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Autore: Acqua e Alloro    27/02/2017    13 recensioni
Interattiva: iscrizioni chiuse
[…] Le gambe di Febo cedettero e il ragazzo cadde in ginocchio di fronte al padre, tremante di colpe e con nel cuore una consapevolezza amara. Strinse le mani come in preghiera, negli occhi un terrore immane che gli occluse i sensi.
“Padre, perdono. Mi è sfuggito” […]

Sono passati secoli dal giorno in cui Teodosio ha spento i fuochi di Vesta a Roma. Tutti ricordano le proteste, le statue distrutte e quei settemila politeisti massacrati a Tessalonica, ma ben pochi sono a conoscenza della guerra che si è combattuta sull’Olimpo. Una guerra che non ha portato nient’altro che macerie e odio, una lotta che si è conclusa con la fine degli dei e l’avvento del Cristianesimo.
Ma gli dei non sono mai morti per davvero.
Il loro più grande nemico si è risvegliato e ha deciso di finire il lavoro che aveva lasciato in sospeso.
I mezzosangue saranno chiamati a combattere, ma cosa succederebbe se il loro nemico … fosse Dio?
Gli anni del Terrore Cristiano stanno per avere inizio. Di nuovo.
Genere: Drammatico, Guerra, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Gli Dèi, Semidei Fanfiction Interattive
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Non avrai altri dei al di fuori di me

 
 
Arriverà il giorno in cui gli dei si vendicheranno
di tutti coloro che all’Olimpo hanno preferito un solo misero Dio.
 


Appena varcata la soglia della porta, Elahel si inginocchiò sul pavimento con fare sottomesso e la faretra sfiorò appena l’impiantito bianco. C’era un gran silenzio nell’aria, tanto che l’arciere era sicuro che il suo Signore fosse molto più che adirato, furibondo. Rimase immobile per diverso tempo, il capo chino in segno di rispetto. Era stato chiamato con urgenza mentre era di ronda ai confini dei cieli e non poteva non dire di essere sorpreso che tra tutti gli angeli il suo padrone avesse scelto proprio lui. Elahel lo serviva da molti secoli con devozione, ma era comunque giovane rispetto a tanti altri, che di certo avrebbero meritato quella missione molto più di lui.
« Il tempo è giunto. » proruppe una voce grave a qualche metro di distanza.
Elahel non si azzardò ad alzare lo sguardo, ma nella sua mente si raffigurarono le fattezze di un uomo poco corpulento dalla barba folta e grigia. I mortali lo dipingevano sempre con la pelle bianca e uno sguardo addolorato, ma la verità era ben diversa: l’uomo che Elahel aveva di fronte in quel momento aveva una carnagione olivastra e il volto scavato dal sole, vestito di una singola tunica bianca e un tallith del colore del fumo, e il cipiglio che gli adombrava i lineamenti lo faceva apparire ben diverso dagli affreschi che adornavano le chiese.
Il vecchio camminò brevemente per la stanza immacolata, i piedi nudi che calpestavano il freddo pavimento senza lasciare impronte.
« Non possiamo più aspettare. » continuò imperterrito, « Ho lasciato loro il tempo per riprendersi, per ricostruire i loro palazzi e venire a patti con la realtà, ma sembra che non vogliano collaborare. »
Elahel, che fino ad allora era rimasto zitto ad ascoltare, prese coraggio e aprì la bocca, « Lottano per il dominio che hanno perduto, mio Signore. Non intendono sottostare a nessuno, nemmeno a te che tra tutti sei di gran lunga il più Immenso. »
L’uomo anziano sbuffò e agguantò una mela rossa dal tavolo di vetro che aveva accanto, osservandola quasi fosse stata oro pregiato.
« Il loro tempo è giunto al termine. » proclamò con solennità, « Ho dato loro oltre un millennio per servirmi, ma ugualmente hanno scelto d’essere miei avversari. E se è la guerra che vogliono, mio giovane servitore, è ciò che avranno. Cadranno insieme alle pietre dei loro palazzi e stavolta mi assicurerò che ogni oncia del loro potere venga disintegrata. »
« Intendi dichiarare guerra, mio Signore? » Elahel alzò gli occhi celesti sul profilo antico del suo Maestro, la mandibola tutto d’un colpo rigida.
Il vecchio si voltò a guardarlo con sguardo insofferente, « L’Olimpo deve cadere, sta riacquistando seguaci tra i popoli e non possiamo permetterlo. La sorte dell’umanità dipende da noi, sarà questa guerra a decretare il vincitore; al mondo non c’è spazio per entrambi. »
« Porta una missiva per mio conto, » continuò l’uomo con la tunica fissando il giovane e appoggiando il frutto proibito al proprio posto, « Va’ a New York, lì troverai una chiesa con dentro un ragazzino. Portagli il mio messaggio, arciere, e il Paradiso ti riempirà di lodi. »
« Solo a lui? » domandò l’angelo con fare curioso. Credeva di dover andare sull’Olimpo, non di dover far visita a un mediocre mezzosangue.
« Le voci girano incredibilmente veloci e poi hanno quel loro piccolo Oracolo a sussurrarli cose nelle orecchie. Vola dal ragazzo e avvertilo della guerra che sta per compiersi, voglio che sappia contro chi dovranno combattere stavolta. Usa i mezzi che già possiedi, »
 continuò lanciando una breve occhiata alle frecce luminose che riempivano la sua faretra, « E poi torna da me. »
Per un attimo gli occhi del vecchio baluginarono al di là delle spalle del giovane angelo e sembrarono persino superare i cancelli dorati del suo regno per tuffarsi giù tra le lande mortali, là dove era sicuro che un Campo ospitasse la progenie dei suoi avversari.
« Metterò fine a questo abominio! I ribelli verranno distrutti e con loro i loro figli. Va’ ora e non tornare finché non avrai assolto al tuo compito. »
Elahel ubbidì e si inchinò col capo prima d’alzarsi in piedi e congedarsi, le ali bianche che palpitavano ad ogni passo. Mentre lasciava il palazzo le sue orecchie poterono captare con chiarezza un’ultima frase, carica di insito ribrezzo.
« Stolti! Credono ancora di potermi sfidare coi loro carri, credono d’essere immortali! » sputò con sdegno il vecchio riprendendo a camminare per la stanza, «  Io sono Dio. »

 
 
 


Non era mai davvero freddo sull’Olimpo, il cielo si mischiava all’umore di Zeus come la schiuma del mare con l’oceano, ma nell’aria vi era sempre una calura piacevole. Era come stare in Grecia e forse era proprio questo l’intento: rievocare la patria, fingere che la gloria degli dei tra i mortali non fosse mai finita.
Apollo sostava in piedi a guardare il mondo, le mani appoggiate al parapetto di pietra bianca della loggia, nel lato est del palazzo. Mancava poco al sorgere del sole e il suo mantello rosso svolazzava appena, attaccato alla fibula d’oro che teneva sulla spalla. Sfiorò la lana della clamide con le dita mentre i suoi occhi si ancoravano per l’ennesima volta al paesaggio. Percepiva un sentore dentro di sé, come di nocche che bussano alla porta del fato. Oh, Apollo conosceva bene quella sensazione, era il dio della profezia dopotutto. Per i primi minuti aveva sperato di poter ignorare quella brutta sensazione, ma poi il malore aveva cominciato a crescere finché il dio non si era reso conto di cosa avesse in serbo il destino stavolta. Era qualcosa di grave, Apollo se lo sentiva dentro le membra.
Doveva parlarne con Zeus.
Aveva i capelli rilegati da lacci d’oro perciò quando si voltò celere verso gli interni del palazzo fu solo la sua cappa purpurea ad ondeggiare nella brezza dell’alba. Quel giorno il sole avrebbe tardato più del solito.
Con ancora quella percezione avvinghiata allo stomaco avanzò tra le imperiture colonne che si susseguivano per i corridoi, nel petto un peso che diveniva via via più insostenibile e minacciava di fuoriuscire con violenza dal suo corpo. Si sentiva la schiena scoperta e i nervi tesi, i suoi occhi lampeggiavano da una parete all’altra, impazienti di raggiungere la sala del trono. Aveva bisogno di parlare con suo padre.
Le profezie non erano mai una cosa buona, il più delle volte comportavano intere schiere di morti e un gran lavoraccio per mettere tutto nuovamente in ordine. Preservare l’equilibrio del Cosmo non era proprio una passeggiata, Apollo doveva ammetterlo, ma almeno era immortale. La consapevolezza di poter radere al suolo intere nazioni con il solo ausilio del suo arco lo elettrizzava e la possibilità di seminare il terrore con i suoi dardi lo faceva sentire invincibile.
Sì, sì: da grandi poteri derivano grandi responsabilità. Seguendo questa logica, Apollo non avrebbe dovuto abusare delle proprie capacità, ma dovete sapere che questa frase idiota è venuta fuori molto tempo dopo la nascita del dio della musica e beh, ormai Febo era stato abituato così. E poi non vedeva perché mai avrebbe dovuto cambiare se stesso per un manipolo di umani. Ridicolo! Insomma, lui era un dio!
Mentre pensava a tutte queste cose le sue mani andarono automaticamente a sistemarsi le trecce bionde che portava annodate sopra il capo. Era bello tornare alla propria immagine di tanto in tanto: sentire il petto ignudo e prestante; intrecciarsi i capelli d’oro come le statue che tanto avevano soluto rendergli onore; camminare per il palazzo coi calzari di cuoio; e stringere la sua fedele lira tra le dita lunghe e affusolate. Ricordava ancora la prima volta che aveva udito il suono angelico delle sue corde, sia benedetto Ermes per averla inventata.
C’era così tanta storia tra quelle mura, così tanti ricordi che si concatenavano l’uno all’altro che quasi gli venivano i brividi. Da quanti millenni esisteva? Non voleva neanche pensarci, ma sperò che sarebbe rimasto su quella terra ancora per almeno il doppio del tempo ch’era passato.
Tornò a fissare davanti a sé, era quasi giunto alle grandi porte della sala, poteva scorgerle a qualche metro di distanza, giusto qualche passo in più e sarebbe arrivato al cospetto di suo padre. Percepiva sempre un che di nervoso all’idea di interloquire con Zeus e più i secoli passavano, più quella tensione non si decideva a sparire. Per un attimo gli balenò in mente l’idea di tergiversare un po’, ma poi rammentò quanto le perdite di tempo irritassero il possessore dell’egida. Era come un temporale voglioso di tuonare e far casino.
Arrivò proprio davanti alle grandi porte in legno di ginepro e prese un grosso respiro.
« Si va in scena. » mormorò tra sé e sé, come solo un attore potrebbe fare, e si decise finalmente a spingere il portone.

La sala del trono era spettacolare: dodici scranni si ergevano con fierezza e maestosità come in riunione, ai loro piedi un braciere enorme scoppiettava di fiamme e scintille e il soffitto a volta era scavato da stelle eteree che si rincorrevano nell’universo. Apollo era abituato a quella vista, ma qualsiasi altro mortale ne sarebbe rimasto folgorato.
I suoi passi risuonarono per tutta la sala mentre si avvicinava all’uomo di mezza età che sedeva immobile sul suo trono, gli occhi inghiottiti dal crepitio del focolare. Quando superò il rosso delle fiamme, Apollo intravide una fievole figura che si minimizzava in quel calore: Estia. Non l’avrebbe mai ammesso ad alta voce, ma aveva sempre conservato un moto di ammirazione per lei. Non riusciva a comprendere l’umiltà che l’allontanava dalla gloria, ma era una delle divinità che più avrebbe sostenuto in caso di bisogno.
Spinse via queste considerazioni dalla mente e arrestò il passo ad appena due metri dal padre, ancora indeciso se andare a sedersi sul suo trono o rimanere in piedi. Alla fine protese per la seconda opzione.
Si schiarì la gola prima di prendere la parola. Aveva questo strano presentimento dentro di sé che non avrebbe tardato a tramutarsi in malasorte.
« Padre? » lo richiamò, un po’ irrequieto che il dio non gli avesse ancora rivolto uno sguardo. Non sapeva bene come dirglielo, aveva questo tremendo sentore nel petto che non faceva che artigliargli le costole. E più ci pensava, più voleva credere che non fosse vero. L’ultima volta che aveva percepito quello strazio era stato molto, molto tempo addietro e ciò che il fato aveva avuto in serbo per loro era stato … non riusciva nemmeno a pensarci.
Zeus alzò gli occhi annuvolati sul capo del figlio, squadrandolo. Non era passato poi molto da quando aveva scatenato la sua ira con la sua cieca brama di potere, le sue superbe debolezze avevano portato al risveglio di Gea e Zeus credeva che si sarebbe nascosto al suo sguardo per almeno un paio di decenni, e invece eccolo lì.
Assottigliò le palpebre, la furia che dimorava il suo corpo alla sola vista del volto di Apollo lo incendiò come anni prima, tra le rovine di Atene. Non era la prima volta che Apollo si lasciava abbindolare da stolti adulatori, ma i danni che ne erano derivati erano stati inammissibili.
« Non sarai così folle da farti avanti, dopo quello che hai combinato. » tuonò, già iracondo, e la sua barba grigia si elettrificò di fulmini e saette.
Apollo sobbalzò. Si sentiva le gambe molli e l’atteggiamento che Zeus aveva adottato gli fece ribaltare lo stomaco. Perché diavolo non si era portato dietro qualcuno? Poi si ricordò nuovamente di Estia, lei non avrebbe permesso che suo padre lo trasformasse in un cumolo di cenere, giusto? Non ne era poi così sicuro, ma in quel momento quella dea era il suo unico punto di forza.
Aprì la bocca per parlare, ma ne uscirono solo suoni vacui e incomprensibili. Tutto lo splendore di dio del sole svaniva di fronte al padre degli dei e al posto del suo solito tono smagliante, Apollo era rivestito solo di membra tremanti e brividi.
Zeus sollevò un sopracciglio, apparentemente spazientito dal continuo balbettare del figlio e mosse una mano nell’aria per metterlo a tacere.
« Per il regno di Ade, Apollo, deciditi a parlare. »
Il ragazzo ristette, ormai non aveva più idea se la sensazione che provava nel petto fosse dovuta al fato indomabile o al timore che provava nei confronti del padre. Ciononostante tentò di riprendere fiato e metter insieme sillabe di senso compiuto, grato che nessun altro stesse assistendo al suo fare impacciato.
« I c-cancelli … st-tanno arrivando. L-l’ho sent-t-tito, i-i-io … » inutile dire che i suoi tentativi furono disastrosi.
In quel mentre Zeus lo fissava tra il furioso e lo stranito, con l’espressione di uno che non aveva capito assolutamente niente.
Si alzò dal trono con aria furente, ne aveva abbastanza di tutto quel borbottare disconnesso, gli faceva venire il mal di testa. L’himation bianco che portava gli copriva una sola spalla e lasciava nudi entrambi i capezzoli e i pettorali. I suoi capelli mossi e grigi gli graffiarono un po’ i lati del viso mentre i suoi occhi divennero più caliginosi e stracolmi di nubi.
« Cos’hai, ora? Ti si è attorcigliata la lingua, disgraziato?! » la sua voce proruppe con più ombre e furia di quanto potesse immaginare: profonda e scoscesa quanto una rupe ad Itaca.
Apollo si lasciò sfuggire un gridolino stridulo e si portò le mani davanti al busto, mentre la sua bocca articolò una sola parola, talmente rapida che non arrivò nemmeno a frenarsi.

« D-Dio. »

Per un attimo vi fu solo un silenzio immobile, poi l’espressione che deturpò il volto del figlio di Crono fu tale da spezzare il respiro al dio dai biondi capelli di sole. Gli occhi di Zeus vennero scossi da un fulmine e si spensero fino a divenir cupi e oscuri, granitici quanto le pietre che rivestivano il palazzo e freddi quanto l’inverno che dimorava di fuori, lontano dall’Olimpo.
Le gambe di Febo cedettero e il ragazzo cadde in ginocchio di fronte al padre, tremante di colpe e con nel cuore una consapevolezza amara. Strinse le mani come in preghiera, negli occhi un terrore immane che gli occluse i sensi.
« Padre, perdono! Mi è sfuggito.»
Con il cuore in tumulto e le viscere in fermento, non osava alzare gli occhi su quelli del padre. Pronunciare quel nome era proibito, una legge ch’era stata emanata oltre milleseicento anni prima aveva stabilito che quel nome avrebbe dovuto sparire dalla bocca degli immortali e nessuno –che fossero pleiadi, muse, naiadi o satiri- aveva mai osato disubbidire a quell’ordine. Fino a quel momento.
Apollo sapeva di aver osato troppo e se ne rese conto quando sentì sulla nuca lo sguardo di Estia, che mai prima di allora aveva osato intromettersi nelle parole dei dodici. Sentiva il fiato pesante, come di magma bollente, come di aria respirata direttamente dal Flegetonte. Sentiva il cuore artigliato in una morsa spettrale e la testa che ribolliva di paure. Non era mai stato bravo a sfuggire all’ira di suo padre, anzi aveva dovuto sottostare a tutte le interminabili pene che aveva dovuto patire per i suoi errori, ma se ci pensava bene nessuna di quelle colpe si avvicinava nemmeno lontanamente all’infrazione che aveva appena commesso.
Non sapeva se un dio potesse svenire, ma in quell’istante gli parve quasi di poter perdere coscienza. La sala era divenuta stretta e soffocante e le sue ossa fragili e tremolanti, come quelle di un bambino di fronte alla sua punizione. Si sentiva pallido, sciupato del proprio potere e non aveva idea di quanto tempo fosse passato da quando aveva deciso di raggiungere il padre nella sala del trono.
Inaspettatamente, non successe niente. Zeus rimase immobile e muto per un’altra manciata di minuti, quasi perso a fissare un punto indefinito dinnanzi a sé. La sua espressione era vuota, spoglia d’ira o di qualsivoglia emozione, la sua barba grigia ricordava ancora i temporali estivi, ma la carnagione olivastra del suo volto sembrava più pallida. Alzò una mano e la posò sul capo biondo del figlio, senza dire una parola.
Apollo non respirò neppure, quasi in attesa di venir fulminato da un momento all’altro. Poi percepì il calore del palmo della mano del padre scomparire e azzardò un’occhiata. Zeus si era allontanato di pochi passi, alle sue spalle, verso il focolare di Estia, che scoppiettava con lo stesso ardore di prima, ma pareva più gelido.
Il dio del sole inghiottì a vuoto e si girò verso di loro, ancora terreo in volto e con un che di malaticcio e vomitevole che certo non gli faceva fare questa gran figura.
Zeus osservava le fiamme, nuovamente inghiottito dai propri pensieri e per un attimo Apollo si chiese se il suo cuore non dovesse smettere di galoppare come in fuga dalla guerra di Troia. Avrebbe voluto alzarsi in piedi, ma non gli sembrava una buona idea, e poi si sentiva molto più al sicuro in quella posizione sottomessa e patetica.
Poi finalmente Zeus si ridestò e tornò a guardarlo in volto.
« Ne sei sicuro? » il suo viso era spoglio di rimprovero, ma vi era un’ombra cupa e preoccupata a deturparne i lineamenti.
Apollo ci mise un po’ a rispondere, ancora non del tutto sicuro di essere in salvo o meno, ma alla fine annuì con fare gravoso. L’avvento di una nuova profezia gli causava sempre un sentore negativo, ma maggiore era il pericolo, peggiore era la sensazione che provava. E l’ultima volta che aveva sentito quella nube dentro al cuore, i cristiani avevano cominciato a diffondere le parole del Messia.
A quel pensiero, le sue paure vennero sbaragliate da una consapevolezza più forte: una nuova guerra era alle porte.
« Vuole finire il lavoro che ha lasciato in sospeso. » mormorò senza quasi pensarci. Le parole proliferavano fuori dalle sue labbra di propria autonomia, mentre nella sua testa si susseguiva la verità che mai avrebbe voluto vedere.
Sentì il corpo irrigidirsi mentre il fato lo investiva in pieno, allagando ogni suo pensiero e facendolo affogare negli sprazzi di un futuro avverso. Si sentì soffocare e vide il fuoco divampare come un drago: i cancelli che si aprivano, le statue che cadevano, le grida, la guerra. Durò tutto un istante, ma il magone che provò lo fece balzare in piedi con gli occhi ancora avidi di conoscenza. Aveva nei timpani il rumore dei frastuoni e sulla lingua i versi di una profezia maledetta.

L’Oracolo aveva appena parlato.

« Una nuova profezia. » esclamò il padre degli dei, scrutando con apprensione il figlio. Giù al Campo Mezzosangue dovevano averla appena udita tra gli sbuffi di vapore verde e le voci sovrapposte della Pizia.
Quando Apollo veniva scosso dal fato, i suoi occhi erano come persi in un sogno a palpebre aperte, il calore che irradiava il suo corpo si freddava e la sua voce pronunciava quei versi come fossero un haiku. Sarebbe parso normale come sempre, se solo il volto contratto e inasprito non fosse stato spogliato di arroganza e rivestito di amarezza. Ciò che il fato preannunciava non era mai né bello né piacevole, il più delle volte era come uno stiletto impiantato nel cuore.
« Succederà di nuovo. » si lasciò sfuggire il dio del sole, « Stanno per arrivare, vero? »
Zeus non aveva risposte per quel quesito, nulla che fosse di qualche aiuto, almeno. Strinse i denti, quella era una minaccia troppo grande persino per loro.
« Di’ ad Ermes di chiamare gli altri, non c’è tempo da perdere. »
Lanciò un ultimo sguardo alle fiamme e incrociò lo sguardo di Estia, stranamente cupa. Sentì un moto di agitazione mentre suo figlio raggiungeva le grandi porte in ginepro e spariva dietro di esse.
Quella era l’unica guerra che li aveva visti sconfitti, l’unica che non avevano mai vinto.

Per un solo istante, Zeus si chiese che cosa ne sarebbe stato dell’Olimpo.

 
 
 


Non sapeva perché era andato in chiesa quella mattina. Si era svegliato di buon’ora e aveva avuto l’idea lampante di camminare fino alla chiesa della Santa Trinità, che sorgeva proprio ai piedi di un piccolo cimitero e un cumolo di vecchie e storte lapidi. Avrebbe potuto sembrare un piccolo giardinetto di gnomi, se non fosse stato per il fatto che invece di piccole, goffe e buffe statuette dai lunghi e larghi cappelli il prato era disseminato di pietre sepolcrali, bare e corpi già putrefatti, lasciati a marcire tre metri sotto terra con ancora l’abito da cerimonia addosso.
In America, soprattutto a New York, le chiese erano piccole, circondate da alti e immensi grattaceli che correvano ad artigliare le nuvole e lunghi marciapiedi che si ramificavano per tutta la metropoli. Quella chiesa in particolare sembrava quasi stonare con il grigio della città. Gli altri palazzi erano grandi e prominenti, coi lati ricoperti di vetrate contro cui splendeva il sole, la chiesa invece era di un marrone atavico con le pietre incastonate le une tra le altre e il crocifisso di ferro che si imponeva con ostentata fierezza sulla punta della torre più alta. E faceva ancora più contrasto quando i taxi gialli sfrecciavano davanti all’entrata, sulla strada che percorreva quella parte della Grande Mela. Era un edificio collocato tra Wall Street e Brodway ed era uno dei fulcri episcopali più importanti della zona.
Di giovedì non c’era mai nessuno, soprattutto al mattino. Erano tutti intenti ad andare a lavoro, dormire o occuparsi delle faccende di casa.
Klaus appoggiò i gomiti sul legno della panca che aveva davanti e continuò a scrutare l’altare con occhio vigile, il sacerdote doveva aver portato il messale in un luogo più sicuro dato che sulla tovaglia bianca vi erano solo fiori e un candeliere d’ottone.
Quel posto lo allertava, ma non aveva idea del perché. Forse erano i dipinti che ricoprivano le pareti a metterlo a disagio, gli occhi della Vergine Maria che lo fissavano dall’alto o quelli del bambino che teneva in braccio. Magari era colpa delle vetrate colorate da cui filtrava la luce del sole, della croce che svettava come una condanna sul suo capo o del fatto che non si era bagnato con l’acqua santa dopo aver varcato la soglia delle grandi porte in legno di rosa.
Non sapeva bene perché si sentisse tanto estraneo e malvoluto in quel luogo liturgico né perché al suo risveglio avesse sentito quasi il dovere di recarvisi il prima possibile. Aveva passato una notte tormentata da incubi che già non ricordava più, nella sua memoria solo sprazzi di scene tagliuzzate dal buio dei suoi ricordi. Era strano per un mezzosangue dimenticarsi degli incubi, succedeva solo coi sogni senza valore, quelli che erano frutto di fantasie oscure e turbamenti del giorno. Ma Klaus non era tipo da lasciare qualcosa al caso, per lui ogni avvenimento aveva un significato più profondo e il fatto che si fossero verificate altre anomalie era la prova che stava succedendo qualcosa, e Klaus tremava al solo pensiero di scoprirlo.
Il vento tirava più freddo ormai da un mese, l’estate aveva già passato il testimone all’autunno e mancava ormai poco all’arrivo dell’inverno. Dicembre era iniziato proprio una settimana prima, ma il cielo era di un turbolento color fumo e l’aria che si respirava era più gelida di quella di gennaio. La neve ricopriva le strade, le vetrine dei negozi erano perennemente impannate e sulla strada vi erano lastre di ghiaccio che avevano già provocato diversi incidenti. Sembrava come se il mondo si stesse cristallizzando.
L’inverno era sempre rigido e ostile a New York, ma quell’inverno aveva qualcosa di oscuro, Klaus ne era sicuro.
Tornò a fissare i colori luminosi delle vetrate mentre si lasciava abbracciare dal tiepido calore di quel luogo. Le chiese erano sempre state un posto in cui rifugiarsi dal freddo perenne delle strade, ci entrava spesso da piccolo, ma non pregava mai. Le sue famiglie adottive non avevamo mai dimostrato particolare interesse per la religione, cosa che aveva giocato a suo favore quando si era ritrovato al Campo MEzzosangue per la prima volta.
Ticchettò le dita sulla superficie ruvida del legno, era piena di crepature che sembravano discendere negli inferi e minacciare di portarti giù con loro. Non aveva mai amato il legno, troppo fragile: si spezzava, si piegava, bruciava come un cumulo di foglie secche e svaniva, cenere nell’aria.
Spostò gli occhi sull’altare, sulla cera bianca che non si era ancora sciolta e sui fiori che sarebbero appassiti di lì a breve. Si era seduto praticamente infondo, non amava stare in prima fila e da dove si trovava sarebbe potuto uscire in qualsiasi momento. Ma poi perché avrebbe dovuto andarsene così di fretta? Cos’era quel sentore che percepiva nel petto? Che significava?
Alla sua destra, le candele di chi era passato prima d’andare a lavoro o a scuola baluginavano di piccole fiammelle feroci, come un coro rosso e senza voce. Erano così fievoli che il ragazzo non riusciva nemmeno a percepire il loro calore, anzi la stanza era quasi fredda in quel momento. Poteva quasi vedere il suo fiato condensarsi nell’aria come una palla nuvolosa e sentire la pelle rivestirsi di brividi sotto la giacca.

Ma in chiesa non era mai freddo.

Sollevò il capo nuovamente verso l’altare. Ancora una volta tutto parve immobile, non c’era nessuno là dentro all’infuori di lui, eppure sentiva nelle vene la stessa aria che filtra dagli spifferi di una porta spalancata. Ma se fosse entrato qualcuno, se ne sarebbe accorto. Le grandi porte erano proprio dietro di lui, alle sue spalle: grandi, pesanti e chiuse.
Istintivamente si portò le pallide dita agli anelli d’ossidiana che portava ai medi, pronto a estrarre i pugnali in ferro dello Stige se si fosse giunti a uno scontro. Era stufo dei mostri che continuavano a seguirlo da tutta la vita, aveva passato la sua intera esistenza a combattere e duellare contro bestie ripugnanti e viscide creature. Sentiva i sensi vispi e guardinghi, lo sguardo che perlustrava la stanza in ogni suo angolo.
Una scia di vento gli mosse i corti capelli corvini verso l’altare e il ragazzo scattò in piedi accanto alla lunga panca di legno. l’aria fredda che gli punzecchiava la nuca e i polmoni. Di nuovo, si chiese per quale motivo si fosse diretto in quella chiesa.
Un altro fiato d’aria percorse la stanza, il vento investì le piccole candele e spense tutte le fiamme. Klaus corrucciò la fronte.
« Fatti avanti. » esclamò a chiunque si nascondesse alla sua vista, tornando a scrutare senza sosta l’interno della piccola chiesa. I suoi occhi ricaddero per l’ennesima volta sull’altare che svettava sul presbiterio e sul libro aperto, accanto al candeliere.

Il messale. Prima non c’era il messale.

Aveva le labbra secche, la testa stracolma di domande, ma più i minuti passavano e più il silenzio regnava sovrano. Quel libro rimaneva là sulla tovaglia, le pagine immobili in attesa di essere lette da un sacerdote invisibile.
Per un motivo sconosciuto Klaus cominciò a incamminarsi verso il presbiterio, superò le panche scure e percorse la navata fino a salire lo scalino di marmo e giungere ai piedi dell’altare. La vetrata dipinta lo illuminava con colori vivaci e allegri, ma l’aria era ancora gelida e pungente e il candeliere spento disegnava un’ombra maligna sul messale che aveva sotto gli occhi. Puntò le iridi scure sui versi d’inchiostro che ricoprivano la facciata, i fogli erano sottili come quelli della Bibbia, ma alcune parole parevano più vivide di altre.

- Poiché grande è il Signore e degno
d’ogni lode,
tremendo al di sopra di tutti gli dei.
Infatti, nullità sono tutti gli dei
dei popoli,
invece il Signore ha fatto i cieli.-


Mentre leggeva sentì le guance freddarsi come brina e un fiato spettrale lo investì nuovamente, girando le pagine del libro con insistenza finché i suoi occhi non si ancorarono ad un’altra strofa.

-Siano confusi tutti gli adoratori di statue
e chi si gloria dei propri idoli.
Si prostrino a lui tutti gli dei!-


Percepì una stretta al petto mentre la mente si riempiva di quelle parole, come un olio bollente che defluiva sul suo cuore e incideva i marchi di quei canti sulla sua anima nera e pagana.
Un altro colpo di vento cambiò pagina, ma stavolta la frase che lesse fu granitica quanto uno schiaffo.

-Ti loderò davanti agli dei-

Fece un passo indietro, accigliato e turbato. Il suo essere mezzosangue provò un moto di amarezza e disgusto insieme. Fece per voltarsi e andarsene, ma delle scritte incise nella pietra accanto all’altare rubarono la sua attenzione. Erano i dieci comandamenti, li conosceva; la sua maestra glieli aveva ripetuti fino alla nausea.
Stavolta però la sua attenzione si focalizzò sul primo comandamento, quello che da bambino gli aveva fatto corrucciare le piccole sopracciglia, ma che in quel momento comprese come mai prima di allora.
Puntò le iridi nere sulla pietra scavata e lesse ad alta voce, incurante della gola improvvisamente secca.

 
Non avrai altri dei al di fuori di me.

Sembrava il comando di un tiranno, qualcuno che voleva a tutti i costi assicurarsi il suo posto sul trono e allontanare ogni possibile erede alla corona.
All’improvviso tutte le storie che la maestra gli aveva raccontato su quel Dio buono e giusto si frantumarono davanti ai suoi occhi, ai piedi di un altare maledetto, sotto la grande croce che lo abbagliava dalla vetrata. Sentì un moto di pericolo dentro di sé, una voce che gli gridava di scappare il più velocemente possibile e di allontanarsi da quel luogo prima che … Prima che cosa?
L’aria fredda gli percorse braccia e corpo come un fantasma, Klaus era pronto a sfoderare le sue armi in ogni momento, ma ancora non udiva alcuna presenza corporea accanto a sé. Voltò le spalle all’altare con celerità e si apprestò a ripercorrere la navata a ritroso. Quel posto non era sicuro.
Improvvisamente sentì una stretta al cuore e qualcosa lo spinse ad accucciarsi sul pavimento, tra la banchine in legno di rosa che rimanevano a godersi lo spettacolo mentre una freccia trapassava il punto in cui il suo corpo aveva camminato e andava a infrangersi contro il pavimento, senza ammaccarsi. Klaus sgranò gli occhi, voltandosi così rapidamente da poter percepire un sonoro crack al collo. Ciò che si trovò davanti gli ruppe il respiro: ai piedi del presbiterio vi era una figura che solo in parte apparteneva a un uomo. Le ali grandi e immense, bianche come la schiuma del mare, lo sospendevano in aria come un guerriero fatato. Aveva nel portamento la grazia di una Musa, ma il suo corpo era rivestito di un’armatura fatta di luce, luce angelica. Il suo arco era luminoso, splendente e fatale, la faretra riempita di dardi d’argento e nel volto incantato, dietro i biondi capelli di sole che gli sfioravano le spalle, due iridi di un cielo d’acciaio e l’espressione che un soldato ha quando sta per uccidere.
Klaus si riprese dalla sorpresa solo quando l’angelo ricaricò l’arco contro di lui, e sfiorò la punta della freccia per un soffio stavolta.
« Chi cavolo sei? » sbottò senza pensarci, cominciando a correre nella direzione opposta e lanciando brevi e rapide occhiate alle sue spalle per deviare i colpi. Stava per giungere alla porta quando una folata di vento lo investì in pieno e l’uomo alato comparve proprio davanti a sé, sbarrandogli la strada.
Era un tipo di poche parole.
Klaus si tolse gli anelli in un millesimo di secondo, brandendo due pugnali neri con la stessa letalità di un sicario. Era pronto a combattere, ma non poteva permettersi di perdere, qualcuno doveva andare ad avvisare il Campo.
« Fatti da parte. » gli intimò stringendo i denti. Era l’uomo più bello che avesse mai visto, di una bellezza eterea e celestiale, ma non si sarebbe fatto tanti problemi a deturpare quel bel faccino pur d’aver salva la vita.
Non riusciva a definire l’età dal suo volto, come se l’immortalità avesse cristallizzato il suo corpo. Sembrava giovane, ma aveva anche un che di vecchio e antico, di saggio e lontano che rendeva Klaus inquieto.
Ancora una volta l’angelo non disse una parola. Teneva l’arco teso, ma non contro di lui, anche se era pronto ad alzarlo e a spezzargli il respiro con un solo colpo.
Klaus inghiottì a vuoto, aveva bisogno di uscire da quella situazione e arrivare al Campo Mezzosangue a dare l’allarme. Qualcosa di grande, potente e inimmaginabile stava per abbattersi sulle loro vite, se lo poteva sentire dentro al cuore.
Improvvisamente un’idea balenò nella sua mente. Forse poteva far ricorso ai suoi poteri.
Lanciò un’occhiata all’angelo che lo sorvegliava a qualche metro di distanza, sospeso in aria con le grandi ali a sostenerlo. Cercò di concentrarsi quanto più poteva, di richiamare a sé ciò che lo rendeva figlio delle tenebre e si sforzò finché non sentì uno spiacevole quanto famigliare peso gravare sulle sue meningi. Strinse i pugni sull’elsa dei suoi pugnali e aspettò.
Nemmeno un secondo dopo il terreno ai piedi dell’angelo si spezzò e da una grossa crepa profonda un abisso sbucò fuori il braccio putrefatto di un cadavere che artigliò i calzari della creatura alata senza preavviso, prendendola di sorpresa e strattonandola verso il basso, tentando forse di portarla con sé nel regno di Ade.
Klaus sorrise. Fortunatamente molte chiese sorgevano nei pressi di cimiteri gravidi di corpi esanimi che poteva utilizzare in caso di emergenza. Aveva sentito dire che alcuni figli di Ade potevano teletrasportarsi nell’ombra e richiamare a sé gli spettri, e Klaus non poteva dire di non averci provato, ma il suo talento era limitato a comandare i cadaveri e solo se si trovava nei pressi di un cimitero, un luogo di sepoltura o anche solo una fossa nel bosco. Non poteva di certo telefonare al Signore degli Inferi e prenotare una serie di anime dannate usa e getta, doveva arrangiarsi con ciò che aveva sotto mano.
Sfruttò l’occasione e si slanciò contro le grandi porte, ma non prima di aver raccolto una freccia tra quelle che giacevano confusamente sul pavimento freddo della chiesa. Si tuffò nella gelida aria di dicembre e percorse a passo di Giava il bianco marciapiede ricoperto di neve e ghiaia. Tentò di tutto pur di non cadere, ma riuscì a perdere l’equilibrio giusto un paio di volte prima di raggiungere l’angolo, svoltarlo e fermarsi sul ciglio della strada, rovistando dentro le tasche della giacca nera alla folle ricerca di una singola moneta. Tirò un sospiro di sollievo quando i suoi polpastrelli scarni sfiorarono la superficie di quella che la sua memoria riconobbe come una dracma d’oro. Senza attendere altro, lanciò la moneta in aria con il cuore che ancora pompava dall’adrenalina.
« Fermati, Cocchio della Dannazione! » urlò in greco antico osservando la moneta girarsi nell’aria come una medaglia e scivolare giù nel pavimento di New York. Attese con impazienza mentre il marmo si scioglieva come acido e ribolliva di un rosso vermiglio simile al sangue. Aveva lo stomaco sotto sopra e la testa intasata di dubbi e domande. Doveva assolutamente indire una riunione coi capo cabina, avvertirli della nuova minaccia e consultare Chirone in proposito.
Il fumoso taxi delle sorelle grigie si presentò davanti ai suoi occhi come un pullman di dannati, ma Klaus non ci fece molto caso; le cose macabre, oscure e infernali non solo lo attiravano, ma lo facevano sentire anche a casa in un certo senso.
Saltò dentro quasi con un balzo e si piegò verso le tre donne striminzite che stavano alla guida, sperando che lo ascoltassero senza bisticciare per questioni inutili.
« Campo Mezzosangue! » sillabò come se stesse parlando a dei bambini piccoli e scalmanati, per poi voltarsi all’indietro come ad assicurarsi che l’angelo non l’avesse seguito.
« Non preoccuparti di salutare, ragazzo. » borbottò Tempesta in tono gracidante, ma in quell’esatto istante Vespa schiacciò sull’acceleratore e il taxi partì ad una velocità immane verso Long Island.

Per tutto il tragitto le tre sorelle continuarono a litigare prima per l’occhio, poi per il dente, poi per il nuovo taglio di capelli di Rabbia, che aveva voluto ritornare a uno stile un po’ più sugli anni ’70. A dire la verità Klaus non prestò poi così tanta attenzione alle loro chiacchiere, troppo occupato a venir sbatacchiato di qua e di là e a rammentare gli attimi in cui quell’angelo malefico aveva attentato alla sua vita. Puntò le iridi corvine sulla freccia che teneva tra le mani, non aveva mai visto nulla di simile, ma sperò che qualche figlio di Apollo potesse esaminarla e dargli delle informazioni in proposito: con che lega fosse stata costruita; da dove provenisse; che effetto avesse sui semidei. Era più leggera di qualsiasi freccia in fibra di alluminio avesse mai toccato, più lucente di qualsiasi metallo avesse mai intravisto e più rapida di qualsiasi arma avesse mai provato a scalfirlo. In poche parole, aveva bisogno di sapere contro chi si era messo.
« Che cos’è quella?! » ululò una voce femminile, distogliendolo dai suoi pensieri. Klaus sollevò lo sguardo sul volto verdastro di Tempesta e sul bulbo oculare che tremava inverosimilmente, come a voler cambiar cranio.
« Sai di cosa si tratta? » non era una domanda, Klaus aveva capito sin dalla prima occhiata, dal tono ombroso nella voce della donna, che Tempesta sapeva perfettamente che cosa avesse tra le mani.
« Non dovresti averla tu. »
Il ragazzo aggrottò le sopracciglia, « Che cosa sai? »
Tempesta scosse la testa, c’era un che di timoroso e turbato nel modo in cui fissava insistentemente quel dardo luminoso.
« Non dovresti averla tu. » ripeté a voce più sommessa, come se stesse parlando tra sé e sé.
Alla reazione della sorella, Rabbia si girò a guardare il semidio.
« Che cosa c’è? » domandò incuriosita, « Dammi l’occhio, Tempesta! »
Per la prima volta da che la conosceva Klaus non sentì alcuna protesta da parte della donna, che passò il bulbo quasi meccanicamente alla sorella, ma non abbandonò quell’aria angustiata.
« Oh, ecco! Adesso ci vedo. » esclamò Rabbia con trasporto, poco prima di puntare lo sguardo sulla freccia che il mezzosangue teneva ancora stretta tra le mani ossute. Il suo volto si spalancò in un grido di orrore e la carnagione verdastra parve farsi più pallida, « No! Quella è … non possono essere tornati! »
Ora Klaus si trovava davanti ben due donne a scuotere con insistenza la testa e a borbottare frasi inconsulte, prima di voltarsi verso il parabrezza e cominciare a bisbigliare tra di loro in modo fastidioso e anche un po’ preoccupante.
« Ehi! » sbottò il semidio, irritato, « Per tutti gli dei, volete dirmi cosa diavolo sta succedendo? »
In risposta, un breve e tiepido silenzio si propagò per l’autovettura. Poi Tempesta si voltò nuovamente verso di lui, le palle degli occhi vuote e nere come pozzi d’acqua spenta.
« Di’ a Chirone che manderemo noi un messaggio a Zeus. Gli dei devono sapere. »
« Sapere cosa? » sputò fuori dai denti il mezzosangue, che di certo non era conosciuto per essere un tipo paziente e comprensivo.
Vespa inchiodò all’improvviso, troppo all’improvviso e Klaus quasi finì contro il volto di Tempesta.
« Va’ da Chirone. » lo avvertì Rabbia e il suo occhio lampeggiò in modo pericoloso.
Per quanto volesse protestare, l’ordine -neanche tanto velato- della donna lo indusse a scendere dal taxi e cominciare ad allontanarsi verso il bosco. Il Cocchio era già sfumato in un battibaleno, forse più veloce e rapido del solito, come se le ruote del terrore potessero spingerlo verso velocità inimmaginabili.
Camminò per la foresta borbottando tra sé e sé. Odiava il modo in cui chiunque in quel mondo mitologico se ne infischiava bellamente della curiosità dei semidei come lui, del bisogno che avevano di ricevere risposte alle loro continue domande. Tutti sapevano tutto, ma nessuno sembrava dell'idea di condividere quel sapere con loro.
Scalciò un sasso e poi una pigna contro i cespugli che riempivano il bosco e si addentrò sempre più verso il cuore della foresta, superando alberi su alberi fino ad arrivare alla fine della selva. Poteva quasi già percepire il vociare dei suoi compagni mentre si sfinivano nell’ennesimo allenamento con la spada. Era già da diversi anni che sempre più semidei rimanevano al Campo per tutto l’anno, il che voleva dire che avrebbe avuto un pubblico più vasto a cui raccontare quel suo folle e spiacevole incontro.
Quando la luce del sole filtrò attraverso gli abeti e i tronchi si diradarono Klaus riuscì finalmente a scorgere il drago appisolato a ciambella attorno all’albero di Thalia e l’entrata al Campo Mezzosangue. Non aveva idea di che espressione cupa avesse in volto, ma era sicuro di una cosa: non c’era tempo per perdersi in chiacchiere.
Si fece strada tra i gruppetti di semidei che si erano sparpagliati nel giardino su cui davano le diverse Cabine, tentando di intravedere il vecchio Centauro da qualche parte. Forse l’avrebbe trovato alla Casa Grande.
Continuava a sentire ragazzini che parlottavano tra loro riguardo questioni di cui non era a conoscenza, ma sperò che fossero cose da nulla.
Passando lanciò una rapida occhiata alla Cabina tredici, quella consacrata ad Ade. Quando a tredici anni era arrivato al Campo aveva pensato che fosse lui suo padre, ma poi gli anni erano passati e sulla sua testa non era comparso alcun segno, alcun riconoscimento. Ogni volta che passava davanti a quella Cabina un moto di rabbia e amarezza gli riempiva il corpo, come un acido di fuoco e ghiaccio che lo consumava fino all’osso. Era quasi del tutto certo che fosse lui suo padre ed era questa convinzione a roderlo con più vigore.

« Ancora a guardare la Cabina di Ade, orfanello? » lo raggiunse una voce sgradevole alle sue spalle. Klaus serrò i denti prima di voltarsi e trovarsi di fronte due dei ragazzi più insopportabili che avesse mai incontrato in tutta la sua vita. Samael Phears lo fissava coi suoi occhi chiari e insolenti, vestito coi suoi soliti jeans grigi e quel suo giacchetto nero e estivo. Klaus si era sempre chiesto come potesse sopportare tanto il freddo, prima di rendersi conto che anche gli altri figli di Fobetore non parevano disdegnare affatto le temperature basse, doveva essere parte del loro essere.
« Che cosa vuoi? » sibilò senza tanti giri di parole. Non amava né lui né il suo amichetto così devoto, e il fatto di esserseli trovati davanti proprio in quel momento li rendeva ancora più irritanti.
« Hai una brutta cera. » esclamò Florian, accanto a Sam, con una piccola smorfia, « Come di uno che ha appena visto un fantasma. »
« È così? » lo schernì Sam, « Ti sei spaventato, orfanello? C’era un brutto mostro là fuori, è per questo che sei tornato al Campo? »
« Non chiamarmi così! » sbottò Klaus stringendo i pugni, avrebbe tanto voluto mollargli un ceffone.
« Rilassati, tesoro. Ha detto solo la verità. » si frappose Florian col suo solito sorrisetto mellifluo, « Non ce li hai i genitori, giusto? O sì? Ti sei trovato una famiglia? »
Klaus si avventò contro di lui di slancio e nel farlo lasciò andare la freccia luminosa che aveva in mano, che cadde per terra senza provocare quasi alcun rumore. Lo prese per il colletto del cappotto e, prima che Florian potesse anche solo realizzare cosa stesse succedendo, strinse le dita della mano destra con forza e lo colpì. Florian inciampò praticamente da solo, sospinto dal colpo, e si ritrovò a terra in un battibaleno con gli occhi sgranati.
Il figlio di Afrodite emise un suono acuto portandosi una mano al taglietto che aveva sul labbro inferiore e tentando goffamente di alzarsi dal terreno, completamente ricoperto di neve.
« Mi hai colpito, bastardo! » poi, guardandosi il cappotto bagnato, continuò con più fervore, « Tu, hai idea di quanto costi questa giacca?! È Cavalli, idiota! Vale più di qualsiasi cosa tu abbia mai indossato nella tua patetica vita da orfano incompreso, brutto … »
Prima che potesse continuare a sbraitare insulti, Klaus strinse di nuovo i pugni e fece un passo avanti nella sua direzione, scuro in volto, e Florian balzò indietro al fianco di Sam.
« Non credere che sia finita, Worth. » lo avvertì il figlio di Fobetore cominciando ad allontanarsi insieme al suo amichetto, « Te la faremo pagare! »
Klaus sentiva il sangue ribollire nelle vene mentre li fissava andare via e rimase immobile a scrutarli finché non si furono allontanati a sufficienza, diretti presumibilmente in infermeria, conoscendo il figlio di Afrodite. Odiava tutto di loro, non vi era una cosa che riuscisse ad apprezzare del loro modo di fare e l’astio che provava nei loro confronti non faceva che aumentare ad ogni estate. Sì, perché uno dei pochissimi risvolti positivi di lasciare il Campo era proprio liberarsi di quei due parassiti. Samael restava al Campo tutto l’anno, ne era consapevole, ma Florian era sempre tornato nella sua villa da ricco figlio di mammina a Miami, in Florida. Avrebbe voluto dire di non sapere il motivo per il quale il figlio di Afrodite era rimasto a Long Island quell’anno, ma la verità era che Florian si era lamentato per tutta l’estate perché sua madre avrebbe dovuto tornare in Galles per aiutare sua cugina, che era in ospedale con qualche strana malattia, e Florian non aveva la benché minima voglia di andare con lei, dunque sarebbe dovuto rimanere al Campo senza tutti i comfort di cui godeva a casa e blablabla. Klaus era certo che Florian sarebbe stato in grado di lamentarsi per qualsiasi cosa.
Con ancora la vista annebbiata dall’astio, Miklaus si accucciò verso la neve e riprese in mano il dardo d’argento. Subito si ricordò per quale ragione si trovava al Campo e senza aspettare oltre voltò le spalle e cominciò a dirigersi verso est. Doveva parlare con Chirone, non c’era tempo da perdere.
Quando intravide l’esterno della Casa Grande quasi si mise a correre e per poco non urtò una giovane figlia di Neikea che passava di lì. Doveva aver nevicato tutta la notte perché i prati erano completamente ricoperti di neve e anche le statue sembravano essersi rivestite di un vestito bianco, con tanto di berretto.
Salì i gradini in ciliegio e allungò una mano verso il pomello, aprendo la porta. Il dardo che teneva tra le mani sembrava essersi appesantito, ma qualcosa gli diceva che fosse solo frutto della sua fantasia.
« Chiro- » lo chiamò, ma si bloccò subito non appena intravide la fulgida, fiammeggiante e riccia capigliatura selvaggia di Rachel Dare, l’Oracolo del Campo. Era una donna già sulla trentina, ma con ancora un sorriso vivace a illuminarle le gote e una scintilla di intuizione che le aveva permesso di comprendere gli arcani nascosti dietro ai suoi poteri profetici.
Klaus arrestò il passo scorgendo l’aria lugubre che imbruttiva i volti di Chirone e Rachel.
« Qualcosa non va? » domandò d’istinto. Rachel si voltò verso di lui con lentezza, sembrava stanca.
« Si tratta dello Spirito di Delfi » mormorò la donna, affranta, « Si è risvegliato questa mattina. »
Klaus sbatté le palpebre, attonito. Si aspettava qualcosa di grande, ma non aveva pensato a una nuova profezia. Alla fine annuì a vuoto, « C’è dell’altro » esclamò mostrando la freccia che aveva tra le mani. Gli occhi di Chirone lampeggiarono.
« Che cos’è? » domandò Rachel alzando un sopracciglio, ma Klaus la ignorò continuando a osservare il centauro. Prestava sempre massima attenzione alle espressioni che coloravano o imbruttivano il volto di Chirone, quasi come se dietro di esse si celasse la chiave di ogni mistero.
Passarono alcuni minuti e il ragazzo camminò fino al tavolo e vi posò sopra il dardo celeste, sollevato di potersene finalmente liberare.
Poi finalmente Chirone parlò con quel suo tono serio e profondo che ti incatenava ad ascoltarlo, « È lo strale di un angelo, di un Guardiano Celeste per la precisione. Loro le chiamano saette e sono fatali per i mezzosangue. Sono state forgiate per combattere il male e sconfiggerlo; feriscono anche gli immortali, ma non li uccidono. »
« Angeli » ripeté Klaus come a volersi ben imprimere la parola nel cervello, « E perché mai dovrebbero avercela con noi? Perché cercare di uccidermi? »
Da che ricordava, gli angeli proteggevano gli umani e gli innocenti. Erano dalla parte del bene, allora perché avrebbero dovuto tentare alla sua vita? Perché le loro armi portavano la morte ai mezzosangue?
Chirone serrò la mandibola, sembrava preoccupato e insieme incollerito, « Se avesse voluto ucciderti, ora non saresti qui. No, questo è un avvertimento. »
« Tipo un messaggio? » domandò Klaus alzando un sopracciglio.
« Una dichiarazione di guerra » si spiegò meglio il Centauro muovendo la coda con impazienza, « L’ultima volta hanno quasi raso al suolo l’Olimpo, e ora vogliono rifarlo. »
Klaus poteva percepire una nota di risentimento nella voce del centauro, come di un torto subito tempo addietro e mai del tutto ripagato.
Cercò di fare due più due.
« Ma gli angeli agiscono sotto il comando di Dio, giusto? » domandò senza realmente aspettare una risposta, « Quindi se uno di loro mi ha attaccato, vuol dire che Dio vuole distruggere l’Olimpo, ho capito male? »
Chirone si appoggiò al bracciolo della sedia a rotelle, meditabondo.
« È per questo che il Signor D. è stato richiamato da Zeus? » domandò Rachel, tentando di capirci qualcosa.
Klaus sobbalzò, preso alla sprovvista. Pensava stesse come al solito sorseggiando una Diet Coke leggendo il giornale da qualche parte. « Dioniso non è qui? »
La rossa scosse la testa.
« È stato richiamato da Zeus meno di un’ora fa, quando l’Oracolo ha parlato. »
Klaus ci pensò su. Rabbia gli aveva detto che avrebbero avvertito loro Zeus, ma se quello che Rachel gli aveva appena detto era vero, gli dei sapevano già tutto.
Doveva trattarsi di qualcosa di molto, molto importante per mettere persino le sorelle grigie in fermento.
Tornò a puntare gli occhi su Rachel Dare, stavolta il suo cuore pompava sangue amaro.
« E com’è la profezia? » si ritrovò a chiedere, quasi sperando vanamente in qualcosa di positivo.
La donna sospirò e tirò fuori un foglietto di carta dalla tasca dei jeans, « L’ho ricopiata qui, se vuoi leggerla. »
Klaus agguantò il biglietto senza neanche pensarci. Si sentiva pesante, curioso e in ansia per quello che avrebbe letto di lì a poco, ma di una cosa era certo: avrebbero fatto meglio a indire una riunione al più presto e programmare un’impresa. Non gli piaceva l’idea di battersi contro un’entità che non aveva mai nemmeno visto, una forza che per tutta la vita aveva pensato fosse buona e che invece non avrebbe battuto ciglio e li avrebbe sterminati tutti. Era forse quella l’apocalisse di cui si accennava nella Bibbia?
Klaus non ne aveva idea, l’unica cosa che sapeva per certo era che un’orda di angeli armati era pronta a scagliare le sue frecce sul Campo e su ogni semidio si fosse fatto avanti per difenderlo.
Scoccò la lingua sul palato mentre i suoi occhi vagavano sul foglio, e cominciò a leggere.


 
Da ali celesti l’Olimpo è assediato,
nel sangue di molti il tiranno è tornato.
Sfiderete col drago i suoi angeli eterni
e l’Alto vedrà spezzati quei suoi dorati cancelli.
Ma attenti, eroi, non gioite: avrete un finale buio e fitto;
cadranno le statue e le vostre vite su nell’alba del sole invitto.
 

Niente di rassicurante in fin dei conti, si ritrovò a pensare con amarezza e già un che di appesantito cominciava a gravare dentro al suo petto. Aveva sentito dire innumerevoli volte che le profezie fossero solo una gran seccatura, ma non si era mai fermato a pensare che un giorno avrebbe dovuto affrontarne una, né tantomeno farne parte.
Tornò a scrutare i caratteri sbilenchi che aveva sotto gli occhi e si disse, non per la prima volta, che era davvero fortunato a non avere nessun problema d’apprendimento. La dislessia sì che gli sarebbe stata d’intralcio, già non era proprio un portento a scuola, se poi avesse dovuto anche far fronte a un ostacolo come quello …
Si portò una mano tra i capelli rossi, un sacco di gente lo guardava con diffidenza per il suo look, ma Klaus tentava di non farci caso. Aveva deciso di fregarsene di quello che pensava la gente.
Passò nuovamente il biglietto a Rachel e si portò le mani in tasca, non aveva voglia di intavolare un’altra conversazione. Era ancora presto, dannatamente presto e la giornata sarebbe stata lunghissima, soprattutto dopo quello che aveva scoperto. Ora sapeva di cosa stavano discutendo quei ragazzetti che aveva intravisto venendo alla Casa Grande, così come sapeva che una volta uscito da lì si sarebbe trovato di fronte qualcuno di curioso, vispo e irritante, e non aveva voglia di spiegare niente a nessuno. Si sentiva la testa scoppiare di informazioni: l’angelo, la profezia, Dio, la guerra, l’Olimpo. E come se non bastasse, aveva lasciato la sua Casa Famiglia senza dare pressoché informazioni, probabilmente pensavano che fosse a scuola in quel momento. Non che gli importasse poi molto, tanto Allison e Ronald –i suoi genitori semiadottivi- stavano già premeditando di riportarlo dagli assistenti sociali perché non era scattata la scintilla. Klaus ci era abituato, fin da piccolo si era sempre sentito come quel soldatino di piombo senza gamba, quello rotto con cui nessun bambino vuole giocare. Era stato sbatacchiato da una famiglia all’altra; alcune permanenze erano durate più del solito, altre incredibilmente poco, ma ci aveva fatto il callo. Avrebbe potuto rimanere al Campo per tutto l’anno, ma per qualche strana ragione aveva sempre deciso di tornare nel mondo degli umani.
Sbuffò, allontanando quegli stupidi pensieri. Chirone continuava a ticchettare con le dita callose sul bracciolo della sedia, sembrava quasi più pensieroso del solito e questa non era certo una cosa buona.
« Forse dovremmo indire una riunione tra i Capi Cabina. » si ritrovò ad ammettere una Rachel piuttosto sconsolata. Dalle rughe d’espressione che aveva sul volto, chiunque avrebbe pensato che fosse una persona tendenzialmente raggiante, eppure in quel momento il suo viso era così angustiato che Klaus quasi ne ebbe paura.
Chirone annuì senza nemmeno rivolgerle uno sguardo e senza dire una parola cominciò a dirigersi verso la sala da ping pong, stringendo lo strale tra le mani e borbottando tra sé e sé. Per qualche strana ragione, Klaus capì che il compito di andare a chiamare gli altri era appena ricaduto su di lui poiché Rachel cominciò ad avviarsi dietro le ruote del Centauro e il ragazzo si ritrovò ben presto da solo in salotto.
Quella sarebbe stata una profezia coi fiocchi e i controfiocchi, di quelle che avrebbero fatto rizzare i capelli ai nipotini intenti ad ascoltare. Ed era quasi folle che Klaus avrebbe fatto parte di ciò, ma l’incontro con quell’angelo non poteva essere stato un caso. E se fosse stato scelto? E se il destino avesse deciso di mettere il futuro degli dei nelle sue mani, come aveva fatto per altri eroi nel corso della storia?
Beh, allora sono messi male, ragionò il semidio grattandosi dietro l’orecchio. Sperò di poter passare il testimone a qualcuno di più valoroso e con un minimo di amor proprio. Se essere un eroe gli sembrava tanto strano e assai lontano da sé, essere la rovina e il flagello dell’Olimpo gli rivoltava lo stomaco.
No no no, tutte quelle responsabilità gli avrebbero dato alla testa.
Si voltò verso la porta e cominciò ad incamminarsi, fortunatamente c’erano altri semidei là fuori che avrebbero fatto a botte pur di rendersi utili in qualche modo. E Klaus, beh, lui avrebbe dato una mano in caso di bisogno.

Quando uscì dalla Casa Grande un singolo raggio di sole minacciò di scavargli gli occhi e dovette chiudere le palpebre a forza scendendo i gradini per togliersi dalla sua traiettoria. E mentre era intento a sfuggire a quel filo d’oro maledetto, Klaus andò a sbattere contro qualcuno.
« Ahi! » sbottò una voce femminile che aveva già udito, « Sta’ attento a dove metti … »
Stava per dire piedi, ma quando la giovane figlia di Apate si voltò a guardare il suo aggressore e si ritrovò davanti il volto pallido e famigliare di Miklaus Worth, le parole le si sciolsero in bocca.
« Ray! » esclamò il diciassettenne con un sorriso allampanato, umettandosi le labbra smorte con la punta della lingua. Se c’era una persona con cui andava d’accordo, quella era lei.
« Klaus? Ma che ci fai qui? Pensavo fossi tornato a New York. » esclamò la figlia di Apate, di appena un anno maggiore di lui, alzando un sopracciglio.
« E tu a Boston. » replicò Klaus senza pensarci. Di solito Ray lasciava sempre il Campo Mezzosangue per tornare dalla sua famiglia e aiutare la sua matrigna a tenere i suoi fratelli, che erano davvero molti e necessitavano di continue attenzioni.
« Torno sempre a Boston. » spiegò la ragazza stringendo tra le dita l’elsa della sua spada polacca, « Ma fuori per l’anno faccio qualche visita al Campo Mezzosangue, sai, per allenarmi e migliorare. »
Non era cambiata per niente, si ritrovò ad ammettere il ragazzo: teneva sempre i capelli racchiusi in un buffo e vecchio berretto e il suo volto aveva ancora le fattezze morbide della giovinezza, che la facevano apparire molto più giovane di quanto già non fosse. I suoi occhi avevano mantenuto quella scintilla calda che tanto Klaus amava ed erano rivestiti della stessa aura di sfida e sfrontatezza che aveva imparato ad apprezzare. Lei, Soraya, con quel sorriso guastafeste e quei suoi vestiti da ribelle di strada. Cavolo se gli era mancata!
« Ma tu? » domandò Ray mettendo via l’arma nella guaina che teneva legata alla cinta dei jeans, « Perché qui? »
Klaus meditò attentamente a come rispondere e decise che sarebbe stato meglio rivelarle la verità con la stessa velocità con cui si stappa un bottiglia.
« Ero uscito di casa con lo zaino per andare a scuola, come sempre, » cominciò a raccontare il giovane semidio, « Quando a un certo punto ho sentito come un richiamo, un qualcosa che mi spingeva a cambiare strada e sono finito in chiesa. »
« In chiesa? » alzò un sopracciglio Soraya, attonita. Per un attimo pensò quasi che la stesse prendendo in giro.
Ma il ragazzo annuì con estrema serietà, « Già e mentre ero là a leggere il messale sono stato attaccato da un angelo. Un angelo vero, però, di quelli con le ali e le frecce luminose. Non ha detto una parola, ma Chirone crede che volesse solo mandare un messaggio. »
« Che tipo di messaggio? » domandò la figlia di Apate, prima di ricomporsi e scuotere vigorosamente la testa, « No, okay, è la storia più assurda che abbia mai sentito. Insomma, un angelo? Sul serio? »
Lo sguardo fermo di Klaus la prese alla sprovvista, ma Ray continuò a non voler sentire ragioni.
« Ti giuro che sto dicendo la verità, se vuoi andiamo da una figlia di Aletheia a chiederle se mento. » propose Klaus con un mezzo sorrisetto, sapendo bene che non ce ne fosse bisogno. Soraya era figlia di Apate, era perfettamente in grado di comprendere se qualcuno dicesse la verità o meno.
Infatti, la rossa Capo Cabina della Casa numero trentacinque puntò le  iridi ciane su di lui con attenzione, tentando probabilmente di cogliere il minimo accenno di menzogna di là dal suo viso. Rimase a fissarlo per diverso tempo, con Klaus che cominciava a sentirsi leggermente innervosito dallo sguardo scrutatore dell'amica.
« Sei sincero. » concluse Soraya, rilassandosi, « Non vi è nemmeno l’ombra di una bugia in ciò che hai detto, il che rende la cosa ancora più incredibile. »
Miklaus sospirò, grato che quella breve scansione fosse giunta al termine.
« Te l’avevo detto che era vero. Ho appena visto Chirone e Rachel, e vogliono indire una riunione. Mi hanno mandato a chiamare gli altri. Dicono che è urgente. »
« Allora sarà meglio far correre la voce. » lo interruppe la figlia di Apate iniziando a muoversi e puntando alla Cabina undici. Non c’era nessuno più rapido a far girare una voce di un figlio di Ermes, o di Afrodite se si trattava di qualche frivolo pettegolezzo. Soraya era sicura che in men che non si dica il richiamo di Chirone avrebbe fatto il giro del Campo e tutti i mezzosangue più grandi si sarebbero presentati alla riunione. Fortunatamente era inverno, dunque il Campo non era poi così pieno e avrebbero potuto sedersi comodi intorno al tavolo da ping pong senza rischiare di rimanere in piedi. In più, se quello che Klaus aveva raccontato era vero, Ray era quasi certa che Chirone avrebbe mandato in missione solo i semidei più esperti, e quindi i più grandi. Chissà, forse quella sarebbe stata la sua occasione.
« E chi è il nostro nemico? » domandò la figlia di Apate a al suo smilzo compagno, che quasi faticava a tenere il suo passo.
Klaus si ritrovò a boccheggiare, un po’ per l’aria e un po’ perché non sapeva bene come dirglielo.
« Dio. » mormorò senza un tono di voce particolare, come se nemmeno lui sapesse come prendere quella notizia.
« Un dio? E quale dei tanti? » chiese la figlia di Apate girandosi appena a guardarlo, fraintendendo.
Miklaus inghiottì a vuoto e puntò le iridi pallide sul volto rosato della sua migliore amica.

« L’unico che vuole distruggere l’Olimpo: il padre di Gesù Cristo. »
 



 
Acqua e Alloro


Ciao.
Io sono Acqua e Alloro e se siete cristiani, probabilmente questa storia non vi piacerà. Se invece siete politeisti o semplicemente persone con una mentalità abbastanza aperta da guardare il mondo da un’altra prospettiva, siete i benvenuti.
Qui non si parla di un mito o di uno scontro tra titani, questa è una guerra di religione.

Prima di proseguire con le regole, i Guardiani Celesti non esistono, me li sono inventati. Ho voluto provare a dare alla schiera degli angeli un ordine un po’ più preciso, che si delineerà con il susseguirsi dei capitoli.
Ho cercato di caratterizzare gli dei a metà tra la mia idea di loro e l’adattamento di Riordan, ma vi dico sin da subito che tendo e preferire l’aspetto originale a quello dei libri. (e quindi Apollo ha i capelli biondi e lunghi come nelle statue, Ermes è un giovine scaltro e atletico, Dioniso non è grasso e Ares non ha l’aria di un colonnello di One Piece)
Dato che non ho mai capito che anni coprano i libri di Riordan (anche se la mancanza di dipendenza-da-tecnologia tra i mortali mi fa pensare agli anni ’90), questa storia dovrebbe avere luogo a dicembre del 2017.

REGOLE:
1. Chi vuole partecipare non deve sparire, quindi ogni tanto fatevi sentire ;) non si abbandonano i personaggi.
2. Non credo che prenderò molti OCs. La scadenza per le iscrizioni e la consegna delle schede  è fissata per il 7.
3. Potete inviarmi un massimo di tre OCs a testa, tutti figli di divinità differenti. Accetto anche figli di Zeus, Poseidone e Ade.
4. Solo Greci. Non ho nulla contro i Romani, ma ho deciso di concentrarmi solo sugli Elleni ù.ù
5. Nessun potere esagerato. Non voglio super sayan di quarto livello, grazie -.- non mi piacciono i semidei onnipotenti come Percy Jackon o Nico di Angelo, se non hai mai preso in mano una spada in vita tua, non diventi Achille tutto di colpo.
I poteri troppo esagerati verranno ridimensionati. Qualunque potere deve essere in qualche modo legato alla propria discendenza divina.
6. Nessun disturbo mentale.
7. Minimo 17 anni, dunque l’anno di nascita massimo è il 2000, tutti gli altri sono nati prima.

 
▶ Per iscriversi sapete come funziona:
1. Scrivete una recensione a questo capitolo e indicate il genitore divino, l’età e il sesso del vostro pargoletto. Potete anche chiedere un flirt o una relazione con uno dei miei Ocs, ma vi avverto che l’ultima parola l’avrò io ù.ù
2. Compilate la scheda con i dati del vostro pargoletto e inviatemela come messaggio privato. Vi chiedo, per favore, di nominare il messaggio in questo modo: “Sol Invictus – [inserire nome e cognome], figlio di [inserire divinità]”
 
Nome e cognome: vi chiederei di essere un po’ originali, giusto per evitare di inviarvi un messaggio di risposta in cui vi chiedo di cambiare nome per non avere un doppione :P
Soprannome e diminutivo: ovviamente per i soprannomi voglio anche una spiegazione.
Luogo (città e Stato), età e data di nascita:
Genitore divino e rapporto con esso:
Famiglia mortale e rapporto con essa:
Descrizione fisica:
mettete tutto (capelli, occhi, carnagione, corporatura, coordinazione braccio-gamba, anomalie, voce, sguardo, particolarità…)
Link immagini:
Abbigliamento:
se volete che abbia dei piercing, tatuaggi et simila, scrivetelo qua.
Link immagini:
Descrizione caratteriale:
pregi e difetti
Difetto fatale:
Vizio Capitale:
Sono sette: superbia, invidia, accidia, ira, avarizia, gola e lussuria. Dovete spiegare anche perché.
Paure e debolezze:
Che cosa pensa del Politeismo?
E del Cristianesimo?
Cosa gli piace?:
Cosa non gli piace?:
Orientamento sessuale:
Disponibile per relazione amorosa?:
Partner ideale:
Con chi andrebbe d’accordo?:
Con chi non andrebbe d’accordo?:
Potere:
Arma
(eventuale link immagine)+ nome dell’arma (in greco):
Storia personale:
Frase
(in inglese):
Prestavolto
(fumetti, cartoni animati)


 
 
 
Miklaus “Klaus” Philippe Worth – 17 anni. Non riconosciuto. È in grado di comandare i cadaveri.
“I may die by day’s end, but you will live forever, unloved, pathetic. Your life a perpetual slog of soul-crushing despair and you unable to end it.”




Samael “Sam” Phears – 19 anni. Figlio di Fobetore, dio degli incubi. È in grado di muovere le ombre e comunicare con i corvi.
“You sleep well because you know that you’re loved. I’ve never slept that well.”


 
 

Florian Charles Pride – 18 anni. Figlio di Afrodite. Riesce a vedere l’amore.
“Just like the alphabet, bitch. I come before u.”
 



Soraya “Ray” Fateema Cheera – 18 anni. Figlia di Apate, dea degli inganni. È in grado di mentire e convincere le persone con l’inganno.
“There is beauty in truth, even if it's painful. Those who lie, twist life so that it looks tasty to the lazy, brilliant to the ignorant, and powerful to the weak. But lies only strengthen our defects. They don't teach anything, help anything, fix anything or cure anything. Nor do they develop one's character, one's mind, one's heart or one's soul.”








 
   
 
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