la prendevi con me, se anche solo ti ricordavo che avevamo tutti quanti delle scadenze e che la tua era, puntualmente, l’ultima?

 

Adesso tocca a me corrugare le sopracciglia, preso in contropiede.

 

-Ehi, ehi, ehi.

-Ehi un corno, Gustav Klaus Wolfgang Schäfer.

 

Inarco il sopracciglio, mettendomi di colpo a sedere, tirando il lenzuolo per avvolgermici meglio.

 

-Le uniche persone che mi chiamano così quando sono incazzate sono Tobi, mia madre e tu.

 

Anche lei si tira a sedere, la bocca stretta in una linea sottile, gli occhi che promettono fuoco e fiamme.

 

-Oh, beh, se non altro te ne sei reso conto.

-Del fatto che sei incazzata?

-Del fatto che io sia giustamente incazzata, Schäfer!

 

Alza leggermente la voce lei, spalancando le braccia e scrollando le spalle, infastidita. Non mi piace affatto come abbia calcato la mano su quel “giustamente”, affatto. Mi sento attaccato a viso aperto, esattamente quando non me l’aspettavo. Quindi piego la testa su una spalla, osservandola critico. Ma lei, decisamente, non ha perso il potere di farmi vacillare sotto quel suo sguardo infuocato.

 

-Cosa significa per te puntare ad un obbiettivo, dedicargli ogni tuo sforzo, renderlo parte integrante del tuo modo di pensare e del tuo tran tran quotidiano, per poi vedertelo strappato dalle mani a forza, nonostante tu abbia lottato, invano, contro tutto e tutti pur di non permettere che si tramutasse in cenere e ti sfuggisse dalle dita al minimo alito di vento?

 

Vive le emozioni al limite, senza fermarsi a chiedersi se siano giuste o no, se sia meglio nasconderle o sbatterle in faccia a chiunque. Non esistono freni, se lei decide che non ce ne devono essere. E allo stesso modo con cui lei ti scruta fin nel profondo, così elimina anche ogni tentativo di difesa.

Come si può ribattere a chi non si limita a dirti la verità, ma addirittura a sbattertela in faccia con la forza di uno schiaffo?

 

-Non so per te –scuote furiosamente la testa- ma per me ha significato qualcosa di peggio che “cambiare i piani”.

 

Spossata, chiude gli occhi, coprendosi il viso con le mani per un breve momento, quasi annegasse nei ricordi. E mi si stringe il cuore con un ansito strozzato, quando la vedo scrollare debolmente le spalle, lasciandosi sfuggire un lamento doloroso.

 

 -Sai cosa ho pensato quando sono salita sul taxi che mi avrebbe portato all’aereoporto?

 

La sua voce, soffocata dalle mani, mi fa accapponare la pelle. Non ha bisogno di specificare che taxi, né tantomeno quando tutto questo sia avvenuto.

Sei mesi.

 

-Che mi aspettavano mesi di pura follia.

 

Lascia cadere le mani in grembo, le spalle ingobbite e gli occhi privi di espressione. E io non posso far altro che trattenere il respiro, perchè so che quella sensazione che percepivo come sfondo di ogni nostro gesto o parola di ieri, si è avverata, si è mostrata per quello che è: ricordi.

E ciò che andrebbe detto adesso, ciò che entrambi stiamo solo aspettando di sentire risuonare in quest’aria viziata , è la conferma che, pur non avendo vissuto l’uno la vita dell’altro, abbiamo una vaga idea di quello che è successo.

 

Un’idea che dobbiamo mettere in chiaro, prima d’illuderci che tutto è sistemato e che sì, saremo una perfetta coppia modello con alle spalle un passato facile da dimenticare.

 

Perchè il passato è ciò che rende possibile il domani, pur quanto duro possa essere. Il passato e ciò che ti da’ materiale per poter affrontare l’oggi, il passato è quello con cui ti ritrovi a fare i conti nei momenti meno opportuni, esattamente quando speravi di tutto cuore che fosse finalmente tutto finito, la pagina girata ed il capitolo concluso.

 

Eppure no, noi non saremmo stati certamente ortodossi, né giusti nel rinfacciarci cosa avevamo perso l’uno dell’altro. Ma se c’era una cosa che ci aveva già separato, in passato, era stata l’incapacità di comprendere l’enorme mole di ricordi che ci portavamo dietro, chi più grande, chi più piccola.

 

E forse il futuro ci avrebbe diviso e l’oggi ci stava sicuramente facendo la vita più difficile, ma almeno non saremmo più caduti nella trappola del passato.

 

-Sei mesi.

 

Dobbiamo raccontarci questi sei mesi.

Per quanto sia difficile da accettare.

Per quanto suoni edulcorato, se raccontato a voce.

Per quanto sia leggero, per chiunque non l’abbia vissuto.

 

Fu così che giunsi le mani in grembo, cercando con lo sguardo gli occhi di Dorcas, il suo muto assenso nel completare la frase.

Con una voce a metà tra disperato ed atono, vissuto eppure ancora bruciante.

 

-Sei mesi. D’inferno.

 

Bruciava la lingua anche il solo ammetterlo.

 

.-.-.-.

 

Perchè questo non è un racconto di favole, il principe azzurro era vestito di nero da capo a piedi, era biondo sì, ma con due occhi più neri che castani per il turbine di sentimenti che lo faceva sembrare una bomba pronta esplodere al minimo tocco. Il mio principe azzurro, nero a questo punto, aveva una cicatrice sullo zigomo ed una sulla fronte, mentre le occhiaie viola sotto gli occhi gli invecchiavano lo sguardo, velandolo di quella sottile disperazione che, pruriginosa e snervante, portava poi al collasso.

 

E, soprattutto, il mio principe non-in-azzurro mi aveva portato a letto prima di sconfiggere la strega cattiva.

Spiacevole spiazzarvi così, con poca classe e romanticismo, ma il fatto che i nostri abiti siano dappertutto tranne che ad una distanza ragionevole dal nostro letto mi fa seriamente dubitare di esserci proprio arrivati, al letto. Non in un primo momento, almeno.

 

Comunque sia, il mio principe nero si è reso conto di come tutto questo non sia una favola, a partire dal fatto che il mostro crudele, l’Orco Divora Principesse, è proprio quello che ci si lascia alle spalle ogni giorno.

C’è chi la chiama ombra, chi lo chiama più poeticamente “passato”.

 

Io mi limito a non chiamarlo affatto. Mi basta sfiorare il mio polso sinistro, lavare sotto la doccia l’intera estensione del mio tatuaggio, per rivivere tutto il vortice di ricordi che non accenna a sparire neppure nei momenti più felici.

 

-D’inferno, già.

 

Continuai a guardarlo fissamente negli occhi, rendendomi conto di come, in realtà, c’era ben più di semplici ricordi, a dannarci l’esistenza. C’era il fatto che lui era un batterista.

 

Ed io no.

 

Ma tu sai perchè non riesci più ad impugnare un paio di bacchette. E sai benissimo che non è più per colpa del polso che, pace all’anima sua, adesso sembra in grado di sostenere qualsiasi cosa.

No, il problema è un’altro.

 

Con una fitta di dolore, mi resi conti di aver strizzato gli occhi, quasi volessi mettere a fuoco ogni singolo particolare di lui, come se volessi veramente capire.

Capire l’incomprensibile.

 

-Ed il peggio di quei mesi, è che sono stati pressocchè inutili.

 

Il problema è un altro.

 

Appagante l’espressione di stupore sul suo volto. Sì, decisamente appagante. Corrugo le sopracciglia, quasi ponderassi con somma attenzione cosa tirare fuori, ed in quale ordine.

 

Il problema è sempre un altro, risolto il primo ci creiamo il prossimo.

 

-Vediamo, da dove iniziare?- dissi grattandomi ironicamente una tempia. –dalla maledettissima speranza che tu non vuoi ti nasca nel petto? Dalla sensazione di soffocamento che ti da una maschera da anestesia premuta sul naso?  Dal fatto che ho dovuto sopportare mesi, fottuttissimi mesi, cercando di eseguire alla lettera ogni singola fase di una riabilitazione angosciante?

 

Un misto di orgoglio calpestato, illusioni senza scopo, superbia mal bastonata e uno sprezzante senso di superiorità appena celato.

 

Ad ogni domanda la mia voce si affievolisce una volta di più, ad ogni ricordo che scorre veloce nella mia testa segue una puntura dolorosa nel cuore. Ad ogni punto interrogativo che aleggia senza un reale perchè nella mia testa sembra che un nuovo cumulo di certezze, frasi, frammenti praticamente polverizzati di speranze calpestate più e più volte, mi crolla sulle spalle, mi grava sulla lingua.

 

Perchè tu non hai paura del dolore, delle ripercussioni sulla tua carne.

Di quello te n’è fregato sempre ben poco, piccola incosciente.

 

E lui non può che sussultare, continuando a guardarmi da lontano, stringendo gli occhi e trattenendo lacrime, che, forse, sono dedicate a me.

 

-Eppure nulla è peggio della paura, sai?

 

Paura, sì.

 

La mia voce si fa improvvisamente leggera, quasi inesistente. Si affievolisce fino a spegnersi su quell’ultimo “sai?” banale, retorico. Inutile.

 

Paura di non saper più suonare come prima, non di non saper suonare.

Vero, piccola perfezionista frustrata?

 

-Paura?

 

La sua voce mi arriva lontana, attutita dalla massa di pensieri che continuano a turbinarmi dietro occhi chiusi.

 

-Paura, sì.

-Di cosa?

 

Ed è riaprire gli occhi, guardarlo e capire che, nonostante lo ami, perchè sì, è strano ammetterlo dopo troppo tempo passato in un incubo claustrofobico di cui avevo immaginato una fine diversa, lui certe cose non le può capire.

 

-Di suonare, Gustav. Di riprendere in mano un paio di bacchette...

 

E forse è vero, forse a certe cose non c’è fondo e non c’è fine: i suoi occhi, il dolore con cui a volte ti tocca fare i conti.

Eh, beh.

 

L’unica cosa che hanno in comune entrambi è che dopo averli fissati a troppo a lungo ti ci perdi, non sai come uscirne.

E rischi di rimanere svuotata da loro.

 

-Ho paura di prendere in mano un paio di bacchette e non riuscire più a suonare come facevo prima. E non potrei resistere di nuovo a quella delusione.

 

Deglutisco un groppo amaro, saliva che sembra acido sulla lingua. Occhieggio distratta alla mia camera in affitto, cornice poco consona all’uragano di sentimenti che si sta scatenando tra queste quattro mura. Pareti di un bianco polveroso, enormi finestre e spesse tende, moquette nera e un armadietto regurgitante una valanga di abiti dai colori deprimenti.

Carte, scarpe sparse, abiti buttati a casaccio come buffa aureola da santo per un letto dalle lenzuola sfatte e spiegazzate, e due persone che ancora hanno tanto da dirsi nel mezzo.

Troppo intime per aver bisogno di coprirsi, troppo estranee per parlare senza mezzi termini.

 

Mi prendo la testa tra le mani, sospirando stancamente. Pensieri ovattati si fanno ingombranti nella mia testa, mentre mi accorgo con un tentennare goffo che la mia coscienza sta cautamente ammettendo nuove possibilità per una vita vecchia, la mia. Possibilità che la Dorcas dal sorriso sarcastico e consumato, quella che morde la mano che le sta vicina, non prenderebbe neppure in considerazione.

 

E poi, le sue mani tese entrano nel mio ristrettro campo visivo. Osservo senza reagire per un’istante, prima di sollevare lo sguardo lungo le sue braccia, collo, bocca sorridente.

 

-Vieni qui, prima.

 

Tende ancora di piu le braccia verso di me, come se fossi una bambina piccola che ha bisogno di vedere un paio di braccia spalancate per accennare i primi impacciati passi.

Mi stringo nelle spalle, cercando di trovare un vero, valido motivo per il quale, effettivamente, siamo uno di fronte all’altra, piuttosto che uno affianco all’altra. Vicini.

 

-Ma dobbiamo parlare.

 

Protesto debolmente io, perchè non si puo resistere molto al suo sorriso.

Scuote la testa, continuando a sorridere in quella maniera così spensierata, come io credo di non aver mai fatto.

 

-Cosa ti impedisce di farlo qui?

 

Chiede lui, sicuro di sè. Lo guardo di sottecchi, diffidente.

 

-Basta che non mi abbracci. Non riesco ad essere obbiettiva, quando mi abbracci.

 

Il suo sopracciglio s’inarca, pericolosamente ridanciano.

 

-Solo? Tu mi fai effetto se sei nel raggio di tre metri, ed io solo se ti tocco?

 

Scuoto la testa, occhi al cielo.

 

-Dipende da come lo fai, Gustav.

 

Solo troppo tardi mi rendo conto di tutti i doppi sensi di cui si può caricare la frase, se interpretata male. Esattamente come la sta interpretando Gustav in questo momento, visto il sorrisetto malizioso e la bocca atteggiata in un’espressione di muta sorpresa.

 

-Oh-oh!

-Scemo!

-No, semplicemente sei stata sincera.

 

Ridacchia lui, mentre si becca una cuscinata in faccia da parte della sottoscritta, leggermente rossa.

 

Le piume volano, fiocchi di neve improvvisati che ballano nell’aria che ancora crepita di elettricità e domande a cui non si è data risposta.

 

-Sì, ma tu vieni qua lo stesso.

 

Ribatte lui, afferrandomi per la vita e abbracciandomi da dietro, mentre poggia con molta nonchalance la testa nell’incavo del mio collo.

 

-Quando ho lacerato la fodera del cuscino più grande che c’era nella suite, le piume volavano via più leggere di queste.

 

Respira piano sulla mia pelle pallida, io che lo ascolto attenta, raggelata dalla frase pronunciata così pacatamente.

 

-E più ne volavano, più ne volevo veder volare. Mentre il telefono non era volato, si era semplicemente schiantato contro lo specchio tre metri per due. Era stato bello vedere i frammenti dello specchio frantumarsi al suolo, anche se uno mi ha procurato un taglio sulla fronte che ha sanguinato un bel po’.

 

Sussurra lui, voce roca e tono sognante, mentre mi da un bacio dietro l’orecchio.

 

-Mentre credo di essermi fatto il taglio al naso quando un pezzo di cornice dorata è rimbalzato dal pavimento su cui si era schiantato. Forse è stata la sua vendetta personale.

 

Tace, mentre io trattengo il fiato.

 

-Ho distrutto quella suite, Dorcas. Fino all’ultimo mobile. Gli altri erano in corridoio e sentivano rumori agghiaccianti, i danni sono stati un conto esorbitante da pagare e ho girato con i cerotti e mi facevano male le mani. Ma io, in quel momento, non ci stavo affatto pensando. Mi chiedevo solo, ogni minuto, ogni istante, “perchè non sei qui con me?”.

 

Poggia la testa sulla mia spalla, e con la coda dell’occhio vedo il suo sguardo assente.

 

-“Perchè non sei qui con me?”

 

Ripete lui, catatonico, senza più parlare. I secondi scorrono lenti, fino a quando non capisco che tocca a me riempirli dei miei ricordi.

Gli accarezzo lentamente la testa, alla cieca, affidandomi solo al tatto e ai suoi capelli corti che scorrono lenti sotto le mie dita.

 

-Quando il dottore che si prendeva cura di me alla clinica di riabilitazione mi disse che il mio polso era perfettamente guarito ed io potevo andare, mi regalò un paio di bacchette. Mi tremavano talmente tanto le mani, quando le presi, che mi cadde la custodia.

 

Chiusi gli occhi, lasciandomi stringere più forte, le sue labbra sul collo, la mia mano che stuzzica l’orecchio.

 

-Sono ancora là, da qualche parte sul pavimento. Non le ho mai provate.

 

Silenzio.

 

-Non ho mai avuto la forza di provarle.

 

Mormoro io, più all’aria che a lui, consapevole però che sentirà tutto, ad una distanza così ridotta. Poi, svogliando distrattamente tra i miei ricordi sgualciti, ne trovo uno che mi fa sorridere. È un sorriso amaro, ma pur sempre sorriso è.

 

-E che dire di quando Simon, il direttore della LA Philarmonic, ha accennato gli accordi di “Nothing else matter” solo perchè sapeva quanto ci tenessi ed io ho cambiato stanza?

 

Sorride contro la mia pelle. Ma è anche vero che i ricordi felici sono pochi, e scivolano via dalla memoria come acqua tra le mani, mentre i cattivi grattano ancora, sabbia su vetro, dolore nuovo scaccia dolore vecchio. Ecco perchè il mio sorriso scivola via.

 

-E ho chiuso tutte le mie gonne colorate in una scatola che devo aver buttato da qualche parte in salotto.

-Peccato, mi mancano.

 

Un sussurro leggero come il tocco delle sue dita sulle spalle, che scivolano senza fermarsi in un punto preciso, ruvide per i calli da batterista.

 Cerco la sua mano e la trovo là, vicino a me. Non posso fare altro che stringerla forte, per poi lasciarmi andare contro il suo petto e via, quello che dev’essere sia. Il suo cuore mi risuona forte in petto mentre guardo dritta davanti a me il sole accecante fuori dalla finestra, la sua pelle contro la mia e la consapevolezza, dolce quanto un bacio di zucchero, che non se ne sarebbe andato da un momento all’altro.

 

Guardo in sù, verso di lui. E, affatto stranamente, trovo che anche lui cerchi il mio sguardo.

 

-Mi manchi tu.

 

Lo dice tranquillaente, però con un tono così spesso e basso che mi fa socchiudere gli occhi per la devastante tranquillità con cui mi fa sprofondare il cuore nello stomaco, una voce calda e spessa dalla quale faccio fatica a districarmi.

 

-Ma io sono qui, ora.

 

Stringe gli occhi, improvvisamente stanco.

 

-Ma non mi dire che resterai per sempre.

 

Scuoto la testa, distratta dal castano alcolico, il cuore una goccia bruciante di cera e il battito accellerato.

 

-Non l’avrei detto comunque.

 

Sciolgo l’abbraccio, allontanandomi leggermente, girandomi verso di lui. L’osservo fissamente per un istante, cercando di non dimenticare la maniera in cui i raggi di sole gli fanno socchiudere gli occhi, il tatuaggio sul braccio che risalta come sangue sulle sua pelle bianca, le spalle curve come se portassero un peso immane, le mani abbandonate in grembo, scure contro il lenzuolo bianco. È una foto fatta d’ombre, dove le sue labbra sono rosse, screpolate ed ancora hanno la forma della mia bocca, dove gli occhi sono incognite conosciute, lividi dalla forma di dita premute con forza e frammenti di specchio che sfioriscono in cicatrici, e via, giù, nel profondo del suo sguardo senza prendere fiato.

 

-Ti amo.

 

Sussurro io, mai realmente certa del suono di queste parole, del pronome personale e del verbo che ha lo stesso valore di vivere, per me. Sfioro delicatamente la guancia con le dita, una carezza goffa dal valore incerto.

 

E lui sorride.

 

-Tornerai a suonare una batteria, sappilo.

 

Mi prende il mento, ridacchiando, ed io non posso che sorridere.

 

-So che lo farai. In fondo sei Dorcas, no?

 

 È un bacio diverso dagli altri, questo. È a fior di labbra, solo per sentire che ancora siamo vivi, la sua bocca continua ad avere lo stesso sapore delle lacrime e la mia quello aspro della polvere mangiata, il tutto misto a rabbia, sangue, una base di fiducia ed il minimo di amore sindacale. Un bacio lento, ad occhi chiusi, che non si approfondisce rimanendo a fir di labbra, stranamente innocente, così difficile da gestire per chi non ha mai avuto tempo per prendere le cose con calma.

 

E continuo a tenere gli occhi chiusi anche mentre le sue labbra si allontanano un istante, per prendere fiato e farmi scoppiare il cuore, ancora una volta. Giusto perchè tutto ciò che è venuto prima non dev’essergli bastato.

 

-Avrei paura, se non sapessi che ci sei tu.

 

E via, di nuovo ad occhi serrati e labbra socchiuse, mani indiscrete e bisogno di vicinanza. Senza bisogno di spiegarsi esattamente cosa tutto questo voglia dire.

 

 

 

 

 

 

 

 

.-.-.-.-.-.-.

 

Falling è di nuovo qui, signori e signore. Con molti cambi e crisi, incazzature e sfoghi, magicamente e per intercessione di non so quale entità divina, vi posto il qui presente aborto di una mente malata, consapevole del vostro incazzo, del fatto che non è l’ultimo capitolo e del fatto che diffetta totalmente di una trama plausibile.

È pieno di errori, minimo, e nell’ultima parte mi è costato l’ira stessa di Dio.

 

Prendetene atto e consideratelo all’ora di commentare, danke. ^^

 

Ah, piccolo annuncio: non è l’ultimo captolo che verrà ivi postato.

Il prossimo (il 12º, e che qualcuno lassù preghi per noi) sarà un epilogo di quelli belli complicati, succosi, con tanti sbalzi temporali e mille una novità, che si spera spieghino il perchè di tutta una storia, lenta come un’agonia.

Vi direi che sono di maturità, quest’estate, ma tanto non smetterete di smadonnarmi dietro solo per questo. vero?

 

Una storia lunga un anno e fruscia, e che ancora non è finita, per vostro dispiacere! *__*

Ma i commenti strappalacrime li riinvio al prossimo ed ultimo capitolo. E fatemi il favore di non tirare fuori fazzoletti!

 

Grazie mille a...:

 

Lady Notorious: perchè tu non manchi mai, anzi. Il tempo passa, i silenzi ci sono stati, ma spero non durino mai troppo. Grazie, schiavista. Lo sai che ti voglio bene!

Lady Vibeke: io ti direi di continuare a non sperarci, ma con un postaggio come queto diverrebbe un ossimoro. Cara, donna di mondo, sono semplicemente entusiasta di tutto, dai cmmenti alle lavate di capo che mi fai per Falling. Mi mancano le chiaccherate, ma in quelche modo recupereremo. Stessa dedica che per la Lady, che ti aspettavi? (Edit: Scusami ancora! E ancora... AUGURI! *__________* )

_Princess_: l’epilogo, l’epilogo... intanto pensa a fare a pezzi questo mini capitolo, poi vediamo. Donna del mistero, mi mancano le chiaccherate su MSN, e non solo quelle. Riusciremo a sopravvivere indenni a Giugno? Lo sapremo all’epilogo, visti i tempi di postaggio. XD

NeraLuna: cara, troppo buona. ^^ Sarai ancora viva dopo tutto questo tempo per farti ancora sentire? Grazie di tutto e baci!

SimmyListing: cerca di trovarle le parole, invece! Mi serve il tuo commento, è uno dei fedelissimi e non intendo rinunciarvi. Sempre che tu sia ancora in attessa di un aggiornamento di Falling, cosa di cui dubito. Grazie mille, caVa. *__*

Black_DownTH: beh, grazie. ^_^ ci sono cose che semplicemente mi fanno felice, e la tua recensione è una di quelle. Grazie!

VivienneWest: invece quella che ha voglia di sorridere come una demente per la felicità sono io, sappilo. Grazie delle parole, delle emozioni che hai provato, grazie di esserti immedesimata nelle mie parole, di aver vissuto le mie fantasie per un po’. Sono sicura che non possono che essere state felici di ciò. Io tuoi commenti sono tra quelli più attesi, quelli che mi fanno sentire come le mie schifezzuole possano piacere agli altri, pur non piacendo a me. Grazie, e non saprei come altro ringraziare.

_Princess_: doppio commento? Doppio ringraziamento! Grazie della pazienza e dei continui incoraggiamenti, grazie-grazie-grazie. Non vedo l’ora di trovare cinque minuti per disqusire su The Truth, ho una recensione in sospeso! **

 

   
 
Leggi le 7 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<  
Torna indietro / Vai alla categoria: Fanfic su artisti musicali > Tokio Hotel / Vai alla pagina dell'autore: _Ellie_