Fumetti/Cartoni americani > Voltron: Legendary Defender
Ricorda la storia  |      
Autore: manicrank    19/02/2017    1 recensioni
L’assenza di gravità gli strinse lo stomaco e gli compresse i polmoni.
In quel momento, quando tutto era immobile e lui era solo un punto fluttuante, il giovane paladino capì – e serrò le palpebre. Sentì di nuovo la velocità agire sul suo corpo e tirarlo indietro, spingendolo feroce contro la parete di fondo. Urlò, migliaia di puntini colorati gli accecarono lo sguardo, e la testa gli girò forte. Sentiva il corpo agitato da spasmi e convulsioni ma non poteva fare nulla per fermarle, e quella piacevole sensazione d’abbandono lo colse improvvisamente.
«Shiro? Shiro!»
Genere: Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Buonasera/buongiorno everyone. Io sono la manic, e ad essere sincera nemmeno mi ero accorta esistesse la sezione di Voltron qui su EFP. Sono stata piacevolmente smentita, but, veniamo a noi. Devo parlare di questa fanfiction - spoiler free - perché necessito di una piccola parentesi prima di lasciarvi alla lettura.
First: stavo plottando una one shot molto più lunga & cute, rigorosamente #klance, e definitivamente happy ending. E questo ci porta al punto secondo, ovvero: la mia migliore amica in assoluto adora le storie drammatiche in cui il protagonista muore/si fa male/sparisce coff coff shirogone coff coff - e quindi mi sono detta, cara manic, perché non butti giù una flash per lei? E questa roba qui è nata. Anche se di solito io evito completamente il genere drammatico. 
Disclaimer: se non amate le storie con bad ending, in cui c'è un finale aperto interpretabile e tutto è sad and not rad, allora NON continuate la lettura. Se invece vi piace o siete Mijisi - allora you welcome!  
Fatto questo breve disclaimer, aggiungo che comunque ho in mente di postare altre belle cosine in questo fandom e che se volete seguirmi, questo è il mio twitter - !
Se la storia vi piace o vi fa cagare, lasciate una recensione ed io lo saprò.
Sayonara
MR
















Nevermore

Stava bruciando.

Pezzo dopo pezzo, a partire dalla mente.
La sentiva confusa, distante, e le pareti dei suoi stessi pensieri sembravano svanite a lasciarlo fluttuare nell’universo. Un punto infinitamente piccolo destinato a viaggiare per sempre, fino a morire, fino a dimenticare che fosse stato vivo. Immagini danzavano dietro le sue palpebre senza acquisire senso, sembravano bellissime, ma non appena provava ad afferrarle, queste correvano via, lasciandolo nella confusione lattiginosa dell’incoscienza. C’era solo lui in quel vuoto, e non sapeva come uscire. Se solo allungava le mani per afferrarlo, si trovava a stringere null’altro che la propria stessa carne, ed allora tutto tornava distante e surreale come in un sogno – come quando si è troppo stanchi per comprendere davvero ciò che si sta sognando. Sapeva che da bambino odiava quella sensazione, quando gli veniva la febbre e tutto girava e svaniva, lui piangeva e si raggomitolava temendo di uscire dal corpo e non poter più rientrare.
Adesso desiderava poterlo fare, ma sentiva il peso della carne a trascinarlo a fondo, e non poteva liberarsene per sopravvivere. Avrebbe voluto sgusciare via dalla pelle e dimenticarsi del dolore e del proprio stesso nome, ma non appena sentiva di poter spalancare quel vuoto e tuffarsi nell’oceano di stelle; ecco che i contorni tornavano perentori, e sentiva di avere ancora delle gambe e delle braccia.
E tutto bruciava.
Avrebbe urlato se avesse rammentato come spalancare la gola, ma non era sicuro di poterlo fare. Aveva ancora dei polmoni che potessero respirare, e delle labbra che potessero pronunciare parole? Se provava ad aprire gli occhi, il buio tornava ad avvolgerlo, e lui regrediva di nuovo, e tornava ad essere solamente un punto alla deriva nello spazio. Neppure un pianeta avrebbe interrotto la sua caduta, e sarebbe svanito nel ghiaccio siderale, senza più poter comprendere nulla del mondo che lo circondava, senza più ricordare che potesse comprendere. Si sentiva perduto, e solo.
Un barlume di coscienza lo strappò al sonno.
Null’altro che un breve scintillio nel fondo della mente che lo aveva spinto ad agitarsi, ed aveva sentito di potersi muovere, di potersi alzare. Aveva provato, si era dimenato furiosamente, ma era stato vano. Neppure più capiva se la sua anima fosse legata al corpo, e se questo fosse vivo da qualche parte, pronto ad accoglierlo e guidarlo. Tutto ciò che capiva in quel momento, oltre al buio e alla desolazione, era il dolore.
Un dolore intenso, che sapeva di fuoco, che sapeva di sangue sulla lingua ed in bocca, che gli colava dal naso e gli finiva negli occhi. Tutto di lui ardeva come colto dalle fiamme dell’inferno e non c’era salvezza. Poteva solo dimenticarselo, e ritirarsi nell’abisso, perdendo quel piccolo contatto pur di non soffrire – come un cane ferito che si rintana pur di non dover mostrare la ferita.
Seppe solo di star crollando, quando tutto si spense.

 

*

 

«Shiro!»
Lance aveva gridato con tutto il fiato che aveva in gola, lo sentiva dritto nelle orecchie, agitato e col fiato corto. Avrebbe voluto rispondergli, ma il caos l’aveva sballottato come un pezzo di legno in un mare in tempesta, e si era aggrappato saldamente alla poltrona per non scivolare. Altre voci si erano accalcate, rimbombando come se urlate in una galleria.
«Hunk, stai bene? Non ti vedo più. Pidge? Pidge?!»
Era Keith. Sapeva fosse ancora vivo, la sua voce non sapeva di sofferenza.
Passarono attimi interminabili di terrore, poi esplose una terza voce, più infantile e squillante delle altre: «Sto bene, Hunk è dietro di me. Shiro?»
Sollevò il braccio e spostò la presa alla leva di destra, afferrandola e tirandola verso di sé.
«Sto bene, ragazzi. Sto bene.»
Aveva detto nel microfono, mentre imprimeva tutta la propria forza nel braccio e tirava. La leva non si mosse di un millimetro, ma rimase dritta, incastrata.
«Non riesco -» si era voltato di scatto a fissare il radar, e per un momento quelle lucine gli parvero assurde e prive di senso. Sbatté le palpebre un paio di volte prima di mettere a fuoco, e quando capì, era già troppo tardi.
Il leone cozzò violentemente contro una delle navi dei Galra, e Shiro perse la presa.
Ci fu solo il vuoto per quelle che gli parvero ore.
L’assenza di gravità gli strinse lo stomaco e gli compresse i polmoni.
In quel momento, quando tutto era immobile e lui era solo un punto fluttuante, il giovane paladino capì – e serrò le palpebre. Sentì di nuovo la velocità agire sul suo corpo e tirarlo indietro, spingendolo feroce contro la parete di fondo. Urlò, migliaia di puntini colorati gli accecarono lo sguardo, e la testa gli girò forte. Sentiva il corpo agitato da spasmi e convulsioni ma non poteva fare nulla per fermarle, e quella piacevole sensazione d’abbandono lo colse improvvisamente.
«Shiro? Shiro!»
Aprì le labbra, incapace di formare una risposta.
Rimase immobile, mentre le voci si facevano sempre più lontane, sempre più sconosciute.
«Shi... ro.»
Lo stavano chiamando?
Chi lo stava chiamando?
Chi era lui?
Shiro?
Provò ad aprire gli occhi ancora una volta, mentre i suoni tornavano alle sue orecchie con un fischio acuto. Il mondo gli apparve nebbioso e sfocato, acceso di rosso sanguigno.
Davanti a sé c’era il sedile del pilota, i comandi, ed i visori esterni.
Non c’erano navi nemiche, non c’era più niente. Solo l’oscurità di un universo sconosciuto.
Si sforzò di abbassare il mento, facendo leva sulle braccia per alzarsi in piedi, poi fu solo il buio.

 

*

 

Tutto sembrava essersi fermato.
Come se fosse appena sceso da una giostra, ed il mondo dapprima in un forsennato movimento fosse tornato a ruotare nella sua apparente immobilità.
Quando il bruciore lo fece gemere, Shiro capì di essere vivo. Sentiva i contorni del corpo, le mani, e le gambe. Così come sentiva il sangue scorrere nelle sue vene, e la tuta umida appiccicata alla pelle.
Lottò contro la stanchezza per rimanere cosciente, una lotta disperata, finché non aprì gli occhi. Dapprima gli parve di star sognando, perché vedeva solo buio, e non sentiva altro che il vuoto – quello stesso vuoto da cui si era a stento tirato fuori. Poi, pian piano, comparvero i contorni pallidi nella penombra, e riconobbe le sagome familiari della cabina di pilotaggio.
Schiuse le labbra, per esultare, per chiamare a gran voce il suo leone – e la realtà arrivò perentoria assieme al dolore. Un dolore solido ed intenso come il ghiaccio, così pesante da opprimergli ogni cellula del corpo, e così immenso da non poter essere sopportato. Arrivò tutto insieme, e gli strappò via la speranza, estirpandola rabbiosamente. Boccheggiò, provando a respirare, ma sentì solo il sangue in gola e si trovò ad affogare senza poter tornare a riva.
I pannelli dei controlli erano spezzati, e giacevano in terra come frammenti privi di logica. Cavi pendevano dalle pareti, e tutto era immobile nella distruzione.
Il primo pensiero andò al leone.
Il secondo, ai suoi compagni.
Non sentiva più la stretta del casco attorno al capo, ma dubitava avrebbe potuto contattarli se anche lo avesse avuto
indosso. Erano vivi? Si erano salvati almeno loro?

A fatica, si puntellò sui gomiti, e provò ad alzarsi.
Il corpo si mosse, di poco, ma il dolore fu troppo da contenere e Shiro ricadde di peso battendo la schiena. Poi, finalmente, trovò il coraggio di calare lo sguardo.
Vide le proprie gambe immobili lungo il pavimento, e vide il suo braccio sinistro, abbandonato al proprio fianco. Poi osservò il destro, trattenendo i capogiri ed il sonno che era tornato a coglierlo come quando ci si addormenta nella neve. Neppure la tecnologia robotica dei Galra poteva aiutarlo in quel momento, e quando tentò di stringere le dita, nulla accadde.
Era immobilizzato, ed era solo.
Infine, le iridi nere si concentrarono sul proprio busto.
L’armatura l’aveva protetto, ma era danneggiata e scheggiata in più punti. Non capiva cosa lo stesse trattenendo a terra, e provò ancora, imprimendo tutta la propria forza di volontà in quell’unico atto disperato. Nella penombra riuscì a mettere a fuoco tutto se stesso, e gli parve quasi di osservarsi da fuori, come se non fosse suo quel petto, come se non fosse lui quello che stava morendo.
Il sangue continuava a sgorgare al ritmo del suo respiro, colmandogli ancora la bocca, facendolo soffocare. Non sapeva se per fortuna o per sfortuna, la lamiera si era ripiegata affusolata, e gli sbucava al centro dello sterno come una lama candida. Sembrava quasi innocente e pura, conficcata nella sua carne, come se non lo stesse realmente uccidendo. Come se fosse solo un dettaglio marginale, da accantonare assieme a tutto il resto.
Rise, sputò sangue, e si accasciò nuovamente col capo reclinato a fissare il soffitto squarciato.
Stava morendo in quello spazio infinito.
Non sarebbero arrivati gli altri a salvarlo, a portarlo via.
Nessuna avventura lo avrebbe condotto lontano.
Quella era la morte? L’improvvisa mancanza di qualcosa che c’era, e che non ci sarebbe più stato?
Gli pareva impossibile afferrare la vastità di quel concetto, come se la mente umana non potesse concepire la non esistenza di qualcosa. Ma lui stava morendo.
Lentamente, come una torcia che si scarica e diventa flebile, fino a svanire – anche lui avrebbe smesso di esistere. Sarebbe diventato un ricordo. Un mai più.

 

E pensare che da lì neppure si vedeva il cielo.













 

   
 
Leggi le 1 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Fumetti/Cartoni americani > Voltron: Legendary Defender / Vai alla pagina dell'autore: manicrank