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Autore: stellumicans    22/02/2017    0 recensioni
480 a.C., la seconda guerra persiana si aggira minacciosamente attorno all'inutile ammasso di terra che è Psittalea, la minuscola isola più vicina a Salamina. In questo momento Athanasiade farebbe di tutto per avere la Grecia. Glice farebbe di tutto per avere lui.
//storia breve originale, tematiche LGBT, incompleta. i titoli sono in greco perché da piccola non mi abbracciavano abbastanza.
Genere: Angst, Romantico, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Antichità, Antichità greco/romana
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Con il tempo Athanasiade capì che ignorare Glice era inutile. Passavano tre ore della giornata insieme, oltre ai pasti e agli eventi pubblici, seduti su degli sgabelli ad ascoltare Cleito parlare e parlare di storia e scienza. Decise che provare almeno ad essere suo amico gli sarebbe stato vantaggioso: non si sa mai quanto un amico intimo possa essere d'aiuto. E Glice gli è stato d'aiuto, eccome.

Glice dimostrò da subito una passione per la recitazione e la poesia. Recitava diligentemente a richiesta di Cleito inni e passaggi omerici: il proemio, la morte di Patroclo, la lotta tra Achille ed Ettore. Anche il catalogo delle navi, se ne aveva voglia. Dopo le lezioni, passeggiavano per la città, per sgranchirsi le gambe, e Glice si divertiva a scegliere oggetti e persone a caso e inventare piccole poesie sul momento. Diceva "Guarda qui!", come se stesse per fare qualche folle acrobazia, poi puntava verso un usignolo o un narciso e poetava. Sembrava che tutto gli venisse al volo, senza neanche doverci pensare. Finiva con un grande inchino e si girava verso Athanasiade sorridente, aspettando la sua reazione.

«Guarda», puntò, un giorno, verso una fanciulla che stava mangiando dei fichi, e si schiarì la voce.*

 «Lei dice
"Lui mi riempie la bocca di nettare e succo;
spreco tutti i miei soldi per lui."
"Chi" chiedo, "il tuo uomo?"
"No, un fico."»    

Con l'età le poesie diventarono più complesse, più melodiose, più sconce. Anche i soggetti diventarono più seri: il mare, la guerra, la morte. Recitava come se conoscesse a profondo ogni male. Cominciò a scrivere anche poesie su Athanasiade, sulle sue labbra, sui suoi occhi – cosa che preoccupò non poco i genitori di entrambi – ma era bravo, non c'era niente da dire, e Cleito lo incoraggiava a scrivere, qualunque fosse il soggetto.

Diventarono entrambi, a detta delle vecchie balie e le fanciulle del villaggio, dei bei ragazzi. Athanasiade crebbe, diventò alto quanto suo padre. Il suo viso perse l'adipe della fanciulleza e diventò aspro, scolpito nella pietra, con dei zigomi severi e le labbra carnose perennemente imbronciate, proprio come Athanasio. Portava i capelli corvini – prediletti dalle poesie di Glice – lunghi sulle spalle, legati solo da sottili fasce di lino. Era più in carne dalla nascita, ma si allenava ossessivamente per perdere il grasso in più. Non si sarebbe mai permesso di diventare debole.

Non come Glice, che aveva lasciato che quello strato di grasso si depositasse tranquillamente. A dispetto del padre e del nonno, evitava l'esercizio come la morte. Non era piatto e teso ad ogni punto come Athanasiade, ma soffice, come se fosse ancora bambino. Era cresciuto poco, cosa che Cleito attribuiva alla terribile nutrizione, ma non sembrava interessarsi. Non sembrava interessarsi di niente. Preferiva oziare tutto il giorno, scrivendo poesie e cantando. Passava una mano tra i capelli corti e bruni e intonava inni e cantilene da mattina a sera, dilettando l'intero villaggio.

Lentamente la presenza di Glice non gli dispiacque più; certi giorni addirittura non vedeva l'ora di incontrarlo e ascoltarlo blaterare. Glice gli insegnava a suonare la lira e lui gli spiegava nozioni scientifiche e teorie filosofiche. Ma rimase comunque uno stolto, e Athanasiade si trovava spesso a doverlo proteggere dalle burle degli altri o dalla propria idiozia.

Un giorno, quando avevano ormai quattordici anni, durante una lezione particolarmente noiosa di Cleito, Glice sussurrò ad Athanasiade «Ehi, dopo ti faccio vedere una cosa figa, va bene?»

Athanasiade sapeva in cosa consistevano, per Glice, le cose "fighe" – una conchiglia rosa trovata per spiaggia, un piccione mezzo morto, una pietra che assomiglia ad un pene – e così non fu sorpreso quando, dopo la lezione, vide Glice correre velocemente verso casa e tornare con una manciata di candele.

«Sono magiche» disse, svuotando la sua tunica e rovesciandole per terra.

«Certo che lo sono.»

«Seriamente! Fanno avverare i desideri. Ne accendi una, intoni una preghiera agli dei e le lasci accese per tutta la sera. E quando tutte si spengono, poof! Ricevi quello che hai desiderato!» Spiegava con così tanto entusiasmo che Athanasiade non potè fare a meno di sorridere.

«Ah, sì? E chi te le ha date?»

«Filandro.»

Athanasiade scoppiò a ridere. «Allora non funzionano proprio.»

«Eh dai! Ti prego, proviamoci almeno.» Glice incrociò le braccia e si imbronciò, guardandolo con occhi da cervo. Non potè dire di no.

Si nascosero nel dormitorio vuoto di un servo. Accesero le candele – Athanasiade accese le candele, non si fidava né di Glice né del fuoco – e si sedettero a gambe incrociate davanti ad esse. «Adesso cosa si fa?» chiese. A Glice piaceva quando era qualcuno a chiedere spiegazioni a lui, e non viceversa.

«Devi pregare per qualcosa che desideri tanto. Guarda.» Si mise in posizione di preghiera e chiuse gli occhi. «Oh Dei, desidero tranquillità e pace nell'animo. Proteggetemi dai mali, dal Male, e da chi mi vuole male.» Riaprì gli occhi e si girò verso Athanasiade. «Vedi?»

Sorrise di nuovo, inconsciamente. Che dolce. Che stupido. Ma non lo sorprendeva, era da lui fare così: desiderare qualcosa che aveva già. Qualcosa di inutile. Athanasiade si girò anche lui verso le candele e chiuse gli occhi, tanto per accontentarlo. «Oh Dei, desidero...» esitò. Nel silenzio della camera sentiva il suo fiato impaziente. «Desidero la Grecia.»

Glice scoppiò a ridere. «Dai, si serio!»

«Lo sono.» Rise anche lui, e continuò tra sogghigni «Dunque se me la potreste dare, sarebbe davvero figo. Grazie.»

Glice gli diede un pugno sulla spalla. «Sei uno scemo.» Si alzò da terra e tese un braccio ad Athanasiade. «Andiamo, le dobbiamo lasciare accese per tutta la sera.»

«Scherzi? Cazzo, no» disse Athanasiade, bagnandosi le dita e afferrando lo stoppino di ogni candela una ad una per spegnerle, «questa roba è pericolosa.»

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*basato su una poesia di Amir Khusrow

   
 
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