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Autore: Adeia Di Elferas    25/02/2017    2 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Caterina si era chiusa nello studiolo del castellano e si era messa alla scrivania. Doveva immediatamente scrivere a Tommaso Feo informandolo di quello che era accaduto e dandogli precisi ordini su come agire nelle ore che li aspettavano.

Tuttavia, quando prese tra le dita la penna e cercò di intingerne la punta nell'inchiostro, la Contessa si accorse di tremare troppo per riuscire in quel semplice compito.

Respirò a fondo un paio di volte, sentendo i polmoni in fiamme e vedendo riaffiorare le lacrime, ma il tremito non accennava a scomparire. Lasciando cadere la penna sul tavolo, si prese la testa tra le mani e premette tanto forte da farsi male da sola.

Quello che era capitato le sembrava così assurdo e impensabile che anche solo provare a ragionarci sopra la faceva impazzire.

Il castellano entrò di volata nello studiolo: “Ho fatto quello che mi avete chiesto, mia signora.”

La Contessa non osò alzare lo sguardo verso di lui. Sapeva che sarebbe scoppiata a piangere e non voleva farlo. Non voleva mostrarsi confusa, né debole. Quelo momento era troppo concitato, troppo delicato, per permettersi di cedere. Doveva essere lei per prima a dimostrarsi sicura di sé, malgrado tutto, o i suoi uomini avrebbero permesso all'incertezza e alla paura di farsi largo anche nei loro animi.

Tenne nascosto il volto tra le dita e pregò che Cesare Feo fosse più pronto di lei a prendere decisioni, perché quella sera, almeno per il momento, lei si sentiva del tutto svuotata da ogni volontà. Per quanto volesse essere come sempre la guida del suo Stato, il pensiero di quello che era capitato a Giacomo la faceva sentire impotente, senza capacità, senza forza.

Il castellano, rimasto sulla porta, ansante per la corsa, stava per dire qualcosa, quando una guardia gli si fece alle spalle, annunciando: “Il figlio del notaio Spinuccio Aspini vuole parlare con Sua Signoria!”

Caterina si morse il labbro con tanta forza che per poco non se lo fece sanguinare. Il castellano e la guardia attendevano un suo gesto e lei sapeva che non poteva arrendersi. Se lo avesse fatto, allora tanto sarebbe valso buttarsi dalle merlature della rocca e farla finita per conto proprio senza nemmeno scomodare i suoi soldati.

Doveva restare viva e lucida e vendicare Giacomo.

Dopo, forse, avrebbe potuto congedarsi dal mondo in pace e raggiungerlo all'inferno, se era davvero quell'avello infuocato il posto in cui era finito il suo Giacomo. Quando ne aveva parlato, lui era sembrato convinto di essere destinato alla dannazione eterna e a quel punto Caterina pensava di non essere da meno. Se non altro, anche se straziati dai diavoli e dalle fiamme, sarebbero stati di nuovo insieme...

“E cosa vuole?” chiese Caterina, lasciando la scrivania e facendo segno alla guardia affinché le facesse strada.

Il soldato disse di non saperlo e la condusse fino alle merlature frontali della rocca. Oltre il fossato, il ragazzo che era stato annunciato aspettava con le mani strette al petto e lo sguardo rivolto verso l'alto.

Nel mettersi in mostra oltre le spesse mura di Ravaldino, Caterina si sentì come quando gli Orsi l'avevano minacciata e il ricordo non fece altro che riempirla ancora di più di paura.

Voleva essere forte, voleva essere dura e perentoria, ma quella volta la recita era molto più difficile, rispetto a quando il morto assassinato era stato Girolamo.

L'idea che Giacomo fosse stato ucciso, che il suo corpo fosse chissà dove e chissà in quale stato, la consapevolezza di non poterlo più vedere, sentire, stringere a sé... Erano tutte cose che stavano distruggendo l'anima di Caterina come mai nient'altro aveva fatto.

Eppure, quando si rivolse al giovane Aspini, la sua voce era ferma e sicura: “Che volete?”

Il ragazzo tossì un paio di volte, lanciando nervose occhiate ai curiosi – molto pochi, giacché tutta Forlì era riversa in piazza, davanti al palazzo dei Riario – e rispose: “L'Auditore chiede se deve credere a messer Gian Antonio Ghetti, che dice di aver ucciso il Barone Feo per ordine vostro e di vostro figlio il Conte!”

Sentendo il nome di Gian Antonio Ghetti, la Contessa avvertì una fitta al cuore. Quando aveva visto Giacomo trascinato giù di sella, non aveva riconosciuto nemmeno uno degli uomini che lo stavano colpendo. Mai, in nessun caso, si sarebbe aspettata di sentire il nome di un uomo che aveva ritenuto fino a poche ore prima tra i più fidati al suo servizio.

“Ghetti è un assassino!” gridò Caterina, aggrappandosi alla merlatura: “Un assassino vero! Un assassino infame! Io non ho ordinato nulla di tutto questo! Che l'Auditore lo arresti subito e lo porti qui! Oltre ad avere ucciso, osa anche mettere in giro una simile calunnia! È solo un vile! La nostra vendetta sarà inesorabile e immediata!”

Senza attendere altro, Aspini si girò e riprese a correre verso il cuore della città, per riferire le parole della Contessa.

Caterina sentì il bisogno di sedersi, per non svenire. Sotto gli occhi sbigottiti delle sentinelle, di norma abituate a vedere la loro signora impassibile – o al massimo rabbiosa – dinnanzi a qualsivoglia avvenimento, la donna si lasciò scivolare lentamente verso il basso, con la schiena appoggiata al muro, fino a trovarsi accasciata a terra, priva di forze.

“Mia signora...” il castellano fu accanto a Caterina prima che lei si accorgesse del suo arrivo sui camminamenti: “Attendo ordini.”

La Contessa si asciugò le guance con il dorso della mano e poi, deglutendo a stento, ricacciò il nodo che le stringeva la gola fino in fondo al petto e disse: “Dobbiamo scrivere subito una lettera a Imola. Poi dovete mandare qualcuno a cercare mia figlia. E qualcun altro a mettere al sicuro mio figlio Bernardino. Ora che suo padre è morto, potrebbero voler uccidere anche lui.”

Cesare Feo sbatté le palpebre, chiedendosi se avesse capito bene. La sua signora gli stava davvero confermando ciò che le chiacchiere avevano ripetuto per anni? Bernardino Carlo Feo era davvero il figlio della Contessa?

Caterina tirò su col naso e, puntellandosi contro il muro e contro il castellano, si rimise in piedi, soggiungendo: “E infine dobbiamo dichiarare lo stato di guerra.”

 

L'Auditore stava aspettando trepidante davanti al portone del palazzo. In piazza la folla rumoreggiava sempre di più e qualche dubbio cominciava a prendere i più sospettosi.

Finalmente Aspini si ripresentò, di corsa e ansante, ed ebbe il suo bel daffare a sgusciare tra la gente assiepata, che chiedeva con insistenza che avesse detto la Contessa e come avesse reagito alle parole di Ghetti.

Il ragazzo, senza fiato, si aggrappò alla spalla dell'Auditore, che in tutto quel tempo non aveva mai perso di vista Gian Antonio Ghetti e i suoi, cercando di imprimersi bene in mente i loro volti e i loro nomi, in caso di necessità.

Aspini riferì nell'orecchio dell'Auditore tutto quello che la Contessa aveva gridato dalle merlature di Ravaldino, aggiungendo anche che la donna gli era parsa sinceramente sconvolta e desiderosa di vendetta.

L'uomo, che non aspettava altro che quello per agire, si avventò con impeto su Ghetti, invece di lasciare che fossero le guardie ad arrestarlo: “Traditoraccio!” gli ululò a un millimetro dal naso, mentre lo afferrava per il petto: “Che cosa mi hai detto, tu, eh?! È tutto il contrario!”

Gian Antonio provava a divincolarsi, ma l'Auditore lo teneva stretto, senza accorgersi che intanto gli altri congiurati cominciavano a dileguarsi – seppur a fatica – tra la folla.

“Sta' fermo, sta' fermo, traditore!” gridava l'uomo, facendo intanto segno alle sue guardie di procedere all'arresto, mentre tutt'attorno esplodeva il caos: “Vieni, vieni da madonna alla cittadella!”

Comprendendo di colpo tutto quanto, Ghetti si sentì in trappola. La Contessa lo avrebbe ucciso, senza ombra di dubbio. Quale che fosse il motivo per cui aveva negato di essere la mandante di quell'omicidio, era chiaro che se ne volesse discostare.

Mosso dal mero istinto di sopravvivenza, Gian Antonio diede uno strattone tanto forte che per poco non mandò l'Auditore gambe all'aria e riuscì a liberarsi.

Incapace di riprendere il fuggitivo, il portavoce della Contessa cominciò a gridare: “Cento ducati, in nome di madonna la Contessa, a chiunque consegnerà vivo, o le prove di averlo ammazzato, Gian Antonio Ghetti!” a quella promessa, moltissimi si misero a rincorrere il cospiratore, il quale scansava tutti con gomitate e colpi di roncola.

“In nome di madonna la Contessa!” continuava l'Auditore, sgolandosi tanto da sentire la trachea ardere: “Cento ducati! Cento ducati!”

I più rapidi a mettersi alle calcagna di Gian Antonio, furono Bernardo Mangianti e il giovane Bastiano, ma presto anche molti altri li seguirono, alzando i pugni al cielo o brandendo armi di fortuna.

Mentre la piazza si trasformava in una bolgia infernale, la campana pubblica cominciò a suonare a martello.

La guerra era cominciata.

 

Don Domenico da Bagnacavallo, accortosi del malumore che stava infiammando la folla, riuscì a lasciare il gruppo dei congiurati poco prima che i forlivesi cominciassero ad attaccare.

Il popolo gridava minacce e in tanti si lamentavano, dicendo che per colpa di pochi, in molti avrebbero perso la vita per mano della Contessa. Il polso ferreo della Signora della città era noto a tutti e molti ricordavano gli arresti e le condanne da lei voluti nel corso degli anni. Sapevano che, se era vero che lei non aveva voluto la morte del Feo, in molti avrebbero pagato per quello sgarro.

Don Domenico, mesto nei suoi abiti da religioso, riuscì miracolosamente ad abbandonare la piazza e corse, col cappuccio ben tirato sul viso per celare tanto le sue fattezze, quanto le macchie di sangue, a casa del cognato, Giorgio Gobbi.

Quando si vide arrivare sulla porta il prete, Gobbi, che era tra i pochissimi a non essere accorso in piazza per paura di venire coinvolto in qualche rissa con cui sentiva di non avere nulla a che fare, trasecolò.

“Ma che..!” esclamò, fissando Don Domenico come se fosse stato un fantasma.

“E fammi entrare!” esclamò il prete, che non si sarebbe atteso una simile accoglienza dal suo parente.

“Che cosa avete fatto?” chiese Giorgio, notando le chiazze rosse che imbrattavano il viso e gli abiti scuri del cognato.

“Dove mi posso nascondere?” chiese Don Domenico, senza perdere tempo: “Fosse anche un buco, dimmi dove!”

Gobbi si arrovellò, mentre la moglie, sorella del prete, compariva da una delle camere, gli occhi sbarrati e le labbra tirate in un'espressione di profonda preoccupazione: “Non possiamo tenerlo qui!” fece la donna, rivolgendosi al marito: “Sarà anche mio fratello, ma se vuole nascondersi vuol dire che ha fatto del male e se lo teniamo qui, finiamo con la testa su una picca con lui!”

Giorgio aprì la bocca, per ribattere, ma il prete intimò alla sorella: “Tu taci, donna!” e poi si rivolse al padrone di casa: “Un nascondiglio! Presto!”

Senza sapere da che parte voltarsi, alla fine Gobbi condusse Don Domenico nella camera da letto e, indicando la cassapanca che aveva fatto parte del corredo della moglie, gli disse: “Vuotate tutto quello che v'è dentro e nascondetevi lì.”

Il prete si fece il segno della croce e, senza più pretendere nulla, eseguì l'ordine.

 

Pavagliotta e Filippo Delle Selle erano riusciti ad arrivare alle mura della città, ma avevano trovato il portone chiuso.

Le guardie avevano seguito l'ordine sotteso alle campane a martello. Come in stato di guerra, la città era stata serrata e isolata.

Lottando come leoni feriti, però, i due uomini riuscirono a intrufolarsi sui camminamenti e da là, rischiando la vita, si lasciarono cadere giù dalle mura, atterrando fortunosamente su dei grossi cespugli che attutirono in parte il colpo.

I vestiti, già strappati dalle mani rapaci della folla che aveva cercato di afferrarli, si ridussero in brandelli per via degli spuntoni e delle spine in cui erano caduti, ma ciò non bastò a fermare la loro fuga disperata.

Per quanto doloranti e sanguinanti, Pavagliotta e Filippo sapevano di essere ancora vivi e, visto come stava andando quella serata, quello era già un grandissimo successo.

Sui camminamenti si stavano concentrando tantissimi soldati, tutti quanti armati di arco e affiancati da popolani inviperiti, che non avrebbero desiderato altro se non poter fare a pezzi personalmente almeno quei due congiurati.

Evitando per pura fortuna tutti i dardi che venivano scagliati loro contro, Pavagliotta e Delle Selle si rialzarono, acciaccati e sciancati e si allontanarono dal limen cittadino, inoltrandosi nella sera che si stava facendo sempre più scura.

 

Gian Antonio era arrivato alle beccherie, inseguito da una stormo vociante e furibondo di forlivesi, che lo additavano come portatore di disgrazie e lutti.

Scivolando sul terreno reso viscido dal sangue che gocciolava tutti i giorni dai pezzi di carne appesi ai becchi dei venditori, Ghetti sentiva il cuore pronto a esplodergli e i muscoli del petto tanto tesi nello sforzo di continuare a respirare da dolere.

Bernardo Mangianti, assieme a due amici, era il più veloce degli inseguitori e finalmente lo raggiunse a metà del vicolo.

Atterratolo, cominciò, assieme ai due compari, a picchiarlo con pugni e calci, del tutto insensibile alle preghiere dell'uomo, che si contorceva contro i loro colpi come una biscia di fiume.

Malgrado la violenza dei tre, però, Ghetti restava un soldato ed era armato. Forte del fatto che la cotta di maglia gli stesse riparando gran parte delle botte, Gian Antonio sfuggì dalle mani dei suoi assalitori e, tenendoli lontani con la roncola che ancora portava con sé, si rimise in piedi e riprese a correre.

Da vero topo in trappola, assordato dal suono battente delle campane a martello, Ghetti si trovò in vista del Duomo. Come se davvero sperasse di trovare la salvezza nella casa del Signore, l'uomo vi corse dentro non appena vide che il portone non era sprangato.

La santità del luogo tenne fuori solo i popolani più timorosi, ma non Mangianti e i suoi amici.

Lottando senza quartiere, dopo aver attraversato la navata centrale, essere razzolati contro l'altare e aver colpito inavvertitamente anche un paio di statue di santi, Gian Antonio e gli altri arrivarono, tra avanzamenti e retrocessioni, alla loggia.

Ghetti era ferito, gravemente. Un paio dei compari di Mangianti avevano delle spade corte e la loro lama aveva infierito sulle zone non protette dalla cotta di maglia, eppure l'uomo non sembrava intenzionato né ad arrendersi, né a morire.

“Dammi!” gridò Mangianti, facendosi passare la spada da uno dei suoi amici.

Ghetti si accorse troppo tardi di quella mossa e così non si spostò in tempo per evitare il colpo del nemico.

Mangianti caricò il braccio e colpì con la forza di una furia, centrando in pieno il cranio di Gian Antonio, che si aprì in due fino alle fauci.

E così Ghetti crollò in terra, morto.

 

Cobelli era arrivato in piazza quando la confusione era già predominante. Le campane suonavano a martello e la gente o scappava a casa o cercava di inseguire i fuggiaschi, spesso confondendosi e finendo per coinvolgere in inutili tafferugli persone estranee ai fatti.

“Che è successo?” chiese lo storiografo, fermando un uomo che stava correndo come un pazzo.

Questi lo guardò e gridò: “Hanno ucciso il Barone!”

Questo Cobelli già lo sapeva, ma non sottilizzò, sperando che l'uomo aggiungesse qualcosa in più, e così accadde.

“È stato Gian Antonio Ghetti! Lui e i suoi dannati compari!” proseguì il forlivese, guardandosi alle spalle terrorizzato.

Sul portone del palazzo, l'Auditore stava radunando le guardie e si stava di certo preparando a schierare i soldati e a cominciare perquisizioni a tappeto per tutta la città, alla ricerca dei congiurati.

“E ora dov'è, Ghetti?” chiese Cobelli.

L'altro, riprendendo a correre, gli braitò: “L'hanno ucciso al Duomo! Morto, è morto! Morto pure lui! E noi lo saremo presto!”

Lo storiografo, senza lasciarsi scomporre dal pessimismo del concittadino che, come molti, si stava facendo prendere dal panico, andò con passo lento verso il Duomo. Dovette stare attento a non farsi travolgere da quelli che correvano a destra e a manca e per poco non venne pure travolto da un gruppo di giovani che, armi in pugno, si dichiarava intenzionato a scovare tutti i Ghetti di Forlì e farli a pezzi.

Quando arrivò alla loggia, vide subito il cadavere dell'assassino di Giacomo Feo. Rispetto al Barone, Gian Antonio era in condizioni decisamente migliori, anche se nemmeno il suo viso era più riconoscibile.

Facendosi frettolosamente il segno della croce, il cronista lanciò uno sguardo al cadavere, registrando nelle mente il taglio disumano che apriva in due il suo cranio, e poi lasciò la chiesa.

Per quel giorno ne aveva abbastanza di cadaveri straziati.

 

Caterina aveva provato un paio di volte a riprendere in mano la penna, ma i tentativi erano stati fallimentari in tutto e per tutto. Tremava troppo e detestava vedere la sua mano tanto incerta. Così, non ostinandosi più del necessario nel voler scrivere di proprio pugno quella lettera così importante, si preparò a dettarla al castellano.

Aveva dato ordine a Cesare Feo di mandare dei soldati a cercare sua figlia Bianca e Bernardino, aveva mandato un via libera all'Auditore, di modo che cominciasse le perquisizioni in cerca dei congiurati che lui stesso aveva visto davanti al palazzo e poi aveva anche spiccato l'ordine per il Capitano Guglielmo Mongardini affinché la raggiungesse alla rocca a prendere le dovute consegne.

Tra tutti i soldati di cui disponeva la Contessa, quello era di certo il più crudele e il più spietato. Era quello giusto, per quell'occasione. Nessuno avrebbe mai dovuto dubitare del suo potere. La sua scure sarebbe calata su tutti i colpevoli e non solo. Come il Magnifico aveva estirpato le radici dei Pazzi a Firenze, così lei avrebbe fatto con gli assassini del suo amato Giacomo.

Caterina non aveva dubitato della fedeltà del suo esercito nemmeno per un istante, benché fosse ancora convinta che fosse in atto un colpo di Stato ai suoi danni, e Cesare Feo non aveva voluto sollevare opinioni avverse in merito, essendo certo quanto lei che la milizia non le si sarebbe mai rivolta contro. E così servirsi subito dei militari era parsa a entrambi l'idea più logica e prudente.

“Siete sicura di non voler mandare qualcuno a cercare anche il Conte Ottaviano e Cesare?” chiese per l'ultima volta il castellano, intingendo la punta della penna nel boccettino d'inchiostro.

Caterina strinse il morso. Stava accanto alla finestra, le mani appoggiate sul davanzale e lo sguardo perso all'orizzonte. Certo, che avrebbe voluto mandare qualcuno a cercarli. Loro – Ottaviano, per lo meno – erano sicuramente il fulcro di tutto.

Però non voleva uccidere i suoi figli.

Di tutte le colpe che avrebbero gravato su di lei a partire da quella notte, non voleva che vi fosse anche quella. Non voleva dare a Ottaviano il potere di farle compiere un peccato tanto grave.

Era dilaniata dal desiderio di vendetta e dalla repulsione verso un atto riprovevole come il togliere la vita alla propria prole, perciò rispose in modo secco, tentando di non scomporsi troppo: “No.”

“Potrebbero essere in pericolo...” suggerì l'uomo.

Caterina sollevò un sopracciglio: “Non è affar mio.” disse, a voce alta, quando avrebbe voluto pensarlo e basta.

Colpito da quell'affermazione, il castellano non sollevò più la questione e disse: “Dettatemi pure, sono pronto.”

La Contessa si schiarì la voce e cominciò: “Tommaso, vostro fratello Giacomo è stato ucciso.”

Seguì un attimo di silenzio, durante il quale Cesare Feo restò in attesa, poi Caterina deglutì rumorosamente e, ricordandosi delle proprietà imolesi di Ghetti e del fatto che la sua famiglia, proprio in quei giorni, vi si era recata – e ora cominciava a capire il perché – proseguì: “Vi ordino di mettere immediatamente a sacco la casa in Imola di Gian Antonio Ghetti, di ucciderne la moglie e i figli...”

Il castellano smise per un istante di scrivere, conscio della pesantezza di quell'ordine, ma la sua signora continuò a dettare senza indugio: “E quanti se ne trovano di Ghetti loro parenti.”

Finita la missiva, Caterina ordinò a Cesare di farla recapitare entro l'alba e così il castellano uscì dallo studiolo correndo.

Solo in quel momento a Caterina passò per la mente un dubbio orrendo, eppure concreto. Se Gian Antonio Ghetti era colpevole, come ormai pareva chiaro, era possibile che anche i suoi parenti, Domenico e Bernardino, fossero coinvolti?

Dando un pugno contro il muro, la Contessa maledisse una volta di più suo figlio Ottaviano e attese il rientro del castellano.

Dopo pochi minuti Cesare Feo fu di nuovo al suo fianco e così la donna lo mise a parte di un pensiero che aveva cominciato a tormentarla: “Giacomo avrebbe voluto delle Messe per lui, oltre al funerale, non credete?” chiese, sforzandosi di tenere un tono calmo: “Era devoto. Vorrebbe essere unto da un prete e portato in una chiesa. Vorrebbe che qualcuno pregasse per lui...”

Il castellano annuì, conoscendo la fede del nipote.

“Fate venire qui il mio cancelliere. Voglio che organizzi una veglia funebre e che recuperi il corpo di mio marito.” disse la donna, facendo segno a Cesare di sbrigarsi.

L'uomo assorbì a fatica l'informazione greve – eppure, doveva confessarlo, per lui non del tutto inaspettata – che la Contessa aveva concesso con quella frase. Suo marito. Dunque aveva davvero sposato Giacomo.

Uscendo di nuovo dallo studiolo in cerca di Cardella, Cesare Feo si fece il segno della croce e pregò che Dio frenasse l'ira della Contessa: 'O finirà per regnare su d'un cimitero', pensò.

 
   
 
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