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Autore: esmoi_pride    17/02/2017    4 recensioni
"Storie di Saab" è un medieval fantasy slash nato nel mondo di Pathfinder che racconta le vicende della famiglia imperiale dell'Alba di Saab, città devota al dio minore Saab e dalla recente fondazione, luogo di grandi promesse e di speranza. E' l'ideale se siete alla ricerca di drow poco ortodossi, elfi carini, slash andante e una misteriosa storia sulle origini del Dio e della sua città, da scoprire capitolo dopo capitolo.
E' una storia che si domanda cosa è giusto e cosa è sbagliato, e lo scopre attraverso le esperienze di Vilya Goldsmith, un ragazzo che non sa se potrà mai riuscire a diventare un uomo. Lo scoprirà proprio a Saab, città creata sotto antiche rovine secondo la missione di suo padre Azul: riunire la gente oppressa e discriminata in un solo popolo che guadagni forza e unità, e che accolga tutti quelli come loro. Intrecci tra molteplici personaggi mostreranno una città ricca di diversità, e le azioni di Vilya ci porteranno a chiederci quanto possa essere doppia la linea estrema dove le cose non sono più giuste, né sbagliate, e quanto spesso potremmo finire per percorrerla.
Genere: Dark, Erotico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi, Slash, FemSlash
Note: Lemon, Lime | Avvertimenti: Contenuti forti, Incest, Tematiche delicate
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Storie di Saab'
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Ciao a tutti! Dopo un mese e mezzo di fermo ho ripreso a scrivere questa storia, sotto una prospettiva un po' diversa e dettata dalla maggiore esperienza. Ho effettuato alcuni cambiamenti di impaginazione, modificando lo stile fin dal primo capitolo. Ho spostato il genere della storia da Fantasy a Romantico (sembra essere più attinente anche se i due generi fanno a gara in questa storia) e il rating da rosso a arancione dal momento che non ci sono molte scene lemon (solo una, finora). In occasione di questo, credo che riformulerò la descrizione della storia e forse anche il titolo in qualcosa incentrato maggiormente sui fratelli Goldsmith che dovrebbero essere parte centrale del racconto (pur mantenendo la presenza e le trame dei personaggi secondari). Spero che questo nuovo capitolo vi piaccia. La storia potrebbe non venire aggiornata settimanalmente, ma continuerò a scriverla!




 
Pelle d'asino.





Dall’angolazione dei raggi del tramonto il Santuario sembrava bruciare tra le fiamme. Il Santuario era un fratello minore del Palazzo Imperiale. Situato a Ovest della città, al fianco destro del Palazzo, si affacciava in direzione del mare e dava sulla Strada Sacra. Le stanze erano cinque, una per piano, dalla pianta quadrata e sempre più piccole man mano che si saliva verso il cielo, e le loro mura d’oro brillavano da mezzogiorno al calare del sole. Quello era il momento ideale per visitarlo. Tutte le superfici d’oro riflettevano la luce e la rimandavano sul resto, finendo per dipingere i gli stessi fedeli di un rilucente arancione.

Vilya si trovava in ginocchio davanti a un altare. Su di esso si trovavano cinque steli: lastre votive, con iscrizioni di canti divini e sottili decorazioni. Torreggiavano su di lui. Erano ricoperte di ciondoli, amuleti e candele, la cui cera si era sciolta su di esse e le aveva macchiate, così da dare loro un tono sacrale ancora più convincente. Come molte delle cose in quel luogo anch’esse e l’altare erano scolpiti nell’oro. Vilya scorse il movimento fugace di uno degli amuleti che, penzolante da una lastra, era stato mosso dal vento, ospite perenne delle sale più alte del Santuario. L’amuleto era una sfoglia d’oro di qualche millimetro, incisa di modo da avere la forma di un grande occhio sgranato, con una pupilla verticale che lo spaccava in due. Ciondolava da una catenina sottile dello stesso materiale.

“Stai pregando con concentrazione?”

Si voltò alla sua destra. Accanto a lui Inva, la Sacerdotessa, lo guardava. I suoi occhi acquosi esprimevano infinita pazienza posati su di lui, e sulle labbra carnose della donna dalla pelle slavata e grigia poteva scorgere l’ombra di un complice sorriso. Lunghi capelli neri come piume di corvo le coprivano la fronte con una frangia tagliata di netto e un poco spettinata, e gli zigomi magri, fino a sfiorarne le ginocchia su cui era seduta. Era impacchettata in un dignitoso abito religioso, con delle fasce che le appiattivano le forme a partire da sotto le ascelle fino ai fianchi. Forme che, ad ogni modo, erano smorzate dall’altezza di lei.

Vilya tirò uno sbuffo dalle narici e tornò a guardare di fronte a sé.

“Io non prego. Soprattutto: non con concentrazione.”

Inva inclinò appena il capo da un lato in un gesto di misurata meraviglia.

“Sapevo che fossi un fedele.”

“Lo sono.” Replicò lui e annuì per rafforzare le proprie parole. Gli si era formato un cipiglio irritato sulle sopracciglia, senza che se ne rendesse conto. “Ma non prego.” Si voltò nuovamente verso Inva. Si prese del tempo per scrutare l’espressione imperturbata di lei che sbatteva le palpebre e ricambiava lo sguardo, senza il minimo accigliamento. Vedendola impassibile al proprio comportamento ribelle esalò un sospiro frustrato, che buttò l’aria fuori dai polmoni e gli abbassò petto e spalle. Le sue mani stuzzicarono il piccolo gioiello che aveva tra le dita. Un amuleto identico a quello che si trovava penzolante sulla lastra, alla mercé del vento. Abbassò il viso fino al proprio grembo per dargli un’occhiata, e i propri capelli spettinati scivolarono in avanti ostacolandogli la visuale. Si portò una ciocca dietro l’orecchio appuntito per scostarli quanto poteva dal viso.

“Però porti gli omaggi agli dei.” Osservò Inva. La voce musicale della Sacerdotessa si sentì quasi vibrare sull’oro. Vilya non replicò subito. Si prese del tempo per ammirare l’oggettino che si rigirava tra le dita e perdersi nei propri pensieri.

“È il mio modo di ringraziare.” Mugugnò “Tu hai i tuoi.” Rialzò il viso su di lei, che annuì rafforzando quel sottile sorriso che aveva poco prima, come ad incoraggiarlo. Il moro sbuffò di nuovo, scosse appena il capo e distolse lo sguardo da lei. Si sollevò sulle ginocchia e si sporse in avanti, allungandosi verso le steli. Distese le braccia e adagiò la catenina sulla punta smussata di una stele, così che l’amuleto cadesse al centro, come se essa lo indossasse. Il drow si ritirò e tornò a sedersi sui propri talloni. Inva alzò il braccio destro, indicando l’oggettino con il palmo aperto della stessa mano. “L’Occhio dell’Imperatore ti guarda,” recitò solenne a Vilya “giorno e notte, senza mai chiudere la palpebra: vigila. Ora che lo hai donato al Dio, lui ti vede attraverso il suo occhio e riceve le tue preghiere. Ti proteggerà dalle disgrazie impreviste e le trasformerà in nuove occasioni. L’Imperatore pregherà per te nell’istante prima della tua morte, e verserà una lacrima perché Saab ti abbia nei suoi piani un altro giorno.” Abbassò piano la mano e Vilya, vedendo l’occhio ricambiare il suo sguardo sulla stele, chinò il capo e si chiuse in un rispettoso silenzio. Il vento piacevole gli sfiorò la faccia. A parte il lontano rumore delle fronde degli alberi della Foresta Incantata, nient’altro disturbava la stanza del Santuario. Solo i suoi pensieri.


Bussò alla porta un paio di volte con le nocche, poi si appoggiò le mani ai fianchi e, in una posa scocciata e discinta, attese.

Quando la porta si aprì dall’interno ne sbucò la figura del proprietario. Il drow aveva un’espressione calma e appena interrogativa all’inizio, ma quando riconobbe l’altro inarcò le sopracciglia grigie dalla piacevole sorpresa.

“Vilya?” Un sorriso affiorò dalle labbra carnose del negromante per dischiuderle piano mentre la voce bassa vibrò dalla gola e uscì nell’ampio spazio del porticato come un sussurro del vento. Indietreggiò poco dopo per lasciar passare il ragazzo. Vilya avanzò con un sorriso beffardo sulle labbra e si introdusse nella stanza del padre con la disinvoltura di chi entra in casa propria. Sentì la porta chiudersi dietro di lui, ma era concentrato ad osservare la stanza di Azul e a muovere un altro paio di passi all’interno per addentrarvisi.

“Avrei dovuto farti visita molto prima.” Considerò. Si ficcò le mani nelle tasche dei pantaloni, unico suo indumento.

“Sì, sono d’accordo.”

La voce di Azul si fece sempre più vicina finché lui non sbucò dal fianco del ragazzo per fermarglisi davanti. Chiudendo gli occhi si portò le mani alla corona, e la sollevò dalla fronte. Scrollò il capo nel liberarsene con un sospiro. Vilya non attese: si sporse per prendere la corona, sfiorando le dita del più anziano. Azul allentò la presa e gli permise di prendere la corona, che Vilya si premurò di poggiare su un comodino con lo specchio, a ridosso del muro. Voltandosi vide il padre pettinarsi i capelli grigi e rilassarsi sotto i propri stessi tocchi. A bocca chiusa il drow più antico emise un mormorio basso e compiaciuto. “Mmmh..”

Vilya distolse lo sguardo, alla ricerca di una bottiglia. Una bottiglia, qualsiasi. La trovò sul comodino accanto al letto e si smosse dalla sua posizione per raggiungerla. Una volta presa camminò fino alla scrivania della stanza e si sedette su una delle sedie. Si allungò per portare a sé i due bicchieri poggiati su di essa. Dopo un rumore attutito di passi, la coda dell’occhio scorse il padre cadere sulla sedia accanto alla propria con un verso di piacere. Mentre quest’ultimo si sbottonava la tunica, Vilya riempì entrambi i bicchieri del liquido rosso che la bottiglia conteneva. Grazie all’olfatto fine della sua razza gli bastò annusare appena per intuire che si trattava di buon vino. L’ipotesi più accreditata, ma non scontata, trattandosi di suo padre. Indietreggiò finalmente sullo schienale della sedia, rilassandosi, portando con sé uno dei bicchieri nella mano destra. Azul si allungò alla scrivania e prese l’altro. Aveva abbandonato la tunica su un bracciolo della sedia, e ora indossava una morbida maglia del colore del vino che stavano bevendo e dei pantaloni che seguivano la sagomatura delle gambe longilinee. Si era liberato degli stivali, che erano caduti sotto la scrivania.

Azul si accorse dello sguardo con cui Vilya lo stava fissando. Si interruppe un istante per ricambiarlo con la sua lieve interdizione, frastornata dalla rilassatezza. Vilya lo aveva squadrato dai piedi nudi ai capelli disordinati, e poi aveva fatto cadere gli occhi sul proprio bicchiere di vino. Lo avvicinò alle labbra e lo sorseggiò in silenzio. Azul si rilassò di nuovo sullo schienale della sedia e si intrattenne per qualche secondo a far mescere il vino nel bicchiere e ad ammirarlo muoversi lì dentro.

Vilya scostò le labbra dal bicchiere e vi passò la lingua sopra per raccogliere le gocce di vino che gli erano sfuggite.

“Com’è andata oggi?” La voce chiara del ragazzo riecheggiò nella stanza.

Azul inspirò dalle narici e inclinò il capo di lato mentre ci pensava sopra.

“Bene…” nel rispondere buttò fuori l’aria che aveva incamerato nei polmoni. “È stata impegnativa. Sono un po’ stanco.”

“Si vede.”

Azul portò il bicchiere alle labbra e prese un sorso. Vilya guardava oltre lui, nella stanza, con un piede che faceva perno sul tallone per muoversi a destra e sinistra e che ne dichiarava l’insofferenza nello stare fermo o, più probabilmente, la nullafacenza generale che caratterizzava le sue giornate, e per la quale aveva ancora abbastanza energie durante la sera.

“Hai fatto amicizia?”

“Sì.” Rispose il figlio “I ragazzi della città. Sono piccolini ma sono forti.”

Azul annuì, aveva gli occhi puntati ancora sul bicchiere “Mh.”

Quando spostò lo sguardo dal vino a Vilya, il ragazzo si sentì improvvisamente puntato. Incrociò i suoi occhi. Non c’era niente di giudizioso negli occhi del padre – lui era l’ultima persona da cui si sarebbe aspettato qualcosa del genere – ma sentì di doversi fidare della sensazione di allarme che essi gli provocavano. Alzò il viso verso di lui e cercò di sembrare più interrogativo e innocente possibile.

“Che cazzo hai nella testa, Vilya?” Chiese Azul. Non era un tono grave, non un ammonimento: era il guaito acuto di una persona basita, rafforzato dal suo perplesso ma semplice aggrottare di sopracciglia. “Ti rendi conto?”

“Di cosa?!” Chiese Vilya subito: inarcò le sopracciglia e alzò la voce. La stanza, prima silenziosa, all’improvviso sembrò animarsi.

“Ehm, hai, tipo, sedotto tuo fratello? Portato via da palazzo, rischiato di metterlo in pericolo, cose così? L’hai baciato? Ricordi queste… queste piccole cosette, questi dettagliucci?”

“Ah” rispose il più piccolo spostando lo sguardo sulla stanza. Non aveva perso l’espressione ingenua e innocente ma l’aria interrogativa se n’era andata. Tornò su di lui poco dopo “beh, mi piaceva molto.”

“Vilya!” Lo rimbeccò il padre, inasprendo la sua espressione contrariata – e tuttavia il tono di voce non scese nel grave e si mantenne leggero, anche adesso. “Non… baci tuo fratello solo perché ti piace molto! Va bene?”

“Va bene!” replicò l’altro, annoiato, solo per far smettere il padre. Si riaccasciò sulla sedia. Aveva il bicchiere nella mano destra, sospeso a mezz’aria, il braccio poggiato sul bracciolo. Sembrava essersi preso una pausa dal bere.

Azul lo scrutò per assicurarsi che avesse recepito. Osservando il figlio gli sfuggì un sorriso intenerito e abbassò le palpebre sul bicchiere di vino. L’indice della sinistra prese a giocare sul bordo del bicchiere, ne percorreva piano la circonferenza. “Mi sei mancato. Avevo bisogno di te.”

“Anche io avevo bisogno di te, papà.” L’ammissione di Vilya giunse leggera, non doveva essergli costata nulla, ma era convinta. Scostò il braccio dal bracciolo per poggiare il bicchiere sul tavolo. “Sono contento di essere tornato da te.”

“Anche io sono contento che tu sia tornato da me.” Azul prese il bicchiere con la mano sinistra e poggiò una tempia sulla destra che andò a sorreggergli la testa con il gomito poggiato sul bracciolo della propria sedia. Guardava ancora il bicchiere, rifletteva. “Vorrei che non andassi più via.”

“Anche io vorrei non andare più via.” Vilya tornò a osservare la stanza. “Mi piacerebbe… mettere radici qui. È un bel posto, hai fatto un bel lavoro.”

“Abbiamo.” Lo corresse Azul.

“Sì…” Vilya alzò una mano e smosse l’aria con maleducazione “Tu e quello.”

“Si chiama Imesah.”

“Quel coso. Quel mastino bavoso.”

“È il mio compagno ed è un uomo rispettabile.”

“È un mastino bavoso che vuole solo vedermi morire.”

“È un uomo rispettabile che vuole vederti morire. O andare via per sempre. O essere rassicurato del fatto che tu non sia una minaccia.” Azul tornò a inchiodare gli occhi su quelli blu del figlio, che subito si sentì i suoi occhi addosso e ricambiò lo sguardo, e proseguì “E tu non gli stai dando queste rassicurazioni: proprio per niente.”

Vilya trattenne gli occhi sul padre. Poi scrollò il capo e guardò in basso, sul proprio grembo.

“Io non sono qui per dargli rassicurazioni. Sono qui per te. E per me. E per… questo posto, che è l’unica cosa che ho…”

Azul lo interruppe. “Imesah è della famiglia adesso. Vilya.” Lo chiamò e si sporse verso di lui. Vilya non poté ignorarlo, dovette tornare a fissarlo. La voce calma del padre e i suoi movimenti tranquilli, che in sé non avevano niente di speciale, bastavano per ordinare la calma e l’attenzione al ragazzaccio irrispettoso. “Tu lo sai cosa significa famiglia, vero?”

Passarono degli istanti, dove entrambi si scrutarono bene negli occhi, quelli blu del moro negli occhi grandi, gialli e da rettile del più anziano.

“Te lo ricordi?”

Azul sbatté le palpebre, e anche Vilya, per riflesso, fece lo stesso.

“Essere soli al mondo, persi nel mezzo di un oceano di sconosciuti, una goccia d’acqua nell’oceano, e poi trovarsi. E il tuo mondo parte da lì. Da me. E il mio da te. Un punto… in mezzo al cielo vastissimo. A cui guardare per tracciare la rotta.”

Vilya sbatté di nuovo le palpebre, stavolta come se qualcosa gli fosse andato all’improvviso nell’occhio, ma rimase a guardare il padre commosso, in una rispettosa sopportazione. Azul, dopo essersi assicurato di essere stato chiaro, si ritirò di nuovo verso lo schienale, senza appoggiarvisi.

“Non ti chiedo di accettare Imesah, ma almeno di non rinnegarlo.”

“Papà, lui mi chiama ‘brutto bastardo’…” cercò di obiettare il figlio.

“Vilya, sai cosa vuol dire non trovare il proprio figlio – erede al trono, figlio di Dio, cose del genere – e scoprire poi che è tra le mani del figlio degenerato del proprio compagno?”

“Perché degenerato?”

“E che lo sta baciando?” Aggiunse Azul senza rispondere alla domanda di Vilya, che però insistette.

“Perché degenerato?” Si sporse appena, in una postura di sfida. “Forse perché non gli va a genio quello che faccio? Quello che abbiamo fatto?”

“Beh, sarà per quello, cosa conta se non fai nulla per provare a fargli cambiare idea?”

“È per questo che non ha voluto farmelo conoscere.” Mentre Vilya si alzava dalla sedia un ghigno beffardo si dipinse sulle sue labbra scure, ma il tono di voce lasciava trapelare disprezzo.

“Ha paura di perdere anche lui. Quanto rispetto puoi avere, Azul, per un uomo che pensa questo di me?”

Azul subito dopo lo seguì, si alzò dalla sedia e posò il bicchiere di vino sul tavolo. “Non è giusto quello che pensa di te, ma non hai dato a nessuno motivi per dubitare della tua malizia. Anzi, hai solo alimentato le convinzioni degli altri. E non parlo solo di tuo fratello.”

Il padre alzò gli occhi su Vilya, nello sguardo accogliente che riservava sempre per il primogenito, ma con fermezza. “Anche la gente più rozza del Popolo può accorgersi che il primogenito dell’Imperatore non è neanche stato nominato per il trono e farsi due domande.”

A quell’affermazione, Vilya indietreggiò. Le sue gambe cozzarono con la sedia che aveva dietro, mentre lui scrollava le spalle e poi si smuoveva di lì, spostandosi verso il resto della stanza evasivo.

“Non serve farsi due domande, dal terzo anno di reggenza si sa che il futuro erede è stato scelto dal Dio…”

“Dal terzo anno di reggenza.” Ripeté Azul, voltandosi per trattenere gli occhi su di lui, che si voltò a sua volta verso il padre “In quei tre anni dove eri, Vilya? Si sono chiesti anche questo. E non basta mettere avanti So’o, si chiederanno tutti chi sei tu, e che ruolo hai in tutto questo,” avanzò verso di lui di un paio di passi brevi “e perché non ti sei mai fatto vedere e continui a vagare per il Regno con indosso solo stracci,” indicò i pantaloni che Vilya aveva indosso “e cosa ti trattiene dal reclamare il Regno come tuo o quantomeno parte di esso e schierarti a difesa del Popolo.”

Vilya non seppe cosa dire, all’inizio. Allargò le braccia, le mani non superarono l’altezza dell’ombelico.

“Cosa vuoi che gli dica, Azul?” Sospirò. “La verità? Che io questo non lo voglio?”

Ma il doppio rumore di nocche sulla porta li interruppe. Zittirono, ed entrambi fissarono la porta. Rimasero in ascolto.

Il rumore di nocche si ripeté altre due volte, ritmato.

“Scusate…”

Una voce molto giovane, chiara e morbida provenne dalla porta, attutita dal legno. Vilya sgranò leggermente gli occhi, così come Azul che accorse alla porta. Mentre Vilya abbassava le braccia Azul aprì la porta e lasciò che la figura di So’o ne sbucasse.

“Ciao, papà.”

“So’o, ciao.” Azul sorrise dolcemente al figlio. Vilya non poté vederlo, perché gli dava le spalle. Si scostò per poterli osservare meglio. Così So’o si accorse di lui e alzò appena il viso quando puntò gli occhi sul fratellastro. Vilya, a sua volta, alzò di poco il mento, preso in una sensazione di aspettativa. Azul si voltò per dare un’occhiata a ciò che stava attirando l’attenzione di So’o per poi tornare verso il più piccolo.

“Stavamo parlando. Cosa c’è?” Chiese con la stessa dolcezza del sorriso nel tono di voce.

“Vi ho disturbati?” Gli occhi guardinghi del mezzodrow saettarono tra Vilya e Azul un paio di volte, ma non attesero risposta. “Valentino mi ha mandato a chiamarti. È una cosa importante, ha detto che volevi essere chiamato.”

“Ah, sì.” Il drow annuì serrando le labbra e guardando più in basso. Considerò la situazione. Annuì di nuovo rialzando gli occhi su So’o, e la sua mano prese la chiave dalla toppa della porta e la porse a lui, che la prese confuso “Vilya deve riordinare la stanza, richiudetela quando ha finito.” Tornò nella stanza per indossare le scarpe, e a Vilya disse “Metti in ordine, fai il bravo, ti voglio bene.”

Il drow osservò il padre e poi annuì senza dire niente. Azul lanciò un’occhiatina a So’o prima di sfilargli accanto, allontanandosi.

So’o entrò, cauto, nella stanza.

L’imbarazzo impregnò subito le pareti. Vilya si infilò i pollici nelle tasche dei pantaloni in un moto di impacciatezza, poi si rese conto, con sollievo, di avere qualcosa da fare e decise di sbrigarsi.

“Ciao.” Il mezzodrow abbozzò un saluto riservato.

“Ciao.” Il tono disponibile di Vilya gli arrivò in replica. Poi il silenzio, mentre il drow arrivava alla scrivania e svuotava il proprio bicchiere. Lanciò un’occhiata a quello di suo padre.

“Sono due dita, le vuoi tu?” Si voltò verso So’o.

So’o sgranò gli occhi interrogativo, poi inarco le sopracciglia e scrollò il capo “Oh, no, non reggo l’acool.”

Vilya prese il bicchiere “Non è tanto. Fa bene, così poco.”

So’o riconsiderò il bicchiere di vino. Si lesse chiaramente la diffidenza sul suo volto, ma poi, rialzando gli occhi e puntandoli in quelli blu del ragazzo, diede al drow l’impressione di starci pensando sul serio.

“… va bene.”

Avanzò di un paio di passi e protese un braccio; Vilya fece lo stesso e gli diede il bicchiere. Poi si voltò per risistemare la scrivania, dandogli le spalle. Non sentì rumori da dietro di sé, finché So’o non riprese a parlare, dopo una pausa che lo aveva visto con molta probabilità bere una delle due dita di vino.

“Senti…”

Vilya si interruppe e si voltò verso il fratello. So’o rialzò gli occhi su di lui, dal bicchiere su cui li teneva prima.

“… posso farti delle domande personali?”

Vilya sollevò le sopracciglia, molto perplesso “…sì? Voglio dire, certo?” Era un’affermazione, ma la sua perplessità era tale da rendere il tono interrogativo. Tornò al tavolo e afferrò la bottiglia.

“Da dove vieni?”

Il drow rimase interdetto per un attimo. Si voltò di nuovo verso il più piccolo, che stava raccogliendo alcune ciocche di capelli dietro le orecchie semiappuntite, i limpidi occhi verdi lo fissavano.

“Charvellraughaust. La città drow più vasta del sottosuolo.” Gli spiegò. Avanzò verso il comodino accanto al letto, senza fretta. “Mia madre era una mendicante. Aveva incontrato papà durante una sua missione, non sapeva di essere rimasta incinta.”

Si voltò in tempo per vedere So’o sbattere le palpebre con aria impreparata, e subito dopo cercare di salvarsi dall’impacciatezza con una domanda intelligente.

“Missione?”

Vilya annuì. “Di assassino.” Restò a guardare la reazione di So’o. Lui alzò il viso, meravigliato. Ma non sorpreso.

“Oh.”

“Hm.” Il drow annuì di nuovo.

“Era ancora molto giovane allora.”

“Sì. Era appena un ragazzino.” Il più grande tornò verso il comodino e ci posò la bottiglia. Si voltò e tornò verso il centro della stanza.

“Non abbiamo una grande differenza di età in fondo, io e Azul.”

“Mh.” So’o annuì.

Vilya fissò il più giovane.

Lui ricambiò lo sguardo.

I due rimasero a fissarsi in silenzio.


Vilya tirò su col naso.

“Devo chiudere la stanza.” Disse.

“Ah. Sì.”

So’o si voltò e uscì dalla stanza, il drow lo raggiunse poco dopo. Chiuse la porta a chiave.

“Lasciami la chiave.” Gli disse il mezzodrow. “Vado a restituirla a papà.”

“Va bene.” Replicò il maggiore. Verso So’o, lo guardò negli occhi mentre gli porgeva la chiave. So’o, nel prenderla, gli sfiorò le dita. Incontrò il suo sguardo per qualche secondo, con i propri occhi limpidi.

“Buonanotte.”

“Buonanotte.” Ricambiò Vilya.

So’o indietreggiò, posò un ultimo sguardo sul fratello e poi si incamminò lungo il porticato.

Vilya rimase a guardarlo andare per un attimo prima di corrugare la fronte e scrollare il capo, confuso.







 
Vilya Goldsmith, quando è vestito.
   
 
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