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Autore: Crilu_98    20/02/2017    5 recensioni
Secondo capitolo de "The Walker Series" - non è necessario aver letto la prima storia.
Mark ed Elizabeth Walker sono fratelli ma non si vedono da dieci anni, da quando un terribile incidente ha cambiato per sempre le loro vite. Elizabeth è una ragazza insicura e tormentata dai sensi di colpa che all'improvviso è costretta a lasciare la cittadina di campagna dove ha sempre vissuto e a raggiungere San Francisco per salvare il fratello. Aiutata da uno scontroso gentiluomo dalle origini misteriose, da una risoluta ereditiera poco convenzionale e da un impacciato pescatore italiano, Elizabeth dovrà fronteggiare un intrigo molto più grande di lei. Un complotto che potrebbe diventare la miccia di un'incontrollabile rivolta operaia...
Genere: Azione, Romantico, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate, Triangolo | Contesto: Il Novecento
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'THE WALKER SERIES '
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P.O.V. Elizabeth
 
Osservai con aria risoluta la sottile patina di ghiaccio che intrappolava l’ascia con cui ero solita tagliare la legna. Afferrai saldamente il manico e imprimendogli tutta la forza che avevo nelle braccia tirai; udii un leggero scricchiolio, ma l’ascia non si mosse.
Frustrata, battei i piedi per terra e contemporaneamente mi portai le mani intirizzite alle labbra per riscaldarle: il Sacro Natale era passato da pochi giorni e il gelo si insinuava dappertutto, nonostante i numerosi strati di vestiti che indossavo.
Mio padre era a letto malato, mia madre si prodigava per assisterlo e così toccava a me l’ingrato compito di spaccare i ciocchi di legname per riattizzare il fuoco. Un compito che dieci anni prima mio fratello Mark avrebbe compiuto senza sforzi.
Chiusi gli occhi, mentre il familiare senso di nausea e colpa mi invadeva il petto, minacciando di soffocarmi: stavamo per entrare nel primo anno del nuovo secolo e di mio fratello nessuna traccia.
In quei dieci, dolorosissimi anni mio padre non si era mai dato per vinto: dopo che le acque a Rosenville si erano calmate aveva inviato messaggi a tutti i suoi ex-compagni di lavoro della ferrovia e si era tenuto informato su tutti i ricercati. Mark sembrava semplicemente scomparso nel nulla.
Se da un lato la cosa ci rallegrava – se la sua famiglia non riusciva a trovarlo, allora di certo non ci sarebbero riusciti neanche i federali – dall’altro ci gettava in una cupa malinconia: poteva essere morto, oppure aver cambiato continente e noi non avremmo mai saputo niente. Probabilmente riteneva di tenerci al sicuro senza scrivere neanche una riga, ma io lo odiavo per questo.
“Dove sei, Mark?” mi chiesi per l’ennesima volta, riuscendo finalmente a disincagliare l’ascia dal ghiaccio con un movimento brusco che mi fece barcollare all’indietro.
“Mi sento così inutile senza di te…”
Mark era stato sempre l’esempio da seguire, il mio rifugio e il mio migliore amico: senza la sua presenza rassicurante sembravo ancora più goffa e taciturna di quanto non ero in realtà.
Avevo ancora impressa sulla pelle la sensazione di quelle sudicie mani che mi palpavano senza ritegno e gli incubi erano durati per mesi, prima che recuperassi una parvenza di sanità mentale. Abbastanza affinché gli abitanti di Rosenville iniziassero a considerarmi pazza, diceria alimentata dal fatto che non avevo più messo piede fuori dai confini della fattoria dal giorno in cui Mark aveva ucciso il pistolero. Le minacce di mio padre e le preghiere di mia madre erano state inutili: quel piccolo terreno sicuro e tranquillo era diventato il mio mondo, l’unico in cui potessi vivere senza terrore.
A sedici anni avevo una fervida fantasia, molto entusiasmo e il desiderio inconfessabile di girare il mondo; a ventisei, ogni giorno ripetevo meccanicamente gli stessi gesti nella speranza di annullare i pensieri crudeli che si agitavano nella mia mente. Scossi il capo, ridacchiando tra me e me:
-Forse sei davvero pazza, Lizzie. Guardati, parli anche da sola!- mormorai, posizionando sul ceppo un pezzo di legna da tagliare.
Un discreto colpo di tosse mi distolse dal mio lavoro. Mi voltai e vidi che il postino di Rosenville stazionava imbarazzato oltre la staccionata di legno, a poche iarde da me: mi fissava quasi intimorito, spostando il peso del corpo da un piede all’altro.
“Da quanto mi stava osservando?” pensai, avvicinandomi titubante. “Pensa che bel pettegolezzo per le signore di Rosenville, Lizzie!”
Ero consapevole che il mio aspetto rispecchiava l’incuria e la solitudine che caratterizzavano la mia vita: nonostante mio padre si fosse ostinato, per anni, a comprarmi vestiti belli ed eleganti nel tentativo di riscuotermi dalla mia apatia, indossavo sempre due o tre abiti sgualciti e rammendati, ormai scoloriti per i numerosi lavaggi. La mattina legavo i capelli neri in una crocchia alla base della nuca, ma dopo poche ore erano già in disordine.
Mi diressi verso l’uomo con passo marziale e un cipiglio severo, ma sentivo il cuore battere ad una velocità inconsueta: quasi mai giungevano lettere per la famiglia Walker. Se si trattava di brevi messaggi da parte degli amici di mio padre era Abraham a consegnarceli; speravo quindi con tutto il mio cuore che fosse una missiva da parte di Mark.
Il postino osservò il mio incedere come se si aspettasse un assalto di qualche genere e senza neanche salutare mi porse una busta stropicciata e chiusa male. Sgranai gli occhi, battendo a terra con uno stivale mentre la prendevo con dita tremanti.
“Può davvero essere da parte sua! Oh Signore, non tradire la mia fiducia così!”
Il postino continuava a fissarmi ed io ricambiai lo sguardo, incerta, poi mi schiarii la voce:
-Vuole… Vuole entrare?-
L’uomo inarcò un sopracciglio, quasi offeso:
-No, certo che no!-
Allora sorrisi, indecisa se chiamare o meno mia madre per trattare con quell’individuo: erano anni che non mi ritrovavo a parlare con un estraneo e sentivo addosso tutto il peso dell’inesperienza.
Poi ebbi l’illuminazione:
-Mi perdoni!- esclamai, rovistando nelle tasche del grembiule che indossavo e tirando fuori qualche spicciolo -Dev’essere stata una bella scarpinata da Rosenville fino a qui, eh?-
Il postino intasco i soldi con aria vagamente soddisfatta:
-Certamente, una bella scarpinata! Buona giornata, signorina Walker!-
Lo osservai allontanarsi con una strana eccitazione nell’animo, poi corsi sul retro della casa, sperando che nessuno dei miei genitori si fosse accorto del suo arrivo: non ero sicura che la lettera fosse di Mark e non volevo alimentare le loro speranze. Mia madre si era consumata lentamente nell’aspettare l’improbabile ritorno del figlio e mio padre, meno incline a mostrare le sue emozioni, ogni sera si ritirava in silenzio a fissare il sentiero che portava a Rosenville, come se aspettasse di vederlo comparire da dietro una curva.
Mi buttai sul vecchio dondolo scricchiolante che si trovava sulla veranda e tirai la carta con così tanta foga da strapparla. Ma il sorriso spontaneo che mi era sorto nello stringere a me quella busta rimase congelato sulle mie labbra; una piccola porzione della mia mente, quella non annichilita dal dolore, ringraziò il mio buonsenso per non averla portata dai miei genitori con false speranze.
Il testo era breve, scritto con una calligrafia disordinata ed elegante che non era sicuramente quella di Mark.
 
Spettabile signor Russell Walker,
le scrivo per la difficile situazione in cui versa vostro figlio Mark. E’ infatti con grande dispiacere che la informo del suo imprigionamento e di una sua probabile condanna a morte nel giro di poche settimane.
 
Connor Price
 
 “Chi è questo Connor Price?” mi chiesi, mentre assimilavo l’informazione principale, quella che mi rifiutavo di accettare. “Mark è stato catturato. Potrebbero averlo già giustiziato!”
Dolore e rabbia mi fecero pizzicare gli occhi: se da un lato avevo quasi la certezza di aver perso mio fratello per sempre, dall’altra ero infuriata con lui.
“Neanche in punto di morte ti degni di farci sapere qualcosa, Mark? Almeno per mettere in pace la povera anima di nostra madre?”
Mi pentii quasi subito di quei pensieri incoerenti e rabbiosi. Del resto, era colpa mia se Mark rischiava la forca.
“Solo colpa mia.”
Presi a camminare a grandi passi per la veranda, continuando a stringere la lettera fra le mani mentre ragionavo:
“Innanzitutto, mamma e papà non devono mai, mai venire a sapere della lettera; in questo senso, il fatto che non abbiano visto il postino è stato davvero un colpo di fortuna! Poi, potrebbe darsi che Mark non sia morto, che per lui ci sia ancora speranza… Oh, Lizzie, no, cosa vai a pensare? Questa lettera è stata spedita settimane fa, anche se Mark fosse stato appena catturato a quest’ora non ci sarebbe più nulla da fare! Però…”
Però il mio animo era tormentato dall’idea che Mark fosse stato solo negli ultimi momenti della sua vita e che nessuno si fosse preso cura dei suoi resti. Fu così che presi una decisione che io stessa ritenevo azzardata, folle e pericolosa: decisi che sarei andata a riprendermi mio fratello ad ogni costo.
Non importava che fossero dieci anni che non uscivo più da casa mia, né che non avessi nessuno su cui contare per rivendicare i miei diritti di sorella sul corpo di Mark. Giurai semplicemente a me stessa che l’avrei riportato a casa. Per farlo, però, dovevo mentire ai miei genitori… E solo il Cielo sa quanto sia difficile ingannare Russell e Namid Walker!
 
A cena alternai stati di allegria a momenti di completo mutismo nel disperato tentativo di non allarmare i miei genitori; fortunatamente, mia madre, che di solito riusciva sempre a fiutare le mie menzogne, era troppo preoccupata per la salute di suo marito per rendersi conto della mia agitazione. In effetti mio padre era invecchiato a vista d’occhio nel giro degli ultimi due anni: era come se la sua solita energia l’avesse abbandonato di colpo, lasciandolo a boccheggiare come un pesce tirato a riva. I capelli brizzolati e le rughe, però, non riuscivano ad offuscare la sua autorità:
-Sto diventando vecchio, Lizzie.- mi aveva detto solo pochi giorni prima, la vigilia di Natale -Davvero vuoi lasciarmi morire senza la possibilità di godermi una bella discendenza?-
-Non so dove potrei trovare un marito per soddisfarla, padre…- avevo risposto, confusa ed intimorita dalle possibilità implicite in quella strana affermazione. Per qualche motivo mio padre era convinto che potessi superare il mio passato e trovare un marito alla veneranda età di ventisei anni: alcuni dicevano che gli indiani, oltre ad avergli donato una moglie, gli avessero affidato anche qualcosa di molto più oscuro e misterioso. E nel sentirlo parlare con lo sguardo vacuo un brivido mi spingeva quasi a credere a quelle dicerie.
Aspettai fino a quando la luna non rischiarò completamente i prati al di fuori della finestra della mia stanza; allora scivolai con cautela fuori dalle coperte, mi vestii con l’abito più sobrio che trovai e sopra ci buttai una giacca pesante presa in prestito dal guardaroba di mia madre.
“Scusa, mamma!”
Scesi le scale stando attenta a non fare rumore con la modesta borsa che portavo – e che conteneva tutto ciò che ritenevo mi sarebbe tornato utile in quel viaggio – e a non inciampare nell’orlo della gonna, molto più morbido e vaporoso di quelli a cui ero abituata.
Quando raggiunsi il muretto che segnava il confine della nostra proprietà iniziai a sudare e a respirare a fatica: ero angosciata dalla prospettiva di dover incontrare nuovamente della gente e per la prima volta fui sfiorata dal pensiero che quella fosse una missione troppo grande per una ragazza sola, specie se introversa come me.
“Si tratta di Mark, Lizzie!” mi dissi, per farmi coraggio, e subito l’aria riprese a riempirmi con facilità i polmoni, premettendomi di incamminarmi di buona lena verso Rosenville.
Solo quando fui in piedi sulla banchina della stazione, in attesa del primo treno della giornata, sfiorai con le dita la lettera che tenevo in tasca, pensando a quella che avevo lasciato sul mio comodino. Speravo che le righe che avevo scritto bastassero a dare un minimo di conforto ai miei genitori: senza nominare la missiva che era giunta il giorno prima, mi ero limitata ad informarli della mia decisione di andare a cercare Mark. Un progetto che ai loro occhi doveva apparire impossibile, da pazzi.
“E forse è proprio così!” pensai, piegando le labbra in una sorriso nervoso.  
Tirai fuori la busta spiegazzata e lessi un’altra volta l’indirizzo, per essere certa di ricordarmelo nel caso in cui l’avessi persa:
“Fisherman’s Wharf, San Francisco, California. Chiunque tu sia, Connor Price, sto arrivando.”
 
 
 
Angolo Autrice:
Buonasera :D
Ho lavorato molto su questo capitolo, perché introduce la vera protagonista della storia, cioè Elizabeth: spero che sia venuto bene e personalmente sono soddisfatta della tridimensionalità che ho dato a questo personaggio… Solo una cosa mi ha creato perplessità e perciò vi faccio una domanda: nella prima storia, The Railroad, come persona di cortesia usavo il voi, mentre qui ho utilizzato il lei. Il fatto è che gli anglofoni non fanno tutte le distinzioni che facciamo noi, quando si tratta di trattare con gli estranei; comunque, il voi mi sembrava esagerato per una storia ambientata nel primo '900 in una città moderna ed attiva, soprattutto perché i protagonisti sono giovani… Voi che ne pensate? A parte il fatto che forse sono un po' paranoica? xD
 
Crilu 
   
 
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