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Autore: esmoi_pride    23/02/2017    3 recensioni
"Storie di Saab" è un medieval fantasy slash nato nel mondo di Pathfinder che racconta le vicende della famiglia imperiale dell'Alba di Saab, città devota al dio minore Saab e dalla recente fondazione, luogo di grandi promesse e di speranza. E' l'ideale se siete alla ricerca di drow poco ortodossi, elfi carini, slash andante e una misteriosa storia sulle origini del Dio e della sua città, da scoprire capitolo dopo capitolo.
E' una storia che si domanda cosa è giusto e cosa è sbagliato, e lo scopre attraverso le esperienze di Vilya Goldsmith, un ragazzo che non sa se potrà mai riuscire a diventare un uomo. Lo scoprirà proprio a Saab, città creata sotto antiche rovine secondo la missione di suo padre Azul: riunire la gente oppressa e discriminata in un solo popolo che guadagni forza e unità, e che accolga tutti quelli come loro. Intrecci tra molteplici personaggi mostreranno una città ricca di diversità, e le azioni di Vilya ci porteranno a chiederci quanto possa essere doppia la linea estrema dove le cose non sono più giuste, né sbagliate, e quanto spesso potremmo finire per percorrerla.
Genere: Dark, Erotico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi, Slash, FemSlash
Note: Lemon, Lime | Avvertimenti: Contenuti forti, Incest, Tematiche delicate
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Storie di Saab'
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Ciao a tutti! Contrariamente a quanto detto nel capitolo precedente, non ho cambiato titolo e descrizione della storia XD ad ogni modo ci sono dei cambiamenti. In particolare ho aggiunto i 'contenuti forti' agli avvertimenti della storia, soprattutto in vista di questo nuovo capitolo che presenta delle scene che potrebbero non piacere a tutti - per detti contenuti. Inoltre questo capitolo è molto più lungo degli altri, ma anche molto intenso. Spero che questo vi faccia solo piacere. Se ho..... esagerato, leggetelo pure a puntate come se fossero due capitoli in uno e fatemelo sapere XD Vi lascio alla lettura del settimo capitolo :)


 


 
Contrattazione.






 
Le sottili dita di Azul si infransero tra i capelli ramati dell’umano e glieli pettinarono all’indietro finché non toccarono il cuscino su cui era poggiata la nuca del rosso. Le labbra carnose del drow si dischiusero nuovamente per chiudersi attorno a quelle di Imesah, e la lingua avanzò a incontrare la sua. Ad occhi chiusi inspirò l’odore di lui. Nel letto dove si erano appena svegliati era un odore intenso che ne impregnava le lenzuola, riscaldate dai loro corpi. Azul era sopra di lui, accolto tra le sue gambe. Si inarcò morbidamente in un movimento di fianchi e la linea della schiena si flesse, mentre le spalle si tirarono con sé le scapole nello stringersi. Le sue dita strinsero le ciocche rosse dei capelli di Imesah. Gli trattenne la nuca sul cuscino e restò sulla sua bocca a soffocarlo piano in un bacio lento e intenso, che non finiva mai, con il naso storto affondato sulla sua guancia rosea.

Sentì le mani callose di lui affiorare dalle lenzuola e scorrergli lungo i lombi in una pigra risalita verso la spina dorsale. Lo lambirono appena sotto le fossette, là dove la pelle era stata tatuata con un pigmento sgargiante. Ad aprire la strada verso la piacevole curva della schiena era un teschio azzurro, luminoso, su due sciabole incrociate. Il sottile lucore che emanava suggeriva che si trattasse di un marchio magico. Ma le dita non percepirono differenze quando passarono di lì, dove la pelle era liscia come sul resto del corpo. Imesah piegò il capo di lato e rimbeccò Azul con un movimento della mascella dalla barba incolta, dischiudendo di nuovo le labbra sulle sue. Azul fece lo stesso. Piegò il capo dall’altro lato e si spinse piano contro la lingua dell’umano in un ennesimo bacio. Si lasciò andare a un piacevole fremito quando sentì le mani di Imesah arrivargli a metà schiena. Il loro calore gli trasmetteva un senso di sicurezza e di protezione. Lo faceva sentire a proprio agio.

“Mh.” Si fece sfuggire un roco gemito soddisfatto, soffocato nel bacio. Si sentì tirare tra le cosce e si accorse di essersi eccitato sotto il caldo tocco delle mani del compagno. Con quel sesso schiacciato tra i loro corpi, Imesah doveva essersene accorto senza dubbio. Ma il drow finse di non essersene reso conto e continuò a baciarlo. Si gustò il sapore della sua lingua, senza staccare mai la bocca da lui. Infieriva senza sosta, non riusciva a saziarsene, ma era paziente e cercava di gustarselo lentamente, senza fretta. Comunque l’umano non si sarebbe consumato. Non era abitudine degli umani, per quello che aveva scoperto nei suoi centosettant’anni di vita. Invece rischiava di privarlo di aria e farlo morire soffocato, ma ogni tanto si assicurava di sentire il rumore affannato del respiro che il rosso soffiava via dalle narici come faceva anche lui. E poi, finché l’altro rispondeva con la lingua e continuava ad accarezzarlo, significava che era vivo. Una pulsazione dell’erezione turgida di lui sulla propria coscia gli rese molto chiaro l’ultimo punto.

Si sentì soverchiare dalle mani di Imesah quando quelle superarono le tre cicatrici da perforazione all’altezza del polmone sinistro e scorsero lungo le piccole scapole del drow così da coprirle del tutto. Senza fermarsi risalirono ancora più su e i polpastrelli si premettero piano nelle spalle strette in cui era incassato il collo.

“Mph…” l’umano gemette e corrugò la fronte, concentrato.

Azul premette le palpebre chiuse e si lasciò sfuggire un lamento bisognoso. “Mmmh…” Stavolta dalle labbra di Azul sigillate a quelle di Imesah affiorò un verso acuto. Imesah, dopo tanti anni con quell’uomo, sapeva cosa volesse dire quella tonalità di voce più disorientata. Gli stava piacendo. Molto. E gli chiedeva di continuare. Si può dire che lo stesse pregando. Spinse la faccia contro quella del compagno, lo costrinse a far indietreggiare la propria. Le dita affusolate del drow lo tenevano fermo per i capelli. Si sentì tirare quando si sporse. Piegò il capo dall’altro lato, così Azul fece lo stesso e si accanì, subito dopo, di nuovo nella sua bocca, assaporando ancora la sua lingua con la propria.

Uno scatto morbido dei fianchi stretti di Azul ne spinse l’erezione sull’ombelico dell’umano in una chiara pulsazione, ma ancora una volta Azul finse di non essersene accorto, e anche Imesah fece lo stesso. La sua mano destra allentò la presa sulla piccola spalla del drow e ne scorse la pelle liscia verso il collo. Le dita premettero sulle prime vertebre. Lì poterono sentire la replica ruvida di un marchio impresso a fuoco. All’imbocco del collo c’erano i resti di un ferro arroventato, modellato come un cerchio al cui centro si trovavano due tibie, sovrastate da un altro teschio. Vi pressò i polpastrelli di indice e medio senza indugio nel passarvi sopra, con una pressione tale da massaggiare i nervi del collo mentre risaliva lungo la nuca dai capelli sciolti. Le unghie di Imesah affondarono tra di essi e con il pollice gli spinse la nuca ancora più di lato per rincarare il bacio. Salendo ancora un poco chiuse il pugno all’attaccatura dei capelli e si soffermò così, per concentrarsi solo sulla bocca del drow.

Azul lasciò i capelli rossi dell’umano e scese lungo il collo muscoloso. Quando arrivò ai suoi pettorali ampi poté pressare l’intero palmo su di essi senza coprirli per intero. Non aderivano del tutto alla pelle chiara dell’uomo per via dei peli, dello stesso colore dei capelli. Gradualmente trasferì il peso del proprio corpo sulle mani e premette sui pettorali. Imesah percepì il suo tentativo di distaccarsi ma lo trattenne ancora per qualche secondo nel bacio, rafforzando la presa sui capelli, prima di allentarla e lasciarlo andare. Le mani dell'umano si abbandonarono sul compagno che drizzava il busto. Sulle spalle, scesero lungo le clavicole man mano che lui risaliva, ricadendo poi sul petto nervoso al cui centro, appena sotto le clavicole, era stato, tempo fa, inciso in modo permanente un occhio nella carne, con quella che sembrava una ferita da lama.

Azul si sistemò a cavalcioni sull’ombelico dell’umano. I suoi enormi occhi gialli dalla pupilla verticale erano socchiusi con le palpebre calate su di lui, e ricambiavano lo sguardo di Imesah, diretti. Aveva le labbra umide di saliva. Il petto si abbassava piano in un movimento sinuoso come quello di un serpente mentre espirava via dalla bocca dischiusa. Le dita di Imesah sfiorarono i due anellini d’oro puro che l’uomo indossava ai capezzoli. Contrastavano sulla pelle scura, e sui capezzoli ancora più scuri. Azul si poggiava agli addominali dell’umano, vicino al proprio bacino e all’erezione che affiorava dalle cosce ben aperte, dritta e turgida. Quella si protendeva, ma la concentrazione di Azul era su Imesah. Le narici ne catturavano l'odore, gli occhi divoravano le espressioni del suo viso e le mani, spalmate sulle curve del cavaliere, assaggiavano la morbidezza della sua carne.

Imesah, braccato dal piccolo drow, lo guardava dal basso, disteso sotto di lui, inchiodato spalle al letto. Le mani scesero più giù e percorsero gli addominali dell'uomo sopra di sé. Azul si drizzò di nuovo e si inarcò sul suo tocco, protendendosi in avanti insieme al proprio sesso. Non distolse lo sguardo da lui, ma dischiuse di più le labbra. Un accenno dei denti appuntiti affiorò da quella cavità. L’indice di Imesah cadde sul terzo anello d’oro di Azul, sull’ombelico, prima che il palmo della sua mano sfiorasse il glande del drow. Lo sguardo della creatura scivolò in basso e divenne lucido, e lui si strinse nelle spalle. Il bacino si strofinò in avanti verso la mano che accolse, calda, l’erezione dell’altro tra le dita per iniziare a massaggiarla su e giù.

“Ah…” Azul gemette. Rialzò gli occhi su quelli di Imesah. L’umano poté vederli umidi e coinvolti. Il drow iniziò a sollevare il bacino, ritmicamente, nella mano.

“Nh…”

Azul sentì i capelli rizzarglisi sulla nuca dal piacere. Piegò piano il capo all’indietro e si lasciò andare alle carezze dell’altro, muovendo il bacino su e giù in un ritmo lento e intenso.

“Ah…” gemette di nuovo “Imesah…”

La mano sinistra del rosso gli superò la coscia e cercò di chiudersi attorno alla natica destra. La stringeva man mano, facendosi sentire.

“Oh…” dalla bocca aperta di Azul uscì un altro verso di piacere, più sorpreso. Aveva chiuso gli occhi e piegato la testa in avanti. I lunghi capelli grigi, sciolti, finirono per nascondergli il viso.

“Ti piace?” Chiese Imesah, a mezza voce. La stanza era silenziosa, a parte il rumore dei loro corpi sulle lenzuola e dei loro versi, e quella domanda risuonò sulle pareti senza che l’umano dovesse alzare la voce per farsi sentire.

“-Sì…” Ammise Azul subito dopo aver deglutito dalla foga – anche se si spingeva ancora piano nella sua mano. Scese e risalì un’ennesima volta. Le sue unghie premevano nella pelle chiara dell’umano, che invece ritirò la mano fino all’anca di Azul. Abbandonò anche il suo pene, inumiditosi sulla punta, per prendere l’altra anca. Lo spinse giù così da farlo sedere su di sé e poi, tenendoselo addosso, si rotolò sul fianco per stenderlo supino sul letto e sovrastarlo. Istintivamente l’altro, disteso sotto di lui, cinse le braccia toniche attorno alle spalle ampie dell’uomo; lui gli prese i polsi e si levò quelle braccia di dosso per inchiodargli le mani sul cuscino, oltre la nuca, con la mano sinistra. Così il drow era a gomiti sollevati sopra la testa, in una posa vulnerabile che mostrava le ascelle e protendeva il petto in avanti. Ma la muscolatura non era tesa e le braccia, né il resto del corpo, si opponevano, in una lasciva arrendevolezza.

Imesah rimase a guardare l’uomo, che era sollevato su di lui con il braccio sinistro teso, sul quale aveva trasferito parte del peso. Azul ricambiava il suo sguardo. Sembrava sfidarlo in silenzio. Imesah adagiò la mano destra su un suo pettorale e gli sfiorò il capezzolo con due dita. Il corpo del compagno reagì velocemente inarcando la schiena per offrirsi alle sue carezze. Continuò ad accarezzarlo per inturgidirlo. Azul socchiuse gli occhi finché non si ridussero a due fessure umide, e sollevò il mento.

“Mh…” Di nuovo, il gemito di Azul era acuto e bisognoso. La mano sinistra di Imesah lo sentì stringere i pugni. La destra smise di torturarlo e scese sulla pelle liscia. Superò l’ombelico inanellato che si era offerto a lui con un protendersi dei fianchi, e chinando la spalla scivolò oltre per infrangere le dita tra i peli pubici. Azul gemette di nuovo e l’onda che animava il suo corpo scese insieme con la mano dell’umano per protendersi con il bacino. Il compagno avvolse l’erezione scura nella mano e tornò a masturbarlo. Sentì tirare i muscoli delle braccia di Azul che si tendevano per sottrarsi alla sua pesa.

“Ah!” Esclamò l’uomo che stava sotto, il gemito gli venne strappato dalle labbra. Il suo bacino non poté fare altro che assecondare il ritmo del palmo di Imesah, cercando con disperazione di convincerlo ad andare più veloce con degli scatti affiatati.

“Mmmh!” I versi più alti resero chiaro a Imesah che lui stava iniziando a scaldarsi sul serio. Abbandonò la sua erezione, con un “Ah!” insoddisfatto del drow. Avvolse i suoi testicoli e li massaggiò intensamente, mentre i suoi occhi verdi erano puntati alla sua faccia e coglievano tutte le sfumature di piacere che Azul gli concedeva. La faccia di Azul era contratta; appena più rilassata nel sentirsi vezzeggiare in quel punto piacevole. Ma quando l’umano scese ulteriormente e pressò con indice e medio uniti sul perineo, Azul si morse il labbro inferiore con i denti appuntiti e le rughe delle sopracciglia crearono un profondo solco straziato e compiaciuto sulla fronte mentre tentava, invano, di trattenere un sentito e forte “NH!” prima di piegare di nuovo la nuca all’indietro e rivelare il punto vulnerabile del collo. Imesah ne approfittò: chinò il la testa e glielo morse piano, per poi succhiarne la pelle. Si risollevò dopo poco per scrutare le espressioni sul viso del compagno.

Lo sguardo attento e inespressivo considerava le emozioni che gli dichiarava con i suoi fremiti di piacere ininterrotti. Un osservatore poco avvezzo avrebbe detto che Imesah non stava provando assolutamente niente, che i suoi gesti erano sapientemente calcolati e privi di qualsiasi trasporto, con il solo scopo di manipolare l’uomo sotto di sé e ridurlo in condizioni miserabili con le sue piacevoli torture. Azul, invece, facendo capolino con lo sguardo tra le piccole lacrime che gli si erano imperlate sulle palpebre, riuscì a scorgere in fondo al suo sguardo la fame e la subordinazione. Le dita di Imesah scivolarono attorno al suo sfintere e iniziarono a massaggiarlo intensamente, pressando già sui muscoli per provarne la tensione. Azul strizzò le palpebre e sentì le lacrime bagnargli le ciglia, e un lungo gemito lamentoso affiorò dalla sua bocca aperta. Si inarcò contro le sue dita. Sentì un calore bruciante montargli nel corpo. Voltò il capo a sinistra e lo affondò contro il proprio braccio. Il naso si strofinò sul tricipite.

“Imesah…” singhiozzò. Le dita gli entrarono dentro e lo penetrarono senza fermarsi fino alle nocche. Gli strapparono un altro gemito alto. Imesah non smetteva di fissarlo. Abbassò lo sguardo sui movimenti serpeggianti del corpo di Azul che scombinavano le lenzuola del letto, e al suo bacino che, fremendo e tendendo i muscoli di glutei e cosce, cercava di reagire e muoversi attorno a quelle dita ferme.

“Nh!” Azul trattenne un altro gemito di sforzo tra i denti. Cercò di farsi forza tirandosi verso il cuscino dove l’umano lo teneva ancora prigioniero, in un piegare delle braccia, e Imesah ritirò le dita per metà per tornare a penetrarlo e iniziò a muoversi dentro di lui. Lo fece abituare alla larghezza delle dita, ne allentò i muscoli dello sfintere finché quelli non si rilassarono e Azul venne pervaso da scosse di piacere. Quando Imesah poté sentirlo rabbrividire uscì con le dita e gli allargò le cosce per sistemarsi meglio tra esse. Il drow sentì il suo glande pressare presente contro la propria apertura e la mano spingere la base della coscia sinistra all’indietro per tenerla ferma, così che lo sfintere fosse alla sua mercé. Si offrì a lui, si protese per accoglierlo, ma l’umano non entrò. Aprì gli occhi per fissarlo.

“Imesah…” gemette.

Imesah inclinò il capo. I capelli mossi ondeggiarono.

Azul rimase a guardarlo, dal basso. Si protese ancora, ma fu inutile. Non riusciva a farsi penetrare.

Continuò irreprensibile. L’altra opzione sarebbe stata pregarlo. E non l’avrebbe fatto. Imesah lo vide premere le palpebre e corrugare la fronte nell’espressione di disperazione e di desiderio che si formava sulla sua faccia, tra i singulti. Si intenerì, anche se da fuori non era cambiato nulla. Calò su di lui, gli sfiorò il naso con il proprio. Ad occhi chiusi sfiorò le labbra del drow con le proprie.

Con titubanza l’altro si protese il giusto per far aderire le labbra alle sue, e mentre Imesah lo catturava in un bacio quasi non si accorse dell’erezione che gli scivolava dentro, rendendosene conto solo quando ormai la punta era entrata e il resto stava venendo stretto tra le sue carni. Si piegò e urlò nella bocca di Imesah che lo ammutolì e mosse il bacino avanti e indietro, arrivando fino in fondo, nei punti più erogeni che fecero gridare di nuovo il drow. Con la mano destra Imesah teneva saldamente la sua coscia contro il torace, e ad ogni affondo lo spingeva verso la testiera. Con la sinistra lo teneva ancora inchiodato con i polsi al cuscino.

“MH! Mh!”

Imesah si staccò dalla bocca di Azul per esalare un sospiro spezzato, un brivido. Così Azul fu libero di gridare di piacere.

“AH!”

Le sue grida arrivarono alle orecchie dell’uomo e ne fecero vacillare la lucidità. Sentì la pelle accapponarsi, l’erezione pulsare pericolosamente dentro l’altro, e affondò dentro di lui senza pensarci.

“Mh! Uh…”

Si lasciò sfuggire un gemito di piacere, ma non cedette. Continuò a muoversi dentro di lui con sicurezza anche se, dai fremiti che gli afferravano la schiena, era evidente che stesse trattenendo l’orgasmo. Azul a sua volta si protendeva verso di lui per sentirlo fino all’ultimo centimetro, ogni volta, con piccole lacrime di piacere che spuntavano dalle ciglia e le umide labbra dischiuse occupate da versi pieni.

Le spinte si assestarono in un ritmo più frenetico. Entrambi non capirono più niente. Imesah si serrò dentro di lui e i suoi ultimi affondi uscivano appena fuori dall’altro prima di raggiungere nuovamente il punto più erogeno. Azul venne sul proprio ventre in una contrazione piacevole e dolorosa dei muscoli mentre le lacrime gli rigavano gli zigomi, e Imesah si liberò due spinte dopo, dentro di lui, dandosi finalmente appagamento. Sentì una scarica di piacere straziargli i lombi mentre lo faceva suo.

I muscoli, una volta tesi, si indebolirono. Si accasciò sul corpo più piccolo del drow che si era ormai già rilassato e aveva chiuso gli occhi. Lui strattonò la presa di Imesah ai polsi. Cercava sempre di liberarsi subito dopo, quando lo facevano così. Una volta finito di fare l’amore non gli piaceva la sensazione di essere legato. Imesah se ne sarebbe infischiato se non avesse avuto una vaga idea del motivo di quel suo capriccio, ma ce l’aveva, e perciò poteva solo sbrogliarlo dalla presa.

Una volta libero, Azul si rasserenò del tutto e lasciò che il corpo dell’umano lo coprisse come un pesante piumino. Vi posò le mani sopra in un tocco debole. Una volta chiusi gli occhi, gli si riconciliò il sonno. Lo stesso per Imesah, e stava proprio per riaddormentarsi quando sentì bussare alla porta della sua stanza.


*



Asia si teneva al riparo dalla luce del sole sotto il tetto della caserma. Era abbagliata dai raggi solari che picchiavano sul campo di addestramento di fronte a lei. Gli abiti scuri li assorbivano e le davano la raccapricciante sensazione di stare bruciando. Aveva l’espressione contratta, dalle sottili sopracciglia aggrottate e lo sguardo penetrante abbassato nell’unico punto non toccato dal sole: il tomo che la ragazza tratteneva contro il piccolo petto.

“Si tratta di un caso speciale.” La voce della Gran Maestra si diffuse alle orecchie di chi aveva vicino e lo raggelò per un momento, facendogli dimenticare del calore del sole sulla sua pelle.

“Sì!” Si affrettò a convenire un grosso uomo dai corti capelli castani chiuso in una divisa di cuoio. Era accanto a lei, poco oltre la protezione del tetto. Un paio di spallacci di metallo rendevano ancora più imponenti le spalle larghe. “Abbiamo mandato a chiamare il Cavaliere, vedrete che faremo presto. Non ci fa piacere trattenervi.”

“Avete chiamato il Cavaliere?” Un sopracciglio moro della ragazza si inarcò, dando l’unico accento all’espressione rigida. Se traspariva altro dal suo viso, si sarebbe trattato sicuramente dell’irritazione nel sentirsi andare a fuoco. “Non ne sarà contento. I reggenti hanno la mattina libera di azumeridio.”

“Già…” L’uomo si grattò la nuca e lanciò un’occhiata dietro di sé, al campo di addestramento lontano circa quattro metri. Vide il Comandante Ra’shak passeggiare senza fretta, con le mani dietro la schiena nuda. Si trovava appena prima della recinzione dove era stata installata una lunga passerella di legno, con un tetto, che percorreva quasi tutto il perimetro del campo. Qualcosa si piantò davanti alla vista dell’uomo e gli impedì di continuare a spiare Ra’shak.

“Perdonatemi se non indosso l’armatura.” Disse la cosa con voce piatta e familiare. Il castano indietreggiò e trovò gli occhi verdi del Cavaliere. Avevano l’aria annoiata di una persona a cui non importava molto di ciò che aveva attorno.

“Questi vice.” Commentò Asia, facendo trapelare appena il rimprovero dal tono di voce incolore. “Chiamano la corte in piena mattina di azumeridio e la costringono a sciogliersi sotto il sole. Non nascondete il vostro fastidio, Cavaliere.”

Imesah spostò le iridi dagli occhi scuri del vice fino a quelli rossi della Gran Maestra senza che la sua espressione cambiasse. Tornò sul vice e sbatté le palpebre. Soldato, a disagio, spostò il peso del corpo da un piede all’altro.

“Sapete che eseguo solo gli ordini del Comandante. Avanti, andiamo.”

Quando il vice e il Cavaliere si incamminarono verso Ra’shak Asia dovette seguirli. Fu costretta ad abbandonare il suo riparo e venne inondata dalla luce del sole. Tenne gli occhi rossi socchiusi e fissi sul proprio tomo. Quando finalmente raggiunsero la passerella adombrata, Asia rilassò i muscoli irrigiditisi dal disagio e posò gli occhi sullo spazio scuro nel mezzo della distesa di sole. Ra’shak aveva lo sguardo severo puntato sui cadetti prossimi. Uomini e donne adulti che si destreggiavano con le spade; quelli che aveva davanti in particolare, un’umana e un elfo, avevano incrociato le spade.

Si soffermò freddamente sull’ultimo e interruppe il passo. L’elfo scattò in avanti e grazie al suo peso infierì sulla donna a tal punto da farla inginocchiare e farle sfuggire l’elsa dalle dita. Lei gemette nel venire disarmata e si resse con le braccia tese sul terreno polveroso. L’elfo lasciò che la spada fendesse l’aria in un ridoppio verso sinistra e poi alzò la spada con l’intenzione di minacciarla in un colpo dallo stesso lato e dall’alto verso il basso. Ma prima di poterlo fare il piede dell’umana scivolò in avanti e alzò la polvere negli occhi dell’elfo, strisciando lo stivale in un semicerchio. L’elfo gridò colto alla sprovvista, incapace di vedere. La femmina chiuse il pugno sinistro che venne avvolto nell’altra mano, piegò il braccio e puntando il gomito verso la pancia dell’avversario si spinse in avanti con quasi tutto il suo peso. Lo fece cadere all’indietro, per terra, con un gemito soffocato. Lei si raddrizzò ansante, diede un’occhiata al maschio sconfitto e tornò indietro per recuperare la spada.

I muscoli di Ra’shak, evidenti e tesi sotto la pelle, si rilassarono appena. Riprese a camminare così da superare i due e con lui si incamminarono anche Asia, Imesah e Soldato.

“Come se la cavano gli allievi?” Chiese Imesah con gli occhi fissi sul jaluk. Ra’shak serrò le labbra in una smorfia che il vice conosceva bene. Era il suo più genuino e tipico disprezzo.

“Sono una banda di miserabili mammolette, Cavaliere.” Rispose il jaluk senza peli sulla lingua. Il tono di voce faceva trapelare la delusione da ogni parola colorita dell’accento drow.

“Il Comandante sta esagerando.” Lo interruppe Soldato, diretto a Imesah “I ragazzi si allenano duramente.”

Ra’shak fermò il passo e si voltò verso gli altri, riportando le braccia accanto ai fianchi.

“Non accetto che tu metta in ridicolo le mie doti di giudizio, Soldato.”

La voce giunse perentoria e gli occhi rossi fulminarono quelli scuri del vice – che distolse lo sguardo per accontentarlo. Accanto a loro, nel campo, un grosso umano aveva appena rivoltato l’avversario mezz’orco come un calzino servendosi delle sole mani nude e di un’agilità che rendeva del tutto vano il suo utilizzo dell’ascia bipenne.

Ra’shak avanzò verso i tre e puntò gli occhi su Imesah.

“Non ho una conoscenza diretta delle strategie politiche del Regno. Ma so che anche se voi e Valentino cercate di mantenere rapporti pacifici con gli altri regni, la tensione è palpabile. Nessun regnante si compiace della scia di cittadini che passano dalle loro mura alle nostre – cittadini per di più proficui, del ceto basso, il cui denaro viene trasferito nelle sacche dei nobili spesso e volentieri. Gli stiamo risucchiando la linfa vitale. E poi, la merce rubata dai nostri ladri…”

“La questione con i ladri è molto chiara.” Lo interruppe Imesah, alzando le braccia e portando i palmi verso l’alto. Dietro di lui passò il mezz’orco che aveva appena abbandonato il recinto, lasciando l’umano solo ad asciugarsi il sudore, appoggiato alle travi. “Siamo stati riconosciuti non responsabili, non possiamo essere a conoscenza della provenienza delle merci che vengono scambiate, possiamo solo gestire ciò che circola all’interno del nostro Regno.”

“Cosa se ne fanno, i Signori, della contrattazione?” Ra’shak alzò la voce. Un tonfo secco dello stivale lo portò ad un metro scarso dal Cavaliere. La minaccia paventata da quei suoni fecero voltare l’umano verso di loro e resero chiaro il motivo per cui Ra’shak non aveva una carica diplomatica. Soldato e Asia fecero un passo indietro per via del loro istinto di sopravvivenza, che ad Imesah, evidentemente, mancava. “Non rappresentiamo una minaccia ai loro occhi, non ci temono: se vogliono schiacciarci prendono la nostra esenzione dalle responsabilità, ce la ficcano nel culo e ci rendono la loro lurida puttanella.” L’espressione di Ra’shak era ormai contratta in una smorfia di rabbia. Ma Imesah non retrocesse.

“Peccato che serva una giustificazione per tutto questo, Comandante. Viviamo in un mondo civile.”

“La troveranno, Imesah.” Ra’shak volle essere chiaro su quel punto. Fissò bene l’umano negli occhi. “E quando l’avranno trovata noi saremo ancora qui,” il braccio nudo del jaluk si alzò per indicare gli allievi nel campo “a insegnare ai ragazzi a impugnare un’arma. Datevi da fare con le difese e permettetemi di intensificare l’addestramento.”

“Ra’shak, l’addestramento è già intenso.” Soldato si permise di riaffiancare Imesah, sulla difensiva. Aveva una smorfia grave che ne incupiva le sopracciglia. Si conquistò l’occhiata fulminante del drow. “Sei stato abituato a ritmi non umani, non puoi incolpare le reclute di tenere alla propria salute.”

“Sai chi altro non è umano?” Ra’shak mosse un passo verso Soldato e si ritrovò ad affrontarlo frontalmente, a qualche decina di centimetri dalla sua faccia. “I drow di Charvellraughaust, cercano due o tre-CENTO jaluk nascostisi qui in fuga dalle loro matrone, compreso io. Oppure i nobili di Picco del diamante che vorrebbero i loro schiavetti mezzosangue indietro. Quelli della Collina Intessuta invece sono umani, ma stregoni. Si stanno chiedendo quanti dei loro ex arcieri possono arrostire con un solo incantesimo di Tempesta di fulmini.”

“Ehm.”

L’umano che li stava osservando dalla recinzione si schiarì la gola, attirando l’attenzione di tutti e quattro su di sé. Si scostò dalle travi di legno e drizzò la schiena, infilando le mani nude nei pantaloni impolverati.

“Oh, Ekhe.” Sbottò Soldato, sorpreso.

“Comandante Ra’shak.”

Il jaluk, chiamato, si voltò verso di lui. I suoi occhi rossi squadrarono severi l’uomo dai capelli fino agli stivali.

“Chi cazzo siete, levatevi dalle palle.” La sua replica giunse tempestiva. Ma la recluta non ne fu turbata.

“È una delle reclute più promettenti, Ra’shak.” Si intromise il vice guardando il jaluk.

“Ho notato che ve la state facendo sotto.”

Le sopracciglia di Soldato e Asia si inarcarono verso il cielo. Imesah spostò il viso su Ekhe che si era guadagnato la sua attenzione. Ra’shak sbatté le palpebre due volte perché non era sicuro di aver capito bene, poi, rendendosi conto che invece aveva proprio capito bene, inarcò lentamente le sopracciglia verso l’alto e gli occhi si sgranarono piano fino a farsi allucinati. L’uomo che aveva davanti venne scosso da una risata alla reazione di tutti e quattro.

“Giusto.” Proseguì. “Perché mai non vi vedo mai affrontare gli allievi e allenarli personalmente? Perché non ve lo fate voi, un giro, qua sulla polvere?”

“Perché c’è il sole?” Ipotizzò Asia, con sarcasmo. Osservò gli uomini, e ad un certo punto gli balenò un’obiezione. “… non mi è ancora affatto chiaro perché sono qui.” si disse, incerta nell’espressione seriosa. Imesah si voltò verso Soldato.

“Senti, ma capitano spesso questi caratterini?”

“In effetti sì,” ammise il grosso umano, portandosi una mano al mento increspato dalla barba “ho il sospetto che la popolazione media sia costituita da gente un po’ sfrontata, Cavaliere.”

“Non sarebbe poi così strano.” Osservò il Cavaliere, mentre Ra’shak era ancora lì, allucinato, a fissare l’umano oltre la recinzione con gli occhi sgranati. “L’ho notato più volte. Dev’essere per la conformazione sociale.”

“Già,” convenne il vice, agitando l’indice verso Imesah e annuendo, con gli occhi che si socchiudevano in un pensiero più furbo “sono un po’ tutti figli di puttana qua dentro.”

“È proprio quello che intendevo.” Asserì il Cavaliere, annuendo a sua volta.

Ra’shak finalmente sbatté le palpebre e riaffiorò dal suo stato di folle incoscienza. Abbassò pazientemente lo sguardo verso il basso, considerando la situazione. Prese un respiro che ne gonfiò il petto robusto e portò le mani sui fianchi.

“Fatemi passare, recluta.” Ordinò.

“Ekhe.” Si presentò la recluta indietreggiando. Teneva gli occhi nocciola fissi sul Comandante, che avanzò verso la recinzione e la scavalcò in un salto. Gli bastò slacciare alcune fibbie. Le fasce di cuoio che gli circondavano il busto e che reggevano le sue armi caddero al suolo con un tramestio. Portava solo la cintura adornata di pugnali, aderenti pantaloni neri, e gli stivali. Infilò la mano in una tasca e tirò fuori un nastro rosso. Sollevò le braccia per pettinarsi all’indietro i capelli che gli sfioravano le tempie e li raccolse dietro la nuca con il nastro. La luce del sole gli infastidiva gli occhi sensibili e lui li teneva socchiusi. Avanzò di tre passi ed Ekhe indietreggiò allo stesso modo. Un ghigno gli solcò il viso e rivelò delle fossette sulle guance.

“Gioco sporco.” Lo avvertì. Ra’shak sbatté le palpebre. Ekhe intuì dalla mascella contratta che si stava trattenendo dal rispondergli. Invece dischiuse le labbra ed esordì:

“Possiamo iniziare.”

Le loro armi erano le mani nude. Ekhe si portò a un metro e mezzo da Ra’shak e si mise sulla guardia destra – il pugno e il piede in avanti erano i sinistri, per permettere al pugno più forte, quello destro, di colpire con maggiore forza. Il jaluk avanzò senza mettersi in guardia ed entrò nello spazio dove Ekhe poteva colpirlo. L’umano non si fece sfuggire l’occasione: gli bastò spingere con la gamba destra che si piegò e si sollevò dal terreno, e facendo perno con il tallone sinistro si diresse sul fianco di Ra’shak per un calcio circolare, forte della spinta.

La mano destra del jaluk scattò: parò il colpo con l’avambraccio e scivolò sotto il polpaccio dell’umano. Lo afferrò e lo tirò all’indietro. La stretta era salda come acciaio, e nonostante la differenza razziale che voleva l’umano più forte fu semplice per Ra’shak trascinarselo dove voleva lui. La mano sinistra si posò sul ginocchio e lo accompagnò nel movimento. Zoppicando in avanti con la gamba libera Ekhe cercò di piantare un montante destro nella pancia di Ra’shak, ma la mano sinistra del jaluk colluttò contro la sua clavicola e lo gettò con violenza all’indietro prima ancora che potesse colpirlo. Si ritrovò a lanciare un montante in aria mentre cadeva sulla sabbia. Ra’shak posò di nuovo la mano sul suo ginocchio e facendo un passo avanti con la gamba sinistra si portò di fianco: nello stesso movimento fece ruotare la gamba dell’umano verso l’esterno e l’avversario iniziò a urlare, perché il jaluk gliela stava slogando.

Ma non si arrese. Prima che Ra’shak riuscisse a rovinargli la gamba si alzò a sedere e afferrò la cintura dei pantaloni del jaluk per trascinarselo a terra, mentre con la mano destra gli dava un pugno sul tendine del ginocchio per farlo cadere. Ra’shak si piegò e gli cadde addosso con il sedere sul suo bacino.

La recluta avvolse il braccio attorno al suo collo e strinse, forte, con l’intenzione di strangolarlo. La luce del sole accecava Ra’shak che strizzò gli occhi, i denti digrignati. Una secca e decisa gomitata contro il plesso solare dell’umano lo convinse a mollare la presa e a buttare fuori l’aria dai polmoni con un gemito di dolore. Ra’shak si voltò per salire a cavalcioni sull’uomo. Gli afferrò l’attaccatura dei capelli neri con le dita scure e strinse forte per fargli male, mentre il moro allungava le braccia e stringeva la presa attorno al collo muscoloso del drow. Dovette applicarsi per riuscire a premere abbastanza forte da bloccargli il respiro. Ra’shak sentì il fiato serrarglisi in gola e il respiro cessare. Tirò su la nuca di Ekhe per i capelli e prese a sbatterla rovinosamente al suolo servendosi del peso di tutto il proprio corpo, come se la minaccia di stare per morire soffocato non significasse nulla.

L’umano venne frastornato dal primo colpo, poi dal secondo. Al terzo mollò la presa sul collo del jaluk, conscio che non sarebbe riuscito a ucciderlo in tempo, e gli fece arrivare un montante assestato bene sul mento che lo fece cadere all’indietro. Così riuscì a fargli mollare la presa dai capelli e si alzò a sedere, ansante, per saltargli di nuovo addosso. Accanto al drow giaceva la lama impolverata di un pugnale. Lo afferrò e pressando con il palmo della mano sinistra sul petto scuro del Comandante si mise sopra di lui e gli puntò il pugnale alla gola, che venne afferrato dalla mano destra del jaluk. Il suo pugno sinistro si scagliò sul tendine del gomito di Ekhe e spezzò la tensione del braccio così da farlo cadere su di sé, e la mano chiusa in quella dell’umano spinse il pugnale su verso la sua gola. I muscoli tremavano nervosi dallo sforzo. Gli occhi di Ra’shak erano sgranati in quelli di Ekhe. Vi lessero la titubanza mentre la lama, ferma tra le loro due forze, si avvicinava pericolosamente al suo collo. Ekhe si costrinse a distogliere gli occhi dalla sua faccia, e lo fece premendo la mano sinistra su di essa per disorientarlo.

Si fece forza spingendosi via da lui con quella mano e prese le distanze dal Comandante. Ansimava, e accovacciato a terra guardava il jaluk che si alzava a sedere e ricambiava il suo sguardo. Si alzò di nuovo in piedi, tenendo il pugnale nella mano destra. Ra’shak lo seguì. Ekhe lanciò un’occhiata incerta alla cintura di pugnali che il jaluk indossava, per poi tornare sulla sua faccia. Lui se ne accorse, e sollevò un sopracciglio. Sbuffò beffardo dalle labbra dischiuse che esalavano il respiro affannato, poi scrollò il capo deluso.

Ekhe si decise a scagliarglisi addosso per primo stavolta e cercò di colpirgli il petto nudo con il pugnale in un taglio discendente da destra verso sinistra. Ra’shak non era in grado di difendersi prima della distanza corta per via del sole che gli infastidiva lo sguardo, ma i suoi riflessi di drow riuscirono a intercettare la lama del pugnale quando gli arrivò sopra la testa. Le mani salirono e gli afferrarono fermamente il polso. Una di esse scivolò in avanti sul gomito. Piegandogli il polso in una leva lo costrinse a piegare anche il gomito. Avanzò con i piedi fino ad andargli addosso e costringerlo a indietreggiare e mentre lo faceva, trattenuto il suo braccio in una leva dolorosa, gli puntò il suo stesso pugnale addosso e spinse una pugnalata in montante, verso lo sterno. Ekhe urlò e riuscì per miracolo a deviare il colpo slogandosi il braccio nello sfuggire alla sua stretta. La lama del pugnale gli solcò diagonalmente il pettorale destro aprendogli la carne fin sotto la spalla prima che Ra’shak perdesse del tutto il controllo del suo braccio.

La recluta cercò di indietreggiare per porre una distanza tra i due, ma Ra’shak gli aveva afferrato l’avambraccio sinistro con la mano destra. Lo tirò brutalmente a sé. Ekhe gli cadde addosso come una fanciulletta indifesa. Il Comandante afferrò l’altro avambraccio, quello dalla mano armata. Strinse dolorosamente il polso così forte da far gridare l’umano di dolore. Inarcandosi, Ekhe aprì la mano e mollò la presa sul pugnale insanguinato che cadde a terra. Una volta disarmato l'avversario, Ra’shak gli sollevò le braccia e lo costrinse a voltarsi. Racchiuse entrambi i polsi dell’uomo in una sola mano e gli afferrò la nuca per i capelli, dopodiché prese a camminare lungo il campo. Ekhe urlava per il dolore, non riuscendo a tenersi in piedi e venendo retto per l’attaccatura dei capelli. Ra’shak si chinò e gli affondò la faccia nella polvere. Ekhe iniziò a tossire e venne soffocato dalla terra che finiva per entrargli in bocca e nelle narici mentre Ra’shak continuava a trascinarlo lungo il campo e a tenergli la testa giù per fargli raccogliere la polvere. Poi lo alzò.

Ekhe emise un gemito strozzato, probabilmente grato che fosse finita, ma quando aprì gli occhi appannati dalla polvere si accorse di essere molto vicino alle travi della recinzione. Divenne una certezza quando Ra’shak iniziò a cercare di spaccargli la faccia su una di esse, prendendo la rincorsa con la mano che lo reggeva alla nuca per poi sbattergliela con violenza, dalla parte della faccia ovviamente. Ekhe gemette dal dolore e sentì il sangue bagnargli la faccia. Cadde a terra sotto la recinzione. Gli faceva tutto così male che non riusciva a muoversi – si pentì subito dopo di non averci neanche provato, perché sentì la mano di Ra’shak tirarlo di nuovo su per i capelli in una stretta lancinante. La recluta digrignò i denti e strizzò gli occhi mentre con le mani cercò di afferrare quella del drow, che però era inamovibile dalla nuca dell’uomo. La sollevò di nuovo, insieme al resto del suo peso, ad altezza trave, prese la rincorsa, e gliela diresse con violenza verso la dura superficie di legno spaccandogli un sopracciglio, il naso e un dente.

Imesah, a braccia incrociate, osservava la scena con aria concentrata. Sbatté le palpebre.

Asia era colpita. Spostò lo sguardo verso Imesah e si accigliò.

“Cavaliere?” mormorò incerta la ragazza “Voi siete portatore di ordine. Sovrintendete le guardie… fermate il Comandante.”

Soldato sospirò, e si passò una mano fra i capelli con una smorfia. Imesah inarcò appena le sopracciglia all’imperativo della Gran Maestra. “Dite che dovrei?” Si voltò a guardare la ragazza. “A me piace questo scontro.” E tornò sui combattenti.

“È solo che così finirà per ammazzarlo…” obiettò Soldato mentre il pesante tonfo della testa di Ekhe sulla trave risuonava per la terza volta insieme a uno strano schiocco di ossa rotte.

“Non è un gran problema.” Replicò Imesah. “La gente muore ogni giorno.”

“… Imesah, credo che il Consigliere vi consiglierebbe di fermare il Comandante.” Obiettò Asia. Imesah si strinse nelle spalle e tornò a guardare Ra’shak. “Non ho voglia di salvare quel ragazzo. Probabilmente Saab non vuole che io lo salvi.”

Asia non poté rispondere a una tale argomentazione. Poté solo distogliere lo sguardo e ripetersi quella risposta nella sua testa mentre il Cavaliere, sovrintendente dell’ordine e delle guardie a Saab, non faceva una piega, lì fermo con le braccia incrociate a godersi l’omicidio di una semplice recluta.

Ra’shak guardò l’uomo ansante e scosso dai brividi che giaceva ai suoi piedi. Aveva la faccia completamente bagnata di sangue. Era ancora cosciente, perché si muoveva un poco e cercava con disperazione di rialzarsi per scappare, ma non poteva riuscirci perché la testa gli scoppiava dal dolore che lo aveva stordito del tutto. Il jaluk indietreggiò e si scostò da Ekhe per camminare dalla parte opposta.

Si chinò, tenendo comunque gli occhi sull’umano, e la sua mano si avvolse attorno all’elsa dell’ascia bipenne che il mezz’orco di poco fa aveva lasciato incastrata nel terreno del campo prima di andarsene. Con uno strattone potente del braccio tese i muscoli e la estrasse. Tenendola bassa si riavvicinò alla recluta e lì si rese conto che all’improvviso il campo era diventato silenzioso. Ignorò quel silenzio e sollevò l’ascia impugnandola con entrambe le mani. Ekhe ebbe la forza di voltarsi supino, così poté vedere il jaluk che lo fissava con la sua condanna a morte tra le mani. Sbarrò gli occhi.

“No… no…!”

Il drow, in risposta, inclinò appena il capo. Sbuffò dalle narici e distese le labbra in un ghigno all’inizio sottile, poi man mano affossato nel viso scuro.

“Sì. Sì.” Sussurrò.

Fece roteare l’ascia all’indietro. Gli passò per il fianco sinistro e venne infusa della forza della carica mista al peso del jaluk. Era destinata a sfracellarsi senza pietà in mezzo alla cassa toracica dell’umano e ad aprirlo in due come una zucca. Ekhe strizzò gli occhi per non vedere la propria morte. Sentì un rumore secco vicinissimo all’orecchio sinistro e un dolore lancinante afferrargli la spalla ed emise un urlo agghiacciante che diede sfogo a tutta l’aria che aveva nei polmoni integri. Iniziò a lacrimare e non riuscì più a fermarsi, ma volle aprire gli occhi per capire cosa diavolo gli stava succedendo. Attraverso la vista annacquata dalle lacrime vide la lama dell’ascia bipenne inchiodata a terra a poca distanza dalla sua faccia con la parte inferiore che aveva strappato cinque centimetri di carne della spalla e sfregiato l’osso.

“Da dove vengo io,” la voce roca del Comandante gli arrivò alle orecchie “tu saresti dovuto morire.”

Il jaluk scavalcò la sua vittima e camminò lungo la recinzione per fermarsi davanti agli altri tre. Aveva il corpo scuro teso dallo sforzo e imperlato di sudore che scivolava lungo le linee sinuose dei muscoli tonici. Il respiro affannato gli sollevava il petto su e giù e ne contraeva gli addominali inumiditi. Asia si voltò verso Ra’shak e sollevò il mento in attesa che parlasse. Soldato buttò fuori un sospiro sollevato e portò le mani sui fianchi. Imesah si focalizzò su di lui anche se il suo udito era, in quel momento, dedito ad accogliere i guaiti di Ekhe.

“Una delle reclute più promettenti.” Ripeté Ra’shak fissando Soldato, che evitò il suo sguardo e aggrottò la fronte. Il jaluk puntò gli occhi su Imesah.

“Io sono un avversario buono. Non incontrerà questa dolcezza in battaglia. Non dai miei simili, ma neanche dagli altri. Pensate a ciò che vi ho detto.”

Alla fine scostò il viso per inquadrare Asia.

“Avete visto le condizioni in cui ci troviamo. Voglio delle lezioni teoriche sul combattimento organizzate per mano vostra.”

La Gran Maestra inarcò le sopracciglia in una reazione moderata. Infine Ra’shak si voltò verso l’uomo che aveva quasi ucciso, a qualche passo da loro. Nel farlo si rese conto che tutti gli altri allievi si erano fermati per guardare la scena. Alzò appositamente la voce abbastanza perché sentissero.

“E questo… è il motivo per cui non combatto con le reclute.”

Recuperò le fasce di cuoio che reggevano le sue armi e scavalcò la recinzione per andarsene.



*



Era stata senz’altro una giornata stancante, iniziata con una mattina passata sotto il sole e il resto trascorso assicurandosi che tutti i tomi necessari fossero stati ricevuti dalle scuole e dai luoghi di istruzione della città. Dopo questo aveva dovuto stilare una bozza delle lezioni che avrebbe preparato per il Comandante. Ripensandoci Asia si lasciò sfuggire un sospiro esasperato. Fu grata che la giornata fosse finita. La luna splendeva nel cielo, molto meno accecante del sole. Ma doveva stare ancora subendo il suo frastornamento, perché nello svoltare lungo la parete non si accorse della persona che stava andando proprio nella sua direzione con la faccia girata dalla parte opposta.

Si scontrarono rovinosamente l’una contro l’altra. Asia indietreggiò subito dopo ma le carte che aveva tra le mani le scivolarono via. Caddero per terra insieme ad altri fogli di differente dimensione, che erano scivolati via dalle mani dell’altra. Asia si irrigidì nel vedere le scarpe azzurro confetto e la gonna gialla davanti alla quale erano scivolati i suoi documenti. Alzò lentamente gli occhi rossi per osservare come il semplice vestito si stringeva dolcemente in una vita aggraziata e faceva risaltare, più in alto, le morbide curve dei seni della ragazza che aveva davanti, e che non poté non riconoscere.

“Ah! Che sbadata, sono la solita…” ridacchiò Bibi, nervosa.

La Tesoriera William, o Bibi, era un’umana alta con occhi nocciola e lunghi capelli castano chiaro che spesso, come adesso, teneva raccolti in una coda dietro la nuca. Aveva un aspetto di qualche anno più adulto di Asia. Lanciò un’occhiata allo sguardo perplesso della Gran Maestra così da incrociare i suoi occhi e poi chinò di nuovo il capo a guardare il casino che aveva combinato. La frangia orizzontale e sfilzata le coprì gli occhi in quel movimento. Si chinò subito dopo per raccogliere i fogli e Asia indietreggiò di mezzo passo in un misurato gesto che espresse senza veli il desiderio di stare lontana dalla pasticciona.

“Dunque, le mie carte sono queste…” Bibi borbottava mentre si allungava sui documenti uno per uno “… mentre le tue sono quelle gialle, dico bene? Giusto…”

Asia rimase a fissarla dall’alto, con le braccia a mezz’aria rimaste lì dov’erano quando si era fatta cadere i fogli di mano. La sua espressione era difficile da decifrare, ma le palpebre erano di poco più sgranate e vi si poteva leggere una nota disorientata. La distanza che manteneva con l’umana poteva suggerire un sentimento di indignazione, tuttavia c’erano troppi pochi indizi per poter intuire cosa balenasse nella testa della ragazza non umana.

Bibi si rialzò in piedi con i documenti riordinati nelle mani ad altezza petto: quelli di Asia verso di lei, i propri verso di sé. “Ecco…” si avvicinò e protese di poco le braccia per raggiungere le mani della Gran Maestra a una decina di centimetri dal suo busto. Asia dovette raccapezzarsi e con un piccolo sussulto si smosse per cercare di prendere i documenti dalle mani dell’umana. Fu difficile, perché Bibi era così goffa che non riusciva bene a separare i suoi fogli dai propri e quindi passarono un paio di secondi imbarazzanti a strattonarsi i fogli sbagliati, prima di riuscire nell’ardua missione di recuperare ognuna ciò che le spettava. Appena la cosa si risolse Asia si premette i fogli sul petto e indietreggiò di nuovo, di mezzo passo. I suoi occhi, più in basso di quelli di Bibi di una quindicina di centimetri come minimo, alzarono le palpebre su di lei e la puntarono. La bocca color corallo rimase chiusa, com’era fin dall’inizio. Nonostante questo Bibi non smetteva di sorridere – in una smorfia quasi isterica – e di emettere un vago risolino ogni tanto.

“Eheh… queste tesoriere impacciate…” commentò e si strinse nelle spalle, coperte da una soffice camicia di seta dello stesso colore delle scarpe. Lo scollo del vestito era abbastanza generoso e veniva assecondato dalla camicia che lo seguiva fedelmente abbellendolo con un colletto bianco che si poggiava sulla stoffa gialla. Gli occhi di Asia caddero proprio su questo interessantissimo colletto. Il sorriso di Bibi si smorzò un poco nel vedere la ragazza non replicarle, sbatté le palpebre, e le si corrugò la fronte. Tentò subito dopo un approccio diverso facendo squillare di nuovo la voce.

“Come è andata oggi? Fatto buon lavoro?” Asia schizzò con gli occhi sgranati su quelli nocciola della ragazza e li inchiodò lì su di lei. Bibi sussultò e inquieta abbassò le carte verso l’ombelico. “Oh. Capisco… non tutte le giornate sono perfette, non è vero?” La voce si abbassò e venne incrinata dall’incertezza. La ragazza più bassa non si arrese e continuò a fissarla dritto negli occhi, ma i propri iniziarono a fremere quasi impercettibilmente finché non fu costretta a sbattere le palpebre. Da lì assunse uno sguardo strano e impacciato. Bibi prese un respiro che le alzò le spalle e annuì piano.

“Già… Beh, Asia, sarà meglio che io vada, mh?” Chiuse gli occhi nel sorriso radioso che le dedicò. “Ci rivedremo domani in giro per il Palazzo, ne sono sicura. A domani allora!” Annuì di nuovo con più certezza e le rivolse uno sguardo contento, per poi incamminarsi. Non deviò bene da lei. Finì per andarle di nuovo addosso, ma molto più piano di prima. Asia sussultò di nuovo e indietreggiò titubante, abbassando occhi e capo.

“Oh, scusa, scusa…” ripeté la Tesoriera, indietreggiando e andandole addosso un’altra volta prima di fare un passo di lato per assicurarsi, definitivamente, di riuscire a superare l’ostacolo e camminare come si deve. Si avviò senza guardarla di nuovo in faccia e Asia poté sentire il rumore dei tacchi della ragazza farsi più fioco un passo dopo l’altro. Rialzò lentamente il viso. Gli occhi fissavano un punto impreciso davanti a sé. Prese un respiro dalle narici e strinse le pagine che teneva tra le mani, fino a sbiancarsi le dita. Serrò le labbra e avvampò violentemente.
*


So’o spinse la porta della mensa comune. Era ora di cena e quasi tutti i servitori erano riuniti ai due lunghi tavoli che riempivano la stanza rettangolare. Avanzò di un paio di passi così da liberare la via e i suoi occhi verdi andarono in cerca del fratello. I lunghi capelli biondi del ragazzo erano stati pettinati pochi minuti fa, quando si era richiuso in camera dopo le lezioni, ed ora erano lisci e morbidi come nella mattina. Si era cambiato e indossava vestiti più informali e comodi. Una maglia gialla a mezze maniche con uno scollo a barca colorato di verde acqua infilata in dei pantaloni rosso scuro e delle scarpe comode ai piedi. Avrebbe dovuto portare una fascia a stringergli la vita, ma sarebbe stata ingombrante e gli avrebbe dato la sensazione di soffocare. Così invece almeno si sentiva come se fosse quasi in pausa dai suoi doveri.

“Principino?”

La chiara voce piena proveniva dalla sua destra. Si voltò e vide il fratello con i suoi unici pantaloni accartocciato contro l’angolo della stanza, seduto sopra una grossa cassa, accanto alle finestre che davano sul porticato. Aveva le gambe piegate e aperte in una posa volgare e i gomiti poggiati sulle ginocchia. In mezzo alle gambe, sulla cassa, c’era il suo piatto di carne, pane e verdure, e ad una mano un pezzo di pane in cui aveva ficcato il resto rendendolo companatico.

Il fratello maggiore gli rivolse un ghigno a bocca chiusa, poi riprese a masticare trattenendo gli occhi blu sulla figura del principe. So’o si voltò del tutto verso di lui per guardarlo bene. Una volta finito di masticare, Vilya gli rivolse la parola.

“Che ci fai qui tra la gente comune, mio signore?”

“Perché non mangi insieme agli altri?” Lo rimbeccò So’o, rispondendo alla domanda con un’altra domanda. Per quanto fosse un ragazzino, per di più inesperto nelle chiacchiere informali, dimostrava una parlantina furba.

Vilya smorzò il ghigno e lanciò un’occhiata ai due tavoli. Si prese tempo per masticare un paio di volte.

“Sto bene qua.” Abbassò lo sguardo sul piatto. Posò su esso il boccone che teneva in mano e portò il braccio all’esterno della gamba destra per raccogliere un bicchiere d’acqua poggiato anch’esso sulla cassa. Lo avvicinò alle labbra e prese un sorso. So’o si prese del tempo per scrutare il fratello ancora un poco. Poi si avvicinò di due passi.

“Posso?”

Vilya inarcò le sopracciglia perplesso mentre poggiava il bicchiere sulla cassa e si pulì le labbra con il dorso della mano.

“A qualsiasi cosa tu stia alludendo, certo, mio signore.”

So’o raggiunse la cassa e vi salì sopra. Era più alta del suo bacino, così il mezzodrow finì per far dondolare le gambe al di là di essa. Vilya lo aveva praticamente di fronte e poteva osservare il suo profilo. Riportò il gomito sul ginocchio e inclinò il capo, così che cozzasse contro la parete, con evidente curiosità.

So’o si dette del tempo per osservare i cortigiani che cenavano. Il drow cercò di interpretare la sua espressione, ma era difficile capire cosa stesse pensando.

“Non è male qui.” Commentò.

Il drow si strinse nelle spalle. L’altro si voltò verso di lui. Tornò a parlare.

“Sei stato lontano per molto tempo.”

“Lontano da cosa?” Sbuffò Vilya incrociando i suoi occhi con scherno. “Da questo luogo? Non posso chiamarlo veramente casa, se è questo che intendi. L’ho visto a malapena ai suoi inizi.”

“Da…” So’o strinse le dita attorno al bordo della cassa. Fece un cenno con la testa. Esitò per cercare le parole giuste “… da quello che ti appartiene. Dalla famiglia.”

Vilya esitò. Poi annuì, gli diede ragione.

“Sì, molto tempo.”

La sua replica fu breve. Ma sentendosi osservato da So’o e vedendo che non smetteva di fissarlo, come in attesa di una risposta più completa, il drow serrò le labbra e proseguì. Posò gli occhi sul resto della stanza.

“È quello che succede quando diventi grande. Parti, fai esperienze. Cerchi il tuo posto.”

“Ma non l’hai trovato?”

Il moro scrollò le spalle e spostò gli occhi giù, sul proprio piatto, con una nota schiva nello sguardo. Stavolta concesse solo quel gesto alla domanda del fratello. Gli occhi sfrontati di So’o erano ancora su di lui. Il ragazzo rifletteva in quei piccoli silenzi tra una replica e l’altra, senza che si potesse capire cosa stava pensando.

“Papà mi aveva detto di avere un altro figlio.”

La frase giunse a bruciapelo. Vilya alzò le palpebre sul giovane mezzodrow. Aveva un viso tondo, dai lineamenti dolci e fanciulleschi che lo sguardo determinato smorzava appena. Bastava guardarlo negli occhi per capire quanto fosse giovane. Un uomo adulto non avrebbe avuto l’ardente curiosità che si leggeva nei suoi occhi. Avrebbe visto troppe cose per esprimere quello stesso entusiasmo.
So’o proseguì.

“Ma non parlava molto di te. Era come se cercasse di dire il meno possibile.”

Vilya alzò il mento con una nota di sfida. So’o poteva vedere come il fratello ci prendesse gusto nel non dargli soddisfazione. Sembrava reputarlo una specie di gioco.

“Le persone si raccontano da sole. E poi non sta bene parlare degli altri in loro assenza.”

“Beh, ma sei mio fratello.” Obiettò So’o, e insieme distolse lo sguardo e chinò il capo come per nascondersi agli occhi blu del drow. Evasivo. Finse di stare porgendo molta attenzione alla cassa, dove le sue mani tormentavano il legno. Cercava di giocare al suo gioco.

“Disse che avete viaggiato insieme.”

“Mh.”

Tornò a fissarlo. Cauto. Di nuovo si prese del tempo prima di abbozzare un’altra parola.

“Quando mi hai detto che sei stato un pirata…”

“Hm.” Vilya annuì, incontrò il suo sguardo. “Con Azul.”

So’o annuì e zittì per guardare in basso di fronte a sé, a terra. Azul. Lo aveva chiamato con il suo nome. Con la coda dell’occhio vide Vilya poggiare la nuca nera sull’angolo del muro e restare a guardarlo per qualche secondo.

“Che c’è?” Chiese, secco.

So’o scrollò il capo, reticente. Rimase a fissare il vuoto. Era confuso. Vilya, accanto a lui, prese di nuovo il bicchiere d’acqua e finì di bere, per poi asciugarsi di nuovo la bocca con il dorso della mano.

“Ti senti piccolo?” Dal tono si capì che gli era affiorato un sorriso sulle labbra. So’o sbatté le palpebre e rinsavì dai propri pensieri. Un lieve moto di rabbia gli corrugò la fronte e lui guardò ancora più in basso, sulle proprie ginocchia.

“Nessuno di voi mi ha spiegato niente. Ci sono anni di esperienze tra di voi alle mie spalle e io sono arrivato solo adesso. E ora che tu sei qui, continuo a non sapere niente. Sapevo che Imesah ti disprezzava ma ancora adesso non so perché – a parte, certo, l’incidente. E non so da dove sei spuntato. E dove sei stato tutto questo tempo. E perché sei tornato, e cosa vuoi da me, e cosa pensi di me.”

Si voltò verso il fratello. Molto probabilmente, aveva appena perso a quel furbo gioco di sguardi e di allusioni. La sua diplomatica pazienza aveva lasciato posto a uno sguardo contrariato. Vilya, interdetto, sbatté le palpebre.

“Beh… è normale, sei nato solo diciassette anni fa, datti tempo, ti pare?”

“Sì, ma” l’asprezza sul viso di So’o si accentuò e lui si sporse verso il drow e alzò la voce, che vibrò “perché continuate a trattarmi come se non potessi capire?!”

Vide il fratello incassare la testa nelle spalle e premere la nuca sulla parete, poi inasprire l’espressione e serrare le labbra, con la smorfia di chi ha assaggiato un sapore amaro sulla lingua. Il drow abbassò lo sguardo sul proprio piatto. Cercò invano di prendere respiro dalla sottile rabbia del fratello più piccolo. Ormai la sua insistenza aveva fatto breccia in lui, e ne aveva turbato i pensieri. Prese dal piatto il pezzo di pane che aveva mollato poco fa e lo avvicinò al viso.

“Io… non sono la persona migliore per spiegarti.” Ammise, rivelando i suoi pensieri. “L’ultima volta che ho provato ad avvicinarmi, è finita abbastanza male.”

Mise in bocca il pezzo di pane ripieno, e una volta riempitosi la bocca prese a masticare senza fretta. So’o sollevò l’attaccatura delle sopracciglia in un moto scoraggiato mentre scrutava il fratello. La rabbia venne sostituita da un colore più caldo. Indietreggiò con il viso, raddrizzò la schiena e tornò più composto.

“Ecco…”

Abbassò lo sguardo alla mano destra che stringeva il bordo della cassa. Ci si teneva in modo un po’ convulsivo e ci strofinava piano i polpastrelli mulatti. I lunghi capelli biondi erano scivolati morbidamente sulle sue guance, e la frangia gli coprì un po’ le palpebre. Così gli impedì di spiare l’uomo che aveva accanto.

“È… partita male. Diciamo che non siamo i migliori a iniziare un rapporto tra fratelli… va bene?”

Il drow a bocca ancora piena non poté trattenersi e si lasciò sfuggire un rumoroso sbuffo beffardo mentre si voltava dall’altra parte, molto divertito. Ma So’o insistette, anche stavolta.

“Tu vuoi essere mio fratello?”

Vilya tornò verso il fratello per incrociare i suoi occhi a quella domanda, come se avesse sentito il dovere di farlo. La determinazione negli occhi del più giovane spense il ghigno che il moro aveva sulle labbra. So’o doveva aver impresso l’inflessione che voleva, abbastanza da richiamare la sua attenzione. O forse gli aveva fatto la domanda giusta, perché vide gli occhi del drow perdersi oltre lui in una sfumatura più intima.

“Insomma…” chiarì So’o “solo, mio fratello?”

In due lenti movimenti di mascella Vilya finì di masticare il boccone, inghiottì e replicò a voce sommessa.

“… sì.”

Ammise. I gomiti gli scivolarono dalle ginocchia e si raccolsero sul proprio grembo in una posa più umile, lasciando scivolare gli avambracci tra le cosce senza malizia. L’impacciatezza che si insinuò nel mezzodrow dalla fronte corrugata gli fece sbattere le palpebre. La sfacciatezza che Vilya esprimeva dalla postura, alla voce, alle sue risposte, fino allo sguardo, si era assopita e aveva lasciato posto a quello che sembrava senso di colpa.

“Mi dispiace per quello che ho fatto. Non volevo farti del male. Ho fatto una cazzata.”

So’o sondò il suo sguardo, poi si smosse. Si tirò indietro verso la parete e piegò le gambe che poggiarono le scarpe sul legno. Si raccolse le cosce al petto e le cinse con le ginocchia in una stretta. Abbassò i limpidi occhi verdi. Si concesse di riflettere sulle parole di Vilya. Poi li riportò sul drow. Vilya rimase a guardare quegli occhi. So’o non sapeva dire bene cosa esprimessero, ma, anche se lontana, sentì una connessione.

“Ci riproviamo?”

“Mi piacerebbe molto.” Una volta raggiunto quel tono basso la voce di Vilya era calda, carezzevole. Rassicurante, per assurdo, per quanto fosse quieta. Il fratello si sentì più leggero. I suoi muscoli si rilassarono un po’ di più.

“Però… devi promettermi una cosa.”

Riflettendo chinò il capo per poggiare la tempia su un ginocchio, in un lento strofinarsi distratto, rannicchiandosi ancora di più contro le cosce, in un movimento che mostrava il viso al moro. I capelli biondi gli scivolavano lungo la guancia più scura su cui facevano contrasto. Sbatté le palpebre piano, sovrappensiero, e tornò a guardare lui.

“Che mi posso fidare di te. Che non cercherai qualcos’altro da me.”

Rialzò il viso. Trattenne gli occhi sul drow. Esitò, ma proseguì poco dopo. Doveva essere chiaro, anche se non avrebbe voluto tornare su quell’argomento.

“Siamo solo fratelli.”

Vilya sosteneva lo sguardo di So’o mentre inspirava dalle narici; il petto gli si sollevò piano. Poi abbassò lo sguardo, sollevò il mento e annuì. Bastò quel gesto, molle comunque spiegarsi meglio. Si tirò su con il braccio sinistro e si fece più dritto. Scrollò il capo.

“Lascia perdere quello che è successo… è stato stupido.” Lo fissò dritto negli occhi. So’o non l’aveva ancora visto così serio.

“Questo è importante per me. Se me lo permetti ancora, voglio essere tuo fratello.”

Il mezzodrow sondò attentamente il suo sguardo.

“Te lo prometto.”

Era sincero.


 
*



Imesah avanzò di qualche passo e sentì la porta richiudersi alle sue spalle. Si prese del tempo per controllare la stanza e studiare gli indizi sotto la luce di una grossa candela che era stata lasciata accesa sul comodino. Letto sfatto: Azul non aveva avuto voglia di sistemarlo. Scrivania in disordine: doveva aver giocato con le sue cose. Le tende erano tirate. Da quell’indizio, Imesah si aspettò che qualsiasi cosa avesse fatto mentre lui non era lì, doveva essere sulla soglia dell’illegale. Allora il Cavaliere si rilassò e fece un altro paio di passi, portando le mani a slacciarsi la cintura che ne allentò i pantaloni. Abbassò la guardia. Aveva la sensazione che qualcosa di sinistro fosse rimasto dal passaggio del compagno, ma non era insolito. Si disse che si stava sbagliando e che era solo per via di come aveva lasciato la stanza. Si sfilò la cintura dalle fibbie dei pantaloni e la lanciò svogliato sul letto, quando sentì all’improvviso uno schiocco nello stesso momento in cui la cintura cadeva sul materasso.

Non era stato fatto dalla cintura. Assomigliava al rumore di una lingua che schizza sul palato. Solo che aveva prodotto un’evidente eco… e non proveniva da quella stanza, ma da una adiacente. Dalla limpidezza del suono era una stanza collegata alla sua da qualcosa, come una porta.

Lo schioccò si ripeté, pigro. La seconda volta che arrivò alle orecchie di Imesah, gli fu chiaro che proveniva dal suo bagno. La parete del bagno era di fronte a lui, in fondo alla stanza, a cui si accedeva da sinistra con una porta trasversale a quella dell’ingresso. Posò gli occhi sulla porta. Vide che l’anta era aperta.

Sollevò piano il mento mentre sentiva una stilla di adrenalina iniziare a circolargli nel corpo. Sapeva che quello era un richiamo. La cosa che si trovava nel suo bagno sapeva che lui era lì. Inutile nascondersi: gli stivali si smossero dal pavimento e dopo un’iniziale esitazione fecero il primo cauto passo verso la porta. Camminò piano, con le orecchie drizzate per carpire qualche altro rumore. Gli sembrò di sentire un suono… umido, se si poteva dire così. Ma non si ripeté, e lui non capì di cosa si trattava. All’imbocco della porta si voltò verso di essa e guardò davanti a sé. Il fondo del bagno era vuoto – non c’era nessuno. I lati gli erano nascosti, era troppo distante dalla porta per spiarvi. A sinistra c’erano i servizi, mentre a destra, per sua esperienza, sapeva che il suo bagno ospitava una vasca ovale abbastanza grande. A meno che qualcosa non fosse cambiato nelle ultime dodici ore, per intendersi. Abbassò lo sguardo: una grossa bacinella giaceva a metà strada tra lui e la parete opposta.

Era sporca di sangue.

Attirò del tutto la sua attenzione. L’umano mosse il piede destro in avanti e fece un passo, poi un altro. Guardò a sinistra. Tutto normale… no, in realtà no: dal lavabo gocciolavano altre gocce di sangue. Ma non era denso: quelle tracce che solcavano la porcellana erano state mescolate con l’acqua. Pianò girò la testa verso destra. La vasca era nascosta da un drappo leggero. Agli angoli del bagno, i candelieri illuminavano la stanza con la luce tremolante delle candele. Non potevano far trapelare nessuna sagoma dall’interno del drappo, ma Imesah sapeva che c’era qualcosa lì dentro.

Inspirò dalle narici e sentì l’odore di sangue afferrarlo. Serrò le labbra. Si voltò completamente verso la vasca. Lo schiocco di prima non si era ripresentato, ma sentì ancora una volta quel suono umido. La vasca doveva essere piena. Avanzò, di un passo. Poi di un altro. Alzò la mano sul drappo: al centro si apriva in due, sebbene avesse il lembo di destra poggiato sull’altro. Prese quel lembo e lo scostò lentamente. Guardava di fronte a sé, ad altezza uomo. Non vide niente. Lentamente, lo sguardo scese verso la vasca. La prima cosa che vide fu il sangue. La vasca era piena di sangue fino a quindici centimetri dal bordo. Era stato mescolato all’acqua. Per questo non era denso, ma più liquido e trasparente. Si poteva guardare attraverso di esso. E attraverso esso lui vide una coscia che emergeva dall’acqua in un ginocchio molto scuro, che si piegava per poi distendersi. L’acqua di sangue, prima limpida e calma, si increspò per tutta la superficie. Tutto il resto del corpo di quella cosa si stava alzando. Non fece quasi rumore mentre si alzava ed emergeva dal liquido rosso scuro, che ne vomitava il bacino, poi le lunghe cosce e gli avambracci. Imesah risalì lungo esso, seguendone il fianco gocciolante con lo sguardo finché non incrociò gli occhi di serpente della familiare creatura fissi su di lui.

La bestia sapeva dall’inizio che lui era lì. Lo aveva tenuto d’occhio da quando era entrato nella camera. E lo aveva attirato nella sua tana. E adesso lo fissava. Il suo petto magro si abbassava piano, doveva stare espirando. Imesah riuscì a sentire il sospiro che la creatura stava trattenendo nella bocca e sfogando dalle narici. I lunghi capelli grigi erano stati tinti dal sangue, ed erano rossi. Sulla sommità però il sangue era stato lavato via dall’acqua stessa e avevano quasi ripreso il loro colore naturale. Gocciolando dalle mani e dai capelli provocò di nuovo quel suono umido, molto più chiaro di prima. Era in piedi, di fronte all’uomo. Imesah non riusciva a distogliere lo sguardo dai suoi enormi occhi da rettile. Alcune ciocche di capelli erano appiccicati al viso e lo rigavano accanto agli occhi, una in mezzo ad essi. Quelli sbatterono le palpebre piano, e quando si riaprirono puntavano il ventre del Cavaliere. Sbatterono di nuovo le palpebre e tornarono a fissare lui. Era un ordine.

Imesah si portò le mani ai lembi della casacca e se la levò di dosso, insieme alla maglia che portava sotto. I muscoli serpeggiarono oltre la pelle chiara mentre lui sollevava le braccia a mostrare il petto e le riabbassava. Si sbottonò la patta dei pantaloni e li fece scivolare via insieme alle mutande. Caduti a terra, i piedi li scavalcarono. Azul era immobile. Abbassò lo sguardo di nuovo al suo ventre. Poi saettò sulla sua faccia. Da un minimo movimento, quasi solo suggerito, il suo corpo portò indietro un piede. Pressò metà del suo peso sull’intera pianta e poi iniziò a indietreggiare con l’altro. Quando ebbe poggiato di nuovo entrambi i piedi, Imesah avanzò. Fece due lenti passi verso di lui, poi scavalcò la vasca. Immerse la prima gamba, poi la seconda, e si ritrovò a condividere la vasca di sangue con la creatura a pochissimi centimetri da lui. Lo guardava dall’alto. La faccia animalesca del drow che lo fissava era ancora più sinistra da quell’angolazione.

D’un tratto sentì qualcosa di bagnato avvolgergli il polso. Voltò il capo per guardare e scoprì che era la sua mano. Il suo polso si macchiò del liquido rossastro. Azul lo tirò. Verso il basso. Continuando a fissarlo. Imesah si fece trascinare giù, e quando iniziò a calare il drow fece lo stesso. Lo mollò una volta che i due erano entrambi seduti nella vasca. Lasciò che Imesah vi si accomodasse dentro, senza perdere il contatto con i suoi occhi verdi. Il Cavaliere si sedette con le gambe piegate e dischiuse e le ginocchia che fuoriuscivano dal liquido, le mani all’esterno delle cosce. Azul, davanti a lui, si era rannicchiato con le gambe al petto e le braccia sulle gambe.

La bestia aspettò che lui si fosse sistemato. Aspettò che lui incrociasse il suo sguardo. Era così ipnotico che vi si perse dentro un’altra volta. Finché non ebbe la sensazione che il resto attorno a lui si muovesse. Allora si accorse che gli occhi di serpente si erano fatti più grandi, o meglio, più vicini, e uno sciabordio dell’acqua gli disse che Azul si stava protendendo verso di lui. E in effetti sentiva il calore del corpo di Azul accarezzarlo sotto l’acqua mentre appoggiava le mani sul fondo della vasca oltre il bacino dell’umano e strofinava il bassoventre sul suo bacino. Finì per far combaciare i loro bacini in una lenta, intensa carezza mentre passava sopra e lo scavalcava. Si fermò su di lui, a cavalcioni. Imesah trovò le sue cosce nell’acqua. Le strinse nella mano, saggiandone i muscoli. Risalì lentamente, massaggiandoglieli con i polpastrelli premuti, che si ammorbidirono quando arrivarono alle anche del drow.

Lui mollò la vasca con le mani. Sporto in avanti, trasferì il resto del corpo su di lui, che era poggiato all'indietro, premendosi sulla sua pancia con il proprio corpo. L’erezione della creatura si tese rigida tra loro due. Le mani trovarono i fianchi di Imesah e risalirono piano da lì verso la porzione di pelle che fuoriusciva dall’acqua, lungo il costato e poi sul petto. Lo saggiò con sottili dita avide che ne studiavano le forme come se fosse la prima volta. Inclinò il capo di lato con la stessa lentezza. Il suo respiro caldo venne soffiato sulle labbra di Imesah da quelle che ora si erano dischiuse. L’umano poté sentire il suono del suo respiro che lo lasciava, intenso, e poi la gola che inspirava altra aria come se cercasse di risucchiare anche lui dentro di sé. Le palpebre calarono in giù fino a rendere gli occhi due umide fessure dorate. Imesah riuscì a staccare gli occhi da quelle, per guardare il naso storto della cosa e più in giù le sue labbra carnose da cui spuntavano i denti appuntiti. Si accorse che Azul stava fissando la sua bocca. Lo vide chinarsi su di essa, e socchiuse gli occhi nel sentire le sue labbra sulle proprie. Si lasciò andare al bacio, piegando piano il capo all’indietro. Azul cercò subito di approfondire il bacio, dischiudendo di più la bocca e infilando la lingua nella sua.

“Mh…” Mormorò Imesah mentre lo accoglieva e rispondeva a sua volta con la lingua. Piegò il capo di lato e lasciò che Azul lo rimbeccasse e torturasse con i suoi movimenti del capo e della lingua, lenti ed eccitanti. Il bacio sapeva di sangue. Imesah lo assaporò tutto. Sentiva l’erezione di Azul pulsare sul proprio ombelico, protestando rumorosamente. Strinse man mano più forte le mani sulle sue anche. Azul, in risposta, si inarcò così da strofinarsi l’erezione su di lui.

“Ah…” La creatura sembrò emettere un verso quasi umano di soddisfazione. Non era precisamente una parola. Era un espirare più forte tra i vari respiri che gli muovevano il petto e che riempivano, con il loro rumore, il bagno, echeggiando tra le pareti. Imesah, tenendolo con le mani, lo incoraggiò a risalire verso l’alto. Le anche strette della piccola bestia si lasciarono guidare in quel movimento e le strapparono un altro verso di piacere. La fece ridiscendere. Staccò la bocca da lui, presa nei sospiri eccitati, sospiri non umani, raschiati. Imesah aprì di poco gli occhi e lo guardò scendere su di lui e godere del contatto.

Le mani scure della bestiola risalirono sul collo dell’umano. Vi si avvolsero, minacciose. Lo strinsero. All’inizio piano. Poi più forte mentre, da sola, tornava a strofinarsi su di lui, risalendo, come se avesse scoperto quel gioco piacevole. Imesah si sentì il respiro più corto. Piegò il capo all’indietro, offrendo il suo collo alla totale mercé delle sue mani e dei suoi denti, chiuse gli occhi ed emise un roco gemito di piacere. Sentiva chiaramente il proprio pene eretto irrigidirsi tra le gambe.

“Mmmh..” Quando Azul chiuse la bocca, il suo respiro continuò a fare rumore in modo più nasale. Strinse appena di più il collo di Imesah. Gli fece sentire mozzato il respiro. Si chinò sul so collo e succhiò la pelle sotto la mascella. “Ah…” sospirò accanto al suo orecchio. Poi lo lasciò andare.

Imesah riprese a respirare, con un respiro tremolante che gli gonfiò il petto. Azul fece scivolare le dita tra i capelli rossi del Cavaliere e strinse la presa, per poi tirare piano giù. Imesah si lasciò andare totalmente alle manipolazioni della creatura. La sua testa scese giù finché non fu immersa nel sangue e nell’acqua.

“Mh…” Un altro verso di soddisfazione uscì, a bocca chiusa, da Azul. Lui chiuse gli occhi e si drizzò sul corpo di Imesah, a cavalcioni. Dischiuse bene le cosce e si strofinò con le natiche sul suo corpo. Provò a scendere quanto più poteva. Le gambe di Imesah si distesero piano, e lui poté incontrare la sua erezione. Intanto, iniziò a pressare con le mani sul suo petto. Il naso del Cavaliere si immerse nell’acqua e vi sparì. Ma Azul non ci fece caso. Si morse il labbro inferiore con i denti appuntiti e assaggiò la durezza del sesso che aveva sotto le natiche, strofinandovisi discinto. Il sesso era terribilmente duro, per il piacere della bestia. Sentì distrattamente il rumore di bolle d’aria uscire dall’acqua. Piegò il capo all’indietro e continuò a strusciarsi, ma poi smise di fare pressione con le mani sul suo petto e si sporse di nuovo in avanti. Le mani scivolarono sulle spalle e lo tirarono a sé con dolcezza. Imesah riemerse dal sangue con la faccia arrossata da quel liquido e i capelli impregnati.

“-Ah!” Tirò una boccata d’aria, di nuovo il suo petto prese ad alzarsi ed abbassarsi. Azul non gli diede tregua. Gli ordinò di alzarsi a sedere, tirandolo piano, e Imesah lo assecondò senza che l’altro insistesse o imponesse forza. Si faceva manipolare sotto i tocchi delle sue dita sottili. Azul si protese addosso a lui. Fece aderire bacino, ventre, petto, e poi gli catturò le labbra in un nuovo bacio impedendogli di respirare. Imesah fece scorrere un braccio muscoloso, grande il doppio del suo, attorno ai fianchi del drow e lo strinse a sé con sfacciatezza per sentirlo ancora meglio. Azul si inarcò nelle sue braccia e gemette nella sua bocca. La mano sinistra invece scivolò oltre l’anca e gli afferrò una natica. Azul si strinse maggiormente al suo collo e premette l’erezione contro la sua pancia. Imesah premette le palpebre con forza nel sentire il proprio sesso venire invaso da una scarica di calore.

Premette con un dito sullo sfintere della bestiola e lo torturò, massaggiandolo, per un po’ di tempo. Lei reagì afferrandogli i capelli rossi e gemendo nella sua bocca più volte. Lui la penetrò mentre era immersa nel misto di acqua e sangue. Il dito le scivolò dentro, mentre la creatura si premeva contro il corpo dell’umano e staccava le labbra dalle sue per emettere un grido poco umano. Lui continuò ad affondare dentro di lui con il dito, e Azul prese a muoversi su e giù, facendo scorrere le unghie delle dita sulle scapole e la schiena chiara dell’uomo, rigate dal sangue che gli colava dalle spalle e dai capelli pregni.

“Ah…” Il dito di Imesah lo abbandonò. Azul sembrò calmarsi. Imesah si staccò appena da lui e cercò di guardare la sua faccia che, sotto la luce di quelle candele, quella sera, sembrava più quella di un naga. Era una faccia posseduta dagli istinti e segnata dal piacere. Si scostò da lui. Si chinò fino a immergere la testa nel sangue. Ne fuoriuscì e cercò la bocca di Imesah. Quando lui lo accolse, riversò il sangue nella sua bocca. Imesah ingoiò il sangue e poi si lasciò baciare, così che Azul potesse sentire il sapore del sangue sulla sua lingua. Quando si staccò, la bestia emise un altro verso soddisfatto.

Si sedette di nuovo su di lui. Unì le mani per raccogliere un po’ del liquido, e le sollevò sulla testa di Imesah. Il Cavaliere fissava lui, in viso. Azul invece guardava il liquido scivolare oltre le mani che aveva separato e scorrere sulla faccia di Imesah, creando rivoli rossi tra i capelli e sui lineamenti del viso. Imesah chiuse gli occhi e si soffermò a goderne insieme a lui.

Piano, le braccia di Azul sparirono di nuovo nel liquido della vasca, rilassandosi. Azul fissò le sue palpebre. Imesah le aprì, e incrociò i suoi occhi. Il drow si sporse di nuovo verso di lui e si aggrappò come prima al suo collo. Poggiò i denti appuntiti al suo orecchio e prese a tirarlo e masticarlo piano. Imesah venne preso da un brivido di piacere. Appoggiò la schiena all'indietro sulla parete della vasca. Lo afferrò per le anche e se lo sistemò di nuovo addosso, per bene. Azul era così leggero e debole rispetto a lui che era davvero semplice per lui manipolare il suo corpo. Si guidò l’erezione sull’apertura di Azul e iniziò a penetrarlo affondando lentamente dentro di lui.

“Nh!” Il drow esclamò un verso di sorpresa e si irrigidì contro l’altro, protendendo il bacino. Si fece penetrare completamente, poi lasciò che uscisse per metà per poi spingersi di nuovo in fondo. Sentì il bassoventre dell’umano aderire alle sue natiche senza lasciare più spazio al sangue.

“Mh!” Soddisfatto, Azul prese ad assecondarlo. Salì con i fianchi mentre lui usciva, scese mentre lui lo prendeva di nuovo. Imesah poggiò la testa e le spalle al bordo della vasca e ad occhi chiusi e labbra dischiuse gemeva di piacere e lo muoveva su di sé. Azul continuò a tenersi addosso al suo torace con il proprio corpo e peso, ma scendeva e saliva per sentire l’altro muoversi dentro di sé. Il ritmo si fece più intenso, e la creatura si alzò a sedere su di lui. Iniziò a muoversi su e giù da solo con le braccia che si tenevano sugli addominali dell’umano. I movimenti affiatati smuovevano e agitavano il liquido della vasca, che strabordava quasi ad ogni affondo di Azul che si impalava sopra l’altro. La bestia non se ne curava. Continuava a muoversi su e giù con una fluidità disarmante, sentendo l’erezione dell’altro riempirlo e scorrergli dentro ed emettendo versi di soddisfazione.

Sentì la mano di Imesah avvolgersi attorno al suo pene e masturbarlo. Iniziò a muoversi con più foga. Quando le spinte di reni dell’umano si fecero sentire ancora di più lo fecero gemere forte, e gli fecero strizzare gli occhi.

“Nh!” Esclamò, e tutto il suo corpo fu posseduto da un violento fremito.

“Mh! Mh! Hn…” Continuò ad assecondare i colpi di Imesah e a farsi penetrare nel ritmo serrato e nella foga che avevano intrapreso, e quando sentì di stare arrivando al culmine si strinse tutto e pianse con un singulto e due lacrime a impreziosirgli le ciglia.

Un guaito sopraffatto lo colse e lui si irrigidì sopra l’altro. Le natiche dischiuse rimasero ferme a farsi possedere dalle ultime spinte mentre veniva nella mano del compagno. Con poche altre spinte sentì il pene dell’umano pulsargli dentro e venire dentro di lui.

“Nh!” Esclamò di nuovo, lasciando che i muscoli si rilassassero improvvisamente per godere dell’orgasmo. Si accasciò sul corpo dell’altro e chiuse gli occhi. Imesah rimase dentro di lui e, con la nuca poggiata sulla vasca, si assopì sotto la bestia.


Azul non seppe quanto tempo era passato, ma sapeva che era ancora buio. Aprì gli occhi, coperti da una patina di disorientamento. Rimase a fissare la vasca sporca di sangue per diversi minuti.

“Imesah.”

Il Cavaliere aprì gli occhi. Dopo qualche secondo si svegliò, e sbatté le palpebre. Abbassò appena lo sguardo. Azul era più giù, con la guancia sul suo petto, non poteva vederlo.

“Avevo paura.”

Gli sussurrò il compagno. Imesah sbatté di nuovo le palpebre, senza che il resto della sua espressione cambiasse. Se era perplesso, nessuno l’avrebbe potuto intuire.
Il silenzio riprese possesso del luogo per un altro minuto prima che Azul proseguisse. La sua voce era umana, stanca, e calda.

“Non sapevo cosa fare. Non volevo affrontarti. E non volevo farti arrabbiare. Così non ho fatto nulla. Proprio nulla.”

Imesah lo sentì scostarsi dai peli rossi del suo petto per strofinarci un poco la faccia.

“Ed è andata male.”

Il Cavaliere fissò intensamente l’attaccatura tra la parete di fronte e il soffitto. Dopo trenta secondi la sua voce echeggiò sulle pareti del bagno.

“Nell’occhio del ciclone, stare fermi non è mai una buona idea. Qualsiasi cosa, falla.”

Lo sentì strofinare la testa sulla propria pelle mentre annuiva.

“E poi, lo sai.”

Proseguì Imesah.

“Saab adora le scelte.”




 
Azul e un suo ex amante mezzodrow, Aiden.
   
 
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