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Autore: SoleStelle    24/02/2017    0 recensioni
Selene è una ragazza minuta che vive nella rabbia e nella tristezza.
Dopo essere stata tradita da chi, in teoria, doveva proteggerla e volerle bene si chiude in se stessa.
Si trasforma in una vera e propria menefreghista, continuando a coltivare, in segreto, il sogno di tornare come prima. Decisa a riconquistare l'amore perduto, si aggrappa a qualsiasi possibilità che la vita le offre.
Ma...se l'amore non è perduto, come nel suo caso, ma diviso?
Sa che lui la amava ma sa anche che ora lui ha un'altra..
Riuscirà a riconquistarlo?
Dal capitolo 16
Nell’istante in cui lo vidi così mi sentii come svuotata.
Non soffriva certo come avevo sofferto io ma aveva avuto la sua lezione.
“Perché dobbiamo farci questo?” chiesi. “Perché hai iniziato questa stupida guerra?” aggiunsi.
Dal capitolo 30
Voltai il viso e mi guardai intorno sofferente.
Tutti facevano delle cretinate enormi ma venivano lodati. Io che facevo la cosa più giusta del mondo venivo presa di punta e punita.
Non è giusto.
Non è assolutamente giusto.

Ero arrabbiata.
Ero invidiosa.
Ero gelosa.
Ero affranta.
Genere: Introspettivo, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Ero sempre stata magra ma non avevo mai avuto problemi di salute, avevo sempre fatto molto sport e quello mi aveva sempre aiutata a smaltire tutto quello che ingerivo, in più, nostro padre in quello era molto categorico: esami due volte all’anno.
Ogni problema di salute non doveva nemmeno avvicinarsi ai suoi figli.
Per Selwyn era una cosa del tutto normale, lui faceva già le analisi ogni sei mesi per la boxe mentre per me era una condizione imposta alla quale non mi sarei mai ribellata.. non sapendo i problemi di salute di mia madre, ex ballerina di danza classica, che aveva ceduto a piccoli peccati di gola e aveva eliminato le calorie in eccesso nel modo sbagliato.
I problemi alimentari nella mia famiglia erano un tasto dolente e io, ora, ero troppo magra. Avevo perso peso drasticamente da quando, mesi prima, ero arrivata nella casa dei miei genitori a Roma. Il mio stomaco si era chiuso e con il passare del tempo il mio fisico si era rimpicciolito, consumando quel poco che poteva consumare.
Se fossi salita sulla bilancia il mio peso non avrebbe mostrato un calo eccessivo, ma quei sette chili persi in undici mesi, su un corpo già minuto come il mio, erano molto visibili.
Mio fratello mi guardò malissimo. Sapevo che stava fissando i miei fianchi dove, anche con i chili in più, sporgevano le ossa del bacino. Quelle ossa che ora erano incredibilmente in vista, tanto da fare quasi impressione anche a me stessa.
Cercò di rimproverarmi ma appena vidi nel suo sguardo quello che stava per dire esplosi.
“Non sono come nostra madre.” sbottai, ancora prima che potesse aprire la bocca.
Non volevo essere paragonata a lei perché i suoi problemi erano dovuti dall’ossessione di rimanere in perfetta forma volendo, però, mangiare di tutto e di più. Lei era stata la causa dei suoi stessi problemi e lo aveva fatto in modo consapevole. Io, invece, non avevo fame.. e anche quel semplice fattore non era per colpa mia.
Adoravo i manicaretti che la cuoca, italiana, della casa in cui abitavo a Londra mi cucinava e li mangiavo senza preoccuparmi delle conseguenze.. questo però quando ero, appunto, a Londra. Ora che ero a Roma gli stessi manicaretti mi facevano chiudere lo stomaco in una morsa e allontanavo il piatto senza nemmeno toccarlo.
La cuoca le aveva provate tutte, dai piatti italiani a quelli inglesi: lasagne, cannelloni, pizza, shepherd's pie, sunday roast e trifle. Aveva provato a prepararmi anche delle semplici insalate o dei semplici piatti di pasta in bianco ma il risultato non cambiava. Spiluccavo qualche boccone, poi allontanavo il piatto nauseata. Una volta, addirittura, avevo mangiato mezzo boccone di filetto alla Wellington, per poi arenarmi. quella era stata la volta in cui la cuoca aveva capito che non c’era niente da fare. Io che non mangiavo il mio piatto preferito era veramente qualcosa che non si era mai visto.
Motivo in più per non essere paragonata a nostra madre.
“Ecco perché papà è così preoccupato.” sussurrò, credendo che non lo sentissi.
“Papà si preoccuperebbe anche se vedesse te bere del Jack Daniel’s.” risposi, riferendomi al bicchiere che aveva in mano. “Sei un’atleta e non dovresti bere.” lo rimproverai. Mi ignorò e svuotò il resto tutto d’un sorso.
“Poi ti chiedi da chi abbia preso. Con un esempio come il tuo non poteva di certo diventar meno testona!” disse Ricky. Mi sentii leggermente offesa per il suo insulto però non mi scomposi.
“Sappi che questo non cambia nulla.” dissi, voltandomi verso la porta. “Potrai anche preoccuparti del mio peso ma io continuerò ad odiarti.” aggiunsi, uscendo.
Avevo mentito a mio fratello. Lo avevo fatto di proposito e non avevo avuto il coraggio di guardarlo in viso mentre lo facevo, eppure ero contenta di averlo fatto.
Si meritava di soffrire come lui aveva fatto soffrire me.
Rimasi con le spalle appoggiate alla porta ad ascoltare i loro discorsi. Insulti, imprecazioni, sbuffi, ringhi.
Dalla sottile porta sentivo tutto.
Mio fratello insultarlo.
Richard difendersi.
Mio fratello incolparlo.
Richard controbattere, prendendosi le colpe al posto mio.
Mio fratello insultarmi.
Ricky difendermi animatamente.
Mi staccai dalla porta quando sentii qualcuno sbatterci contro.
Si stavano picchiando ancora.
Trattenni il fiato per non far scoprire loro che ero ancora li.
Speravo solo che Ricky non avrebbe riportato nessun segno. Non me lo sarei mai perdonata.
Aveva una sola cicatrice quando lo avevo conosciuto.. una strisciolina sulla clavicola. Lato sinistro. Era lunga circa cinque centimetri, partiva dall’attaccatura del collo e scendeva in una diagonale di quarantacinque gradi perfetta, puntando all’esterno. Era spessa non più di due millimetri e risaliva ad uno dei primi incontri fatti, quando ancora si divertiva a prendere a pungi le persone fuori da un ring.
Ora, però, i segni erano aumentati incredibilmente.
Una cicatrice sul sopracciglio destro, una sulla spalla destra e una, la più grossa, sul polso sinistro. Quella era quella che più di tutte non sopportavo, ma che, al tempo stesso, amavo. Si stagliava sul suo polso, quasi fosse un braccialetto, e lo segnava in tutta la lunghezza sottostante, attraversandolo da parte a parte. Era spessa mezzo centimetro con i segni dei punti che si stagliavano prepotenti.
Anche quella se l’era fatta durante un incontro non autorizzato. L’incontro che aveva segnato la nostra storia.
Sorrisi amaramente perdendomi in quella serata.

   
 
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