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I ricordi
battono dentro di me come un secondo cuore.
John
Banville
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Passi echeggiano
nella memoria,
lungo il corridoio che mai prendemmo,
verso la porta che mai aprimmo, sul giardino
delle rose.
T.S.
Eliot, Burnt Norton – Quattro quartetti
Come un secondo cuore.
(O meglio, aneddoti sulla madre che
Rosamund Watson credeva erroneamente di non
avere e di come, poi, scoprì di essere stata in torto)
Dedicata a Jawn Dorian e non serve un perché.
Chi
è stata davvero sua madre?
Rosamund
se lo domanda spesso.
Sa
che è esistita una donna e che il suo nome, il nome che aveva scelto per sé,
era Mary Watson. Sa che l’ha amata teneramente e che avrebbe dato la vita per
proteggerla. In un certo senso l’ha fatto.
Sa
che era temeraria e spiritosa e perspicace e maledettamente intelligente.
“E
bella,” aggiunge Sherlock. Davanti alla sua espressione perplessa, lui rotea
gli occhi e storce la bocca, agitando le mani di fronte a lui in quel modo
concitato che si manifesta quando un particolare lo turba o lo innervosisce e
che decreta il carattere spinoso della conversazione che stanno affrontando.
“Non che abbia davvero importanza o che l’informazione possieda una qualche
rilevanza, ma, come mi è stato spesso fatto notare, la mia opinione in merito
alla natura di svariate situazioni è spesso errata. Perciò, Rosamund, ribadirò
l’ovvio e celebrerò il superfluo, affermando che tua madre era bella. Per il
resto del mondo lo era in modo canonico e noioso, per noi che l’abbiamo
conosciuta era bella nell’unico modo che conti.” Lui si allunga per poggiarle
l’indice contro la tempia, picchiettando delicatamente. “Qui dentro,” dice e
poggia l’altra mano sul suo petto, all’altezza del cuore. “E qui.”
*
Tra
tutti, Molly è quella con cui è più facile parlare di sua madre.
Con
Sherlock risulterebbe altrettanto semplice, se non fosse per la sua (poco)
sorprendente propensione a tergiversare o, peggio ancora, a fare lunghe
digressioni che alla fine li fanno sconfinare dall’argomento iniziale.
Rosamund
cerca di evitare il confronto diretto con suo padre perché le sue
domande finiscono per trascinarlo in un turbinio di infelicità e depressione
che tendenzialmente lo costringe a prendere il giorno libero dal lavoro.
Molly
è un terreno fertile e sicuro; non ha mine nascoste al di sotto. Con lei non
deve stare attenta a cosa dice o a come lo dice, non deve badare a non
mostrarsi troppo interessata.
“Com’era
lei?” Rosamund le chiede una volta, di fronte ad una coppa di gelato -
all’amarena per Molly, al pistacchio per sé.
Gli
angoli della bocca di Molly si sollevano in un sorriso speciale, che è
tipicamente suo. Rosamund non ha idea di come ci riesca, ma in quel sorriso lei
riesce a compendiare un’infinità di emozioni contrastanti. Il sorriso di Molly
è un’enciclopedia di sentimenti, così come Sherlock è un’enciclopedia e basta.
“Lei
era proprio come te.” Braccia incrociate sopra il tavolino, la cortina di
capelli che lei si è tagliata di recente e che le incorniciano il volto
affaticato. “Stesso sorriso impertinente, stessa sfacciata curiosità, stessa
tendenza a ficcanasare nei rapporti altrui,” conclude con uno scintillio
machiavellico negli occhi scuri.
Rosamund
prende un’altra cucchiaiata di gelato, fingendo di non capire a cosa si
riferisca (tutto sarebbe meno complicato, ricorda di aver pensato mesi
addietro, se Sherlock e Molly semplicemente accettassero di notare quello che è
già palese a tutti).
“Lei
era come te,” Molly ripete e qualcosa nel suo tono, nel modo in cui ha
pronunciato le parole, nell’atmosfera che le circonda è improvvisamente,
fatalmente diverso da quello di pochi istanti prima. “Brillante e diversa da
qualsiasi altra persona io abbia mai conosciuto. Lei era come te, come
Sherlock, come tuo padre. Attratta da un certo tipo di vita, dal pericolo,
dall’avventura, come una falena sedotta dal richiamo del fuoco. Allo stesso
tempo era come me, aveva imparato a sue spese la fragile bellezza di una vita
ordinaria e che il prezzo che viverla comporta è sempre più alto di quanto
preventivato, ma, oh, se ne vale la
pena.”
“Qual
è stato il prezzo? Per la mamma, intendo. Che prezzo ha dovuto pagare?” lei
chiede, anche se pensa di conoscere già la risposta. La deduce nella trazione
delle spalle di Molly, nella tensione delle sue mani, nelle sue sopracciglia
corrugate e nel modo in cui ha contratto le labbra.
Non è ovvio, domanda una voce dal
retro della sua coscienza e la voce, inutile dirlo, è una riproduzione fedele
di quella di Sherlock Holmes.
Gli
occhi di Molly sono pozzi di smisurata tristezza e per una volta non le lanciano
il salvagente che potrebbe salvarla dall’annegamento. “Lasciarti,” dice e a
Rosamund sembra di affondare nel pantano di tutto ciò che sta provando.
Affonda
e affonda finché le mani di Molly si allungano sul tavolo, scansando la coppa
di gelato, e afferrano le sue, riportandola a galla, sul pelo dell’acqua.
“Tua
madre era una brava persona,” Molly dice in tono fermo e pressante, ma anche
rassicurante. “Era una buona amica, una moglie devota e se le fosse stato
possibile sarebbe stata una madre fantastica. Cerca di tenerlo a mente, okay?”
Rosamund
ripensa alla raccolta di fotografie che Molly le ha regalato quando era molto
piccola, alle immagini che Sherlock conserva sulla memoria di un vecchio
cellulare che ogni tanto emette un suono simile a un gemito, al volto radioso
della donna nella cornice che suo padre tiene sul comodino e che sorride seraficamente
all’obiettivo come il quadro della Gioconda, come se nascondesse un segreto.
Non
è certa di capire, forse non sarà mai in grado di farlo, ma la vita è anche
questo. Sbagliare e cadere, rialzarsi e
scoprire.
Osserva
Molly, i fili d’argento nei suoi capelli, le rughe da sorriso intorno alla sua
bocca e annuisce, fiduciosa che, se anche fosse questo il caso, ci sarà sempre
qualcuno disposto ad ascoltarla, a sbrogliare la sua confusione. “Okay.”
Molly
le stringe la mano un po’ più forte ed è lì, nero su bianco, quello che
Rosamund ha cercato per tutta la vita. Non la madre che non ha, ma quella che
ha.
*
Se
c’è una cosa che Rosie detesta, più delle acciughe e dell’ipocrisia, è lo
sguardo di commiserazione che gli adulti le rivolgono quando scoprono che è
orfana di madre.
Non
c’è davvero nulla per cui dispiacersi, nulla da compiangere.
Il
fatto è che Rosie non sa. Non sa cosa
voglia dire avere una madre, non realmente, non nel senso usuale del termine.
Immagina
che significhi essere amati incondizionatamente, ricevere quei gesti di calore
e affetto e comprensione e indulgenza che ha avuto modo di osservare – non
senza invidia, lo ammette - negli scambi privilegiati tra le sue amiche e le
rispettive madri, insieme a mille altre emozioni duttili e prive di
circoscrizioni e perciò tanto più complicate da distinguere e afferrare.
Rosie
non ha avuto la fortuna di conoscere sua madre, ma la realtà di ciò che
possiede le rende molto facile fantasticare su quello che avrebbe potuto
aggiungersi a quanto ha già.
Il
sorriso selettivo di Sherlock, destinato al numero ristretto dei suoi rari
riceventi; il suono roco della sua risata quando riesce a farlo divertire con
una battuta da umorismo nero o particolarmente mordace; il senso di
appartenenza e benessere che contraddistingue i pomeriggi trascorsi nella
cucina disordinata del 221B di Baker Street a svolgere compiti ‘di dubbia
utilità’ o a fare sperimenti; come si trova a proprio agio davanti a un
microscopio o con un becco Bunsen tra le mani; le serate trascorse a declamare
Shakespeare di fronte a Billy il Teschio, a leggere Robert Louis Stevenson ed
Emilio Salgari, drammaturghi greci come Sofocle ed Eschilo; imparare a spegnere
il frastuono del mondo con concerti per violino che l’hanno accompagnata sin
dall’infanzia, un sottofondo costante dal retrogusto dolce e pastoso come
sciroppo d’acero.
L’espressione
di soffusa dolcezza sul viso di Molly, così forte e coraggiosa e protettiva; la
sensazione delle sue mani gentili e meticolose quando le pettinava i capelli e
li legava nei buffi codini sbilenchi che lei adorava da bambina; le lunghe
sessioni di acquisti sfrenati a Portobello, Brick Lane, Camden e al Rokit, per
scoprire come sentirsi a proprio agio con un corpo che cresce e cambia,
come amarsi anche quando lo specchio sembra mostrare soltanto difetti e
imperfezioni; il secondo mercoledì del mese al Prince Charles Cinema, per
sognare ad occhi aperti mondi impossibili, terribili e meravigliosi; le
domeniche occupate a infornare dolci, a rubare assaggi dalla cucchiarella, a
finire ricoperte da una pioggia di farina e a ridere fino ad avere mal di
pancia; le magnifiche sette signore della letteratura inglese, Terry
Pratchett e il lato romantico e triste
dietro le grandi storie tragiche e avventurose.
Il
contrasto di chiaroscuri che si rincorre in fondo agli occhi di suo padre
quando, credendosi al sicuro e non visto, la osserva di nascosto e cerca nel
suo profilo, nel modo in cui si muove, in cui parla, tracce della donna che ha
amato e che tuttora gli riempie il cuore. Suo padre che al chiaro di luna, con
un whisky tra le mani, parla di lei a un’ombra che nessun altro riesce a
vedere; che va all’acquario una volta l’anno e che al suo ritorno piange in
silenzio, quando è convinto che lei dorma; che deposita un piccolo bouquet
(mughetto, calle, rose bianche, ortensie, nontiscordardimé) sulla tomba di sua
madre nel giorno del loro anniversario. Suo padre che le ha insegnato a
medicare piccole ferite superficiali e a riconoscere la gravità di una lesione
ancora prima che lei imparasse ad allacciarsi le scarpe, il cui abbraccio un
tempo ha delimitato la circonferenza e l’ampiezza del suo mondo, ma che non ha
mai rappresentato un confine, solo una frontiera da attraversare ogni volta
prima di affrontare le sue battaglie personali.
Molly
è la pazienza, suo padre è l’impazienza, Sherlock è il compromesso.
Sherlock
l’ha accompagnata al poligono di tiro per la prima volta, suo padre le ha
comprato una pistola e le ha mostrato come mantenerla in buono stato, Molly
l’ha convinta a partecipare a lezioni di autodifesa.
L’orgoglio
di un bel voto, di una deduzione corretta, di un’azione altruista.
La
rabbia di una bugia, la punizione della loro delusione e la ricompensa del loro
perdono perché ‘sbagliare è umano, Rosamund’.
Il
modo unico e speciale in cui pronunciano il suo nome.
Rosamund, dice Sherlock e sembra
uno scioglilingua, un incantesimo che scacci via gli spettri del passato che di
quando in quando si riaffacciano sulle pendici della sua memoria infinita.
Rosie, dice Molly e nella sua
voce c’è l’amore di una donna, dell’unica madre che ha conosciuto.
E
poi c’è suo padre. Il suo ‘Rosie’ che è un rimprovero sbuffato quando rincasa
con uno scarto di qualche minuto di ritardo e lui è in piedi nell’ingresso, ad
aspettarla con il cappotto in mano, il cellulare all’orecchio e con un piede
fuori dalla porta di casa, già pronto ad uscire a cercarla e ad allertare l'Ispettore Lestrade; ‘Mary’ per i
momenti di maggiore tenerezza.
Definitivamente,
Rosie non sa cosa significhi avere una madre, ma la verità, semplice e senza
fronzoli e soltanto un po’ dolorosa,
è che non sa neppure cosa significhi non averla. L’importanza di un padre e
della famiglia che ha, per quanto singolare e non ortodossa, allontana da lei
la malinconia di quello che sarebbe potuto essere.
E
sua madre è lì, con lei.
In
un certo senso le piace credere che sia stata con lei in ogni momento della sua
vita.
Rosie
sa dove cercarla, dove trovarla.
Mary
è nello sguardo intenso di Sherlock, è nel sorriso luminoso e commosso di
Molly, nei modi di fare apprensivi di suo padre.
Sua
madre sopravvive in loro, oltre che nei loro ricordi, proprio come un secondo
cuore che batte all’unisono con i loro, nell’amore che nutrono per lei.