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Autore: Adeia Di Elferas    18/02/2017    2 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Don Domenico da Bagnacavallo guardò Pavagliotta con un'espressione abbastanza eloquente e così questi rispose al Conte: “A noi sta bene. Ma vogliamo essere certi che passerà da lì o la chiesa come nascondiglio non sarà di nessuna utilità.”

Ottaviano si passava ritmicamente i polpastrelli delle dita sulla sfarzosa fibbia d'oro del cinturone mentre assicurava: “Passeremo da lì, è certo. Tornando da Cassirano ci sono poche altre strade da fare, no?”

I due religiosi, mandati dal Cardinale Sansoni Riario appositamente per adempire a quel compito oneroso, colsero il nervosismo nella voce del Conte e per un istante entrambi, che si ritenevano due professionisti, si fecero incerti.

Se c'era un tipo di complice davvero pericoloso, era quello che si innervosiva facilmente.

Tuttavia il compenso che spettava loro era già stato in parte versato dal Cardinale e dunque non avrebbero potuto tirarsi indietro.

“Va bene. Dunque passerete dal ponte dei Moratini, ma lui deve per necessità essere l'ultimo del gruppo.” precisò Pavagliotta, passandosi con disinvoltura una mano sul crocifisso di ferro che portava al collo.

Ottaviano annuì infastidito: “Ma sì, ma sì, quello lo so anche io, cosa credete. E comunque ci penseranno gli altri a fare in modo che sia così. Voi dovete solo badare a nascondervi bene e fare che tutti quanti siano pronti. Se sbagliamo anche solo di un battito di ciglia potrebbe essere la fine per tutti!”

Don Domenico sospirò e, alzandosi dalla panca, rivolse un distratto segno della croce all'altare e indicò l'uscita della chiesa al Conte: “Per questo non avete di che temere, vostro cugino ha scelto bene gli alleati vostri. Allora alla vigilia di Sant'Agostino, noi saremo pronti.”

Ottaviano, impacciato, ringraziò con un cenno del capo e guadagnò l'uscita quasi di corsa, ascoltando con ansia il rumore dei suoi stessi passi, che risuonavano sinistri come una campana a morto in quella piccola chiesa deserta.

 

“Ma non mi dire...” sorrise Caterina, lanciando uno sguardo affascinato al ventre della sua cameriera personale: “Tuo marito ne sarà felicissimo, immagino.”

“Lo è, mia signora.” ammise la serva con malcelato orgoglio: “Ne siamo certi da poco... Non ce l'aspettavamo più, dopo tanti anni.”

“Dimentico sempre che hai già altri figli...” fece la Contessa, mentre la domestica l'aiutava a sciogliersi i capelli per la notte: “Ormai saranno grandi, vero?”

“Sì, mia signora. Ero quasi una bambina, quando sono nati.” confermò la cameriera, mentre Caterina la guardava con interesse nel riflesso dello specchio.

Quando Giacomo arrivò al Paradiso, la Contessa invitò la serva ad andare pure dal marito Bernardino, pregandola di fargli le congratulazioni anche da parte sua. La donna se ne andò ringraziando di cuore e passandosi con dolcezza una mano sulla pancia, ancora troppo piatta per lasciar intendere con chiarezza qualcosa.

“Perché mandi i tuoi complimenti a Bernardino Ghetti?” chiese Giacomo, incuriosito da quello strano scambio di battute.

“Lui e sua moglie aspettano un altro figlio.” spiegò Caterina, spegnendo con un soffio la candela che aveva davanti: “Sono felice per loro.”

Nella penombra che si era creata nella stanza, il Barone si levò il giustacuore e la camicia e chiese, saltando di palo in frasca: “Ma dobbiamo proprio andare a caccia a Cassirano, questo giovedì?”

“Perché, hai impegni migliori?” domandò Caterina, andandosi a sedere sul letto in attesa che il marito finisse di togliersi gli abiti della giornata.

“Ma no, è solo che è quasi a Faenza...” si lamentò Giacomo: “Ed è uno spiazzo, se non mi ricordo male. Non c'è nemmeno un angolo per stare un po' in pace.”

La Contessa sospirò: “Magari sarà l'occasione per te e Ottaviano di provare a comunicare come persone civili.”

Il Barone sbuffò e si tuffò sul materasso, mancando di poco Caterina, che si ritrasse per evitare di essere centrata in pieno.

Con un braccio l'uomo afferrò la vita della moglie e, con un sospiro spezzato si lasciò scappare una mezza promessa: “Se lui non sarà troppo aggressivo con me, io proverò a non esserlo con lui.”

“È già qualcosa.” commentò la Contessa, cercando di essere ottimista.

Giacomo attirò a sé la donna e, solleticandole la gola con le labbra, le chiese: “Credi che sia un male, desiderare tanto qualcuno quanto io desidero te?”

Caterina soffiò, chiedendo, quasi divertita: “E perché dovrebbe essere un male?”

Il Barone la lasciò all'improvviso, rimettendosi seduto. La sua schiena liscia era curva e i capelli ricadevano morbidi sul suo volto, coprendo in parte i suoi lineamenti.

“Oggi, a Messa, il prete del Duomo ha fatto una predica su certe cose e io...” cominciò l'uomo.

“Ma noi siamo sposati.” lo fermò Caterina, tirandosi su a sedere accanto a lui, intuendo subito quale fosse il fulcro delle perplessità del marito: “Non stiamo infrangendo nessuna legge, né degli uomini né di Dio.”

“Lo so, ma...” Giacomo guardò un momento il soffitto e poi si voltò verso la moglie, gli occhi castani illuminati dalla luce fioca della luna che entrava dalla finestra aperta: “I preti dicono che i buoni cristiani dovrebbero amarsi solo per far figli, non per...”

La Contessa lo zittì con un veloce bacio e lo prese in contropiede: “Se ti preoccupa tanto questo dettaglio, come la mettiamo per quando non eravamo ancora sposati? Ti ricordo che abbiamo concepito nostro figlio ben prima di andare a giurarci fedeltà davanti a un prete, senza essere uniti da nessun contratto, né umano, né divino, eppure mi sembra che tu non te ne sia mai pentito.”

Il Barone parve a disagio e così Caterina si rimise coricata, dicendo: “Se temevi per la tua anima immortale, dovevi pensarci prima... E poi ti confessi spesso, no? Ti sarai scaricato la coscienza chissà quante volte!”

“No, io non parlo mai di noi, quando mi confesso.” la contraddisse Giacomo, continuando a darle le spalle: “Il prete è pur sempre un uomo. Ogni volta ho paura che possa andare a dire qualcosa in giro.”

“E quindi accetti con serenità l'ipotesi di finire all'inferno per colpa mia?” scherzò Caterina.

Il Barone, decisamente più serioso della consorte in merito a certi argomenti, si voltò verso di lei, il profilo regolare bagnato dalla luce argentea della luna: “Io sono stato pronto fin dal primo momento, ad andare all'inferno per te.”

“Dai, non c'è bisogno di essere tanto drammatici...” la voce della Contessa si era fatta più bassa, mentre con un gesto indicava al marito di sdraiarsi di nuovo.

Giacomo mise in fretta a tacere la sua coscienza, ribadendo tanto a voce alta, quanto a se stesso, che se l'inferno era il prezzo da pagare per restare con sua moglie, ebbene, l'avrebbe pagato con piacere.

 

Rodrigo Borja aveva l'importante naso immerso nel libro che Savonarola gli aveva spedito giorni addietro e non riusciva a smettere di leggere.

All'inizio aveva accantonato quel compendio con grande sdegno, ma poi, quando aveva saputo che la sua pubblicazione a Firenze aveva alzato un vero e proprio polverone, si era deciso a ripescarlo e farlo passare come il riso.

Quando non era ancora a metà, aveva già capito di aver sbagliato a sottovalutare l'operato del domenicano.

Avrebbe dovuto leggere subito quell'orribile volume e impedirne la divulgazione prima ancora che a Savonarola venisse in mente di darlo alle stampe.

Ogni paragrafo era una precisa pugnalata nel costato del Vaticano. Ogni frase era un pugno nello stomaco della curia. Ogni parole era uno spillo che finiva tra le carni di Santa Madre Chiesa. Armi simili, messe in mano al volgo, avrebbero potuto portare le fiaccole purificatrici, tanto care allo stolto Savonarola, fino alle porte di Roma e allora, tra le ceneri e le fiamme, sarebbe stato inutile provare a correre ai ripari additando il frate come pazzo o, peggio, come eretico.

Arrivato all'ultima pagina, Alessandro VI chiuse con un colpo secco il libro e lo scagliò con tutta la sua forza in fondo alla stanza.

Quelle non erano profezie uscite dalla bocca di un angelo rivelatore, ma opinioni politiche, propaganda e populismo, nulla di religioso stava in quelle parole.

Così come aveva intuito fin dalla prime pagine, le Rivelazioni altro non erano che i pensieri di Girolamo Savonarola opportunamente presentati per far colpo sugli ignoranti e sui bacchettoni, gli stessi che non avevano esitato un secondo a prendere opere d'arte mirabili come quelle che abbellivano Firenze e gettarle nel fuoco come fossero empie e immonde.

Savonarola voleva sfruttare la sua aurea di santone per legittimare la sua posizione, mantenendo il potere con la paura, sfruttando l'ignoranza del volgo e la cieca fiducia che le masse nutrono per chi sa gridare più forte degli altri, ma il papa sapeva essere più abile di lui.

Il domenicano stava dimenticando un dettaglio fondamentale: il Santo Padre aveva il potere di ammutolirlo, togliendogli non solo l'autorevolezza, ma anche la credibilità e finanche la vita stessa, se fosse stato necessario.

Rodrigo si alzò dalla sedia che aveva spinto vicino alla finestra per poter godere dell'ultima luce del pomeriggio, e, scalciando il vestone papale, attraversò per intero la stanza, ragionando furiosamente su come reagire.

Doveva consultarsi con i suoi diplomatici, per trovare la via più inattaccabile per trascinare Savonarola all'inferno con le sue idee e le sue false profezie.

Ci voleva un'accusa seria e solida di eresia, che suonasse come qualcosa di ufficiale e impossibile da negare, come se al papa in realtà dispiacesse di doversi privare di un servo del Signore tanto focoso.

Doveva sfruttare i cavilli e le magie delle parole dei legali, doveva buttarla su un piano puramente oggettivo.

Le armi migliori di Savonarola erano l'eloquenza e la capacità di volgere a proprio favore anche le evidenze più sfavorevoli, dunque serviva qualcosa di nettamente inconfutabile.

Con un paio di respiri pesanti, Rodrigo si costrinse a recuperare da terra il compendio. Soffiò sulla copertina, che si era un po' rovinata nell'impatto, e, tenendo il volume sotto al braccio andò a passo di marcia alla sua camera da letto.

Aveva intenzione di passare la sera e la notte immerso nella lettura, per cercare i punti deboli di quell'opera diabolica.

Quella sarebbe stata una guerra di intelligenze e il papa non voleva sfigurare contro un omuncolo grigio e rachitico come fra Girolamo Savonarola.

 

Un'immagine un po' confusa di una folla festante riempì la visuale di Caterina. Sentiva gridare, ma non capiva cosa la popolazione stesse dicendo. Intuiva solo che si trattasse di qualche nome, ma era impossibile andare oltre.

Riconobbe confusamente le strade di Milano che portavano alla chiesa di Santo Stefano e riconobbe anche alcuni uomini della scorta di suo padre, che cavalcavano accanto a lei.

Immersa nell'atmosfera ovattata che la circondava, Caterina si rese conto che quello che la precedeva in sella a un meraviglioso palafreno era proprio suo padre.

Quando fu del tutto cosciente della presenza del Duca Galeazzo Maria Sforza, fece del suo meglio per spronare il proprio cavallo a raggiungerlo, ma più dava di sperone alla bestia, più questa pareva rallentare.

Quando intravide la porta della chiesa di Santo Stefano, Caterina comprese che non sarebbe mai arrivata in tempo per salvare suo padre e una scena che aveva rivisto nella sua mente fino alla nausea si compì di nuovo.

Vide il pugnale, sentì il grido strozzato, avvertì l'odore del sangue, e, più forte d'ogni altro sentimento, avvertì la morsa pungente della consapevolezza di non poter far nulla per cambiare la realtà.

Stavolta, però, quando si avvicinò per guardare meglio, come spesso faceva in sogno, invece di vedere il corpo esangue di suo padre, in terra, in una pozza rossa, vide il cadavere di suo marito Giacomo...

Svegliandosi senza fiato, la Contessa si trovò subito circondata dalle braccia calde del Barone, che la tranquillizzò all'istante: “È stato solo un incubo...”

Caterina si aggrappò all'uomo, come ad accertarsi che fosse davvero lui, che fosse vivo e che stesse bene e solo dopo un lasso di tempo abbastanza lungo tornò a respirare normalmente, dicendo in un sussurro: “Sì, solo il solito incubo...” anche se l'immagine vivida e minacciosa di Giacomo morto continuava a tormentarla.

Non le era mai capitato di sognarlo a quel modo e sperò che non le succedesse mai più.

Lasciandosi tenere stretta dal marito, la Contessa si rimise comoda, cercando di richiudere gli occhi e trovare un sonno più tranquillo.

Il Barone si era ormai abituato agli incubi che agitavano di quando in quando le notti della moglie, tuttavia quella volta gli parve più agitata del solito, perciò non la lasciò nemmeno quando la donna sembrò intenzionata a tornare a dormire.

La pelle della Contessa era coperta da un velo di sudore freddo e il suo cuore batteva ancora molto velocemente. Giacomo si mosse un po', fino a riuscire a darle un bacio sulla guancia, e poi premette con sicurezza il petto contro la sua schiena, come a cercare di trasmettere il ritmo calmo del suo cuore a quello di Caterina.

“Vorrei che durasse per sempre.” bisbigliò il Barone, già prossimo al riaddormentarsi, beandosi del calore della donna che teneva contro di sé con la decisione di chi si aggrappa a una scialuppa in mezzo alla tempesta.

“Che cosa?” chiese la Contessa, altrettanto addormentata.

“Questo momento.” rispose Giacomo.

Caterina sorrise appena, mentre l'immagine nefasta del suo incubo cominciava finalmente a sfumare, e prese la grande mano del marito nella sua, scivolando finalmente in un sonno ristoratore che durò fino al mattino.

 

Ottaviano mandò giù un pezzo di carne a fatica, quasi strozzandosi, tanto aveva la gola secca.

La tavola della colazione era mezza deserta. Gli unici che si stavano servendo, sotto agli occhi assonnati e annoiati dei servi, oltre al Conte, erano solo la Contessa e Bianca.

Cesare era uscito dalla rocca di buon'ora per andare al Duomo, mentre i figli più piccoli erano ancora a dormire, come, probabilmente, anche il Barone Feo.

“L'hai detto tu per primo, no?” chiese Caterina, irritata dal comportamento teso del figlio: “E trovo che tu abbia ragione. Cassirano è quasi sul confine di Faenza, per quanto ormai io mi fidi di Manfredi, una scorta ci potrebbe essere utile.”

Ottaviano bevve un sorso di vino per cacciar giù la carne, mentre la sorella Bianca, a due sedie di distanza da lui, stava in silenzio e occhieggiava di quando in quando verso la madre.

“Sì, ma poteva bastare Ghetti...” commentò il Conte, tossicchiando mentre il boccone finalmente trovava la sua strada.

“Un uomo solo? Se ci fossero dei briganti, non basterebbe di certo.” ribatté Caterina, secca: “Senza contare che Gian Antonio è un soldato molto fedele, ma non brilla per acume. Potrebbe accorgersi troppo tardi del pericolo e a quel punto cosa faremmo?”

Il Conte appoggiò il coltello al tavolo con un rumore sordo e si pulì gli angoli della bocca con il dorso della mano: “Va bene, avete ragione voi, come sempre.” concluse piccato, alzandosi di scatto e lasciando la sala senza dare il tempo alla madre per ribattere.

Caterina lo guardò uscire e ritornò a concentrarsi sulla sua colazione, come nulla fosse. Bianca fece altrettanto, persistendo nel suo mutismo e chiedendosi cosa ci fosse sotto a quell'impuntatura del fratello.

Aveva notato in lui e in Cesare una certa agitazione, in quegli ultimi giorni, ma non aveva voluto chiedere nulla, perché sapeva che se fosse venuta a conoscenza anche solo di un dettaglio, non avrebbe resistito alla pressione.

Aveva promesso già una volta che non si sarebbe impicciata dei traffici dei fratelli e così intendeva fare. Anche se ormai il tempo trascorso dalla prima volta in cui se ne era parlato l'aveva convinta che Ottaviano e Cesare avessero abbandonato i loro piani più delittuosi, c'era qualcosa nel loro modo di atteggiarsi che le faceva credere che avessero comunque in mente qualcosa di grave.

“Verrai anche tu a caccia a Cassirano?” chiese a un certo punto Caterina, rivolgendosi alla pensierosa figlia, non sopportando più il silenzio.

La ragazzina, che si stava arrovellando l'anima nel chiedersi se davvero i due fratelli potessero dirsi liberi dall'idea di uccidere Giacomo Feo o meno, sollevò lo sguardò verso la madre e deglutì il pezzo di pane nero che stava mangiucchiando.

Forse quello era il momento di esprimere finalmente le sue perplessità e liberarsi di quel peso.

E invece Bianca si limitò a rispondere alla domanda che le era stata posta, mettendosi addosso una delle maschere che più odiava, quella della finta innocenza: “Certo madre, con molto piacere.”

 

“Io non me la sento...” disse piano la moglie di Bernardino, mentre il marito accendeva la lampada per la sera.

La luce tremolante della fiamma macchiava le pareti del loro alloggio, l'uomo fece spallucce: “Ma non dovrai fare nulla... Non credi che si insospettirà, il Barone, se non ti vedrà nella comitiva, domattina?”

La donna si sedette sulla sedia, facendola cigolare, e, tenendo una mano sul ventre e una sul cuore, confessò: “Non voglio veder morire un uomo che conosco, soprattutto ora che porta in grembo un figlio.”

Bernardino sospirò, non potendo dare torto alla moglie. Loro erano stati testimoni del matrimonio segreto tra la Contessa e il Barone. Avevano assistito alla nascita del loro figlio. Per quanto Giacomo Feo non fosse un uomo semplice da apprezzare, loro lo conoscevano abbastanza bene da poter ritenere legittima la riluttanza nel vederlo sgozzato come una bestia.

“E poi – proseguì la donna – non è la prima volta che non li seguo a caccia. Non vedo perché la mia assenza dovrebbe insospettire il Barone più di tanto.”

“Sai una cosa?” fece Bernardino, appoggiando il lume accanto al letto e passandosi una mano sugli occhi: “Nemmeno io ci vado. La nostra parte, in fondo, l'abbiamo già fatta. Dirò che non stai bene e che devo restare con te. Mi capiranno.”

“La nostra parte l'abbiamo già fatta.” concordò la donna, sorridendo sollevata al marito.

 

Prima che il sole sorgesse, la mattina del 27 agosto, alla vigilia di Sant'Agostino, nel cortile della rocca un drappello variopinto di cacciatori si stava preparando alla partenza alla volta dei prati di Cassirano.

“Sì, questo carretto andrà benissimo...” soppesò Caterina, mentre due stallieri lo fissava a un cavallo: “Tanto andiamo per uccellagione, niente prede grosse.”

La Contessa era ancora un po' in pensiero per la sua cameriera personale, che quella mattina stessa aveva disdetto la sua partecipazione alla battuta dicendo di non essere molto in forma, tanto, aveva detto, che il marito aveva chiesto al castellano un giorno libero per starle accanto, in modo che non si dovesse affaticare. Caterina sperava di tutto cuore che la sua indisposizione non avesse nulla a che fare con qualche problema della gravidanza appena iniziata.

Giacomo Feo indossava un abito abbastanza spesso, scelto per via della foschia di quell'alba. Si era ormai a fine agosto e l'autunno pareva già alle porte. Caterina sosteneva che presto avrebbe fatto troppo freddo per quelle uscite di caccia di gruppo, ma il marito sapeva che si trattava solo di un giro di parole per dire che preferiva uscire nei boschi da sola, o al massimo con lui.

A voler essere sinceri, anche il Barone cominciava a essere allergico a quelle battute.

Tenendo le redini del cavallo con ambo le mani, l'uomo guardò con distacco verso i tre figli maggiori della Contessa e si chiese quando ci volesse ancora per prepararsi per partire. Sembravano muoversi apposta con maggior lentezza di una lumaca.

Cesare, vestito di nero come fosse già un prete, si grattava la tonsura rinfrescata da poco, probabilmente infastidito dai capelli che stavano ricrescendo, e continuava a fingersi interessato ai finimenti del suo piccolo baio, come se non avesse già accertato almeno dieci volte che fossero al posto giusto.

Ottaviano non si decideva a montare in sella, sistemandosi il cinturone in vita e il mantello leggero sulle spalle, mentre i suoi occhi torvi saettavano di continuo in direzione di Francesco Tomasoli e Bartolomeo Martinengo, due uomini che Caterina aveva voluto includere nella scorta all'ultimo minuto.

Perfino la giovane Bianca sembrava intenzionata a tergiversare il più possibile e stava perdendo tempo nel scegliere quale cavallo montare, indecisa tra un palafreno poco più che puledro e un andaluso che non sembrava molto ben disposto a uscire a quell'ora antelucana. E la cosa che Giacomo trovava più irritante stava nel fatto che alla fine, come sempre, la figlia di Caterina sarebbe sicuramente rimasta sul carretto per tutto il viaggio di ritorno e per buona parte di quello d'andata.

Alla fine, a dare il via al gruppo fu Gian Antonio Ghetti che cominciava a dare perfino più segni di impazienza del Barone.

“Se vogliamo essere ai prati a una buona ora, mia signora – disse, avvicinandosi alla Contessa – è meglio che si parta subito.”

Caterina concordò con lui e montò in groppa al suo purosangue, spronandolo subito e mettendosi in capo alla comitiva.

Oltre a lei e ai suoi tre figli maggiori, dalla rocca di Ravaldino quella mattina uscirono il Barone Feo, Gian Antonio Ghetti, Tomasoli, Martinengo, il carrettiere e un altro paio di soldati che avrebbero avuto il compito di preservare da ogni pericolo i cacciatori.

Giacomo, che aveva avuto la precisa richiesta della moglie di cercare di andar d'accordo con Ottaviano, sentiva su di sé un'incredibile pressione. Sapere che ai prati di Cassirano non avrebbe trovato nemmeno un angolino tranquillo dove restare da solo o dove rintanarsi assieme a Caterina lo poneva in una posizione molto scomoda, a suo avviso.

Con un sospiro pensante, il Barone assecondò il passo lento del corteo cui si era messo come coda e oltrepassò Porta Schiavonia con il desiderio pungente e disperato di arrivare presto a sera, in modo da potersene tornare al Paradiso con la moglie, allontanandosi da tutto e tutti, sicuro che prima della primavera seguente non sarebbe più stato costretto a prendere parte a una di quelle barbare battute di caccia di gruppo.

 

 
   
 
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