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Autore: rossella0806    17/02/2017    2 recensioni
Regno di Sardegna, gennaio 1849.
Costanza Granieri si è svegliata per l'ennesima volta spaesata e affranta: da quando si è trasferita in città, lontano dalle sue abitudini e dai suoi affetti, la notte non riesce a dormire.
L'unica cosa che desidera è ritornare alla vita di prima, nel paese di montagna che l'ha vista crescere: la sua sola consolazione risiede nella corrispondenza epistolare che intesse con la nonna materna, influente donna della comunità che ha dovuto abbandonare.
Sullo sfondo delle vicende della famiglia Granieri e dei Caccia Dominioni, in mezzo a personalità nobili e giovani rivoluzionari, va in scena la battaglia della Bicocca, combattuta nelle campagne novaresi il 23 marzo 1849, tra lo schieramento dei piemontesi e quello degli austriaci, nemici giurati di un intero popolo.
Genere: Drammatico, Guerra, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna, Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: L'Ottocento
Capitoli:
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La storia mi giustificherà.

(Gerolamo Ramorino, Genova 1792- Torino 1849, generale dell'Armata sarda)


La testa bassa e le mani infilate nelle tasche della giacca verdone, Federico procedeva di filato verso le Regie Carceri Mandamentali.
Il sole di mezzogiorno lo stava facendo sudare, mentre il gusto acidulo del vino appena bevuto ristagnava come un avvertimento alla bocca dello stomaco: senza diminuire la velocità, recuperò un fazzoletto di seta con cui si tamponò la fronte e le tempie, quindi ripercorse con la mente la conversazione che aveva sostenuto con Maffucci.
Quell’avvocatuccio da quattro soldi crede di intimorirmi, ma non ha nemmeno lontanamente idea della pericolosità delle persone che frequento! Se non trovo una maniera per uscire da questa situazione, chi ci rimetterà sarà soltanto il sottoscritto, non di certo lui e neppure quella gatta morta di Costanza!
Sospirò nervoso, ripensando con stizza ai due energumeni che era stato costretto ad abbandonare nel cortile di palazzo Orelli, dopo che lo avevano minacciato di fargliela pagare, nel caso gli fosse scappata anche solo mezza parola, per poi subito dileguarsi celermente come la brezza estiva in un giornata afosa.
Una manciata di minuti più tardi, il giovane si ritrovò davanti all’entrata sobria e militare delle Carceri, il cotto lombardo che riluceva sotto i raggi caldi della mattinata ormai agli sgoccioli.
Si guardò intorno, controllando che nessuno lo avesse seguito e che non ci fosse nemmeno l’ombra di un conoscente a rovinargli i piani, quindi fece qualche passo in avanti.
Non si era mai trovato in difficoltà come in quei momenti, quando la vita di suo fratello Pietro dipendeva esclusivamente da lui: un altro centinaio di metri e avrebbe compiuto il suo dovere, ritirando tutte le false accuse che aveva mosso contro il primogenito dei Caccia, ma era davvero questo ciò che voleva? Era sicuro di volergli salvare la vita, di fare marcia indietro?
Per un istante, rivide i volti dei loro genitori, i capelli rossastri e radi del conte Aldo, gli occhi azzurri buoni ed aperti verso il mondo, in contrapposizione alla folta chioma della madre e al suo sguardo nocciola.
Strizzò le palpebre, in un gesto che voleva scacciare all’istante quei fantasmi dalla sua testa, e ritornò a concentrarsi sulla struttura tardo medievale che si stagliava di fronte a lui.
Gli altri che cosa si aspettavano che facesse? Che cosa doveva fare? Abbassò la vista su un mucchietto di sassolini che precedevano l’entrata argillosa e in parte erbosa che conduceva al cortile del Castello Sforzesco.
Erano così simili, così bianchi, eppure alcuni dovevano essere più piccoli, altri dovevano avere gli angoli smussati, altri ancora più appuntiti… Federico si sentiva un po’ come loro, che all’esterno apparivano uguali a chi li osservava, ma che all’interno erano pieni di una miriade di imperfezioni, caratteristiche che li rendevano unici e diversi.
Sì, Pietro ed io non siamo gli stessi, non lo siamo mai stati, ed io non voglio sacrificarmi per lui, anche se per tutti siamo fratelli, ed il legame di sangue che ci unisce è importante sopra ogni cosa”.
Trasse un profondo respiro e lanciò un’ultima occhiata verso la facciata delle Carceri, ora così lontane, così sconosciute.
Ricacciò le mani nelle tasche della giacca di lino e si allontanò, la schiena che gli faceva da scudo contro qualsiasi ripensamento.


Il 7 maggio 1849, Vittorio Emanuele II nominò Primo Ministro del Regno di Sardegna lo scrittore e artista Massimo d’Azeglio, un politico liberale e moderato, che andava a sostituire Vincenzo Gioberti.
Il nuovo Presidente del Consiglio è profondamente convinto dell’importanza di redigere una pace sicura e duratura con l’Impero Asburgico, sia per il bene del Piemonte che per poter riprendere un giorno la lotta per l’indipendenza italiana.
Le trattative di pace si svolgono nella capitale del Lombardo Veneto: per parte sabauda la mediazione è affidata al diplomatico Carlo Beraudo di Pralormo, mentre per parte austriaca a von Bruck, rigido ministro del Commercio.
Inaspettatamente, è l’intervento di Radetzky a chetare gli animi e a spezzare una lancia in favore dei Savoia, in quanto il Piemonte viene considerato dall'anziano feldmaresciallo come perno di un nuovo equilibrio moderato e antirivoluzionario per l'intera penisola italiana.
Il 6 agosto dello stesso anno viene dunque siglato il trattato di pace, le cui condizioni non sono affatto controproducenti: in cambio del parziale disarmo e di un indennizzo in denaro in favore del nemico, il Piemonte ottiene l’amnistia per i patrioti del Lombardo Veneto, la restituzione dei territori occupati e l’abolizione di dazi e convenzioni economiche sfavorevoli.
Alle evidenti resistenze messe in atto dalla Camera del Parlamento subalpino, il re e il nuovo Presidente decidono di scioglierla e di indire nuove elezioni, che si svolgeranno il 9 dicembre 1849, ma bisognerà aspettare esattamente un mese dopo per l’approvazione dei negoziati di pace.
Nel frattempo, il 22 maggio viene fucilato a Torino il generale Ramorino, a monito della sua disobbedienza che era costata assai cara al Regno di Sardegna e alle sorti della guerra contro gli Asburgo, dopo che gli è stata negata la grazia da Vittorio Emanuele II. La sentenza viene eseguita nella piazza d'Armi, dove si svolgono le parate militari dell'Esercito: a comandare il plotone di soldati è lo stesso generale.


Sabato 30 maggio 1849

La carrozza correva veloce lungo la strada argillosa e bollente, costeggiata da file interminabili di campi coltivati e da zone dedicate al maggese, che avevano preso il posto degli specchi d’acqua delle risaie e di qualche disinteressato airone che ne sondava gli argini; il tepore che filtrava dal finestrino assomigliava ad un’audace quanto prepotente carezza di un amante, che si insinua risoluta sotto le vesti, consapevole di non doversi conquistare alcun permesso.
Il capo ciondoloni sul petto, il corpo di Nicolò sobbalzava al ritmo di quel piacevole dondolio: gli occhi ancora chiusi, si scostò meccanicamente un ciuffo di capelli ricci che gli ricadeva sfacciatamente sulla fronte di porcellana, ormai quasi scevra di cicatrici visibili.
Il ragazzo si sistemò meglio contro lo schienale di pelle, il gomito del braccio destro, quello sano, appoggiato mollemente contro la parete interna della Landau nera: improvvisamente, avvertì una profonda stanchezza impossessarsi delle sue membra, una spossatezza atavica e senza una ragione precisa, che lo induceva ad abbandonarsi ad un sonno lungo e profondo.
Un lieve scossone non preannunciato, e il galoppo dei cavalli lasciò il posto al passo cadenzato dei loro zoccoli ferrati, mentre un’altra carrozza passava loro di fianco.
Il giovane Granieri riaprì contrariato gli occhi, quindi tastò un ginocchio del suo accompagnatore.
“Sono emozionato. Sai, non vedo l’ora di poter riabbracciare Stefano e di sapere come sta... Spero solo che si ricordi ancora di me, e che gli faccia piacere ricevere la mia visita”
Il fruscio appena accennato delle pagine di giornale testimoniavano che l’interlocutore stava lasciando da parte la lettura per dedicarsi alle parole di Nicolò.
“Sono convinto che anche il tuo amico sarà molto felice di rivederti, ne sono certo” e così dicendo gli regalò una pacca affettuosa su una spalla, sorridendogli.
“Abbiamo fatto bene a mandare un telegramma all’ospedale, almeno avrà potuto prepararsi a dovere e non trovarsi in imbarazzo per un’ eventuale sorpresa che inizialmente avrei voluto fargli”
La voce del ragazzo trapelava l’impazienza e la gioia che avevano accompagnato l’idea di quel viaggio, organizzato fin nei minimi particolari da settimane ormai, da quando aveva trovato il coraggio di riallacciare i fili di quel passato bellicoso che non lo avrebbe più lasciato.
Si strofinò con ansia i palmi delle mani sui pantaloni chiari, ben consapevole di ciò che lo spontaneo Stefano aveva dovuto subire durante quei mesi di convalescenza, dopo il ferimento che lo aveva visto coinvolto alla Bicocca, il 23 marzo.
Per un attimo, Nicolò ripercorse suo malgrado la lunga marcia sul Ticino, l'attraversamento di Magenta, la moltitudine di accampamenti spartani a cui si era dovuto abituare; e poi, la mente, subdola e malvagia, lo accompagnò nei meandri rappresentati dalle battaglie di Borgo San Siro, di Gambolò e della Sforzesca, dove era stato colpito al braccio sinistro, lo portò a rammentare l’avanzata stanca verso Vigevano, e da lì il ripiegamento in direzione della brumal Novara, la bestia nera, come scrisse anni dopo Carducci nell'ode "Piemonte", fino al tragico epilogo nelle campagne circostanti.
Al solo rievocare quei ricordi dolorosi, il giovane rabbrividì e si agitò sul sedile, mentre rivoli di sudore freddo gli accarezzavano languidi la schiena.
“Devo dirti una cosa, una cosa che ancora non ho detto a nessuno, nemmeno a Costanza…”
Nicolò si fermò un istante, deciso a calibrare con cura le parole che stava per pronunciare, e anche timoroso di non essere realmente compreso.
“Dimmi, ti ascolto…”
L’altro lasciò andare la tendina di velluto che aveva scostato per ammirare il paesaggio al di fuori, in maniera da concentrarsi esclusivamente sul volto dubbioso dell’interlocutore.
“Ecco, il fatto è che credo di… sì, insomma, credo di star recuperando la vista. Cioè, non ne sono del tutto convinto, ma da qualche giorno non vedo più solo ombre, riesco a riconoscere i colori degli oggetti che mi circondano, persino i contorni una volta sfumati delle persone sono quasi nitidi… Tu credi sia possibile una cosa del genere?”
L’uomo si mordicchiò un labbro e alzò le spalle, indeciso su quale risposta il ragazzo si aspettasse di sentire, quindi si sedette vicino al giovane Granieri e gli sorrise fiducioso.
“Beh, non lo so se sia possibile, però sono molto contento di quello che mi hai appena detto, davvero molto! Se è vero –e non ho alcun dubbio per credere il contrario- tutti noi saremmo pronti a supportarti e a portarti dai migliori specialisti, in modo che tu possa riacquistare completamente la vista e riappropriarti della tua vita! Te lo posso giurare, caro cugino! E ora, fatti abbracciare, te lo sei meritato!”
I due si strinsero affettuosamente, fino a quando i loro corpi si fusero in uno solo, e gli occhi di Nicolò si abbandonarono alle lacrime, timide e salate.
“Grazie, Pietro, grazie per esserci sempre stato. E grazie per avermi accompagnato, te ne sarò grato per l'eternità”


Arrivarono a Torino che era pomeriggio: si fecero indicare da una coppia di passanti piazza Emanuele Filiberto, dove era ubicato il Regio Ospedale Militare.
La presenza del conte Caccia indusse il ragazzo a farsi coraggio, poiché un’improvvisa ansia gli stava attanagliando come un mostro la bocca dello stomaco: forse aveva sbagliato a presentarsi dopo tutto quel tempo, forse a Stefano non importava nulla di rivederlo, forse il suo amico desiderava semplicemente dimenticare e lasciarsi parte del passato alle spalle.
D’altronde, il telegramma di risposta che aveva ricevuto circa una settimana prima non lo informava delle condizioni specifiche in cui versava il soldato ferito, ma il medico che glielo aveva inviato scriveva solo che il ragazzo si trovava ancora lì, per ultimare gli ultimi giorni di riabilitazione che ancora gli spettavano.
“Che c’è?” gli domandò Pietro, aiutandolo a scendere dalla vettura.
“Nulla…”
“Non è che ci stai ripensando, vero? Ora che sei ad un passo dal traguardo, non puoi abbandonare!”
“No, certo che no. Scusa, andiamo pure”
Si incamminarono quindi verso un mastodontico stabile rettangolare, che si ergeva immacolato a qualche centinaio di metri da loro: lasciarono detto al cocchiere che si sarebbero ritrovati dopo un paio di ore all’angolo della piazza, poi schivarono qualche altra carrozza e, finalmente, si ritrovarono davanti all’ospedale.
Pietro si guardò intorno, notando le fila di porticati che ospitavano una dozzina di negozi e un paio di palazzi alto borghesi: a quell’ora, non vi era quasi nessuno in giro, solo una manciata di Landau che andavano in direzioni opposte rispetto alla loro.
Nicolò si sentiva una pedina degli scacchi attorno a cui vorticavano figure e mosse a lui sconosciute, la confezione di cioccolatini in una mano, il regalo che Costanza gli aveva suggerito di scegliere.
Si aggrappava al cugino come fosse un’àncora di salvezza, il cuore che accelerava i battiti e una voragine che si apriva in prossimità dello stomaco, come se lo stesse per risucchiare.
E fu allora che si sentì stupido, impreparato, codardo: aveva tanto blaterato contro la sorella, contro Eugenio e chi lo voleva aiutare a dimenticare tutta quella brutta storia, quando invece era lui il primo a comportarsi da vigliacco e a non voler prestare aiuto al suo amico.
Attraversarono l’entrata di marmo a sesto acuto che conduceva nell’ampio parco all’italiana, e si ritrovarono in un mondo a parte, un universo popolato da suore, camici bianchi e pazienti pallidi e smagriti.
La mente del giovane Granieri tornò ai giorni lontani eppure così vicini della degenza, all’odore aspro e pungente del disinfettante che accompagnava le visite del personale, al calore malsano emanato dai corpi degli altri malati e dei moribondi.
Istintivamente, si ritrovò a stringere ancora più forte il braccio di Pietro, che lo guardò e gli disse che sarebbe andato tutto bene.
Abbandonato il giardino, domandarono in portineria dove poter trovare il reparto di riabilitazione in cui Stefano era degente, quindi si addentrarono lungo un corridoio dalle pareti grigiastre e dal soffitto macchiato di umidità agli angoli.
Salirono con lentezza i gradini di pietra, Nicolò appoggiandosi al corrimano di legno, fino al secondo piano indicato dall'uomo di mezza età a cui avevano chiesto all'ingresso.
Da una delle tre finestre che si aprivano sull'unica parete libera di porte, i raggi solari di fine maggio si insinuavano energici in quell'ala della costruzione, donandole un briciolo di umanità che sembrava mancare al resto dell'austera struttura.
"Aspettami qui, vado a cercare qualcuno..."
Pietro aiutò il cugino a sedersi sull'unica panchina disponibile, e cominciò ad ispezionare la fila omologata di porte bianche alla sua sinistra; alla sesta occhiata, si fermò e bussò in prossimità della stanza che recava il nome del medico che aveva inviato il telegramma la settimana precedente.
Il conte attese il permesso per poter entrare, quindi sgusciò all'interno e vi uscì un minuto più tardi.
Andò a recuperare Nicolò, fermo ed imbarazzato dove lo aveva lasciato poco prima, e gli disse di seguirlo dal dottor Damiani, che li ricevette nel suo studio asettico, colmo di volumi enciclopedici e di una caterva di documenti mezzi ingialliti.
“Mi dispiace molto avervi fatto venire fino a qui, ma il signor Gardina non desidera ricevere visite"
"Ma come?! Eravamo d'accordo che ci saremo visti proprio oggi, che lo avrei incontrato! Perchè adesso mi state dicendo questo, non capisco!"
Il giovane Granieri, infatti, non riusciva a capacitarsi delle parole che stava udendo: quell'uomo di media statura e l'aspetto aristocratico gli stava facendo sgretolare la poca forza di volontà e di sicurezza che aveva faticosamente racimolato durante le ultime settimane in cui aveva ripreso in mano le redini della sua precaria esistenza.
"Possiamo sapere se questo improvviso cambiamento ha a che fare con le sue condizioni di salute?" s'intromise il conte Caccia, appoggiando una mano sul ginocchio di Nicolò, inducendolo a calmarsi.
"No, vi posso assicurare che il vostro amico si è ripreso in modo assai stupefacente, anche se il percorso è di certo ancora lungo e tortuoso. Tuttavia, non posso obbligarlo a vedervi, se ciò va contro la sua volontà. Mi capite, vero?"
Il cinquantenne, la stilografica che aveva recuperato davanti a sé, li guardava con gli occhi chiari ed empatici, ma il tono della voce appariva irremovibile.
"Certo, vi capiamo e comprendiamo il gesto del signor Gardina. Permettete un attimo..."
Pietro si abbassò per sussurrare all'orecchio del vicino se aveva intenzione di lasciare comunque la scatola di cioccolatini acquistata per Stefano: l'altro lo guardò appena, la mascella contratta e le dita irrigidite sulla confezione regalo, poi annuì senza troppa convinzione e appoggiò il pacchetto tra lui e il dottor Damiani.
"Bene, allora se non abbiamo più niente da dirci, noi toglieremmo il disturbo: sapete, la strada per Novara è piuttosto lunga..."
Le parole del conte Caccia trasudavano una certa dose di irrequietezza, sebbene continuasse a rimanere perfettamente calmo: si alzò dalla sedia di mogano, prendendo per un gomito il cugino, già pronto ad accomiatarsi.
"Aspettate..." ribatté il medico.
Recuperò da una tasca del camice un foglio spiegazzato e piegato in quattro, quindi lo porse a Nicolò.
"Il vostro amico mi ha personalmente incaricato di darvi questa lettera, tenete"
Il giovane allungò il braccio sano e tastò appena il misterioso scritto, indeciso se replicare o magari insistere per rivedere l'ex soldato.
Alla fine, optò per un semplice quanto poco convincente grazie ed una stretta di mano, mentre Pietro si limitava a fare lo stesso, e finalmente lasciarono la stanza.


Una volta districatisi da quel labirinto, i cugini si fermarono quasi all'unisono, dirigendosi verso l'uscita del complesso ospedaliero.
Il più grande indirizzava affettuosamente i passi strascicati dell'altro lungo il vialetto di ghiaia e terra battuta, pronto a ricongiungersi con il cocchiere nella piazza antistante.
Non si scambiarono mezza parola, ognuno assorto nei propri pensieri: avevano compiuto un viaggio a vuoto, avevano percorso chilometri inutilmente, solo per ottenere un rifiuto e una lettera che nessuno aveva il coraggio di leggere.
A quella riflessione, Nicolò sorrise dentro di sé amaramente, pensando a quanto fosse sciocca quella strana coincidenza: sebbene stesse lentamente ed incredibilmente recuperando la vista, ancora non poteva definirsi autonomo nelle incombenze quotidiane, ed una di queste era per l'appunto leggere quelle parole che il suo amico aveva deciso di scrivergli, non sapendo quanto questo gli costasse un'enorme fatica.
O forse no, forse quello era una sorta di segnale che lo induceva a mettersi alla prova, a tentare di interpretare le file di parole una dietro l'altra che componevano il messaggio dell'amico; perciò, strappò delicatamente il foglio dalle mani di Pietro, e lo spinse a seguirlo sulla prima panchina disponibile, vicino ad un laghetto artificiale.
"Che ti succede? Non ti senti bene?" domandò allarmato il conte, sedendosi a sua volta.
Il cugino scosse la testa, tranquillizzandolo con un mezzo sorriso.
"Voglio provare a leggerla da solo" cominciò a spiegare, riferendosi alla lettera che gli scottava tra le dita, e che accarezzava come fosse il più prezioso dei tesori.
"Va bene, però se vuoi ti aiuto volentieri: non mi costa nulla, lo sai, vero?"
"Sì, ma è una cosa che devo fare io, o quanto meno che devo tentare di fare... Se ho bisogno di te, non esiterò a chiedertelo, davvero"
Il trentenne annuì comprensivo, stringendogli affettuosamente una spalla ed allontanandosi di qualche passo dal cugino, in direzione di una delle magnifiche sequoie, in modo da lasciarlo a concentrarsi.
Nicolò attese che l'altro si fu allontanato, quindi si decise ad aprire il foglio e ad avvicinarlo il più possibile agli occhi: le parole gli apparivano come microscopici ballerini dalle forme sgraziate, una troppo alta, una troppo bassa, una sghemba, una sbavata per l'eccesso d'inchiostro... insomma, un mare di confusione in cui avrebbe dovuto nuotare per riuscire a salvarsi dal buio che lo stava abbandonando ogni giorno che passava.
"Basta provarci, ricordare la forma delle lettere e metterle insieme una dopo l'altra...".
Trasse un sospiro di incoraggiamento, la testa che gli girava, e riprovò per la seconda volta: lentamente, le dita appena tremolanti, riuscì a decifrare qualche frase, fino a completare l'intera lettura.


Torino, 29 maggio 1849

Caro Nicolò,
non sono bravo con le parole, credo che tu lo hai capito quando ci siamo incontrati e conosciuti.
Appena il dottor Damiani mi ha deto che volevi venire a trovarmi, sono stato felice, molto felice, come non lo ero da tanto tempo. Però, rifletendoci, ho capito di non essere ancora pronto per questo passo, per ricongiungermi con il mio passato: ho paura di soffrire tropo, di non acettare di rivederti, perché non sono in quela che si definisce una ottima forma.
Mi sposto ancora con le grucce, e speso mi sento debole, ma sto bene nel complesso, credimi.
Spero tanto di trovare presto la forza per farlo, per poterti riabbracciare e parlare del piu e del meno con la stessa legerezza del prima.
Ti lascio il mio indirizzo: tra una settimana farò ritorno a casa, a Novara, e chissa che li non riprendo ad essere normale e sereno come sono sempre stato.
Ti ricordo sempre con affeto e riconoscienza, ma domani, quando verai, non insistere per parlarmi, te ne prego.
Il tuo grande amico Stefano

Dimenticavo, scusa per gli errori!


Nicolò si ritrovò a sorridere e a ridere al contempo, incurante degli sguardi lanciati di sfuggita da qualche capannello di persone che passava di lì: ci aveva impiegato cinque, forse addirittura dieci minuti per riuscire a capire cosa ci fosse scritto, ma solo così aveva avuto la certezza che stava davvero riacquistando la vista.
Strinse al petto la lettera, cominciando a singhiozzare in silenzio e a piangere, sfogando il risentimento, la rabbia, la delusione e la frustrazione che l'avevano accompagnato in tutto quel tempo: lui si rispecchiava in quello che gli aveva scritto Stefano, lo comprendeva alla perfezione, e si rese conto che quasi non gli importava di non averlo visto, perché ci era passato anche lui, perché non era necessario affrettare i tempi e rovinare i progressi fatti.
Divenne consapevole che la guerra, in fondo, rendeva uguali chi l'aveva vissuta: vinti e perdenti in realtà erano tutti dei perdenti, che per ritornare ad essere dei vincitori avrebbero dovuto attraversare nuovi orizzonti di vita e, prima che con il nemico, fare pace con se stessi.
Dopo essersi sfogato, fece un cenno in direzione di Pietro, e lo abbracciò con slancio fraterno.
"Ora sono pronto, possiamo andare".





NOTA DELL'AUTRICE


Buonasera, cari lettori!
Tranquilli, avete letto bene, non ho saltato nulla: Federico sembrava che avesse deciso di andare dritto per la sua strada, di non aiutare il fratello, invece, quasi quattro settimane dopo, ritroviamo il nostro primogenito conte Caccia vivo e vegeto, pronto a fare compagnia a Nicolò in quel di Torino, dove purtroppo non hanno potuto incontrare il commilitone del ragazzo, anche lui profondamente turbato dai ricordi di guerra.
Questo, come anticipato, è l'ultimo capitolo, ma nell'epilogo spiegherò che fine hanno fatto i vari personaggi, compiendo un salto temporale di trent'anni, raccontandovi brevemente anche come ha fatto Pietro a salvarsi e, soprattutto, se alla fine Federico ha deciso di fare marcia indietro, ritirando le accuse.
In attesa di tutto ciò, vi ringrazio per il supporto, e vi saluto!
A presto

 

 
   
 
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