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Autore: L0g1c1ta    16/02/2017    0 recensioni
Settembre 1939, cade la resistenza polacca. La Polonia svanisce dalla cartina geografica. La città di Varsavia viene distrutta, mattone dopo mattone dai tedeschi e dai russi.
Polonia è morto e Lituania non riesce a superare la morte dell'amico. Con la morte nel cuore, lentamente viene guidato verso la follia e gli verranno aperti gli occhi sulla sua vita.
Polonia, fantasma e defunto, accompagnato da un insolito pulcino, osserva, fra le mura della villa di Russia, il dolore di Lituania.
Entrambi ripercorrono un cammino, entrambi si rendono conto di ciò che avevano e di ciò che hanno perso, per sempre...
...
Luglio 1952, la Polonia rinasce sotto una nuova bandiera. Polonia è morto, ma viene accompagnato nel suo viaggio da Toris e da una nuova presenza. Lituania vive la sua nuova vita con freddezza, nonostante i cambiamenti avvenuti in casa di Russia. Ma ogni cosa cambia con una scoperta avvenuta in una casetta abbandonata nel bosco.
Polonia, in questo mondo cartaceo, osserva i ricordi e gli anni che lo hanno separato dalla sua patria. E si rende conto di quanti sbagli abbia commesso in vita.
Entrambi percorrono un secondo cammino. Chi in un treno per Varsavia, chi con frammenti di ricordi perduti.
Genere: Angst, Drammatico, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Baltici, Lituania/Toris Lorinaitis, Polonia/Feliks Łukasiewicz, Russia/Ivan Braginski
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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West ora sembra più alto e forte, più robusto e vigoroso. Più fiero e tenace. A Prussia viene voglia di sorridere: è fiero di lui. Il fratello si volta, esce con la divisa stirata e lucida. Esce risoluto ed orgoglioso. La porta si chiude e ritorna il silenzio. West è andato via, nemmeno il corridoio fa sentire i suoi passi.

Prussia si alza, con l’uniforme lustra e gli stivali levigati. Si sente più forte. Si accosta alla scrivania, gli occhi danno spazio alla cartina sul muro. Si sente più determinato. La Germania e la Prussia sono un’unica grande nazione. Sono un’unica cosa. Prussia li guarda come se lo fossero sempre state. Si sente più grande.

West, la Germania, la nazione è rossa di orgoglio e vermiglia di superbia. Nemmeno Russia ha tutto questo. L’Europa centrale è rossa, chiazzata quasi fino all’ultimo paese. L’Europa è loro. Loro sono l’Europa. Si sente invincibile.

Guarda in alto il maledetto verde dell’Inghilterra e il rosso poco più chiaro di Russia. Saranno anche loro parte di loro, loro non saranno più di loro stessi. Loro li appartengono. Loro s’inchineranno di fronte a lui e a West. West sarà orgoglioso di se stesso. Domani l’Inghilterra, poi la Russia, poi l’America e infine il mondo. Saranno padroni e loro servi. Non dovranno più servire alcuno. Mai più. Gli viene voglia di ridere, veramente tanta, quanto la superbia che brilla dentro di sé.

Si sente veramente, sinceramente, magnifico.

 

 

 

 

 

Il bacio schiocca, casto e svelto. Wladymir guarda la moglie e si sente mortificato. Ewa è fredda, sciupata. Sembra più vecchia e brutta. Wladymir non vuole avere quest’immagine di lei. La ricorda e la venera come forte e paziente, come matriarca anziana eppure tenace. Ewa è fredda, ma lacrima come una pianta tranciata da una mano infantile. Brillano come pezzi di cristallo, i suoi occhi blu. Anche Feliks aveva i suoi occhi. Ingoia ancora il boccone amaro. Le sorride triste, sa che ha una sfumatura addolorata negli occhi. Lei lo guarda, contrariata, ghiacciata nella sua inflessibilità, distrutta. La guarda come se in tutti questi anni non l’avesse mai conosciuta. Nemmeno guarda il rigonfiamento del ventre, non saprebbe che aspettative dare alla sua creatura. Gli manca ancora troppo suo figlio e le sue lentiggini. Gli manca troppo suo fratello e suo padre. E suo nipote. Dorota è morta da quando rivide i resti di suo marito. Klara è sempre trascurata. Ewa rimarrà sola. Ingoia un altro boccone amaro, si volta. Apre la porta, esce. Questa si chiude piano dietro di sé e Wladymir aveva un gran desiderio di voltarsi ancora una volta. Ancora una singola volta, per vedere sua moglie e per capire se lei fosse sempre stata matriarca o solo bambina indifesa. Vede uniformi scure e facce che non ha mai visto e si avvia con loro.

Polonia non sente quasi più Toris sulla sua spalla. Non sente più il suo corpo, né crede che abbia mai avuto una vera e propria consistenza. I capelli biondi gli si agitano sul viso, ma nemmeno questo per lui ha veramente molta importanza. Per la prima volta si sente veramente morto, fantasma intoccabile. Si sente un puntino nero in un abisso bianco e cartaceo. Si sente sporco e sperduto.

I due tedeschi non hanno volto, non hanno qualcosa che a Polonia possa dare un’importanza vera e propria. Queste uniformi non le ha mai viste, questo nero non l’ha mai notato nella foresta con Tymek o tra i resti della sua gente o tra quelli di Darek. Il nero sembra petrolio con cui specchiarsi. Gli stivali senza tagli, né polvere della campagna. Polonia senza volerlo si accosta ad uno dei due, quello di fronte a Wladymir. Il biondo lo guarda e non vede nulla. Il volto sembra paralizzato in un’espressione rigida. Polonia lo guarda, sa che non può essere guardato, eppure sente freddo correre sotto la sua divisa, sotto il mantello e giù lungo la spina dorsale e le gambe. Timido, spossato, abbassa d’istinto gli occhi. Il sole della campagna è tiepido, settembre è ormai passato, non vede una foglia su alberi e alberi. Il grano tagliato, ma non raccolto, lasciato come mucchi di corpi in un campo grigio e sterile. Sente freddo, fino alle spalle, fino alle orecchie. L’uniforme nera ha qualcosa che per gli occhi infantili del ragazzo è una piastrina. Non è importante per lui, ma i suoi occhi vengono in qualche modo attirati sul metallo lucente. Ne sono due, assemblate con forza. Per Polonia sono dei fulmini, per Prussia, dietro di lui, sono dei simboli di futuro orrore.

Polonia poggia i piedi sulla pietra e alza gli occhi sulle case. Non sa dove siano, non sa che paesello potrebbe essere e non si sforza di cercare di ricordare qualcosa di quel che stia vedendo. Non vede macerie, non vede case distrutte. Il legno sembra marcio e sporco, la pietra su cui cammina pare spezzarsi sotto al suo gracile peso, l’anima morta dentro falegnamerie e piccoli negozietti. Il vetro spezzato di una baracca pare trafiggergli il cuore. L’erba cresce nei viottoli infangati. Polonia vede e respira sporco e polvere. Si sente lui stesso sporco, imbrattato di fumo e pezzi di vetro. La mano guantata, timida come il suo padrone, percorre spezzata il petto e stringe in pugno, con unghie, la stoffa sopra al cuore, là dove non batte più nulla. Immagina che un’arteria passi e continui a passare sporco e fango, fin dentro i suoi polmoni. Respira a fatica, continua a guardare.

Wladymir nota di non essere solo. Il medico del paesello dove vive è stato portato qui vicino a lui, ancora impiastricciato nel suo camice bianco, non gli hanno consentito di cambiarsi. L’anziano si specchia negli occhi di Wladymir e vede passività e lacrime fedeli alle sue. Non aprono bocca, a malapena conoscono i propri mestieri, eppure si guardano come se si conoscessero dall’infanzia. Si vedono sulla stessa nave, alla deriva nell’Oceano Indiano. Si vedono nello stesso plotone, con le baionette in mano e il terrore coperto dalla pioggia. Si vedono schiavi dello stesso padrone.

Arrivano altri tedeschi, con altre persone. Wladymir è rimasto sempre rigido, il medico ora contrae la schiena e le ginocchia. Il giudice grassoccio, avanzato in età e severità, avanza con le braccia conserte dietro la schiena e lo sguardo contratto in un’espressione di sdegno e tristezza. I tedeschi non hanno detto nulla a loro, ma sanno già perché sono lì, al muro del paesello, irrigiditi nella piazzetta come topi di fronte a gatti sprezzanti. Altri due soldati, bianchi in volto e un prigioniero impazzito: un ragazzo che Wladymir conosce e che ricorda come un bizzarro quanto intelligente avvocato, che ogni mattina prendeva il treno per andare a Varsavia. Glielo scaraventano ai suoi piedi, ha fatto resistenza per tutto il tragitto. Eppure quello, ora ritornato in piedi, non apre bocca, per orgoglio e per paura. Sa anche lui cosa accadrà. E altri soldati in giro per il paesello e altri prigionieri: due preti della chiesa all’angolo della piazza, il nuovo farmacista che solo l’anno scorso si trasferì vicino casa loro, il proprietario della villa più agiata del paese, senza famiglia e solo come un cane, quello strambo giornalista che ogni mattina prende il treno per lavorare a Varsavia. Wladymir lo ricorda bene: sul treno lo osservava con occhi amichevoli ed interessati. Ogni mattina, tranne la domenica e il sabato, prendeva il treno. Come ogni giorno. Coi capelli lasciati spettinati e il sudore imbizzarrito sulla fronte, lo vede deglutire. Sa anche lui perché è lì.

I tedeschi non gli hanno detto nulla, non sanno il polacco e nessuno vorrebbe mai impararlo, ma in realtà non vorrebbero nemmeno dire qualcosa. Wladymir li guarda e sa che non avranno niente a cui dargli un nome o un soprannome. Non hanno una faccia o uno spirito e Wladymir lo sa bene. Coloro che hanno ucciso suo padre, suo fratello e suo figlio non possono permettersi una faccia. Si aggiusta gli occhiali, per il sudore stavano per cadere. Loro non hanno niente che a Wladymir possa sembrare una vera causa o un vero motivo per uccidere un anziano, un soldato o un bambino. Non hanno nulla per cui compatirli. Wladymir in sé ha un leone e la forza. Ma tra i due solamente Darek sapeva farlo svegliare e ruggire in tutto il suo splendore. Wladymir amava suo fratello perché era tutto ciò che non è e che è mai stato. Però non vuole morire così.

Alza gli occhi, brillano come ardenti pezzi di carbone, rossi per il fuoco. Ha un mucchio di terrore e corpi di uomini dietro le sue spalle. Le sue sopracciglia si contraggono e un angolo delle due cade verso il naso. Le ciglia tese come corde di violino lo fanno trattenere il respiro. Le rughe della fronte s’irrigidiscono, i denti si stringono come fauci trattenute dietro alle labbra. Il capo alto, i capelli toccati dalla lieve brezza invernale. Wladymir non ha freddo e guarda quel tedesco che l’ha portato lì, lontano da sua moglie e dal bambino che ancora deve nascere. Wladymir comunque sente di non provare odio, non ha mai provato odio in vita sua e non crede di sapere mai cosa sia.

Il tedesco senza volto lo guarda, lui soltanto e sa che questa è una ribellione contro se stesso e i suoi compagni. Alle spalle di Wladymir c’è paura, terrore, un groviglio di topi che trotterellano e bisbigliano domande di angoscia. Wladymir si sente per la prima volta leone e guarda il tedesco come se avesse vere zanne e vera criniera. Si sente forte e vorrebbe che lo fosse sempre stato nella sua vita. Guarda il senza volto come se fosse stato veramente lui stesso ad uccidergli il fratello, assassinatogli il padre e massacratogli il figlio, che nemmeno il corpo ha ricevuto dalle macerie. Ma Wladymir non ha vero odio, ma solo un altro boccone amaro di una vita non completata. I carboni infuocati paiono meno accesi e più pietosi, verso il fucile puntatogli e lo sguardo incompleto di questi occhi inespressivi.

Non sente lo sparo con orecchie ma con carne. Ha chiuso gli occhi, gli ha serrati in tempo, prima di piangere per la perdita della moglie e del bambino che ancora non conosce. Sente di valere meno di un alito di vento. Non sente più i propri piedi, ma sente il proprio cuore, prima di averlo perso completamente. Ha sentito il proiettile incandescente bucargli la pelle e le arterie dell’organo. Lo sente incapace di muoversi, incapace di battere più. Non ha più aria, i polmoni non ne desiderano più. Sente il proprio sangue schizzare e macchiare la terra e lo sporco sotto ai suoi piedi.

Polonia contrae differentemente il volto da quello di Wladymir. Scavati nella carne, con ombre sotto ad occhi e fronte, Polonia vede gocce di sangue grandi quanto il pugnetto gentile di un bambino. Vede volare cremisi e pioggia vermiglia. Lo toccano, lo trapassano come schegge e per il ragazzo sono aghi di dolore premuti sulla pelle. Non l’hanno realmente toccato, l’hanno ignorato e hanno premuto sulla terra, ma per il biondo è come se fosse ora macchiato di quel liquido caldo ed appiccicoso. Come se una parte del suo cervello fosse scoppiata e questa non provasse più a reagire e a muovergli i muscoli e il pensiero. Polonia vede Wladymir cadere ed irrigidire la mano verso di sé, come uno che non vuole morire e che supplica di non farlo morire.

Polonia vede Wladymir morto sotto l’ombra del muretto e si scuote dal suo posto. Scuote la testa, i capelli irrequieti lungo il suo mento. Vede gli altri letterati e menti polacche che cadono come tanti pezzi di domino, accasciati gli uni affianco agli altri. Come se valessero poco più che pezzetti di legno e non cervelli per saziare un paese ed abbracciare le proprie famiglie. La carta muta e cambia colore.

E Polonia si sente ancora sporco di sangue.

 

 

 

 

 

Polonia tocca coi piedi grigio e lerciume. Lo sorpassano come fantasma e lui non bada agli stivali falsamente infangati. Sa bene che non si potrà mai sporcare. La carta muta e pare più bruciare su se stessa che prendere colore. Rottami di automobili e pezzi di pietra spezzano le strade di questa sporca città. Il ragazzo guarda in alto, dove il cielo viene immerso di nubi di pioggia. Sembra pomeriggio inoltrato e quelle sembrano ultimi bagliori ben nascosti del sole. Cala il buio. Polonia si sente scoperto e nudo. Si sente solo e abbandonato. Toris, sulla sua spalla, si scuote le piume. Polonia per poco sobbalzava per la sorpresa. Alza gli occhi sul falcone, perennemente leggero ed ignorato. Alla creatura brillano ancora stelle e pianeti negli occhi. Fermo, come pietra, guarda lontano da sé, dove la strada prosegue. Polonia comprende e non si sente più solo e abbandonato. Poggia i primi passi sulla strada senza vita e cammina. La neve mista al fango non lo sfiorano e lo sorpassano.

Prussia lo segue, come un cane bastonato.

Il silenzio è statico, ma inquieto dietro le ombre. Polonia sente freddo. Si stringe la divisa e la mantella ai fianchi. Toris pare non aver sentito il movimento. Resta ancora fermo e riflessivo. Il ragazzo sente ancora silenzio ed inquieto timore. Qualcosa si nasconde dietro a questo nulla. Il freddo penetra sotto la sua carne, dentro le ossa. Si stringe e sospira. Non emette aria, nemmeno uno sbuffo di vapore caldo. Capisce che i suoi passi valgono meno del vento e non si sentono per la città. Il freddo prende la spina dorsale. Si scuote piano come un cane. Si chiede se sia il caso di chiedere a Prussia di avere la coperta che gli ha dato. Non sa se questo freddo sia reale e non vorrebbe essere preso in giro dall’uomo, anche se è stato più fantasma di lui stesso.

Un fruscio, un crepitare bisbiglia piano al suo orecchio destro. Polonia lentamente si volta, sulla spalla dove Toris non è poggiato. Un vicolo stretto, buio, nauseante. Il bisbiglio continua a chiedere di essere ascoltato. Polonia guarda ancora il vicolo, come se nascondesse un terrificante segreto. Non vuole andarci. Non sente odori, ma immagina fetore di tubature spaccate, fango e neve abbracciate come nemici, buio che al ragazzo ricorda una stanza senza finestre e con una porta sbarrata. Polonia sente la spalla ancora più leggera: Toris ha fatto un salto e ha pigiato le ali sull’aria inquinata. Sbatte le piume sul freddo e si addentra nel vicolo. Le piume rosse brillano come fuoco, anche dentro al nero di quel vicoletto. Svanisce come una fiaccola spenta. Polonia si sente subito scoperto ed in pericolo. Ragionano i piedi e non la calma paradossale. Corre dietro al falcone, guarda solo dove Toris è sparito e il buio gli sembra meno rischioso di quel che è.

Sbuca fuori subito, come un topolino da un buco nel muro. Abbaglio di luce, fuoco e legna che brucia. Guarda prima attorno a sé, per cercare Toris e per averlo ancora vicino a lui e per essere al sicuro. Trovato: è per terra, vicino alle fiamme basse. Il ragazzo saltella e gli si avvicina. Il pennuto lo guarda, come se non fosse accaduto nulla, come se non l’avesse lasciato. Polonia si china e gli porge il pugno guantato. Toris saltella sul polso magro, con cautela cammina sul suo braccio e pian piano alla spalla. Polonia poggia solo per poco gli occhi stanchi su di lui. L’occhio viene catturato da una fiaccola vivace che si nutre di qualcosa di più arrendevole di legna o ramoscelli. Polonia guarda la metà bruciata di un libro. Senza più copertina, senza più caratteri per riconoscerlo, senza più identità. Alza gli occhi, come colui che non capisce. La catasta è assai più alta di lui, più di qualche ramo d’albero sradicato. Il fuoco non brucia solo legna. Carta ed inchiostro vengono divorati selvaggiamente dalle fiamme. Il fuoco si alza in su, verso l’alto del cielo. Polonia sente ancora più freddo. Toris si agita ancora sul suo posto e riprende il volo, fuori dai suoi occhi e lontano dalla sua spalla. Polonia si volta, lascia dietro di sé il fuoco e il freddo e corre dietro al falcone.

Toris vola più lentamente, con quel suo modo impossibile di poter planare. Tiene le ali distese, senza vento ad agitarle. L’aria sembra molto più pesante. Plana lento, un uomo potrebbe corrergli dietro come nulla fosse. Il buio si rischiara di fronte alle sue piume, il freddo continua ad avanzare sotto la sua divisa. Polonia corre lento, angosciato. Un edificio grigiastro, spezzato in due, si tiene fermo con la testa sopra ad un altro edificio. La carcassa dell’edificio si regge in piedi con difficoltà. Uno dei suoi pezzi cadrà a breve. Polonia guarda in alto, sulle travi e le finestre distrutte, senza più vetro da poter sputare. Toris si ferma là davanti. Sul lampione spezzato e ricurvo getta gli occhi sul palazzo, ma non pare interessargli. Polonia lo raggiunge, senza il suo tipico fiatone. I capelli gli cadono sugli occhi. Ritorna dritto, guarda il falcone. Toris guarda ancora verso il palazzo cadente. Sono vicini, troppo vicini a quello. Polonia deve alzare al massimo il collo per poterlo guardare. È carta, non cadrà, pensa. Una trave di legno marcio si spezza come un frammento di ghiaccio. La carcassa cade come albero marcio e spezzato. Come corpo morto senza sangue. L’istinto gli fa alzare le braccia. Stringe gli occhi e attende.

Toris gracchia, più per strazio che per rabbia. Polonia fa cadere le braccia e guarda. Nessun vento, nemmeno polvere ha mostrato la morte di quel mostro. Il ragazzo si volta verso il compagno alato, vuole capire. Toris saltella sul posto, con un balzo si volta e cade per riaprire le ali. Lo vede sbattere le piume sul metallo di grate alte e pungenti. Il falcone si poggia su una sporgenza liscia. Con fatica e stizza si volta verso di lui. Lo guarda e lo invita. Polonia cammina, affonda i piedi nel fango, nella polvere e in un’erbaccia. Si ferma, guarda in alto, dove Toris si è fermato. Il pennuto sbatte lentamente le palpebre. Non si stiracchia. Fa cadere il becco sulla lastra liscia e strofina. Polonia si scuote, sbatte anche lui le palpebre. La neve sotto il becco appuntito di Toris cade e si frantuma. Il ragazzo capisce di dover aiutare e strofina anche lui. Un color oro sfatto, delle parole marcate con cura, delle lettere polacche. Finito, il volatile ritorna dritto. Si fissano, verde nel nero e nero nel verde. Polonia guarda la scritta e un frammento di neve cade sulla sua guancia.

Vietato l’accesso ai polacchi, agli ebrei e ai cani.

Polonia percorre la collinetta in silenzio. Calpesta verde scuro, nascosto sotto al manto della notte e delle nubi ora grigie. La neve scende come fantasma immortale. Polonia guarda in basso, vede fiocchi bianchi arrampicarsi con fatica agli steli di pianticelle secche e fili di corteccia caduti. Raggiunge l’alto della collina. C’è una panchina. Polonia rimane fermo, con le guance ghiacciate e le gambe di piombo. Il legno della panchina sa di nuovo, di pulito, di curato. Polonia si avvicina, ma non si siede. Vede metallo lucidato, giusto un po’ di bianco sulle tavole e una curva gentile dei manici. Si volta, la collinetta mostra la città. Polonia la guarda e vede grigio, cenere e disgusto. E tristezza e confusione. Si sente infelice. Guarda il bianco scendere lento sul grigio. Qualche fiocco diventa grigio, qualcheduno si poggia e rimane bianco. Non ci sono i mucchi di neve dove ci si affondava quand’era bambino. Non ci sono slittini di ragazzini. Non ci sono persone. Si sente solo, un unico punto in un universo che non conosce.

“Dove siamo?” 

Prussia sente ghiaccio sul suo volto. I denti si scoprono e la fronte cade. Sente saliva dolce sotto le sue labbra. Sente vergogna e umiliazione “Questa…” deglutisce, la saliva dolce lo nausea e s’incastra nella sua gola “Questa è Varsavia”.

Le orecchie gli si appannano. Sente le gambe incerte e fragili. Non tremano, eppure sa che potrebbe cadere. Alza lo sguardo sull’alto della collina. Vede macerie… e sporcizia… e sozzura… e grigio… e nulla di quel che ricordava. Ricorda solo ora, solo ora che ha sentito il nome della sua città. Ricorda di essere stato qui, in questo parco, su questa panchina. Si ricorda seduto, vestito per la domenica. Solo, triste. Gli si spezza il ricordo. Vede con la coda dell’occhio bianco splendente e sole invernale. Era inverno, ma faceva caldo. Guarda i palazzi e li ricordava alti. Guarda le strade e le ricordava piene di uomini con le loro donne e le loro creature.

Si sente cadere, si sente spezzare. Sente lo stomaco angosciarsi nella sua pancia: sente di star per vomitare. Non lo fa. Trattiene i piedi sul terreno. Le gambe sono troppo deboli: indietreggiano troppo. Oltrepassa la panchina, come fantasma senza corpo. La collina si sbriciola dietro di sé e cade ancora nel bianco cartaceo e morto. Guarda la collina e la panchina e rivede se stesso, lavato e vestito bene, coi capelli impigliati nella sciarpa e nel vento. E nella malinconia.

Polonia cade e il suo vecchio fantasma diventa carta, come ogni cosa attorno a sé.

 

 

 

 

 

Dorota cammina per la stanza e si siede con lentezza sul letto vuoto e grigio. Klara tra le sue braccia geme, Dorota muove un po’ il busto per calmarla. La piccina sbatte le ciglia corte, aggrotta la fronte pallida e chiude gli occhietti. Dorota d’istinto sospira e l’animo le si chiude, come in trappola.

Klara è pasciuta, morbida e emana profumo di neonata. I radi capelli le stanno già crescendo e morbidi boccoli dorati le si attorcigliano al visino. È bianca e sana, e non rosata e ruvida. È biondina come lei, come la madre che la tiene in braccio, non è mora come il padre morto in guerra. Dorota aveva atteso cinque mesi e aveva scoperto che sua figlia non aveva niente di Darek. Non ha il suo naso prominente, ma uno tondo e piccolo come il suo. Non ha le guance quasi vermiglie di suo marito. Non ha nulla di suo marito, ormai sotto metri di terra. Klara è addormentata e Dorota la guarda con distrazione.

Ha dimenticato di cambiarla e di pulirla oggi. Se ne vergogna, come ogni giorno, ma il dolore dura poco più di un sospiro. Aveva dimenticato anche di allattarla e l’aveva ignorata anche quando urlava per la fame e la solitudine. Passa sempre la giornata nella loro nuova casa, ma non aveva veramente badato alla sua bambina. Guarda Klara e vede una bambina come milioni che ce ne siano al mondo e non come una creatura nata dal suo grembo. Si rende conto che il suo male è solo egoismo e se ne vergogna, ma sospira ancora di tristezza e dimentica di nuovo.

Klara si acciambella, come spesso fa quando si addormenta del tutto. Si stringe vicina al suo seno e respira con trasporto. Dorota s’intenerisce, come s’inteneriva quando passeggiava al parco con Darek e vedeva una qualunque bambina giocare con la sua palla. Non dovrebbe uscire, ma vorrebbe ricordare. Sua cognata Ewa non vuole, il medico, quello che le aveva fatto domande e domande nelle scorse settimane, quello che lei fu certa che non fu un vero medico, le aveva consigliato di accudire con più amore sua figlia e di non uscire di casa. Ma ora la città è buia e vuole passeggiare. Pensa di tenere in braccio Klara e di camminare nel frattempo. Ewa è certa che dorma. Alza la tenda di fortuna, maleodorante e rammendata, e si abbandona alla strada, con la piccina tra le sue braccia stanche.

Il quartiere assegnato a lei e a sua cognata non le piace e non le è mai piaciuto. Hanno più tende che muri, i mattoni per le strade, la terra grezza su cui poggiare cuscini e materassi. Ha qualcosa di scuro e malinconico. Di triste e nostalgico. Odia stare lì, in quell’angolo di case cementate male e abbattute da nemici che non conosce. Non ci sono nemmeno bambini, in qualche modo sono spariti tutti. Non ci sono anziani, anche loro sono spariti. Cammina con la figlia ancora addormentata. Prima, ricorda, appena arrivata, depressa e col lutto sulle spalle, aveva visto un bambino cencioso che saltellava sui mattoni come un ranocchio tra le pozzanghere. Quel bambino è sparito, non l’ha più visto e non le sembrò che fosse malato. Prima c’era una coppia anziana di fianco alla loro nuova casa, sorridenti come se la guerra fosse un vecchio ricordo. Sono spariti anche loro, degli uomini in uniforme nera come il carbone erano entrati in casa loro e mai più li ha visti.

Klara annusa l’aria sporca e piovana attorno a sé. Spaesata, assopita, riapre gli occhietti. Guarda in alto e vede la madre, allora rimane calma. Dorota sa che non dovrebbe uscire, che sua cognata non vuole e la fissa con preoccupazione, che il medico falso ma gentile non vuole. Ma l’ha fatto altre volte, quindi non ha colpa delle sue azioni. Ciò ormai è diventata abitudine per lei. Ogni sera esce e dopo un’oretta torna. La cognata Ewa, tanto, dorme sempre, il medico falso non l’ha più visto e non le importa troppo. Ha solo portato per la prima volta fuori Klara, di notte, tardi rispetto al coprifuoco che i tedeschi vogliono che rispetti. Per Dorota ormai è abitudine e vorrebbe innamorarsi della figlia così come si era innamorata di Tymek mentre cresceva e diventava uomo. Suo figlio era come il padre, sua figlia è come la madre e non la soddisfa. Vorrebbe amarla di più e farle ricordare come la cullava Darek quando la notte si svegliava piena di lacrime. Come la osservava sereno quando si avvicinava alla sua culla. Darek si era innamorato di sua figlia e guardava con rabbia il figlio che lo sfidava. Dorota si era innamorata del figlio e apprezzava la piccola Klara, senza ancora speranze su di lei.

Klara guarda in alto, oltre la treccia della madre. Vede buio e una colonna che non riconosce. È perplessa, ma la mamma cammina decisa, allora è decisa anche lei. La mamma non le farà mai del male.

Dorota riconosce ancora l’arcata della chiesa. Ricorda il tappeto rosso, i fiori appesi e trattenuti tra le sue mani. Si sentiva una regina col suo abito, vedeva Darek come un uomo quando strinse le sue nocche ruvide e sudate sull’altare. La chiesa aveva luce, il mattino la rischiarava dal portone antico. Darek era timido e la reggeva commosso. Dorota era felice e bianca come una perla. Suo marito l’aveva baciata e aveva provato la strana sensazione dei baffi morbidi sulla sua pelle. L’aveva presa in braccio come una bambola, con tutto il vestito e lo strascico ingarbugliato. Alla porta venne investita da petali di rosa e da chicchi di riso. Era felice di essersi sposata con Darek.

Klara avverte i passi pesanti della madre sulla pietra spoglia di questo edificio misterioso. Riecheggiano come un eco lontano ed inquietante. La piccina guarda ancora in alto e non vede altro che buio che non conosce. Ha paura, ma non geme: la mamma non vuole che lei non sia coraggiosa. Immagina comunque di non dover essere lì e che la mamma le stia facendo fare qualcosa di nuovo che non dovrebbe essere fatto. Imbriglia le labbra sottili e le guanciotte. Si stringe alla mamma, ha paura di essere lì e di non poter andarsene. Dorota si siede dove un tempo sedeva suo padre e sospira ancora, con più allegria.

“Klara, vedi questo posto?” la piccina ancora non si stacca dal petto caldo e non vorrebbe farlo “Qui è dove la mamma si è sposata” Klara non capisce quel che dica, ma immagina di dover mostrare almeno un occhietto all’altare spezzato. Dorota vede ancora luce e magia, per questo continua “C’era il papà con il prete. C’era anche lo zio Wladymir e la zia Ewa. Erano seduti laggiù” indica i posti a sedere, vede ancora il suo abito bianco e la camicia fin troppo stretta per le spalle del marito. Klara vede solo buio, per questo ha paura e nasconde ancora un po’ il faccino. Dorota sospira, spera che la figlia possa capire “Il piccolo Feliks non c’era ancora e non c’era nemmeno Tymek. C’era invece il nonno Jan e il mio papà” Klara continua a guardare e vede nero. Dorota continua a guardare e vede bianco.

Polonia guarda la donna e paradossalmente il nero la illumina. La primavera non ancora germogliata le scuote la treccia col suo venticello. Fa scomporre i ciuffi di capelli. È spettinata e stanca, ma le brilla la pelle come luna in un mare nero. Sente i propri piedi piantarsi sul legno dell’altare, così come gli stivali di Prussia. Toris si appallottola sulla sua spalla, comprendendo che non si muoverà. Polonia vede vestiti sporchi, mani provate e distrutte dalle gelate, capelli arruffati. Ricorda come l’aveva vista felice alla casetta di campagna e immagina la nostalgia per suo marito e per suo figlio. Guarda la bambina, smarrita e paurosa, affatto coraggiosa come Darek o altezzosa come Tymek. Sembra una bambola perfetta, incappucciata in abiti rattoppati. Il cuore perde la voglia di battere.

Prussia guarda ciò che guarda Polonia e il cuore si rifiuta di dover ancora battere in petto. L’aquila nera, con gli artigli ancorati alla sua carne, lo rende rigido come metallo. Guarda Dorota, bionda e con gli occhi da cerbiatta e vede Ungheria, castana, selvaggia, con gli occhi da guerriera. Polonia sente il suo guanto sulla sua spalla, dove Toris è poggiato. Si scuote, ma non si volta, nonostante la novità.

“E’ bellissima” sussurra Prussia, come se potesse udirlo la stessa donna. Polonia ricorda il suo vestito colorato e la treccia ben pettinata durante quel pranzo. La mano di Prussia gli si stringe. Polonia è fermo, ma sente la sua divisa su di sé. Polonia alza lo sguardo su di lui, non capendo. Prussia guarda ancora Dorota e la piccola Klara e ricorda Ungheria col piccolo Italia tra le braccia “E’… è un peccato” Polonia annuisce, pensando ad altro. Sbatte le ciglia, ingrossa le sopracciglia. Si volta confuso, dimentica il braccio di Prussia su di sé e involontariamente lo scansa.

“Cosa vuoi dire?” Prussia ritira la mano, fingendo di non importargli nulla dello strattone. Si passa lo stesso guanto fra i capelli e aggiusta la copertina sulle sue spalle. Guarda Polonia e si rifiuta di posare lo sguardo sui suoi occhi.

“Presto sarà anche la sua ora” dice, deglutendo. Le parole lo oltrepassano come semplice vento. Triste, confuso, impaurito quasi quando la piccola Klara, Polonia guarda d’istinto all’entrata della chiesa, dove la luna si poggia nel cielo e dove qualcuno fa sbucare la sua testa come un topo fa sbucare i suoi baffi fuori dalla sua tana. Polonia non realizza bene e il cuore pompa sangue, realizzando solo lui. Vede figure nere ammucchiarsi sul portone. Vede ombre lunghe e vede passi, senza sentirli. Prussia deglutisce, la mano trema e fa tremare anche la lancia “Credo che questa famiglia stia già percorrendo il suo destino”

Polonia non lo sente e non sente nemmeno la sua voce strascicata. Vede le ombre e le figure ammucchiarsi sulla navata, come un unico corpo. Il cuore pompa sangue e terrore. Dorota parla ancora, Klara è ancora stretta alle sue braccia. Dorota ha soltanto sua figlia, Klara è solo una bambina. L’occhio guizza, le figure sono vicine. Vede piastre sulle loro uniformi, occhi spenti, fucili che puntano. Polonia sobbalza e sobbalza anche Toris sulla sua spalla.

“Scappa!” urla alle due, ancora cieche, ancora sorde.

Vede un braccio alzato, qualcuno dalla nicchia delle ombre ha fatto un segnale. Qualcuno pare annuire. Un’ombra o due si staccano dal garbuglio di petrolio. Vede fucili alzati. Polonia si sente incastrato in una realtà in cui non ha diritto di parola, ma si sente ugualmente disperato.

“Sono dietro di voi!” urla con più forza. Si trascina dietro un passo, le palpebre svanite. Le due non lo sentono. Polonia ricorda le sue ciglia lunghe e come Darek la prese in braccio per baciarla. Guizza ancora l’occhio: i fucili si alzano e puntano verso le due. Polonia ricorda che sono innocenti, che non hanno fatto alcun male ad altri popoli o ad altri stati. Ricorda un pranzo e una casetta in campagna. Ricorda una famiglia e dei bambini. Polonia si sbilancia e Toris spicca il volo per non cadere.

Dorota!!!

Polonia vede la canna di tanti fucili illuminarsi e sputare i loro proiettili. Gli occhi innocenti di Dorota s’illuminano di dolore. Il muro di piombo le si getta addosso come per farla cadere. Il corpo le si scuote, la carne si apre, la schiena tossisce rigagnoli di cremisi e corvino. Le pupille le si restringono, come teste di spilli. Una pallottola, carogna, le si getta alla testa. La trafigge e spezza la carne del cervello. Apre la testa come si apre una noce. Ritorna fuori come una lama di coltello. Spezza di due Dorota e fa saltare la carne del naso. Polonia ha la mascella spalancata, incapace di tornare a sfiorarsi coi denti. Il proiettile cade da qualche parte vicino a lui. Sente gelo e un cuore ingrossato di orrore. Il corpo della donna si è scosso, ma non è caduto. L’occhio di Dorota ritorna grande come prima, dimenticato il dolore. Le labbra schiuse, una cascatella vermiglia che le cade dalla bocca e le gocciola al grembo, sui vestiti della figlia. Un buco in mezzo alla testa e della carne rimasta ancora ancorata al naso, ma penzolante dal suo posto originario. Polonia non vorrebbe, ma guarda. Oltre il buco vede il percorso della pallottola. Vede bruciato, carne ancora mobile, che ondeggia con un braccio ancora impigliato nella pelle della donna. Polonia sente lo stomaco irrigidirsi e un conato di disgusto e terrore salirgli fino alla gola.

I piedi dimenticano come fare passi all’indietro e inciampano negli scalini dell’altare. Sente il bisogno di urlare, ma non ci riesce. Lo sguardo è ancora rapito da quello di Dorota e dalla sua testa spaccata. La guarda negli occhi e lei guarda negli occhi lui. Polonia si sente trafitto da lei. Sente la sensazione di avere una colpa. Sente che lei lo stia accusando. Il cuore impazzisce, lo stomaco sta per collassare. Vede le stesse ombre e vede le loro medaglie. Vede in un abbaglio quel doppio fulmine. Sente nausea, sente di non riuscire ad alzarsi.

Su Klara gocciola il sangue della madre. Le si stringe, impaurita dai rumori e dagli spari. Piange e si agita: la mamma non risponde, non è più calda e non la sta abbracciando. Polonia vede le guanciotte rosse della piccola, i suoi capelli sporchi di sudore e gocce rossicce. Piange con più enfasi, i suoi gemiti riempiono soli l’arcata della chiesa. Il polacco vede nuovo movimento: un tedesco si è staccato dal gruppo e osserva con freddezza la piccola piangente. Il ragazzo si scuote e ricorda di nuovo di avere terrore. L’uomo vede la piccola Klara e a Polonia parte un grido di allarme nelle orecchie. Non devono vederla, non devono farle del male.

Lo stesso tedesco tocca la piccina, la tiene in braccio. Vede capelli biondi e quel poco anche degli occhi azzurri. Polonia e Klara sobbalzano insieme, terrorizzati, non comprendendo. L’uomo non guarda nemmeno quel che rimane di Dorota e si richiude nella cerchia. Klara urla aiuto e la mamma. Polonia sente che le sta chiedendo soccorso.

“No…” con lo stomaco in subbuglio, prova ad alzarsi. Sente lo sguardo di rimprovero di Dorota su di sé e si sente ancor più colpevole. Klara si agita tra le braccia sconosciute del tedesco. Il suo faccino si contrae nella più grande disperazione. Il gruppo nero si avvia, silenzioso, coi tacchi leggeri, senza nemmeno l’eco degli stivali. La bambina piange e piange. Polonia si tira sui piedi e sente di dover fermare tutto questo.

“Fermatevi!” poggia i passi sulla navata e scatta verso l’uscita. Veloci, i tedeschi raggiungono l’uscita spalancata. Polonia corre, il suo stomaco bestemmia e il cuore supplica di essere più veloce. Klara alza lo sguardo oltre la spalla dell’uomo. Guarda dove ora c’è il biondino e agita una manina, come nel volere che qualcuno la afferrasse per portarla via dallo sconosciuto. Polonia vede lei che lo supplica di aiutarla, Klara guarda la mamma seduta laggiù che non si alza per venirla a prendere. La boccuccia si spalanca e urla. Le lacrime riscaldano il suo volto e implora aiuto.

Klara!!!” urla Polonia, alzando anche lui la mano, per afferrarne la piccina e morbida della bambina. Le figure inespressive scompaiono, la piccola Klara diventa carta bianca. Polonia precipita nel bianco cartaceo e le lacrime salgono ai suoi occhi come la disperazione aveva preso Klara nell’urlare la sua angoscia.

 

 

 

 

 

Ewa non si è mai dimostrata perennemente gentile. Non è del suo io aiutare chi non conosce o chi anche conosce per poco meno di tre anni. Non fa parte del suo carattere e comunque non ama le persone come ha amato Wladymir, anche se goffo e timido.

Ewa aveva conosciuto Wladymir già da quando era ragazza. Era in una classe con solo due ragazze, lei inclusa. Era in una classe piuttosto fredda e affatto amichevole, per essere una classe di liceali. Le stufe quasi prendevano fuoco nella sua classe e le finestre erano sbarrate per il troppo freddo. Lei è sempre stata impeccabile, sempre orgogliosa di sé. Wladymir sempre in ritardo, sempre e perennemente un bambino abbracciato alla gonna della madre. E nascosto dietro l’ombra robusta ed ilare del fratello. Ewa conosceva anche Darek, ma lo detestava. Era immensa la forza d’animo del maggiore rispetto all’altro occhialuto e più schivo. Ewa quand’era ragazza non si curò di quel suo coetaneo disordinato ed ignorato da molti. Dimenticò Wladymir, così come prese il diploma.

Non ha potuto frequentare l’università, anche se diverse ragazze ben più povere di lei potessero farlo. A quale vantaggio, lei non ne aveva idea, ma le rispettava e ammirava la loro cultura. Ewa un tempo non poteva far altro che sedersi sull’erba del suo parco preferito e leggere avidamente. Wladymir era uomo e suo padre poteva farlo studiare. Wladymir non era un uomo di guerra come il fratello. Non era orgoglioso, non era forte. Ewa lo vedeva correre ogni mattina di fronte al parco dove lei di solito si sedeva. Con la strada di fronte a lei e la corteccia della quercia alle sue spalle, si ricordò di quel ragazzo timido che aveva in classe quand’era ragazzo. Darek aveva deciso di entrare nell’esercito e di servire il paese. Wladymir scelse di studiare per essere professore. Lo divenne e la laurea bruciava come un fuoco sacro fra le sue mani.

Si erano guardati negli occhi fra le sbarre del cancello. Lui vide il suo libro e le chiese se fosse storia medioevale polacca. Lei affermò. Lui le si avvicinò e si ricordò di Ewa.

Si sposarono tardi in confronto al fratello di lui, ma il padre Jan la accolse con calore e così anche la dolce cognata e il suo nuovo fratello. Ewa non aveva una vera famiglia, non aveva fratelli. Sua madre morì quand’era bambina, suo padre fu portato via dalla Grande Guerra. Visse coi nonni, che le diedero un’istruzione, ma non molto affetto. Erano troppo addolorati per le due morti per riuscire a dargliene alcuno. Lei non gliene ha mai dato colpa e non li incolpò nemmeno di essersene andati anche loro, pochi mesi prima del suo matrimonio.

Ewa era sempre precisa e puntuale, Wladymir perennemente pauroso e impacciato. Darek era forte e di un’ironia quasi prepotente, Dorota continuamente dolce e di una felicità quasi fanciullesca. Jan era perennemente gentile, anche se con poca memoria. Tymek era come il padre Darek, orgoglioso e desideroso di essere amato e apprezzato, ma era anche come Dorota, affettuoso a suo modo e con la stessa risata della sua giovane cognata. Feliks era simile ad Ewa, anche se non lo immaginava, ma era anche simile al padre, intelligente e schivo. Conosceva poco Klara, ma era una dolce bambina, come la madre.

Ewa ricorda ancora quando si sedevano a tavola la domenica, dopo aver partecipato alla messa. Ricordava le sfuriate tra i due cugini Tymek e Feliks, le occhiate infantili dei due sposi Dorota e Darek, gli sguardi di sconforto che il marito le rivolgeva ad ogni rimprovero, le espressioni ingenue di Jan e i sospiri nel sonno di Klara. Era qualcosa di caotico, ma bellissimo. Lei non ha mai avuto niente del genere. Aveva perso ogni cosa e aveva perso la sua famiglia. Aveva ingenuamente pensato di poter cambiare e così di salvare qualcuno, prima di dare alla luce il secondo figlio di Wladymir. Così si dannò e nascose in casa sua un ebreo, lo stesso che aveva tentato di salvare Dorota con quel poco di psicologia che conosceva.

Prussia si morde il dito sotto al guanto e le gambe gli tremano, non sa se per stizza o per pressione al cranio.

L’aquila nera alla sua spalla vola ora su uno dei sedili e lì poggia gli artigli. Non si muoverà da lì. Il falcone rosso di Polonia saltella sul legno e si avvicina alle gambe del ragazzo. Polonia non si è nemmeno guardato attorno, non pare nemmeno essersi accorto di essere su di un treno spoglio, freddo e con le finestre senza vetri. Buio, nonostante il giorno, marcio, nonostante all’esterno pare essere uno di quei treni in cui di solito viaggiava. Quando l’Europa era in mano sua.

Le mani di Polonia si congiungono nocche con nocche. Ha alzato i pollici e tra le pieghe delle dita vede il legno scuro su cui è accucciato. Prussia non riesce a guardarlo e teme che possa alzargli lo sguardo e fargli qualcosa che nemmeno immagina. Sospira con furia, gli tremano ancora le gambe e il ragazzo è ancora accucciato, con le ginocchia aperte e i gomiti piantati nella carne delle gambe. Toris saltella ancora e gli si avvicina fra le gambe. Là, sotto le mani in preghiera, vede l’occhio spalancato e verde tremare come l’iride di una furiosa e penosa fiera.

“Perché l’avete fatto?” lo sente ringhiare come un cane. Prussia non l’ha mai sentito ringhiare, pensava ingenuamente che non potesse farlo o che non ne fosse in grado. Le gambe per un attimo smettono di tremare. Prussia continua a mordere il dito sotto al guanto, non sentendo dolore, ma solo frustrazione. Essere a due passi dal ragazzo lo disturba, lo disturba come gli disturbava vederlo addormentato nella casa di Austria tra le coperte calde e il cuscino poco lontano dalle sue mani. Le gambe ritornano a tremare e sente più l’occhio severo dell’aquila nera che quello lucido del falcone rosso.

“Non lo so…” decide di guardare Ewa e di sperare di pensare ad altro. L’occhio, dai capelli radi e vecchi, gli si sposta verso la pancia fin troppo gonfia. Gli si para rabbia, frustrazione… vergogna. Una mano gracile e ossuta passa i polpastrelli sul rigonfiamento. La guarda, la donna ha occhi stanchi e spenti. Non aveva quegli occhi quando l’ha vista alla casetta con suo marito e il figlio. Il figlio aveva i suoi occhi e i suoi capelli. Un conato di pentimento gli sale fin sulla gola. Sposta ancora gli occhi. Non vuole sentirsi così male. E le gambe continuano a tremare.

“Era così felici! Erano tipo la famiglia più felice del mondo! Perché li avete uccisi?!” Prussia deglutisce, le gambe gli tremano come se provassero loro stesse vergogna. Guarda il pavimento. Vorrebbe sprofondarci come un verme nel terriccio fertile.

“Non lo so” Polonia si toglie le mani dagli occhi, quasi strusciandole addosso alla pelle. Ignora tutta la gente seduta sui sedili, ignora i loro vestiti logori e quello strano simbolo giallo cucito sui loro cappotti. Ignora anche Toris che, come nulla fosse, viene scacciato con una mano. Polonia ha rabbia, frustrazione per non poter fare nulla… vergogna per non essere riuscito a fare nulla. Pensa ancora a Dorota e a come lo guardava con sguardo colpevole anche da morta. Agita i gomiti come un bambino capriccioso.

“Perché Germania ha fatto tutto questo?!” Prussia sente come una lamina di ghiaccio scivolargli sotto la divisa. Sente sollievo e ben più turbamento di quanto ne sentiva quando ha visto il rigonfio del ventre di Ewa. L’aquila nera, ben lontana, eppure vigile, volta veloce la testa. Prussia finge di non aver notato lo scatto veloce e nemmeno la tensione degli occhi cerulei su di sé. Lo guarda con rabbia, disgusto… vergogna “Perché tuo fratello ha ucciso il mio popolo?!”

“Non lo so!” esce un urlo spaventosamente acuto “Cristo, Polonia, non lo so!” abbassa la voce, si copre la bocca “Non lo so…” e parte di sé vorrebbe rispondergli, così come un’altra parte di sé si sente ben più che colpevole. Si sente come se avesse chiesto perché lui abbia fatto una cosa del genere. Prussia non ha energia per rispondere e ha troppa confusione dentro di sé per poter rispondergli. Ricorda quando West si svegliava la mattina e lavorava, nonostante la febbre e il sudore che gli colava come sangue da una ferita. Ricorda quando era ora di cena e suo fratello non rientrava ancora dal lavoro. Ricorda quando lo cercava la sera e lo trovava addormentato alla scrivania, con la fronte sudata e bollente, e coi debiti che aumentavano come vermi su di un corpo morto. Questo per pochi marchi alla settimana. Non poteva lasciare che una cosa del genere accadesse a West, che ama quasi più di se stesso.

Rumore di spari, vetri fracassati. Prussia volta lo sguardo dietro di sé solo per un secondo e pare che abbia fatto passare almeno mezz’ora. Vede un proiettile entrare da una finestra e con una lentezza assillante entrare nella tempia di una signora. Quella ha lo sguardo esausto e per un attimo prende vita. Sbarra le iridi grigiastre e orribili. Le rughe sulla sua fronte si tendono e scompaiono, quelle sotto gli occhi si stendono, quelle agli zigomi si spezzettano. La testa segue il proiettile e il corpo segue la testa. Vede le sue guance grasse scontrarsi sul legno polveroso. Le iridi sbarrate e la bocca contratta. A Prussia involontariamente gli ricorda una di quelle scrofe che si appendono ai ganci per essere tagliate e farne salsicce.

Polonia si alza e per lui è passata poco più di un ora. Confuso, consapevole di vedere altro sangue, vede solo confusione di donne e uomini scaraventati fra di loro. Si volta indietro e vede Ewa cadere di schiena. La vede sbattere per terra. La gente si agita e chi non riesce a ripararsi si sdraia per terra. Chi muore prende altre pallottole dai finestrini: i corpi non cadono per terra e nessuno vuole smuoverli dai loro posti. Qualcuno nel panico si alza e prova a scappare verso il portellone di uscita. Ewa striscia sul pavimento: il treno si muove a passo d’uomo. Qualcuno è impazzito, qualcuno ha ancora forza di urlare e di agitarsi. Una donna, con la faccia contratta come quella di un ratto preso per la coda, calpesta nel terrore il grembo di Ewa. Entrambe contraggono il volto: Ewa ha dolore e rapido terrore, la donna è stata colpita e l’occhio le sanguina come esploso nel cranio. Cade calpestandosi il tallone e sbatte anche lei la schiena sul legno. La sua testa sbatte tra le dita di Polonia. Le vede la lingua penzolare dalla mascella e muoversi fra i denti con spasmi, come un pesce appena pescato e gettato sulla terra ferma. Polonia alza con fatica lo sguardo. Ewa si tiene il grembo con le braccia. Perde il bambino, pensa, sta per morire!

“Dobbiamo fare qualcosa!” urla e la voce pare più decisa della sua mente confusa. Prussia sente prima gli schiamazzi degli ebrei, tenta disperatamente di dimenticare la donna scrofa, e solo ora sente Polonia.

“Cosa?”

“Dobbiamo aiutarla!” urla, cercando con lo sguardo qualcuno che abbia visto Ewa, il suo grembo e il suo contorcersi per terra con disperazione. Nessuno vede o ha visto Ewa, nessuno pare interessarsi di lei. Polonia guarda e getta sguardi più disperati di quelli della donna per terra. Nessuno l’aiuterà, così come nessuno ha salvato Darek dalla fucilazione, Tymek dallo sparo allo stomaco, Jan dalla spinta su per la collina, Feliks dal bombardamento in pieno giorno della sua scuola, Wladimir dagli spari e Dorota e Klara dai tedeschi. Nessuno salverà nemmeno lei, la lasceranno morire come se fosse poco più di una cagna.

Polonia ha occhi brillanti come gemme. Toris incontra i suoi occhi, le sue sopracciglia cadenti, la sua mandibola serrata, i suoi denti bianchi e sporgenti dalle labbra. Toris lo guarda come lo guardava tacito nel bianco della carta. Polonia poggia le mani sul legno del sedile dove ora ha poggiato gli artigli. Toris lo guarda e aspetta soltanto che parli “Toris, ti prego, salviamola!” gli supplica, così come gli ha supplicato di vedere per la seconda volta il suo amico “Ti prego, Toris, dobbiamo fare qualcosa, non possiamo lasciarla morire!” il falcone acconsente, alza l’ala e si strappa quattro piume rosse e nere.

Ewa sente liquido denso e bollente fra le gambe, sotto la sua gonna. Il pancione pare agitarsi e tremare dentro di sé. Respirare le toglie il respiro più che dargliene: la schiena è bloccata sul pavimento e la pancia è troppo pesante per alzarla ed abbassarla coi polmoni. Si sente soffocare dal suo stesso grembo. Le mani le stanno iniziando a tremare. Sente poche urla, solo un gemito di bambino lontano da lei. Gli spari hanno smesso e distingue le ruote del treno cigolare con più velocità. Una fitta la prende come una pugnalata: il bambino si agita, il punto dove quella donna l’ha pestata fa male. Sente un livido nascere lì. Brucia come carbone. Un’altra fitta, un altro respiro faticoso.

“Signora, l’aiuto io!” sente ginocchia cadere e strusciare. Alza lo sguardo e incrocia i suoi occhi con quelli di un ragazzo “Come si sente? Dove le fa male?”    Ewa deglutisce, con tanta fatica tira un respiro. Sente di star per piangere.

“Sta per nascere…”

“Come?”

“Sto per partorire!” il ragazzo sussulta. Inizia a tremare come se avesse i piedi incastrati nel ghiaccio.

“N-Non si preoccupi. Io… io…” deglutisce e trema ancora. E’ terrorizzato quasi quanto lei, si rende conto. È comunque grata che qualcuno stia cercando di aiutarla “Io ho… ho cinque fratelli, so come aiutarla!” Ewa non riesce più a tenere gli occhi aperti e non si cura se il ragazzo abbia detto la verità. Sa solo che la pancia le fa male e che il bambino si agita e scalcia. Un’altra fitta, le gira la testa. Sente ancora il piede della donna sul suo grembo “Respiri, respiri!”

Sente in lontananza i passi pesanti e selvaggi di Prussia. Se n’è andato. Polonia respira un altro sorso d’aria fredda e stende sulle guance un sorriso tremule. Prussia salta e sorpassa il vagone e si ritrova in un altro. Dimentica la sua abitudine di guardarsi le spalle. Sente le spalle deboli e malate quando si lascia cadere per terra, in un angolino della vettura. Si poggia le mani sugli occhi e le spinge. Non vuole piangere, non vuole sentirsi così pesante. Non vuole sentirsi così nauseato. Gli sfugge un gemito, ha dimenticato di pressare anche la bocca. Sente lievi affanni nel vagone al di la del suo. Quella donna lo sta uccidendo anche senza vederla. Guardarle il grembo gli ha contratto lo stomaco e fatto salire le lacrime. Si toglie le mani dal volto. È inutile, piange comunque come un bambino. Geme ancora e si sente disgustato. L’aquila nera l’ha seguito e lo guarda senza batter ciglio. Prussia lo disgusta anch’ella “Perché mi fai vedere tutto questo? Perché non mi butti all’Inferno e la facciamo finita?!” l’aquila continua a fissarlo, caduta ai suoi piedi.

Prussia s’infuria e col guanto si strappa via le lacrime. Alza lo sguardo e vede affianco all’uccello una mano bianca. Prussia sente gli occhi contrarsi. Si alza e si guarda attorno. Il vagone pare sputare rosso e carne. Vede schizzi vermigli sul legno dei sedili e su vestiti di donne e uomini senza volto. Il naso gli si contrae anch’ello e lo sguardo gli cade sulla mano che ha visto prima. Segue il polso grigio, il gomito scheggiato, la manica del cappotto. Vede guance tonde di bambina e boccoli biondi intrecciati sulle spalle. Vede una giovinetta non più bambina, ma nemmeno donna, accasciata al pavimento e con gli occhi incrinati come se capovolti nell’orbita. Vede quasi bianco nelle sue pupille. Prussia non si scuote nemmeno. Col volto incrinato malamente, si sente come svuotato e più leggero. Come frammento di quel paesaggio vermiglio ed invernale, come se ormai fosse freddo a tal punto da non sentire più nulla. L’occhio gli cade ancora e vede la tempia fratturata della ragazzina che il volto è riuscito a nascondergli. Le orecchie lo colgono di sorpresa e sente in lontananza un urlo di dolore e sollievo. Prussia sbatte le palpebre e due scie di lacrime si trascinano sulle sue guance.

Polonia deglutisce e sospira. Arraffa nella sua uniforme il nastro e la coroncina che aveva trovato in questo viaggio. Le infila nella tasca dei pantaloni e incomincia a togliersi mantello e giubba. Rimane con una maglia bianca a maniche corte, ma il freddo nemmeno lo sfiora. Si sente troppo commosso e provato per farsi scalfire dal freddo. Ewa è distrutta, come svuotata di tutta la forza che aveva in corpo. A malapena vede il ragazzo che l’ha aiutata, troppo pressata, troppo sfocata la sua figura. Polonia si toglie parte della sua uniforme, ma Ewa vede un ragazzo che si sta togliendo il cappotto pesante e malconcio. Polonia rimane a maniche corte, ma Ewa vede una camicia bianca troppo leggera per lui. Il ragazzo arrotola il cappotto attorno alla creatura che ha partorito. Quella si agita e scalcia. Geme e piange. Si muove come qualcosa di non umano e per Ewa è incredibile. Infagottata e calmata, la creatura si ferma, rossiccia e umida. Il ragazzo trema e tira su il naso.

“E’…” lo sente deglutire. Quasi non respira più “E’ una femminuccia” Ewa chiude gli occhi, non ha la forza per realizzare una cosa del genere. Si sente mancare, forse svenire. È solo un attimo, ora sta bene. Però il pavimento è congelato e sente spifferi lungo le cosce. Si sente umida e vuota come un guscio spaccato di un uovo. Vede il ragazzo stringere la bambina al petto. Sente di nuovo tirare il naso, non sa se stia piangendo “Come… come la chiamerete?” Ewa rimane ferma ai suoi pensieri, come non realizzando o realizzando a metà. Deglutisce aria delle guance e guarda ancora il ragazzo.

“Magda…” si perde nei pensieri, ormai senza forma “Come…” sospira “…come vuoi tu, Feliks” sente di essere confusa e di confondere. Polonia ha capelli lunghi e biondi, ma Ewa vede capelli corti, tagliati malamente e bruni. Lo guarda negli occhi profondi e verdi, immutati dalle piume rosse, e ci si perde. La creatura in braccio al ragazzo pare scuotersi per qualcosa e continua a gemere. Polonia, confuso e consapevole, guarda Ewa e lei guarda lui. Capisce qualcosa che non vorrebbe capire.

“Signora?” le tende la mano sulla mano bianca di lei. La scuote e così si scuote tutto il suo corpo. Ewa continua a fissarlo o fissa un punto lontano che lui non riesce a vedere. Polonia non sente disperazione, ma tormento. La scuote ancora e pare voler scuotere tutto il vagone “Ewa, svegliati!” non si muove “Svegliati, forza, svegliati!” non sente lacrime sulle sue guance, ma è come se le avesse. Si muove troppo col polso, la bambina in braccio a lui sente di star per cadere e piange, avvisando del pericolo. Polonia l’afferra lasciando la madre. La bambina, anche se rasserenata, comunque piange ancora, cieca e bisognosa di attenzioni, con la pelle contratta come il muso di una scimmia. Polonia si scuote e la culla, facendo andare avanti e indietro i gomiti come una zattera in mezzo alla tempesta. Invano, quella piange con più preoccupazione.

Polonia non sa più che fare e si volta all’indietro, chiedendo aiuto con gli occhi. Prussia nemmeno lo guarda. Fissa Ewa, morta per la fatica sul pavimento di un treno per rifugiati ed esuli, e non riesce a far altro. Ascolta i lamenti di Magda e le suppliche di Polonia, ma non ci presta attenzione, come musica di sottofondo ad una scena teatrale agghiacciante.

 

 

 

 

 

Magda dorme tranquilla infagottata nella divisa di Polonia. Altro non ha trovato per vestirla. Alla fine ha dovuto lasciarla così, sporca ed appiccicosa. Crede che in quel treno non ci sia effettivamente qualcosa per accudire una neonata.

Magda sonnecchia. Le guanciotte tonde e ancora rosse per lo sforzo mostrano vene violette sotto la pelle. La tempia ne ha altre, ramificate come fili di ragnatele, verdi e viola. La testa calva e bollente. Polonia si meraviglia che possa tenerla in braccio e stringerla. Sentire il suo cuoricino sotto la giacca della sua divisa, il suo respiro quieto, il suo fagotto bollente. Sente sotto di sé il treno avanzare nella neve, i sedili urtare con la sua schiena debole, la neve che timidamente entra dentro i finestrini spaccati dalle pallottole. Si chiede ancora perché qualcuno debba sparare ad un treno.

Polonia fissa la piccina e le sembra diversa dalle migliaia di neonate che abbia visto in vita sua. Si chiede se riuscirà a trovare un ricambio per lei, una bacinella e dell’acqua calda per lavarla, del latte per nutrirla. Se Ewa fosse ancora viva avrebbe potuto allattarla. Magda borbotta nel sonno. Stira le labbra e le lascia socchiuse. Polonia prende la manica della giacca in cui è avvolta e gliela stringe meglio al busto. Magda incrocia le sopracciglia e borbotta ancora. Il ragazzo sorride impacciato. La trova adorabile.

“Non è totalmente dolce, vero?” chiede a Prussia, alzando lo sguardo sul sedile di fronte a sé. Prussia non si è mosso da lì da quando Ewa gli ha lasciato la bambina. L’uomo sente la domanda, ma è come se non l’avesse sentita. Rimane ancora pensante e teso, col gomito addossato alla coscia e la mano imbrigliata nella bocca e nelle guance. Ha qualcosa di mortificante, Prussia. Il teso sospira fra i denti, abbandona la mano dal volto e guarda Magda fra le braccia di Polonia. La guarda come un uomo guarda un oggettino rotto trovato tra le mani del figlioletto. Magda per Prussia è insignificante e allo stesso tempo la cosa più dolorosa che abbia visto fino ad ora.

“E’ una bambina e basta, Polonia” risponde scoraggiato e depresso. Per Polonia è noia e affaticamento, per questo sbuffa e rimane zitto con la piccola. Non è una sua bambina, per questo non gli importa di lei, immagina. Ma qualcosa gli dà fastidio e gli turba di Prussia. Lo vede teso, freddo, isolato. Ha qualcosa di rabbioso che non comprende. Il ragazzo sbatte più volte le palpebre e mostra alta la testa.

“Cioè, perché non ti interessa di lei? La madre è tipo morta qui poche ore fa e nemmeno ti importa?” Prussia non sente ancora e continua a rimanere fermo e pensoso. E freddo e sottomesso come un cane di fronte al bastone. Guarda fisso l’aquila nera gettata lì nello spigolo del vagone con occhi eloquenti e minacciosi. È colpa tua, gli dice, guardandolo fisso. È la tua colpa e così la paghi, dice ancora. Per Polonia questa è indifferenza. Per un attimo la piccina gli pare bollente come un secondo cuore “Ma che ti prende, Prussia?”

“Sta’ zitto! Non mi interessa e basta!” Prussia sente tormento nella sua voce, se ne vergogna e poggia ancora il guanto sulla mano, come per parare altre parole velenose e disdicevoli. Il tacco dello stivale si muove ritmico sul legno e sfoga la sua ira sulla gamba. Polonia vede la stessa cosa che ha visto di se stesso il prussiano e rimane comunque interdetto. Guarda un attimo la piccola Magda, ancora tranquilla nel giaciglio sporco, e guarda verso l’interlocutore.

“Ma che hai?” il tacco di Prussia ha spasmi meno violenti. Polonia capisce che non è il solito prussiano “Stai bene?” la mano guantata cade ancora dal mento. Deglutisce, gli si stanno appannando gli occhi “A che pensi?” chiede il ragazzo, abbastanza preoccupato.

“Penso…” Penso che farà la fine della madre, del padre, del fratello e di tutti gli altri della sua famiglia, pensa Prussia, attraverso i suoi occhi di rubino fuso. Penso che tu abbia fatto una cosa completamente inutile. Penso che morirà, così come sono morti tutti in questo cazzo di paese. Penso che non dovresti fare quella faccia da ragazzina ogni volta che uno di loro muore! “Penso che dovresti lasciarla qui”

“Uh?!” storce le palpebre Polonia. Prussia nemmeno guarda la bambina. Odia l’espressione del biondo, come se non capisse nulla. Non può essere così scemo!, pensa il comandante.

“Credimi, è meglio così: qualcuno la troverà e potrà darle da mangiare e tirarla su meglio di come stai facendo tu ora” Polonia lo guarda come se gli avesse detto di buttare la piccina fuori dalla finestra, nella neve, ora che il treno si è fermato. Lo legge negli occhi: non vuole e non accetterà mai. Prussia non vuole che veda un’altra morte, proprio di questa bambina, nata di fronte ai suoi occhi. Senza che abbia nemmeno un giorno di vita. Si sente trascinare il petto e spezzare in due. Polonia non lo capisce e lo guarda come se avesse chiesto di sparare alla piccina.

“Uscite subito! Abbandonate tutti i bagagli e scendete!” urla qualcuno con un accento marcato e un ringhio nella voce. Prussia si sente in pericolo. Trema e respira con difficoltà. Polonia non vuole abbandonare Magda ed è ancora ingenuo. Si alza cautamente. Controlla se la piccola si sia svegliata e cammina verso l’uscita del treno.

Prussia rimane immobile e lo guarda incredulo mentre esce dal treno, come se fosse su di una carrozza di prima classe ad una destinazione che conosce.

 

 

 

 

 

Sente puzza di gomma e grasso bruciati nell’aria.

Polonia è sollevato e confuso del fatto che tutti lo possano vedere, ma che non lo facciano. Si sente una sardina all’interno di una scatola con altre sardine, schiacciato contro altri cappotti e corpi umani. Tiene in alto Magda, per farla respirare. La piccina continua a dormire, forse non accorgendosi nemmeno di quello che stia accadendo attorno a loro. Polonia alza lo sguardo in alto. Il cielo triste e nevoso sulla sua testa non lo tocca nemmeno. Le guanciotte rosse di Magda sembrano mele lucide. Polonia poggia un braccio sotto di lei e la alza un po’ di più. Si sente soffocare, come se cento occhi gli stiano incollati al cranio, come quando è agitato nel vedere troppi stranieri.

La folla sembra aprirsi un po’ di fronte a sé. Un po’ d’aria fredda, un po’ di libertà. L’uomo che prima gli si schiacciava contro il petto si è allontanato da lui e cammina come uno zoppo, senza nemmeno mostrarsi. Polonia deglutisce. Guarda avanti, dove un piccolo spiazzo di neve gli si apre davanti al naso. Si rende conto di essere in una conca, dove all’infuori si trova una scrivania e due uomini in uniforme nera come la notte e lucida come l’acciaio. Polonia sente le ginocchia tremare e forse anche Magda le sente, svegliata ed imbronciata. Quei due lo guardano. Due estranei lo stanno guardando.

“Il prossimo” dice uno dei due, guardandolo fisso. Polonia si sente calpestare dai suoi occhi inespressivi e immagina che debba avvicinarsi. Le ginocchia tremano ancora mentre trascinano i piedi fino ai due in uniforme. Alza lo sguardo, il secondo uomo, quello che non gli ha ancora parlato, lo osserva come se fosse un qualche disgustoso e bizzarro insetto. Il collo gli cade e abbassa la testa, intimorito. Un briciolo di neve cade sul nero dell’uniforme. Polonia aguzza impacciato l’occhio. Lo stesso simbolo a forma di fulmine si piazza sul colletto della giacca. La doppia S s’impenna anche alla sinistra dell’uomo, dove pompa un cuore sterile.

“Quanti anni hai?” chiede l’altro, senza alcun accento nella voce. Polonia immagina che gli possano chiedere dei documenti che non possiede. L’idea di non poter fare qualcosa per i due stranieri gli fa tremare le ginocchia. Con lo sguardo basso, deglutendo, trema. Immagina un’età qualsiasi per se stesso.

“Se-Sedici…” mormora, spaventato. Si chiede cosa potrebbe fare nel caso gli chiedessero un nome che non riuscirà ad inventare. Le ginocchia cozzano ancora fra di loro. Alza con paura lo sguardo, come se i due cani potessero alzarsi dal tavolo e sbranarlo subito, importandogli per nulla di essere una nazione immortale. L’altro, quello con il simbolo sull’uniforme, pare trafiggere la piccola Magda tra le sue braccia.

“E lei chi è?” chiede lui. Polonia sussulta: la sua voce era rude, tagliente, cattiva. Deglutisce, inventandosi qualcosa che non immaginerebbe mai.

“E’… è mia sorella” i due non tolgono gli occhi da Magda, ancora accucciata nella sua uniforme. Si chiede cosa possano vedere in lei e perché la osservino così tanto. Immagina che dei neonati non dovrebbero stare lì. Terrorizzato, si chiede se la porteranno via da lui. Si chiede se dovrà fare la fine di Klara e lui della madre Dorota. Quest’immagine lo fa tremare con più forza. I due continuano a mormorare qualcosa fra di loro. Guardano Magda, il suo faccino rossiccio. Guardano anche lui, le sue spalle magre e le sue braccia deboli. Questa cosa lo terrorizza. Il secondo gli rivolge lo sguardo. Alza il braccio e lo punta alla sua sinistra.

“Andrai a sinistra” Polonia non se lo fa ripetere due volte. Le ginocchia smettono di tremare e iniziano a correre nella direzione indicata. Alza lo sguardo e finalmente lo vede. Guarda più in alto e nota attorno a lui reti e filo spinato sopra la sua testa, attorcigliato sulle reti. Volta lo sguardo dietro di lui e vede una marea di carne, di giacconi invernali e di sguardi vacui dopo un lungo e tormentoso viaggio. Polonia è basso e non riesce a vedere la fine di quell’ammasso di sconosciuti e di nuvole grigie. Continua a camminare, impacciato e volenteroso di fuggire da questo posto.

“Il prossimo” urlano i due uomini dietro di lui. Polonia sobbalza, insieme al corpicino di Magda e il suo passo diventa corsa.

 

 

 

Questa grande stanza lo fa sentire più al sicuro, lontano dall’ammasso di corpi e sguardi sconosciuti. È grande, buia, senza occhi. Si sente protetto al buio, lontano dalle finestre. Quand’era entrato aveva sussultato: altre persone che non conosce e che si ammasseranno contro di lui come fiammiferi in una scatola troppo stretta. Entrato, coperto dall’oscurità, si era calmato: sono solo bambini e forse qualche ragazzo come lui. I bambini non giudicano e non potranno mai fargli del male, per questo ora non trema. Dei passi pesanti rimbombano nella stanza. Polonia sussulta e alza lo sguardo come se ne dipendesse la sua vita. Qualcuno dietro di lui se ne lamenta e geme, ma non gli importa.

La puzza di grasso fuso è disgustosa.

“        Zitti, giudei!” Polonia impallidisce per la voce aggressiva “Ai bagni, presto!” urla la donna, ben lontana da lei, ma chiara come se gli avesse urlato in un orecchio. Magda riapre gli occhi, ceca per il buio e paonazza per la sorpresa. Polonia la culla quasi con disperazione. Non vuole che pianga, che attiri l’attenzione su di loro e che magari li possa accadere qualcosa di orribile.      L       a piccina non ha mai voluto aprire la boccuccia, ma non richiude gli occhi, insospettita e curiosa. Polonia vede movimento e corpi molto più piccoli di lui spingersi tra di loro, verso la donna che prima ha urlato. Polonia sente le ginocchia sbattersi ancora fra loro e incomincia a camminare.

La donna ha un che di terribile, vista la faccia da lontano. Non è vecchia, non è giovane, ma è terribile ugualmente. La sua carnagione non sembra avere un vero colore, forse sporca, forse semplicemente ambigua. La faccia contratta e gli occhi sporgenti la fanno sembrare ad un qualche felino abbandonato nelle foreste siberiane. Una qualche tigre feroce, vestita pulita, a righe come una carcerata, con gli stivali di cuoio pesante, e il seno rigido ad ogni passo che compie. Polonia vede teste alte quanto lui e anche più. Non vede in faccia i ragazzi, ma immagina gli occhi addossati su di sé e allora rinuncia di avvicinarsi. Vede le scale che scendono verso il basso. Un brivido di terrore raschia in due la spina dorsale.

“Svestitevi ed entrate nelle docce!” urla infuriata la donna. Polonia si guarda attorno. È veramente uno spogliatoio di una doccia comune. Vede le panche, i ganci per i vestiti e le scarpe. I bambini e i ragazzi si sparpagliano per la stanza gigantesca. C’è qualche anziano in questo gruppo, nota, con la pelle screpolata e chiazze grigie e gialle. Polonia rimane bloccato sul suo posto. Non vuole spogliarsi, farsi vedere nudo di fronte a così tanti sconosciuti. Non vuole essere lì. Indietreggia e sbatte la schiena contro qualcuno di alto e robusto. Si volta terrorizzato. La donna abbassa il mento contro la sua testa. Sente il suo alito e vede i suoi denti sporchi e cariati.

“Non hai sentito?! Spogliati!” la voce aggressiva lo attanaglia e lo fa scappare, come un’onda d’urto che lo trascina e lo fa sbattere contro muri e scarpe. Si stanno tutti già svestendo. Polonia cade sulla prima panca vuota che trova. Si guarda attorno, trema il suo sguardo così come trema il suo petto. Non vuole svestirsi. Alza lo sguardo, incontra con gli occhi ancora la donna di prima. È infuriata, glielo legge in faccia. Un riflesso involontario lo fa agire. La immagina scattante verso di lui, col pugno massiccio incastrato alla sua faccia. Teme che possa picchiarlo. Si toglie i guanti, la maglia rimastagli, gli stivali, i pantaloni. Si guarda le mutande e tentenna. Gli sale la vergogna e la consapevolezza di essere nudo come un verme. Non vuole entrare in quella porta ed essere schiacciato da altri corpi. Con angosciante lentezza si toglie i calzini. Ha freddo, trema. Magda lo osserva incantata e sciocca, calma e paziente. Per un attimo si vergogna anche di farsi vedere in questo stato da lei.

“Tu!” urla ancora quella. Polonia sobbalza, vedendo ancora i suoi occhi su di lui “Muoviti, bastardo!” colpito e terrorizzato, si abbassa anche le mutande “Togli gli stracci anche al bambino!” Polonia ubbidisce, svelto. Anche Magda è nuda e con la pelle più bollente del carbone. Se la stringe al collo. La piccola continua a non comprendere nulla, apre la boccuccia e inizia a succhiare la pelle bianca del ragazzo. A lui non importa. Sente la sua faccia contrarre e le guance arrossire per il disagio. Alza gli occhi lacrimevoli. Tutti i ragazzi e i bambini sembrano larve bianche che strascicano i piedi verso la porta delle docce. Magda continua a succhiare la sua pelle, concentrata, come se per lei fosse un traguardo importante. Polonia non immagina nemmeno la bava che ha sulla spalla. Nasconde il viso nel pancino sodo della piccola e tira su il naso. Alza le ginocchia al petto. Si vergogna, come un condannato si vergogna dei suoi peccati.

“Entrate, svelti!” si sente spingere dentro, sbattere contro altra pelle. Magda scivola dalla sua spalla. Geme arrabbiata, inizia a piangere, pretendendo la sua vecchia posizione. Polonia la alza e la poggia ancora al suo collo. Lei smette di lamentarsi, rasserenata. Col braccino grassoccio si issa fino alla sua spalla. Poggia le labbra umide sulla sua pelle e ispeziona la pelle dell’osso. Succhia come una spugna, trovato il suo vecchio segno. Polonia sente la lingua solleticargli la carnagione pallida e immagina delle bollicine di saliva scoppiare vicino alle labbra di Magda. Immagina che abbia fame, per questo fa così.

Guarda il nuovo mare di figure in cui è stato imprigionato. S’incastra fra dei bambini e prega che nessuno lo guardi. A Magda non sembra importarsene, per questo continua a succhiare con più avidità. Non appena usciremo da qui, pensa Polonia, dovrò trovarle del latte caldo e una coperta nuova. Cioè, subito dopo aver trovato i miei vestiti. Ricorda, arrossito ancora per la vergogna. Vede il pesante portone di metallo chiudersi. Sente la serratura serrarsi per tre volte. E poi il silenzio. Polonia guarda in alto e altri occhi fanno lo stesso, stancati di ogni cosa, ora tante sue ombre. Vede acciaio lucido ben al di sopra di lui e cilindri dove l’acqua dovrebbe scendere. Si tranquillizza, immagina di non essere lì, in mezzo a tanti sconosciuti. S’immagina in un posto desolato, forse di nuovo nel bianco immacolato e cartaceo insieme a Toris e a nessun altro. Prima che arrivasse Prussia e la fotografia. Prima della lancia, della copertina, della coroncina e del nastro di Liet. Ricorda Liet e come lo abbracciava nel letto della sua stanza, nel castello. Sente lo stesso calore al cuore. Si sente molto più rilassato. Sobbalza: Magda stringe la sua pelle con le gengive. Gli fa un lieve solletico. Andrà tutto bene, pensa, Magda vivrà e avrà una nuova famiglia. Respira una buona boccata d’aria. Andrà tutto benissimo. E cala il buio.

Polonia spalanca ora le palpebre, arrivato una profonda oscurità. Mormorii indistinti, corpi che si muovono fra loro, confusione ed agitazione. Hanno spento le luci. La stanza è gigantesca, senza finestre, senza altra via d’uscita se non la porta di fronte a sé. Polonia perde il coraggio. Ferma i tremiti e li converte in scatti. Vede la porta blindata, a pochi metri da sé, con un’unica finestrella cupa. Sente il cuore scalpitargli per la paura. I mormorii diventano chiacchierii di panico. La sua paura aumenta. Il tempo passa, le luci non si accendono. Non capisce.

Una goccia d’acqua gli cade in testa, fra i capelli. Un brivido freddo lo congela. Sente altre gocce, tante altre. L’acqua è poca, veramente poca per una doccia, per così tante persone. Cadono come un ritornello scoordinato, le goccioline. Tintinnano anche sulla sua pelle e scendono sulla sua schiena. Polonia sente le gocce bollenti prudere sulla sua pelle, anche lì dove Magda aveva succhiato. La piccola geme, poi piange e scalcia. Polonia la trattiene al petto. Lei continua, calciando l’aria, ribellandosi. Le gocce aumentano, strisciano sulla sua spina dorsale. Pizzicano la sua pelle, la bruciano, la squarciano. Ora sente bruciore di punture di api e sfregi di ortiche. Sente urla e confusione nella stanza. Sente spingere e gemiti. Magda urla anche lei, Polonia è rigido come un pezzo di legno. L’aria puzza, si espande qualcosa sulle loro teste.

“Il gas!”

Gas? Polonia si risveglia. Magda smette di scalciare, urla come urlava contro di lui la donna negli spogliatoi. Annusa l’aria. Le narici gli si stringono, come rifiutando l’aria che sta inalando. L’aria bollente della miscela percorre i condotti e la trachea fino ai polmoni. Bruciano la pelle delle sacche, sterilizzano l’aria buona che prima aveva respirato. Tossisce lo schifo dentro di sé. Tossisce ancora, non si libera completamente di questo disgusto. La stanza puzza, la stanza è tossica. La nuvola di gas si è ormai espansa anche ai loro piedi. Non c’è più aria sana lì dentro.

“Apriteci!” qualcuno urla di fronte alla porta. Non vede niente, Polonia. Le sue pupille sono ingigantite per il buio. Non riesce nemmeno a vedere Magda tra le sue braccia, sorretta sotto le ascelle come un sacco di zucchero. La marea si agita e tutti si spingono. Si sente spingere in avanti. Lui stesso spinge. Il gas occupa tutti i suoi polmoni. Sente qualcuno cadere ed urlare. Il trambusto di voci frantuma i suoi timpani. Si sente bloccato. Questo posto lo fa sentire in gabbia, in una vera gabbia. Vuole fuggire. I suoi piedi pestano qualcuno caduto. Non gli importa del bambino calpestato da più piedi. Spinge e scalcia altra carne davanti a sé. La porta è l’unica che potrebbe farlo uscire da lì. È l’unica vera uscita da questo posto.

Il gas lo fa lacrimare. I suoi occhi bruciano come gettatogli addosso del sale. Le lacrime non si fermano. Sfrega con forza il pollice sulle palpebre, tenendo stretto a sé la piccina solo con un braccio. Magda ricomincia a scalciare, così come tanti altri fanno, agitati e terrorizzati. Pensa di soffocare, i polmoni non rispondono più. Si sente bloccato, impigliato in questa ragnatela oscura. Spinge un altro e qualcuno spinge lui. È qualcuno molto più alto e forte di lui. Sente la carne scoperta della sua coscia scontrarsi con la sua. Il cuore ha una fitta, sente gelo attorno al petto: Magda scivola dalla sua presa.

Un secondo colpo lo prende alla testa, dietro alla nuca. Cade a terra, addosso ad altra carne, coi polmoni scoppiati e il bruciore agli occhi e alla pelle bagnata dall’acido. Si sente confuso e schiacciato contro altre cosce. Non sa dove sia Magda. Panico, terrore. Qualcuno cade addosso a lui. È pesante, perde altra aria. La chiama, lei gli urla, anche lei dolorante e confusa. Sente piedi su di sé. Non sente più aria nei polmoni. Non riesce a respirare nemmeno il gas. Nel buio sente mani contro l’acciaio della porta, corpi morti sotto il suo e sopra di sé piedi sulla sua spina dorsale e sul morto caduto addosso a sé. Un tallone s’impunta sull’osso sacro. Polonia sente le vertigini in quel corpo che non gli appartiene.

“Magda!” non risponde più. Non sente più urla di neonata. Polonia soffoca nel suo stesso respiro. Si chiede dove sia la bambina e che cosa gli stia succedendo. Un piede liscio e sudato s’impunta sulla sua testa. Il mondo scuro attorno a lui gira e gira su se stesso.

Col lezzo della carne estranea e della miscela nel suo sangue, perde i sensi.

 

 

 

Ode solo silenzio e palpebre incapaci di aprirsi. Sente aria bollente sulle spalle e pressione di corpi spogli su di sé. Si chiede se stia sognando o se sia ancora vivo. I polmoni bloccati rifiutano di aprirsi per altra aria. La pelle screpolata e bruciata smette di avvertire peso o disgusto su di sé. Le palpebre imbrigliate nelle ciglia non sono più capaci di aprirsi. Il cervello prende informazioni, senza capire. Il corpo che ha ospitato la sua anima, quello del ragazzo che Ewa deve aver visto sul treno, è morto.

Ferro acuminato s’incastra dentro l’osso del collo. Polonia spalanca gli occhi, incredulo. Non sente dolore, sente solo fastidio, eppure ha spalancato le palpebre. L’iride non vede, come cieca in quell’abbaglio di luce e ombre indefinite. Sente il gancio dietro al suo collo trascinarlo, trasportando con fatica anche gambe e braccia. Polonia non sente più le proprie dita. Confusione. Ancora luce, viene ancora trascinato. Lo spostano in alto, ora riesce a guardare in su. Si sente stordito ed ingenuo. Non riesce a capire cosa gli stia succedendo. Non riesce a guardare altro che il soffitto. Le iridi non riescono più a muoversi. Con la coda dell’occhio vede ombre di volti e capelli. La gola è chiusa e secca.

“Magda…” muovono le labbra, ma non prendono suono le parole. Nessuno se ne accorge e nessuno getta un occhio su di sé per constatare che sia vivo. Polonia vorrebbe che lo sapessero, in qualche modo vorrebbe che lo capissero. Ma nessuno lo comprende. Continuano a camminare, trascinando dietro il suo corpo. Polonia dimentica il gancio dietro al suo collo e dimentica di essere ancora nudo, tirato con forza sul pavimento di chissà quale luogo. Non gli interessa più, non crede che qualcos’altro possa interessargli “Magda…” mormora ancora, col cervello statico e la voce assente.

Si sente sollevato, non solo col gancio. L’occhio è ancora freddo, non riconosce i volti né i colori. Capisce di essere stato buttato dentro qualche cunicolo. Non riesce ad immaginare cosa possa succedergli. Il cunicolo è stretto, buio e grigio. Lo infilano dentro fino alle dita dei piedi, gettato a pancia in giù. Le braccia sono abbandonate lungo il corpo. Alla sua destra, dove la sua testa non si è voltata, sente un altro corpo contro il suo. Non riesce a memorizzarlo bene, non riesce a comprenderlo affatto. Se prima era terrorizzato da ciò, ora non gli importa.

Gettato alla sua sinistra un corpicino di neonato. Vede pelle grigia come ceneri di un caminetto. Le palpebre abbassate come lo erano le sue, i pugnetti serrati, le sopracciglia contratte, così come la mascella di gesso. Polonia batte per la prima volta le palpebre, dà fuoco a quello che sta vedendo. La neonata non si muove. Guarda il braccino spezzato e contratto innaturalmente all’indietro. Immagina l’osso rotto e sussulta. La sua mente comprende e rende realtà quel che sta vedendo. La ricorda tra le sue braccia, gemere, avvinghiargli sul collo per succhiargli la pelle. Se il corpo fosse ancora vivo, tremerebbe. Se l’occhio non fosse paralizzato, lacrimerebbe.

“Magda…” mormora, immaginando la sua voce impigliata nella trachea. Sente il fastidio del fuoco, puzza di gomma e grasso bruciato su di sé e poi altro buio.

 

 

 

 

 

La fotografia della famiglia pare bruciargli fra le dita. Sente le dita sotto i guanti avvertire il cuoio contrarsi sui polpastrelli. Non l’ha toccata durante questo viaggio infernale. Non si è reso conto che i volti dei Lukasiewisz sono diventati appannati e grigi. Il volto di Darek si sgretola e sfuma, muta colore e forma. Sta bruciando. La moglie accanto, Dorota, fa lo stesso. E anche la piccola Klara. E Wladymir, Ewa, Feliks, tutti bruciano. Lascia la foto e questa prende il volo nel bianco. Il vento falso la porta lontano. La guarda allontanarsi di poco e poi bruciare completamente. È diventata cenere, così come gli uomini e le donne che vivevano in quel ricordo.

“Sono morti tutti…” mormora fra i denti Polonia, pallido come la carta e scosso come chi ha vissuto ogni morte che ha visto in quel ricordo. Prussia lo osserva, bianco e scosso come lui, ma in qualche modo più pesante. L’aquila nera sulla sua spalla col suo peso lo tiene fermo, come se temesse di vederlo scappare come un bambino mortificato. Prussia sente di star per inciampare nei suoi stessi piedi: Polonia tira su il naso, sta piangendo.

“Dai, non piangere”

“Non ho fatto niente…” smorza la frase, ma comunque comprensibile per Prussia. Osserva il falcone accucciato per terra, osservare il ragazzo con trasporto. Guarda i suoi occhi neri brillare intensamente, come provati anche loro, nonostante la serietà. Prussia muove e rigira fra le mani la lancia. La copertina è ancora sulla sua spalla. Sente la gola secca, allora tossisce a bocca chiusa. Guarda i capelli del ragazzo parargli il volto, cadute le ciocche e appiccicate sulle lacrime. Lo disturba vederlo così.

“Non è colpa tua” Polonia tira ancora su il naso. Forse non lo ascolta nemmeno “Non avresti potuto fare nulla per loro: era loro destino morire. Non essere arrabbiato con te stesso. In qualche modo doveva finire così”

“Magda…” sente il cuore sbattere contro le costole della cassa toracica. Lo sente autolesionarsi e vorrebbe farlo anche lui. Vorrebbe che in quel bianco ci fosse una roccia o un albero da picchiare e calciare. Ricorda Magda in braccio a lui e come stupidamente ha seguito le indicazioni dei due tedeschi e della donna orribile. Pensa che avrebbe potuto salvarla e scappare. Oppure restare nel treno e sperare che nessuno li trovasse. Ricorda i suoi errori e sbatte con più forza il piede contro l’altro suo stivale. Contrae innaturalmente il muscolo. Piange ancora. Prussia si sente pesante e maldestro. Fa scivolare dalla spalla la copertina e lascia cadere con un tonfo la lancia. L’aquila nera sembra capire e abbandona la spalla.

“Vieni qui…” apre il palmo della mano e l’avvicina alla spalla di Polonia. Il ragazzo si scansa, indispettito e vergognoso. Smette di sbattere i piedi gli uni contro gli altri “Vieni…” prende di nuovo la spalla. Polonia lo accetta. Col capo abbassato avvicina la guancia al petto di Prussia. Si sente uno di quei bambini viziati a cui basta un abbraccio per far dimenticare un capriccio. L’abbraccio di Prussia ha qualcosa di caldo e fraterno. A Polonia è familiare, allora gli si abbandona col corpo e le lacrime. Prussia lo sente piangere, con la testolina che nemmeno gli sfiora il cuore. Impacciato, ma un po’ più leggero, comincia a strofinare il palmo della mano sulla schiena sussultante. Polonia sente di star schiacciando dentro il taschino della divisa la coroncina e il nastro di Liet. Ricorda quando lo tirava a sé e faceva poggiare la sua testa sulla sua spalla. Profumava di quercia e di bosco, Liet. Prussia sa di cuoio, di divisa nuova e lucida, di piombo. Non ha niente di Liet. Liet lo avrebbe stretto con più forza e avrebbe passato le dita nude sulla sua testa. È qualcosa che nessuno aveva mai fatto a lui. Prussia ha le mani fasciate nei guanti e trova estraneo la carezza alla schiena che gli sta facendo. Non sa che faceva così con West quand’era bambino, allora non riesce ad accettarlo. Si sente ancora più male e colpevole.

“Perché…?” mormora tra i singhiozzi. Prussia deglutisce e gli spasmi del ragazzo si ripercuotono anche su di sé. Sta per aprire bocca “Perché Germania l’ha fatto!?” grida nella divisa di Prussia, continuando a piangere. Prussia sente di nuovo il petto diventare gelo e poi il sollievo carezzargli il cuore. Ma alza gli occhi all’aquila e la consolazione scompare. Quella lo guarda come una carogna. Il comandante deglutisce con fatica, con la gola secca. Fa scendere la mano dalla schiena del ragazzo. Osserva i capelli lunghi e sussultanti. Immagina che d’ora in avanti sarà solo come un cane, solo con l’aquila. E che dovrà essergli nemico in questo Purgatorio bianco e mutevole. Immagina il dolore futuro e deglutisce ancora. L’aquila pare annuire e involontariamente così fa anche lui.

“Germania…” sente singhiozzare ancora Polonia al suo petto. Immagina l’astio che aveva per lui quand’era più giovane e gli occhi e le orecchie non gli erano concessi. Immagina l’odio che provava per lui quand’era tra Austria ed Ungheria nel lago e quanto ne aveva quando lo vide la notte accasciato all’aristocratico. In seno ad Ungheria. Nell’abbraccio di Italia. Ricorda bene e in qualche modo le lacrime di Polonia gli paiono meno asfissianti “…e chi ha detto che è stato lui?”

Il corpo tentennante di Polonia si blocca, come mancato il respiro. Le palpebre rossicce gli si spalancano, il respiro veramente non raggiunge le narici. Sbarrata la mascella, Polonia si stacca da Prussia. Alza lo sguardo, ora per niente appannato, su di lui. L’occhio naturalmente serpentino di Prussia lo ghiaccia, tanto è severo. Polonia ha l’impressione di non averlo mai visto se non ora. Gli occhi verdi e sussultanti, innaturalmente, cadono più in basso, sul collo bianco e sbarbato. Le SS lo squadrano come uno sconosciuto. Polonia vede grigio e non bianco, come se una nuvola abbia oscurato ogni cosa attorno a sé. Alza ancora gli occhi verso l’uomo e per il ragazzo è come guardare un proprio fratello con la spada puntatagli a tradimento sotto al mento “Perché…?”

“Perché era di nostro diritto”

Toris non sobbalza, ma è come se il suo cuoricino abbia fatto un salto dentro il petto. Gli occhi come lampi si voltano. Vede la mano guantata di Polonia stringersi e la immagina scricchiolare dentro al guanto. Toris saltella allarmato e osserva. Polonia ha l’occhio incrinato, una luce di tradimento sfiora le sue pupille lucide. Prussia ha qualcosa di freddo e disumano, come qualsiasi tedesco che abbia avuto quel marchio sulla propria divisa. Polonia lo guarda negli occhi e immagina la copia perfetta delle bestie che hanno ucciso quella famiglia che ora gli è entrata nel cuore. Prussia guarda Polonia e dimentica il rancore che aveva per lui. Tenta di non tremare e di non far trasparire emozioni. Conosce il proprio ghigno e non lo vorrebbe mostrare a tradimento, anche se un rigagnolo di sudore gli cade dalla fronte. Toris osserva e respira con affanno. Aspetta la prima pietra scagliarsi addosso al prussiano.

Il piede di Polonia si volta nella direzione opposta. L’altro lo raggiunge e insieme iniziano a marciare nell’ignoto del bianco. Prussia dentro di sé si sente leggero, fuori sembra perplesso e corrucciato “Dove vai?” sbotta, internamente offeso che il ragazzo lo stia ignorando. Polonia continua a camminare e a far riecheggiare i propri passi nel bianco del nulla.

“Devo fare una cosa” mormora. Prussia sente collera di adulto nella sua voce. Il sollievo si affievola in sé. Inclina un sopracciglio verso il basso e un altro lo alza. Il ragazzo continua a camminare e pian piano non lo potrebbe più sentire. Inclina la testa, ora l’aquila nera gli si è calato sulla spalla.

“Non devi dirmi niente?” Prussia immagina che si fermi, ma non lo fa. Nemmeno il passo rallenta, né il capo si volta, neanche brevemente.

“Non c’è nient’altro da dirci” ringhia tra le mascelle. Prussia abbassa anche l’altro sopracciglio, più perplesso. Sospira a mascelle serrate e lo guarda allontanarsi. Sente già il freddo della solitudine. Polonia è ora un puntino indistinto in lontananza. Prussia si volta, osserva brevemente la lancia e la copertina e ricorda i frammenti di ricordo di Polonia. Alza le spalle e continua una camminata tutta sua.

Decide di lasciare lì gli oggetti, non saprebbe cosa farne.

Toris guarda il suo protetto e spicca il volo per raggiungerlo. Corre, immaginava bene. Il volo lo rende quasi più veloce del ragazzo. Lo raggiunge ad un palmo. Vede gli occhi infuocati, contratti ancora, con le tempie incrinate e piene di vene pulsanti. Toris lo vede fermarsi e gli si bloccano ali e respiro. Polonia arde, sente un fuoco bruciargli le carni e le membrane del suo cervello. Si sente cuocere dentro un sole. Correre gli ha fermato le pulsazioni, ma non il sentimento. Il cuore ruggisce. Vede frammenti di ricordi. Vede Dorota alzata ed abbracciata a Darek, vede Jan addentare una fetta di Pan di Spagna e rigirarla nelle guance come un bambino, ricorda Tymek e il suo sorriso sfrontato, la pacata dolcezza di Wladymir e del suo bacio alla moglie prima di morire, come Klara lo supplicava di salvarla in braccio ad uno sconosciuto. Il foro nella testa di Dorota, lo stomaco bucato di Tymek, le scosse e le lacrime di Feliks sotto i detriti della sua scuola, il nome della bambina pronunciato senza forza da Ewa prima di chiudere per sempre gli occhi, il corpicino grigiastro e storpio di Magda.

Nell’ultimo ricordo dimentica la colpa che lo affligge e lo addossa tutto su Prussia. È stata tutta colpa sua. E’ lui l’assassino, quello che ha condannato lui e la sua nazione. Lui dev’essere punito e torturato del suo male. Ignora Russia e Germania e l’intera causa della sua ira cade su di lui. Per Polonia Prussia è un demone che dev’essere eliminato. Lo ricorda mentre guardavano insieme i suoi ricordi d’infanzia e come l’ha abbracciato poco prima. L’aveva al seno, come una serpe. L’ha toccato, lo ha abbracciato come un fratello, gli ha fatto credere di avere un cuore. I prussiani non hanno cuore. Sono nati per creare guerre e per dannare i più deboli. D’istinto poggia la mano sul taschino. Sente la consistenza ferrosa della coroncina e quella soffice del nastro di Liet. Stringe sotto la divisa i due oggetti, con rabbia e frustrazione. Vuole vendetta salata, qualcosa tanto doloroso da ucciderlo. Stringe con più forza, le pietruzze della coroncina quasi lo urtano anche se sotto un guanto. Vuole vederlo soffrire, così come lui ora sta soffrendo.

La mano cade, ha urtato qualcosa col piede. Guarda in basso. Un nuovo oggetto, un nuovo ricordo. Polonia si china e lo afferra con entrambe le mani. Il fucile fra le dita pesa, gli ricorda quello che usava Tymek. Lo stringe con trasporto, lo osserva in ogni punto. Per un attimo gli nasce un desiderio iroso ed esaltante al tempo stesso. Si volta fugace. Prussia è svanito del tutto. Sbuffa contrariato. Ringhia ancora: il fucile non ha munizioni. Si volta allora col desiderio scalpitante come un cavallo imbizzarrito. Sente la felicità del compimento della sua vendetta scivolargli dolcemente nello stomaco come zucchero liquido. Toris lo vede sorridere e mostrare i canini, con occhi ancora più brucianti. Per il falcone è qualcosa di anormale e si alza ancora in volo. Atterra sulla spalla, apre il becco e lo chiude sull’orecchio del ragazzo. Polonia scatta e l’istinto gli fa alzare il pugno. Sente le nocche cozzare contro il cranio del volatile. Toris casca a terra. Polonia sbuffa contrariato.

“Non ora, Toris” dice, oltrepassando il falcone e continuando a camminare e a guardarsi attorno. Toris sa cosa sta cercando e glielo vuole impedire. Si alza ancora in volo, sbatte le ali. Per un attimo ha un capogiro, ma vola a pochi palmi dal ragazzo. Inizia a schiamazzare con ira. Polonia non sente l’avvertimento e lo scaccia ancora “Toris, smettila!” un secondo pugno prende il capo e il becco del falcone. Toris cade ancora a terra e con fatica si rialza. È più che stordito. Polonia sente solo sfrigolare la mano per il becco appuntito. Toris vola e gli tira una ciocca di capelli. Polonia lo colpisce ancora.

“Basta, Toris!” gracchia infuriato. Il colpo parte e colpisce la tempia del volatile. Toris ritorna e quasi gli strappa il lobo dell’orecchio. Polonia lo colpisce con vera volontà.

“Toris!” ritorna, gli becca la testa, gracchia come un corvo e non come un falcone. Polonia ha la tempia pulsante e lo colpisce con un pugno forte.

“Finiscila!” urla, con le orbite pulsanti di verde smeraldo. Toris vola ancora e gli graffia il naso col becco.

“Devi smetterla!!!” grida, alzando il fucile e usandone il calcio come uno dei suoi pugni. Toris sente il proprio cranio frantumarsi. Plana, prova a planare e cade con le ali spalancate.

Gli occhi gli si bloccano, non riesce più ad aprire le palpebre. Sente Polonia corrergli. Spera che lo soccorra, spera che si penta di quello che gli ha fatto. Il ragazzo si accovaccia addosso a lui, Toris sente le ginocchia premere sulle sue ali. Lo blocca, lo sta costringendo a terra, si rende conto il volatile. Il cuore pompa disperazione e timore. Prova a muovere le ali, ma né testa né penne riescono a comprendere ciò che desidera. Sbatte la testa a destra e a sinistra, impazzito dal dolore e dalla frustrazione. Polonia vuole vendetta e non è questo quello che Toris vuole per lui.

“Tranquillo, tornerò subito” fiata su di lui il ragazzo “Tipo, ho bisogno delle tue piume” Toris si agita “Così gli faccio vedere chi è tipo ancora vivo” a malapena comprende “Poi tornerò da te, dopo aver sistemato quel maledetto bastardo” si agita il pennuto: sente le sue penne venirgli strappate. Gli fanno male. Vorrebbe urlare il suo dolore, ma il capo non pare comprendere il desiderio. Si agita come un pesce appena schizzato fuori dall’acqua “Tornerò subito”.

Apre gli occhi, non sente più il peso di Polonia su di sé. Se ne sta andando. Toris sente come una gettata di aria ghiacciata su di lui. Se ne sta andando, lontano da lui, senza di lui. Non è così che doveva andare. Polonia non dovrebbe scappare per vendicarsi. Il falcone si agita, ma il respiro gli si toglie dai polmoni. Il colpo al cranio gli si ritorce ancora contro. Rimane incastrato ancora con la testa premuta sul bianco. Non sente più nulla, solo il pulsare isterico nelle tempie. Toris non sente altro che dolore.

Vede lontano Polonia chinarsi e afferrare qualcosa. Aguzza la vista, vede infilare un caricatore all’interno del fucile. Toris non potrebbe più agitarsi e rimane semplicemente lì, pesante e bloccato. Vede il ragazzo scomparire grazie alle piume che ora non ha più, con la carta mutevole come la pelle di un camaleonte. Toris si sente violentato e spoglio come un neonato. Non vede più nulla, non sente più nemmeno il proprio cuore.

Toris smette di respirare e non lo farà mai più.

 

 

 

Non ho scusanti per questo immenso ritardo. Detesto anch’io quando un autore ritarda in maniera esagerata senza una motivazione scritta. Potrei dire che da gennaio la mia scuola è diventata un campo di concentramento per via della maturità che dovrò affrontare, potrei raccontarvi di come cercai di cambiare linea telefonica e così anche quella di internet e di come per uno stupido incidente io ne sia finita senza per quasi due mesi. Potrei anche raccontare di come persi pagine e pagine di testo e delle lacrime versate per dover riscrivere praticamente mezzo capitolo, ma ciò non avrebbe alcuna importanza. Chiedo scusa a tutti voi.

Ma non assicurerò nemmeno che un ritardo di due mesi riaccada: la maturità è ancora lontana, ma la mia concentrazione a scuola è raddoppiata, il problema di internet è quasi del tutto finito, se non per qualche problemuccio col mio vecchio computer…

Ciò per dirvi che, sì, la Fenice continuerà ad essere pubblicata, ma non aspettatevi più una vera e propria cadenza, come quella che un tempo avevo, soprattutto in periodo primavera-estate. Avrò molte difficoltà a riguardo, senza dubbio, ma tenterò comunque a postare un capitolo una volta al mese.

Il prossimo capitolo l’ho scritto grazie al computer di mio fratello. È quasi completo, abbiate pazienza!

Chiedo scusa ancora per il disagio.

 

L0g1c1ta

 

 

 

 

 

  
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