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Autore: Adeia Di Elferas    21/02/2017    2 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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I prati di Cassirano erano battuti da una lieve brezza fresca che spazzava anche il cielo, limpido come non lo era da giorni e giorni.

La distesa verde che si stagliava davanti ai cacciatori era interrotta solo di quando in quando da qualche pianta e i primi stormi di uccelli si potevano già vedere con chiarezza mentre si aggiravano in cerca di insetti nell'aria frizzante del primo mattino.

“Secondo me – commentò Francesco Tomasoli, che pure non era un cacciatore esperto – siamo in troppi per riuscire a prendere anche solo qualche misera beccaccia. Con il fracasso che faremo, scapperanno tutte quante...”

Effettivamente il gruppo era ben nutrito e i soldati di guardia stavano facendo tutti un gran baccano con le loro risate e le loro chiacchiere. L'unico che sembrava poco incline a quel clima di festa era Gian Antonio Ghetti, che si guardava attorno torvo, come se fosse infastidito dalla bellezza bucolica del posto.

Bianca, come previsto dal Barone Feo, aveva passato metà del viaggio sul carretto e là sembrava intenzionata a restare.

Si intratteneva scherzando con un paio degli uomini di scorta e col carrettiere. Tutti e tre pendevano dalle sue labbra e la ragazzina sorrideva compiaciuta dal successo che stava ottenendo.

Da quando sua madre le aveva esplicitamente fatto capire che la sua condotta disinvolta con gli uomini era da rivedere per via del suo matrimonio di facciata con Astorre Manfredi, Bianca si era in effetti trattenuta parecchio, dunque poter finalmente discorrere in libertà con chi preferiva era un vero sollievo.

In mezzo a quel prato, pensava la ragazzina, almeno non c'erano né occhi né orecchie indiscrete da cui proteggersi.

Caterina, mentre prendeva dal carro un paio di archi e delle frecce, lanciò un'occhiata penetrante alla figlia, ma alla fine anche lei fece un ragionamento analogo a quello fatto in silenzio da Bianca e decise di non riprenderla.

In fondo, se non si poteva essere se stessi nemmeno in mezzo alla natura, tanto valeva impiccarsi con un metro di corda.

Cesare prese dalle mani della madre una delle armi e si dichiarò deciso a provare a prendere qualcosa, contravvenendo alla sua normale allergia per quel genere di attività.

Caterina allora porse l'altro arco a Ottaviano che, smontato da cavallo, l'accetto con una certa riluttanza, ma senza fare troppe storie.

Le mani del ragazzo tremavano impercettibilmente, ma la madre non se ne rese conto.

Il nervosismo che lo prendeva fin nelle viscere gli rendeva difficile concentrarsi anche su una cosa semplice come infilarsi la faretra a tracolla, ma il Conte non era nel mirino materno in quel momento, dunque poté risultare impacciato nei movimenti quanto volle senza rischiare di suscitare l'interesse della Contessa.

Infatti le attenzioni di Caterina si erano già spostate su Giacomo, che, lasciata la sua bestia legata al carretto, aveva cominciato a camminare per la radura, le mani allacciate dietro la schiena e, apparentemente, nessuna voglia di mettersi a cacciare.

La mattina si stemperò in fretta nel mezzogiorno e la Contessa si dimostrò come sempre la cacciatrice migliore del gruppo.

Sistemate le prede nel carretto, la donna chiese ai soldati di scorta di aiutarla a spacchettare i viveri per il pranzo e così in pochi minuti tutti quanti si sedettero in terra per mangiare.

Visto il sole abbagliante di quelle ore, venne spontaneo a tutti cercare un po' di riparo sotto le fronde dei radi alberi di Cassirano.

Ottaviano si mise da solo in un punto distante dagli altri e prese da mangiare pochissime cose, giusto un pezzetto di formaggio e un piccolo pane nero, sicuro che la tensione gli avrebbe fatto risultare indigesto qualunque pasto, anche il più leggero.

Cesare si sedette con Bianca e con alcuni soldati, mentre Caterina, con disinvoltura, si sistemò con Giacomo, dividendo il cibo con lui, in silenzio.

Finito di mangiare, il Barone disse: “Ti spiace se faccio due passi? A stare seduto così sull'erba mi sta venendo mal di schiena. E poi ci guardano tutti.”

Caterina alzò lo sguardo ed effettivamente notò come sia i suoi figli – Ottaviano in particolare – sia gli uomini della scorta stessero occhieggiando verso di loro in modo apparentemente casuale.

“Va bene.” concesse allora la Contessa e sospirò, mentre il marito si metteva in piedi e riprendeva a passeggiare sotto al sole cocente, vagando senza una meta precisa.

Vedendo la madre da sola, Bianca prese coraggio e lasciò il gruppetto con cui stava finendo di consumare il rapido pranzo: “Perdonatemi...” disse, con un sorriso accattivante che gli altri accolsero con estremo favore.

Caterina vide la figlia che si avvicinava e fu sul punto di alzarsi per evitare quell'incontro, ma si sentì una vigliacca a pensare a quel modo, così restò ferma dove si trovava.

Bianca le si appollaiò accanto e cominciò, in tono vago: “Questo posto è davvero incantevole.”

La Contessa annuì, senza aprir bocca. Guardava il profilo della figlia e, con quella luce limpida, vi riconosceva in modo netto quello di sua madre Lucrezia.

Era felice che Bianca avesse preso qualcosa da lei. Anche se i suoi capelli biondi erano di una tonalità più scura dei suoi e gli occhi si erano fatti con gli anni di una tonalità tra il grigio e il blu molto particolare, ereditata chissà da chi, Caterina riusciva a rivedersi in lei più di quanto non riuscisse a rivedersi in nessun altro dei figli.

Tutti le dicevano che anche Livio e Sforzino le erano molto simili, in particolare nel taglio degli occhi e nelle forma del viso, e forse era vero, ma Bianca era di certo quella che più le era vicina.

Distogliendo lo sguardo per impedire alla sua mente di indugiare ulteriormente sul suo difficile rapporto coi primi sei figli, Caterina si trovò a fissare Giacomo che, ormai lontano, continuava nel suo peregrinaggio senza meta, il capo chino e pensoso e le gambe impegnate a fare lunghi passi, lenti e misurati.

“È vero che a fine settembre mio fratello Bernardino tornerà a vivere alla rocca?” chiese Bianca, a bruciapelo, con voce incerta e bassa.

La Contessa si voltò di scatto verso di lei. Ad averla colpita più di tutto era stata la scelta delle parole di Bianca. Aveva detto 'mio fratello'.

Che sapesse del programmato ritorno di Bernardino alla rocca di Ravaldino non sorprese Caterina più di tanto. Bianca era sveglia e di certo, quando aveva saputo che un nuovo precettore era stato assunto da sua madre, aveva fatto due più due e aveva capito il motivo di quella decisione.

“Sì.” rispose la Contessa, con calma: “Ormai ha quasi cinque anni, è bene che inizi a studiare come si deve. Deve imparare a leggere e a scrivere e deve essere educato esattamente quanto lo siete tu e i tuoi fratelli. Se anche il suo futuro lo portasse a essere un semplice soldato o un cavaliere, nella migliore delle ipotesi, è bene che sia istruito.”

Bianca ascoltava in silenzio, un'espressione neutra in volto. Caterina si chiese solo in quel momento quale sarebbe stata la reazione degli altri figli, quando avessero scoperto del ritorno a Ravaldino di Bernardino.

“Ricordatelo sempre – riprese la donna, cercando di non pensare anzitempo ai problemi che sarebbero sorti in autunno – l'istruzione è la base del successo di ciascuno di noi. L'ignoranza è come un macigno che non può far altro che trascinarci a fondo, portandoci ad azioni ignobili e vili.”

Caterina fu sul punto di portare come esempio Girolamo e la sua abissale ignoranza, ma si rese conto che, malgrado tutto, per sua figlia era comunque il padre e che quindi sarebbe stato troppo scorretto prenderlo ancora una volta come cattivo esempio.

Probabilmente Bianca avrebbe fatto quel collegamento anche da sola, senza bisogno di farla vergognare ulteriormente per la disgrazia di avere avuto un genitore come il defunto Conte Riario.

Inoltre la Contessa ragionò su come anche suo padre, il Duca Galeazzo Maria Sforza, fosse stato un uomo crudele e discutibile sotto un'infinità di punti di vista e Caterina lo sapeva, lo aveva sempre saputo, aveva visto coi suoi occhi di cosa era capace, aveva pagato in prima persona per i suoi errori. Eppure le dava comunque fastidio sentirne parlar male, dunque per Bianca doveva essere la stessa cosa quando qualcuno dileggiava il ricordo di Girolamo.

“Quando avrai dei figli – concluse la Contessa – assicurati prima di tutto che ricevano un'ottima isctruzione, tanto nelle materie umane, quanto in quelle della guerra e delle scienze e che sappiano muoversi nel mondo in cui vivono. È l'atto d'amore più grande che potrai fare come madre.”

Bianca, a quel punto, respirò pesantemente, passandosi le mani sulla gonna bianca, togliendo qualche filo d'erba che vi si era incollato.

Avrebbe voluto dire a sua madre che, per quanto fosse d'accordo con lei sull'importanza di una solida istruzione, era anche convinta che ci fossero anche altri modi per dimostrare l'amore ai propri figli.

Tuttavia si sentiva troppo in imbarazzo per dire una cosa del genere, perciò si limitò ad affrontare un altro risvolto del discorso: “Se mai avrò figli.” disse, in attesa di una reazione della madre.

“Ovvio – fece subito lei, notando con la coda dell'occhio come Bartolomeo Martinengo stesse parlando con Gian Antonio Ghetti, gesticolando in modo abbastanza vivace – se non ne vorrai, non vedo perché dovresti averne.”

“Se però dovessi amare mio marito e lui li volesse, sarebbe mio compito darglieli, vero?” chiese la ragazzina, pensando ad Astorre e provando un vuoto allo stomaco.

Caterina si accigliò, lasciando perdere Ghetti e Martinengo che parevano aver arginato le loro incomprensioni, e la contraddisse: “Un figlio è una cosa importante. Non bisogna metterne al mondo uno solo per compiacere un'altra persona. Fare figli non è un dovere.”

“Ma una moglie deve assecondare il volere del marito...” ribatté Bianca, esponendo, semplicemente, quello che le era stato insegnato negli anni da precettori e catechisti.

La Contessa strinse le labbra e spiegò: “Questo è quello che dicono, ma se tuo marito ti amerà davvero, non pretenderà da te nulla di più di quello che tu vorrai concedere.”

Bianca parve un po' confusa da quell'affermazione, ma non fece ulteriori domande. Nelle parole della madre avvertiva un astio poco conciliante e intuì come quell'argomento la rendesse suscettibile.

La ragazzina aveva capito fin da quando aveva coscienza che sua madre non aveva mai desiderato realmente lei e i suoi fratelli e quindi quelle parole, dette come un insegnamento, per lei suonavano solo come una nuova accusa al suo defunto padre.

Spinta dalle dichiarazioni della madre a ragionare sul valore dell'amore, dei figli e anche del matrimonio, Bianca si lasciò prendere da un attimo di sconforto, chiedendosi se mai avrebbe potuto provare un sentimento tanto forte come quello descritto dai poeti per uno come Astorre Manfredi.

Se anche sua madre le aveva promesso di far sciogliere il matrimonio non appena fosse stato necessario, la ragazzina cominciava a credere che Ottaviano avesse ragione anche su quel punto e che, alla fine, lei sarebbe rimasta la moglie del signore di Faenza per sempre.

“Quanto può essere forte, l'amore per un uomo?” chiese Bianca, deglutendo.

Caterina puntò le sue iridi verdi in quelle della figlia, attraversate, mentre parlava, da un tremito di inquietudine.

“Può essere davvero molto forte.” rispose la donna, laconica.

“Quanto?” insistette Bianca, mentre a qualche metro di distanza gli uomini della scorta, rifocillati dai salumi e dal vino, cominciavano a rimettersi in pista per riprendere la caccia: “Più di quanto è forte l'amore per un figlio? Meno? Uguale?”

La Contessa scosse piano il capo, in grande difficoltà. Voleva essere franca con sua figlia, eppure a parlare di certi argomenti si sentiva messa a nudo. Lei per prima non aveva ancora capito appieno cosa fosse l'amore e quali fossero i suoi limiti e i suoi difetti, quindi come poteva darle spiegazioni convincenti?

“Insomma – riprese Bianca, chiaramente decisa ad arrivare a una risposta esauriente – se voi doveste scegliere tra uno di noi, tra uno dei vostri figli e...”

Caterina seguì lo sguardo della figlia e vide che era corso – forse inconsciamente – al Barone Feo, che proseguiva la sua camminata centrifuga.

“Chi scegliereste?” terminò Bianca.

“E perché dovrei scegliere?” controbatté la Contessa, con un filo di risentimento che poco si addiceva a un dialogo pacifico tra madre e figlia: “Quello che hai fatto è un esempio assurdo. Non vedo perché mai dovrei essere costretta a scegliere tra uno dei miei figli e...” scuotendo con forza il capo, la donna si alzò e lasciò Bianca da sola sotto l'ombra delle fronde.

La giovane osservò la madre andare a passo spedito verso i soldati e mettersi a ridere e scherzare con loro come nulla fosse. La vide prendere le armi e mettersi d'accordo con Cesare per cercare una posta favorevole.

Poi la ragazzina tornò a guardare il Barone Feo e lo trovò intento a fissare la Contessa da lontano.

In quel momento provò quasi pietà anche per lui, perché l'amore che aveva trovato era condannato a una felicità solo parziale, o almeno così la pensava lei. Forse non aveva ancora avuto il privilegio di conoscere sua madre a fondo, ma Bianca era certa che la Contessa non sapesse amare appieno niente e nessuno, nemmeno se stessa.

Ricacciando tutti i suoi malumori dentro di sé, la ragazzina lasciò il cono d'ombra in cui aveva cercato un contatto con sua madre e si risistemò sul carretto, da dove si mise a osservare pacifica i cacciatori intenti a sterminare degli uccellini innocenti.

“Mia signora, non mi sento troppo bene...” disse Gian Antonio Ghetti, avvicinandosi a Caterina.

La donna, che aveva appena perso di vista una preda promettente, abbassò lo sguardo sul soldato e chiese: “Cosa vi sentite?”

“Non saprei... Forse è solo il caldo...” provò a dire l'uomo, asciugandosi la fronte con un gesto un po' affettato: “Vi spiace se rientro prima?”

La Contessa sollevò le spalle: “No, non c'è problema. Abbiamo altri uomini con noi, tornate pure in città senza pensieri.”

Gian Antonio ringraziò e, prima di andare al suo cavallo, raggiunse il Barone, che aveva finalmente deciso di provare a cacciare qualcosa.

“Devo rientrare a Forlì perché mi sento poco bene – gli disse, evitando il suo sguardo – vi chiedo di stare attento, al rientro. Anche se ci sono altri, di scorta, non mi sento tranquillo, di questi tempi.”

“Certo.” fece Giacomo, infastidito dal tono di Ghetti, che sembrava parlare con un povero inetto.

“State in fondo al corteo, al rientro, mi raccomando – proseguì Gian Antonio, sudando a profusione per l'agitazione – e tenete gli occhi aperti.”

Il Barone interpretò la fronte imperlata di sudore dell'uomo come un chiaro segno di febbre e così, tenendosi alla larga per evitare il contagio, assicurò in fretta: “Certo, certo, chiuderò io la fila, non abbiate paura, ora andate...”

Ghetti allora prese la sua cavalcatura e montò in sella. Per avvalorare la sua recita fece i primi metri a velocità controllata, come avrebbe fatto un vero infermo, ma poi, appena fu certo di essere fuori dalla vista e dal tiro d'orecchio del Barone e degli altri, spronò il suo cavallo con colpi vigorosi e violenti sui fianchi.

Ottaviano guardò di traverso la figura di Ghetti allontanarsi, conscio che quello era il primo tassello del piano che andava a porre le fondamenta per la buona riuscita della congiura. Adesso stava a lui far sì che al ritorno a Forlì il Barone se ne stesse il più possibile lontano dalla Contessa.

Se gli altri congiurati non sapevano quanto fosse pericoloso per la risoluzione rapida dell'omicidio la lontananza della Tigre, il Conte ne era vivamente cosciente. Perciò cominciò subito a pensare a un modo poco appariscente, ma efficace per far sì che al passaggio sul ponte dei Moratini lo stalliere fosse a debita distanza dalla sua protettrice.

Il pomeriggio trascorse in modo tranquillo e sul carretto le prede andavano via via ammucchiandosi, smentendo così il catastrofismo di Tomasoli, che aveva creduto che le chiacchiere dei cacciatori avrebbero resero la battuta del tutto infruttuosa.

Perfino Cesare era riuscito a catturare qualcosa e la madre si era profusa per lui in complimenti e incoraggiamenti che lo avevano fatto sentire fiero di sé.

Ottaviano, invece, era rimasto tutto il tempo chiuso nella sua bolla di ansia. Era stato così assorto nei suoi pensieri che a un certo punto aveva perfino accettato l'aiuto del Barone Feo.

Quando, infatti, il Conte era riuscito a ferire un fagiano molto grosso che aveva avuto l'impudenza di passare in volo proprio sopra la sua testa, era stato Giacomo a inseguire la preda che, sanguinante e malferma, aveva cercato la fuga volando agonizzante per qualche metro ancora.

Ottaviano aveva ringraziato il Barone, quando questi aveva torto il collo al fagiano al suo posto, per porre fine alle sue sofferenze, e aveva accettato di buon grado anche di vedersi restituire la freccia per mano proprio dell'uomo che odiava sopra ogni altro. Freccia la cui punta era stata ripulita dal Governatore in persona, per altro, che si era sporcato l'angolo del giustacuore solo per dimostrare la sua affabilità al Conte.

Caterina aveva seguito la scena con interesse e ne era rimasta molto soddisfatta, perché con quei semplici gesti di gentilezza Giacomo le aveva dimostrato di aver ascoltato le sue parole e di aver fatto uno sforzo per andare d'accordo con Ottaviano.

Era ormai pomeriggio inoltrato, quando i cacciatori si stancarono di quella battuta che, tutto sommato, era stata molto fortunata.

Il carretto era pieno di volatili pronti da spedire alle cucine e nelle faretre non c'erano quasi più frecce.

“Rientriamo, prima che faccia buio...” disse Caterina a uno dei soldati e questi cominciò a dar di voce a tutti affinché si avvicinassero ai cavalli e si preparassero per partire.

Mentre i tre figli della Contessa e gli uomini della scorta si affaccendavano per raccogliere da terra le ultime prede cadute, Caterina fece un cenno a Giacomo in modo che la raggiungesse in fretta.

Il ventiquattrenne non se lo fece ripetere e le corse incontro, controllando appena con la coda dell'occhio che nessuno – Ottaviano in particolare – lo stesse osservando con troppa attenzione.

Anche la Contessa lanciò uno sguardo agli altri e, vedendoli tutti abbastanza lontani, prese per mano il marito e lo portò con sé dietro al carretto. Piegò un po' le ginocchia e l'uomo la imitò, come se seguisse un riflesso incondizionato.

Quando entrambi furono celati dietro al legno scuro del carro, Caterina afferrò Giacomo per il laccetto del mantello che si era appena infilato in vista del viaggio, e, facendolo quasi sbilanciare, lo baciò.

Era un bacio veloce, leggero, tranquillo, uno di quelli di tutti i giorni, ma per il Barone fu come un'occhiata di sole in mezzo alla tempesta.

Prima di lasciare il nascondiglio provvisorio, la Contessa sorrise: “Hai visto? Alla fine ho trovato un posticino riparato anche qui, in mezzo a una radura.”

Una volta che tutti furono pronti per partire, Ottaviano si avvicinò a Bianca e sussurrò, perentorio e minaccioso: “Fai in modo che nostra madre salga sul carretto con te.”

Gli occhi della ragazzina corsero al fratello, che però si era già allontanato senza darle il tempo di ribattere. Con il presentimento vivido di essersi appena resa complice di qualcosa di terribile, Bianca andò subito dalla madre e le chiese di farle compagnia.

Caterina guardò con indecisione il suo purosangue, le cui froge si aprivano e si chiudevano di impazienza, e, a malincuore, assecondò la figlia, in parte per farsi perdonare per il modo sfuggente in cui si era comportata con lei negli ultimi tempi.

Così la comitiva ripartì quando il sole stava per scendere all'orizzonte e la luce feroce del pomeriggio si stava insanguinando con l'avvento della sera.

Caterina e Bianca, sul carretto, erano in testa al gruppo, seguite dalla scorta e da Cesare e Ottaviano. Come da previsioni, Giacomo era rimasto in fondo, ben felice di non doversi intrattenere in inutili chiacchiere con i figli della moglie.

Il passo dei cacciatori era tardo e lento e quando arrivarono in vista del ponte dei Moratini e di Porta Schiavonia era ormai sera.

Bianca aveva cominciato a cantare più o meno a metà strada e tutti gli uomini della scorta si stavano beando della sua voce, che negli anni si era fatta sempre più sicura e intonata.

Caterina l'ascoltava assorta, guardando il panorama e non si rese conto di quanto il corteo si fosse sgranato, nell'ultimo tratto di strada. Quando il carro era già alla porta, Giacomo non aveva ancora passato il ponte.

Il Barone non aveva fretta, anzi, sperava in cuor suo di arrivare a Ravaldino un bel po' dopo Ottaviano, in modo da non doverci aver più nulla a che fare almeno fino all'ora di cena.

L'andatura del suo cavallo era ciondolante e Giacomo aveva appoggiato mollemente le mani alla sella, perdendosi con lo sguardo nel fiume che passava tranquillo sotto al ponte. La voce dolce di Bianca che cantava una nenia molto nota accompagnava quel paesaggio tanto spettrale quanto affascinante. Il Montone frusciava tranquillo e il suo riflesso argenteo aveva un che di tragico che al Barone piaceva particolarmente.

Quando tornò a guardare la strada, reso di nuovo attento da un movimento repentino del cavallo, dovette stringere gli occhi per riconoscere chi gli si era parato davanti.

Appiedato e con una strana espressione in volto, davanti a lui stava Gian Antonio Ghetti, affiancato da quello che doveva essere un servo.

Giacomo spostò lo sguardo oltre le spalle di Gian Antonio e vide che il carro e i soldati erano già lontani. Il canto di Bianca non si sentiva quasi più e lo stesso si poteva dire dello scalpiccio degli zoccoli dei cavalli della scorta. Poi un bagliore improvviso attirò i suoi occhi da tutt'altra parte: il servo di Ghetti portava con sé un'alabarda.

Era un'arma molto strana, da portarsi appresso per difesa personale o per difendere il proprio padrone.

Tuttavia Giacomo fece finta di niente e disse: “Che c'è, Gian Antonio?” poi si ricordò di non aver visto il punto da cui l'uomo era giunto, così aggiunse: “Quando siete arrivato?”

Gian Antonio non rispose, ma fece un brevissimo cenno con il capo al servo che aveva accanto.

Il cavallo di Giacomo scartò di lato all'istante, ma il suo veloce movimento non fu sufficiente per sottrarre il cavaliere al bacio gelido della punta dell'alabarda diretta al suo fianco.

 

 
   
 
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