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Autore: afep    28/02/2017    2 recensioni
Skyrim, terra di neve e ghiacci, di fieri guerrieri e bardi, teatro dello scontro tra Alduin ed il Dovahkiin e del ritorno dei draghi nei cieli di Tamriel.
Eppure non sono i draghi, il peggior problema di quelle lande, perché Skyrim è scossa sin dalle fondamenta da una guerra civile, un terribile conflitto che scuote gli equilibri di un popolo, distrugge le famiglie e nutre la terra con il sangue dei vinti.
Un conflitto destinato a far cantare le lame degli uomini in battaglia, ed il cui esito designerà il trionfo o l'inevitabile caduta dello Jarl ribelle.
---- sospesa ----
Genere: Avventura, Guerra, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Nuovo personaggio, Ulfric Manto della Tempesta
Note: nessuna | Avvertimenti: Incompiuta, Tematiche delicate
Capitoli:
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Udite, abitanti dell'Eastmarch e cittadini di Windhelm! Udite, Dame e Signori delle Terre dell'Est...”
La voce tonante del messo si levava nell'aria con una fastidiosa cadenza cantilenante, accompagnata dal ritmico battito di un tamburo e dal brusio della folla riunita.
“Udite! In questo giorno di Mano della Pioggia siete convocati per volere dello Jarl Ulfric Manto della Tempesta, Sovrano dell'Eastmarch, Orso di Windhelm, Signore delle Tundre Gelate...”
All'elenco dei titoli di mio marito chiusi brevemente gli occhi, facendomi sfuggire un leggero sospiro. Il mio fiato scaldò l'orlo di pelliccia del mio mantello, donandomi per un istante una tiepida carezza prima che il freddo tornasse a pungermi le guance.
Al mio fianco sentii il mio sposo muoversi nervosamente sul suo scranno, emettendo un basso grugnito di impazienza.
Anche senza voltarmi sapevo che il suo sguardo era puntato sulle nubi scure che ci sovrastavano, e che il vento di quella neonata stagione primaverile stava ammassando troppo rapidamente sopra la città
Lo avevo sentito lamentarsene per tutta la mattinata con Galmar, e sebbene non mi piacesse ammetterlo, mi trovavo d'accordo con la sua speranza che il tempo reggesse.
“Udite! Siete chiamati ad assistere all'esecuzione della sentenza pronunciata dal nostro Sire.” Il messo fece una pausa ad effetto, ed il tamburino ne approfittò per battere vigorosamente sul suo strumento.
Storcendo il naso per il fastidio spostai lo sguardo sugli uomini e le donne che si stavano radunando attirati dal richiamo del banditore, accalcandosi attorno al palco rialzato che mio marito aveva ordinato di allestire quella stessa mattina, all'esterno del palazzo.
Abbassando leggermente il capo affondai il mento nell'orlo di pelliccia del mantello, e sospirai nuovamente.
Quello era il giorno designato dal mio sposo per un'esecuzione, e per quanto cercassi di non pensarci, il ceppo posto al centro del palco continuava a ricordarmelo con la sua sola presenza.
Dietro di me sentii uno dei Capitani brontolare a mezza voce, ma le sue parole vennero soffocate dal rullo del tamburo che, in quel momento, aveva preso un ritmo più incalzante.
Dai cittadini si levò improvvisamente un sonoro brusio, e l'intera folla venne percorsa da un brivido di eccitazione.
Mi voltai, seguendo con lo sguardo la direzione verso cui si era rivolta la maggior parte dei presenti, ed in quel momento il banditore riprese la sua cantilena, con un urlo che mi fece sobbalzare per la sorpresa.
Mio marito, percepito il mio sussulto, inclinò li capo per lanciarmi un'unica occhiata di sbieco prima di riportare la propria attenzione oltre il nostro palco; là, nel punto dove la folla fremeva maggiormente, erano comparse le divise di cuoio dei soldati, che si facevano strada in formazione compatta.
Gli uomini, non più di una decina, scortavano tra loro una figura sporca, con il capo scuro chino ed arruffato; pur conoscendone l'identità feci molta fatica a riconoscere in quella sagoma smunta la donna spavalda con cui avevo parlato nelle prigioni. Se allora mi era parsa provata, ma ancora abbastanza in forze ed in salute, ora pareva una pallida ombra, dal passo malfermo e lo sguardo vuoto. Mentre il drappello che la scortava avanzava verso il palco, lei ondeggiava paurosamente, tanto che due soldati le si erano posti accanto e la sorreggevano a braccia, a tratti trascinando quel corpo quasi inerte in mezzo alla calca.
Ero confusa da quel cambiamento tanto repentino, ma quando la scorta della condannata si fece più vicina scorsi Wuunferth il Non-Morto, che simile ad un presagio di sventura si teneva alle spalle dei soldati di coda, seguendoli a breve distanza. La testa coperta dal cappuccio pareva fissa sulla figura della donna, e sospettai avesse chiesto di venire drogata prima dell'esecuzione.
Il drappello raggiunse il palco facendosi largo tra gli sguardi curiosi della gente, e quando fu il momento di issare la condannata sull'impiantito di legno, dalla folla si levarono fischi di scherno.
Aggrottai la fronte, puntando lo sguardo su mio marito, ma la sua attenzione pareva concentrata unicamente sul gruppo che si era appena avvicinato al ceppo, ed appariva del tutto indifferente alle reazioni dei cittadini. Si limitava a restare seduto, avvolto nelle sue pellicce, con un gomito piantato sul bracciolo dello scranno e la guancia appoggiata al pugno serrato, in una fissità troppo perfetta per non essere studiata.
Mi ignorava, così come ignorava i fischi, le grida e gli sberleffi che si erano da poco aggiunti, e tanto mi bastò per tornare ad osservare la scena che si svolgeva accanto al ceppo, senza cercare di attirare oltre la sua attenzione.
Il tamburino si era defilato, rintanandosi fin quasi dietro ai nostri scranni, mentre il banditore si era disposto all'altro capo del palco, accanto al gruppo si soldati.
La condannata ondeggiava sorretta dai suoi carcerieri, e volgeva intorno lo sguardo appannato come istupidita. Notai solo allora che aveva le mani legate dietro la schiena, e che una inutile precauzione aveva spinto le guardie a stringerle le caviglie con un pezzo di corda non eccessivamente lungo, per impedirle di correre in caso di fuga.
Ma era chiaro che non sarebbe andata da nessuna parte. La donna sembrava non capire nemmeno dove si trovasse, e quando il banditore le si avvicinò impettito non parve accorgersi della sua presenza.
“Sigrid Sorensdottir.” Esordì il messo a gran voce, e subito dovette zittirsi per non soccombere sotto le urla della folla. Con aria spazientita attese che il tamburino mettesse nuovamente tutti a tacere, battendo con vigore sul suo strumento, e quando il vociare si abbassò di tono riprese il proprio discorso.
“Sigrid Sorensdottir, oggi davanti a voi, si è resa colpevole di molti odiosi crimini.” L'uomo fece una brevissima pausa, fulminando con gli occhi la folla in procinto di riprendere a vociare, e continuò. “Le vengono imputati l'offesa gravissima arrecata al nostro Sire, Lord Ulfric Manto della Tempesta, l'omicidio crudele del futuro erede al trono, ed il tentato omicidio nei confronti della nostra Signora, Lady Lirael del Fljotmarch.”
Pur aspettandomelo, provai un senso di disagio nel sentire il mio nome così scandito davanti alla folla, e fu solo in un secondo momento che mi resi conto che il banditore aveva omesso il nome dei De Braose di Daggerfall, sostituendolo con il feudo posseduto dai miei antichi parenti Nord.
“Per questo, e per la sua mancanza di pentimento, viene scelta la pena maggiore. Che venga decapitata!” Annunciò il banditore, ed a quelle parole la gente riunita tornò a vociare con foga.
Le guardie che avevano accompagnato la condannata indietreggiarono, schierandosi ordinatamente sul fondo del palco, mentre i due che la sorreggevano la sistemarono accanto al ceppo e la costrinsero ad inginocchiarsi. Non incontrarono alcuna resistenza, ed io sentii un moto di angoscia pesarmi sul petto. Sapevo che sarebbe accaduto, ma ora che ero sul punto di assistere realmente all'esecuzione non riuscivo a capacitarmene: stavano per uccidere una donna davanti a tutti, e nessuno pareva scomporsi.
“Marito.” Chiamai con un filo di voce, premendomi una mano sul petto. Sul palco era salito un ultimo uomo, seguito dal lugubre mago di corte; portava una poderosa ascia dal lungo manico posata su una spalla, e l'unica lama era opaca e segnata dall'usura.
“Marito?” Provai ancora, e mentre il boia armato d'ascia si avvicinava al ceppo il mio sposo decise di concedermi la sua attenzione.
“Non osare sentirti male proprio adesso.” Mormorò con voce tesa, dopo avermi lanciato un'occhiata. Dovevo essere pallida, perché allungò una mano e mi strinse un braccio attraverso il mantello. “Se ti disturba pensa a qualcos'altro, ma vedi di non svenire davanti a tutti come una donnetta.”
Avrei voluto rispondere che io ero una donna, e che a Daggerfall non sarei stata nemmeno obbligata ad assistere ad una simile barbarie, ma tenni ogni pensiero per me e strinsi le labbra. Cercando di arrestare i primi tremiti volsi lo sguardo sulla folla, che altalenava lo sguardo tra il ceppo e di nostri scranni. Agli occhi dei cittadini il gesto di mio marito doveva sembrare certamente una delicata attenzione; nessuno di loro poteva indovinare quanto fosse ferma la stretta che avvertivo poco sotto al gomito.
Udii un vocio diverso levarsi a poca distanza da me, e sollevando il capo mi accorsi che la condannata era stata obbligata ad appoggiare il capo sul ceppo. Il gesto doveva averla scossa un poco dal suo torpore, perché aveva cominciato a lamentarsi debolmente ed a muovere stizzosamente le spalle per allontanare le due guardie.
Il boia li osservava distrattamente con la coda dell'occhio, mentre in silenzio attendeva dal mio sposo il permesso di procedere. Carezzava lentamente la vecchia lama, ed il suo sguardo era immoto e distante come se gli importasse ben poco della donna che era in procinto di uccidere.
Gli sguardi della folla erano ora diretti unicamente allo scranno su cui sedeva mio marito, che ancora mi tratteneva per un braccio. Eravamo tutti in attesa di un suo gesto.
In quel momento, ogni nostra emozione dipendeva da lui.
E poi accadde.
Il mio sposo si raddrizzò contro lo schienale e fece un cenno con due dita, le guardie si allontanarono dal ceppo, ed il boia si fece avanti brandendo la sua arma.
La folla emise un rumoroso sospiro di eccitazione collettiva, simile allo scroscio di un'onda che si infrange sulla spiaggia, ed io chiusi le labbra in cerca d'aria, mentre il mio respiro accelerava.
Irrigidendo i muscoli cercai di tenere a bada il fremito che mi percuoteva le membra, mentre un fastidioso ronzio cominciava a riempirmi le orecchie.
Il boia puntò la lama verso il basso, afferrando il lungo manico con entrambe le mani, ed allargò leggermente i piedi per cercare equilibrio. Quando sollevò le braccia, la folla emise un'esclamazione soffocata e trattenne il fiato.
La prima volta che abbassò l'ascia, lo fece lentamente. Sentii uno vago senso di sollievo quando lo vidi fermare la lama a poca distanza dalla donna, ma poi il boia la sollevò di nuovo, ed un nuovo tremito, più violento, mi percorse il corpo. Stava solo aggiustando la mira.
Al secondo tentativo mi parve che il cuore volesse esplodermi nel petto, ma anche quella volta non venne sferrato alcun colpo. Qualcuno in mezzo alla folla si lamentò di quel tentennamento, invocando l'esecuzione, ma io lo udii appena perché il rombo che mi pervadeva le orecchie era diventato simile al ruggito di un fiume in piena, scandito dal rapido ritmo dei miei battiti.
Il boia sputò sull'assito, strusciò le suole suole degli stivali per cercare una migliore aderenza e levò per la terza volta la sua ascia.
Troppo in ritardo mi accorsi della velocità con cui la lama ricadeva verso la propria vittima. Qualcosa dentro di me intuì l'esito e mi affrettai a distogliere lo sguardo, ma non fui abbastanza svelta.
La condannata fu scossa da un sobbalzo, mentre il rumore sordo del colpo si accompagnava allo schiocco secco delle ossa che si spezzavano.
Avvertii allora un'improvvisa debolezza, e mentre macchie scure cominciavano a danzarmi davanti agli occhi, i suoni si fecero ovattati fino a diventare un ronzio indistinto.
Sapevo di essere sull'orlo di un mancamento. Gli svenimenti erano d'uso tra le fanciulle, a Daggerfall, ma ora mi trovavo a Skyrim ed io non volevo mostrare le mie debolezze davanti all'intera città.
Lottai per mantenere la mia coscienza a galla, ma difficilmente ci sarei riuscita se non ci fosse stato il mio sposo, che continuava a stringermi come una morsa e mi teneva stretta, ancorata a quel terribile momento.
Cercando di riprendere la padronanza di me mi concentrai sulla folla, cercando di metterla a fuoco e scacciare quel senso di intorpidimento. Nella mia confusione mi parve di sentire nuovamente i tonfi della lama che si abbatteva sul ceppo, ed allora mi concentrai maggiormente.
C'era un uomo che mi osservava fissamente, ed io gli rivolsi un mesto sorriso di gratitudine. Finalmente avevo trovato un'anima buona, che come me aveva distolto lo sguardo dall'esecuzione ed ora osservava la mia debolezza.
Scossi un poco la testa, e la vista cominciò a schiarirsi. Alla seconda occhiata che lanciai all'uomo in mezzo alla folla provai un senso di disagio, ed allora aggrottai la fronte, cercando di scorgerlo meglio.
E mentre riuscivo lentamente a metterlo a fuoco ed io tornavo padrona di me, mi trovai a riconoscere quei tratti che già conoscevo su un altro viso: la mascella squadrata, la fronte alta, il grosso naso aquilino.
Davanti a me, infischiandosene delle guardie e della morte della sua donna, il figlio di mio marito mi fissava a braccia incrociate, con lo stesso sorriso che avrebbe potuto avere un lupo nello scorgere una preda ferita.
Nell'attimo in cui lo riconobbi la folla esplose in un ruggito trionfante, e con la coda dell'occhio vidi il boia esporre a braccia tese il capo mozzo della sua vittima; a quella vista il mio sposo allentò la presa sul mio braccio, esalando un sospiro di soddisfazione, e suo figlio mi rivolse un'occhiata di scherno.
Nessuno due pareva preoccuparsi della donna che avevano mandato a morire, ed io mi sentii percorrere da un brivido.
Che razza di mostro aveva generato, mio marito?
E che razza di mostro era lui stesso?



******



L'aria che entra dalle feritoie nelle pareti è ancor più gelida di quella di Windhelm.
All'esterno la neve scende fitta, e solitari fiocchi si spingono arditamente fin dentro le grandi stanze di pietra, volteggiando silenziosi e posandosi negli angoli, dove si ammucchiano lentamente.
All'interno di quelle sale gelate il mondo sembra avvolto in un silenzio ovattato, interrotto solo dallo scricchiolare del calamo sulla pergamena e dal lieve rumore sibilante del respiro del vecchio seduto al tavolo.
La sua tunica grigia è lisa dal tempo, la lunga barba bianca costellata di brina, e le dita coperte di pelle traslucida appaiono ritorte per gli effetti dell'età e del gelo; eppure non cessa di scrivere, annotando lunghe parole in un'antica lingua sulla pergamena che tiene aperta davanti a sé.
Di tanto in tanto si interrompe per posare gli occhi cisposi sul bambino seduto al suo fianco, che tra le dita arrossate dal freddo regge uno stilo di legno con cui ricopia le parole del maestro su una tavoletta incerata.
I capelli biondi del ragazzino sono lunghi ed indisciplinati quasi quanto la barba del vecchio, e gli ricadono in un ammasso arruffato sulle spalle coperte da un'identica tunica grigia. Calza dei sandali, proprio come il suo mentore, ma sebbene il suo carattere sia stato plasmato perché ignori il freddo, non si può dire altrettanto per i suoi piedi, coperti da dolorosi geloni rossi e gonfi.
Uno scalpiccio proveniente da qualche parte oltre il corridoio fa sollevare la testa del bambino, ma con un gesto leggero il maestro gli indica silenziosamente di continuare con il suo compito di copista. C'è molto da imparare, e le distrazioni non sono compatibili con la conoscenza.
Continuano a lungo, l'uno scrivendo, l'altro copiando, sempre senza dire una parola. Lassù, oltre i confini del cielo, nel monastero sulla cima della Gola del Mondo, il silenzio non è solo una scelta di vita, ma ne è la parte fondamentale.
Solo dopo molti minuti la calma monotona all'interno della stanza viene interrotta.
Un secondo uomo si fa silenziosamente avanti, ignorando i fiocchi candidi che dalle finestre si impigliano tra la sua capigliatura color ferro e si posano sulla sua lunga tunica rovinata.
Non emette parola, come è di consuetudine nel monastero, ma si avvicina ai due scrivani e posa una mano sulla spalla dell'allievo con aria insolitamente grave.
Il bambino, che non dimostra più di una decina d'anni, scivola muto ed obbediente dalla panca di legno, ed appoggia con cautela i suoi strumenti di copiatura, per non provocare rumori molesti; dopo essersi congedato con un cenno rispettoso dal suo maestro, segue il messaggero fuori dall'ampia sala fin nel corridoio di pietra, costellato da effigi di creature da tempo dimenticate. Quietamente si lascia condurre attraverso gli spogli dormitori, fino ad una stanza con un largo tavolo ad anello, scavato nella nuda roccia e circondato da sedili di pietra levigati da secoli d'usura.
Lì, accanto ad uno degli scranni, sosta in attesa un giovane uomo il cui aspetto stona violentemente con la pacata sobrietà del monastero; il suo ampio torace è coperto da un'armatura di cuoio e metallo, le braccia sono talmente muscolose che paiono in grado di estirpare il tavolo di pietra senza sforzo, e sulla larga schiena porta affibbiata una maestosa ascia dalla lama bipenne. Un drappo azzurro gli attraversa diagonalmente il petto poderoso, fissato ad una spalla ed infilato nella cintura d'arme, ed una ruggente testa d'orso decora il lembo che da sotto la cinta gli giunge fino al ginocchio.
Alla vista bambino, il guerriero gli rivolge un ampio sorriso bonario, facendogli un cenno di saluto con la mano già rovinata dall'uso delle armi.
“Galmar” Gracchia il ragazzino con voce ruvida, come se non la esercitasse da molto tempo.
“Ciao, ragazzo.” Sul volto del giovane soldato compare un sorriso mesto, un po' goffo, e dopo una breve pausa impacciata, riprende “Sei cresciuto parecchio, dall'ultima volta.”

Il bambino non ribatte subito; lancia dapprima un'occhiata all'uomo in tunica grigia che gli è rimasto accanto, ed è solo dopo un incoraggiante cenno d'assenso che si decide a rispondere a Galmar.
“È passato un anno.” Borbotta, cercando di schiarirsi la voce. “Dov'è mio padre?”
Il guerriero abbassa lo sguardo con aria colpevole, sospirando, e con un fruscio dei sandali il monaco dalla chioma grigia si allontana silenzioso, lasciandoli soli.
“È rimasto a Windhelm.” Le dita callose del giovane in armi si muovono sotto il drappo, in cerca della scarsella. “Mi dispiace, ragazzo.” Conclude, estraendo la piccola custodia cilindrica di una pergamena.
Il bambino la prende tra le mani intirizzite, rompe il sigillo con l'orso ruggente e legge avidamente le brevi, concise parole che vi sono state vergate con durezza. Mentre scorre il testo non ha alcuna reazione oltre che un leggero tremore del mento, ma quando solleva lo sguardo sul guerriero i suoi occhi sono lucidi e colmi di lacrime.
“Jarl Ulrich mi manda a dire che Lady Alfdìs è giunta tra i suoi padri con il sorriso.” Borbotta Galmar, in tono impacciato. “Ma che non è necessario che tu torni. Devi pensare al tuo addestramento.”
“Perchè non mi ha detto nulla?” Si lamenta il bambino, la voce roca già pericolosamente vicina al pianto. “Voglio mia madre.”
“Mi dispiace, ragazzo.”
“Voglio mia madre!” Ribadisce il ragazzino, scoppiando in lacrime. Il rumore dei suoi singhiozzi rimbalza sulle pareti e sui soffitti di pietra, diffondendosi nelle aule di quel tempio abituato al silenzio, ed il giovane guerriero gli si avvicina goffamente, posandogli una mano sui capelli biondi.
“Mi dispiace.” Dice piano, cingendo le piccole spalle con il suo braccio poderoso. “Mi dispiace davvero, Ulfric.”


Il cigolio dei cardini fu appena udibile oltre il rumore della pioggia.
Normalmente sarebbe passato inosservato, ma il basso ringhio e le imprecazioni che si levarono quasi all'istante erano impossibili da ignorare.
Con un sospiro irritato lo Jarl di Windhelm si staccò dalla finestra, dalla quale osservava il cielo uggioso e lo scorrere delle gocce d'acqua, e si voltò verso il suo secondo. Ben piantato sulle robuste gambe, Galmar sostava sull'uscio, sbraitando contro un enorme cane nero che, nel riconoscerlo, aveva solo abbassato il tono dei propri brontolii.
“Che gli Dei ti fulminino, stupida bestia.” Tuonava il vecchio guerriero, mentre l'animale lo scrutava con lo stesso sguardo astioso e diffidente che riservava a chiunque non fosse il suo padrone.
“Talos.” Lo richiamò Ulfric in tono secco.
Al suo comando l'animale abbassò il muso, obbediente, e dopo aver lanciato a Galmar un'ultima occhiata ostile si ritirò guardingo dietro le gambe dello Jarl.
“Qual è il suo problema, oggi?” Brontolò il vecchio guerriero, guardando in tralice il grosso cane color della pece e facendo finalmente il proprio ingresso nella stanza. “Non mi ha riconosciuto?”
Ti ha riconosciuto. Altrimenti ti avrebbe attaccato.” Sbottò Ulfric con fare infastidito. “Perché sei qui? Avevo detto che non volevo essere disturbato.”
Lo Jarl incrociò le braccia al petto, in attesa di una risposta. Dietro di sé sentiva il ticchettio insistente della pioggia, che precipitando verso il suolo gelava e formava strati di ghiaccio sulle strade lastricate, ed il rumoroso sbuffare di Talos, che fiutava e brontolava, attento e nervoso come tutti i cani da guerra.
“Ho un messaggio per te. Arriva da Markarth.” Esordì Galmar, frugando nella scarsella che portava alla cintura. “In realtà lo stava portando Sifnar, ma poi ho creduto che le scale lo avrebbero ucciso, ed allora ho preferito farlo io.” Concluse con un ghigno, senza riuscire a trattenersi dallo sbeffeggiare il vecchio servitore; con un unico gesto estrasse un piccolo rotolo e glielo porse, mettendo bene in vista il sigillo di ceralacca che recava il sigillo del Reach.
Ulfric glielo tolse di mano, rigirandoselo tra le dita con la fronte aggrottata per qualche attimo. Non vedeva nulla di buono in una nuova lettera di Igmund, ma non aveva senso tergiversare.
Con l'unghia ruppe il sigillo, lasciando cadere in terra i frammenti di cera, e preparandosi al peggio srotolò la pergamena.
“Brutte notizie?” Si informò Galmar, agganciando le mani alla cintura.
“Tu sei sempre foriero di brutte notizie.” Lo rimbeccò Ulfric, lanciandogli un'occhiata in tralice prima di dedicarsi al messaggio. Lo scorse rapidamente con lo sguardo, e quando fu giunto alla fine appallottolò il messaggio e lo lanciò in un angolo della stanza.
Con un frenetico scatto Talos si lanciò all'inseguimento della pergamena, agguantandola prima che finisse la sua corsa. Emise un ringhio sommesso mentre la stringeva tra le fauci, ben piantato sulle robuste zampe come se avesse appena catturato una preda importante.
Ma poi percepì il sapore dell'inchiostro e della cartapecora, e perplesso la lasciò andare; la fiutò con attenzione, e dopo averne strappato un angolo con i denti tornò verso il suo padrone facendo schioccare rumorosamente le mascelle.
Lo Jarl gli passò distrattamente le dita in mezzo all'ispido pelame del dorso, lanciando un'occhiata alla pergamena stropicciata e coperta di bava, ormai irrecuperabile. Sentiva su di sé lo sguardo di Galmar, che lo fissava in attesa di una risposta, e stanco di sentirsi osservato scrollò le spalle con irritazione.
“Igmund avvisa che il nostro oro è arrivato, e che ha pareggiato i conti con la somma inviata da Solitude.” Gli spiegò laconico, abbandonando il cane con una bonaria pacca sulla groppa e tornando a fissare accigliato fuori dalla finestra. “Adesso che si è arricchito alle mie spalle, quel verme osa persino burlarsi di me mandandomi i suoi ringraziamenti.”
“Quantomeno, Istlod ha mantenuto la sue promessa” Osservò Galmar, battendosi una larga mano sulla coscia per richiamare l'attenzione di Talos.
“Non poteva fare altrimenti. Ha un debito, con me.” Ulfric storse le labbra, appoggiandosi al bordo di pietra della finestra. Sotto le palme poteva sentire il freddo degli antichi blocchi di roccia, levigati dal tempo e dalle migliaia di mani che vi si erano posate nel corso dei secoli. Attraverso quel piccolo affaccio situato nell'ala sud del suo palazzo, lo Jarl poteva osservare un breve scorcio della sua città; tra le case grige, coi caratteristici tetti di cannicci e scandole di legno ricoperti di neve, si aggiravano i suoi cittadini, impegnati nelle faccende quotidiane.
Seguì con lo sguardo due donne con le ceste appese al braccio, una guardia intenta nel suo giro di ronda e due ragazzini che attraversarono correndo il suo campo visivo, ma alla comparsa di una figura maschile che trainava un carretto a mano distolse lo sguardo.
“Hai altro da dirmi?” Proruppe bruscamente, voltando il capo verso Galmar. A quel tono il suo secondo inarcò le sopracciglia, e dopo aver lanciato un'occhiata circospetta alla bestia nera che si era accucciata in mezzo alla stanza gli si avvicinò.
“Nulla di rilevante. Non più di quello che tu dovresti dire a me.” Esclamò, rivolgendogli un ampio sorriso scanzonato. “L'ultima volta che ti ho visto così di cattivo umore, un'aquila aveva attaccato il tuo falcone da caccia.” Lo prese in giro, andando ad appoggiarsi con una spalla contro la parete di roccia ed incrociando le braccia sull'ampio petto. “Cosa succede? La tua fanciulla continua a rifiutarti? L'arrosto non era abbastanza cotto? Talos è troppo brutto?”
Al suo del proprio nome il cane emise un basso mugolio, e lo Jarl schioccò la lingua, irritato.
“Quante idiozie.” Sbottò, staccandosi di scatto dalla finestra e muovendo tre grandi passi verso la porta. Giunto a poca distanza dal battente ci ripensò, e con uno sbuffo che somigliava terribilmente ai ringhi del suo animale tornò indietro, cominciando a passeggiare nervosamente per la stanza.
Con le sopracciglia aggrottate e l'aria sempre più irritata, lo Jarl sbuffava e camminava, cercando il modo migliore per esprimere quello che gli covava nel petto. Passò un intero minuto a borbottare sempre più rabbiosamente, mentre sentiva l'ira montare, ed alla fine dette sfogo al proprio nervosismo.
“E' il ragazzo.” Sbottò con veemenza stringendo una mano a pugno, incapace di pronunciare il nome di quel suo figlio ormai adulto. “Avevi ragione. Avrei dovuto ucciderlo quando ne avevo la possibilità!”
“No, non lo avresti fatto.” Commentò pigramente Galmar, accomodandosi meglio contro la parete.
“Per troppo tempo ho lasciato che prosperasse alle mie spalle. Non gli ho forse concesso di vivere? Non gli ho forse dato tutto quello di cui aveva bisogno? Non è la mia legna, quella che gli scalda la casa d'inverno?” Continuò Ulfric, ignorando il suo secondo ed alzando la voce, mentre la rabbia cresceva. “Casa che io gli ho dato, senza che gli spettasse. Senza chiedergli di lavorare alle mie dipendenze. E dopo tutto quello che ho fatto per lui, sono questi gli affronti che devo sopportare?”
Galmar emise un lento sospiro, e staccandosi dalla parete sollevò entrambe le mani in un gesto di conciliazione.
“Capisco.” Gli disse cautamente. “Ma non posso aiutarti se non so cosa è successo. Siediti: chiamerò qualcuno per farci portare del vino.” Lo invitò, ma lo Jarl spazzò via quel tentativo di riportare la calma con un gesto della mano.
“Non voglio bere. E non voglio il tuo aiuto.” Ringhiò, riprendendo a camminare per la stanza. Allarmato dall'andirivieni del suo padrone, Talos si alzò ed andò ad accucciarsi in un angolo, posando il capo sulle possenti zampe anteriori.
“Questa mattina ho mandato un uomo da lui, perché liberasse la casa che gli permetto di occupare.” Continuò Ulfric dopo qualche attimo. La voce continuava ad essere tesa e rabbiosa, e da ogni parola trasudava il suo sforzo per contenersi. “Non gli serve un alloggio così grande, se vive da solo. E certo non intendo lasciare impunito il suo affronto.”
“Hai già condannato a morte la sua donna.”
“Era la sua marionetta.” Sbottò rabbiosamente Ulfric. “Ha preferito andare a bere alla locanda, piuttosto che partecipare alla tumulazione. E non ha mostrato il minimo rimorso durante l'esecuzione.” A questa constatazione Galmar preferì restare in silenzio, e lo Jarl continuò “Nessuno può osare un simile affronto alla mia persona senza restare impunito, nemmeno i miei... nemmeno lui.” Si corresse scrollando il capo con fare infastidito.
“E per questo volevi metterlo in strada?”
“Non dire idiozie.” Ribatté Ulfric, fulminandolo con lo sguardo. “Non lo avrei mai messo in strada. Intendo spostarlo in una casa più piccola. Avrà meno legna, perché non gliene servirà quanta ne usa ora. E voglio che le sue continue incursioni nelle mie cucine vengano regolate. Non ha bisogno di tutto quel vino e quella selvaggina, ed io non intendo continuare a farlo gozzovigliare a mie spese mentre complotta alle mie spalle.”
Lo sfogo sembrava aver sortito il suo effetto. L'ira era svanita dalla voce dello Jarl, e nonostante i toni fossero ancora duri sembrava aver perso la voglia di sbraitare. Approfittando del momento, Galmar gli si avvicinò e gli mise una mano sulla spalla.
“Bene. Allora ragazzo verrà sloggiato, tu non avrai altri fastidi, e tutti saranno felici.” Esclamò. “ora finiscila di lamentarti e vieni con me. Stavo andando a vedere le armature per le nuove guardie.”
“Cosa vuoi che mi importi delle armature, in questo momento?” Rispose amaramente lo Jarl. “Questa mattina ho mandato un uomo da lui, per farlo spostare nella nuova casa.” Ricominciò. “E lui si è rifiutato.”
Ulfric aggrottò maggiormente la fronte, ed il suo secondo scosse il capo in silenzio.
“Ha detto che lascerà la sua abitazione solo se gli concederò udienza.” Brontolò lo Jarl. “Di qualunque abbia intenzione di parlarmi, non sarà certo nulla di buono.”
“Se gli hai già tagliato i viveri, vorrà lamentarsene.” Commentò il vecchio guerriero, tirandosi leggermente la barba. “Non ha fatto lo stesso, quella volta che...”
“Non ricordarmi quello che ha già fatto!” Inveì Ulfric, voltandosi di scatto per tornare accanto alla finestra. “Ancora una volta ha dimostrato di prendersi gioco della mia autorità. Sono stanco dei suoi affronti.” Nuovamente riscaldato dall'ira, con un gesto rabbioso si strappò di dosso una delle sue cappe d'orso e la lanciò in un angolo. “Lasciami solo. Ho bisogno di riflettere.” Concluse, dandogli la schiena.
Con un gran sospiro Galmar chinò il capo e prese congedo ma sulla porta Ulfric lo richiamò indietro.
“Mentre vai, chiamami Jorleif. Ho delle istruzioni per lui.” Gli chiese, tormentando distrattamente il davanzale di pietra là dove la roccia stava cedendo all'azione degli elementi. “E trova un uomo valido da mettere accanto a mia moglie.”
“Intendi sostituire Yrsarald?” Domandò il vecchio guerriero, cercando di non far trapelare dalla voce il cauto nervosismo che lo aveva colto; ma lo Jarl era troppo occupato da altri pensieri per accorgersi di quella nota nella sua voce.
“E' stato lui a chiedermelo.” Fu la risposta, ed un lampo di sollievo passò segretamente nei piccoli occhi chiari di Galmar. “Mettile vicino qualcuno in grado di tenerla d'occhio e lontana dai pericoli. Non posso permettere che mi colpiscano ancora attraverso di lei.”
“Ci penserò oggi stesso.” Gli assicurò il suo secondo, avviandosi una seconda volta, ma giunto sull'uscio ebbe un attimo di esitazione, e voltandosi emise un profondo sospiro. “Mi dispiace, amico mio.” Gli disse in tono comprensivo.
Ulfric esalò uno sbuffo esausto e scosse solamente la testa, ed allora il vecchio guerriero si defilò dalla stanza, lasciando il Signore di Windhelm immerso nei suoi più cupi pensieri.

 
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Durante quel primo inverno a Skyrim avevo creduto che non mi sarei sentita più felice di quando la neve avesse smesso di cadere
Ma poi era venuta la primavera, con le sue piogge e le lunghe mattine gelate, ed improvvisamente mi ero ritrovata a rimpiangerla.
I primi giorni di Mano della Pioggia avevano portato dall'entroterra un vento capriccioso e violento, che spazzava implacabilmente il cielo e le terre dell'Eastmarch; le folate avevano scacciato le nuvole grigie e gonfie di neve, ma al loro posto aveva sospinto nuove nubi ad oscurare il cielo.
Fu allora che assistetti ad un fenomeno che non credevo potesse esistere in quelle lande, perché nonostante il freddo intenso non fu la neve a cadere, ma l'acqua.
La mia prima pioggia a Windhelm mi colse una mattina, mentre scivolavo fuori dal letto alle spalle di mio marito, ancora avvolta nelle coperte. Avevo appena posato i piedi sul pavimento di pietra, quando un insolito ticchettio proveniente dall'esterno aveva attirato la mia attenzione.
Mi ero subito voltata verso la piccola finestra, che il mio sposo aveva già privato dello schermo di legno per far entrare nuova aria nella stanza; lui sostava lì accanto, intento ad allentare i lacci di una casacca prima di infilarsela, e cogliendo il mio movimento aveva scrollato le spalle.
“Sta piovendo.” Mi aveva annunciato solamente, riprendendo a vestirsi. Io mi ero allora avvicinata al camino, sedendomi sull'ampio gradino di pietra ancora tiepido per le braci, in attesa dell'arrivo di Ioreth.
Sprofondata nelle coperte di lana, avevo osservato mio marito mentre si infilava i suoi calzoni migliori e gli stivali imbottiti, la cintura preziosa e la veste blu con l'orlo ricamato in argento che gli lambiva il ginocchio. Erano i suoi abiti migliori, e proprio mentre si infilava ai polsi i pesanti bracciali di argento cesellato e cercava le spille per il mantello era tornato a rivolgersi a me.
“Le strade saranno scivolose, questa mattina” Mi aveva detto. “Se preferisci, oggi puoi anche non accompagnarmi al Tempio.”
“Credo di poter camminare sulle strade bagnate.” Avevo ribattuto con fare pungente. Mio marito mi aveva lanciato un'occhiataccia per il mio tono, ma invece di aggredirmi con parole dure si era limitato ad afferrare il mantello di pelle d'orso.
“Fai come vuoi.” Aveva sbottato di malagrazia, abbandonando la nostra stanza. Al momento avevo creduto di aver ottenuto una piccola vittoria, ma poche ore più tardi, quando mi ero ritrovata all'esterno, avevo compreso che era stata una sconfitta per entrambi.
La pioggia, che cadeva liquida dal cielo, diveniva ghiaccio non appena toccava terra, e gelandosi sulle pietre e sulla neve non ancora sciolta rendeva difficile muovere anche solo un passo. Gli uomini di Windhelm, con mio marito in testa, avevano proceduto spediti grazie all'esperienza ed alle suole rinforzate da chiodi metallici, mentre io ed il mio piccolo drappello di Bretoni ci eravamo potuti allontanare solo di pochi passi dal Palazzo, prima i rifugiarci nuovamente all'interno.
“E' tutto così terribile e ingiusto.” Sospirai sommessamente al ricordo di quel momento, e dall'altro capo della stanza Jorleif sollevò lo sguardo dal libro contabile che stava compilando.
“Mi avete chiamato, Signora?” Domandò con premura, ma io gli fece un cenno di diniego e lui tornò ai suoi registri.
In silenzio ripresi a passeggiare per la stanza, aggiungendo il fruscio della mia veste al ticchettio della pioggia ed il leggero scricchiolare del calamo sulla pergamena.
Erano trascorse due settimane dal giorno dell'esecuzione, ma il ricordo tornava ogni tanto a tormentare le mie notti, e la mattina seguente mi trovavo troppo stanca e confusa per pensare ai conti del Palazzo; così Jorleif prendeva il mio posto, ed io passavo il mio tempo passeggiando per la stanza, leggendo, oppure rendendomi utile ordinando i registri più vecchi.
Dal terribile giorno in cui avevo assistito alla morte di quella donna, avevo notato diversi piccoli cambiamenti.
Primo tra tutti, credevo di essere di nuovo incinta.
Mi posai fugacemente una mano sul ventre, cercando di capire ancora una volta se per caso non era la mia immaginazione.
Nonostante i miei primi rifiuti, non avevo potuto tenere mio marito lontano troppo a lungo. Lui non aveva mai insistito, ma io avevo dovuto subire l'attacco di Ioreth e Mirala, che peroravano la sua causa. Il contratto matrimoniale prevedeva la nascita di almeno un figlio, mi ricordavano, e come madre la mia posizione si sarebbe consolidata.
Per la prima volta si erano trovate d'accordo su qualcosa che mi riguardava, e dopo un assedio estenuante io non avevo potuto che cedere.
Nonostante il ritorno alle nostre unioni coniugali, però, l'umore del mio sposo era improvvisamente peggiorato.
Questo era accaduto in modo repentino, a tal punto da lasciare stupefatti molti dei suoi servitori.
La notte del giorno dell'esecuzione mi aveva raggiunto tra le coperte al colmo della soddisfazione per la giornata trascorsa; il pomeriggio successivo era già all'apice della collera.
Ero certa di non essere io la causa della sua rabbia, per cui cercavo di non farmi opprimere dal suo malumore. Quasi ogni mattina si recava al Tempio di Talos, ma malgrado mi ripetesse che pregava per avere un altro figlio, sospettavo che ci andasse per poter riflettere senza essere disturbato dall'andirivieni di guardie e servitori che si trovavano a palazzo.
Stavo riflettendo proprio su quel punto, tormentandomi distrattamente un nastro del corpetto, quando uno scalpiccio lungo il corridoio non confermò il mio pensiero.
Al suono di quei passi la mia nuova guardia si alzò dalla sua sedia, e senza una parola si avvicinò alla porta.
Due giorni dopo l'esecuzione mio marito mi aveva assegnato uno dei suoi soldati, perché sostituisse Yrsarald al mio fianco.
Mi mancavano la premura ed il rozzo acume del mio vecchio amico, ma quella era l'unica cosa di cui mi sarei potuta lamentare. Il mio nuovo guardiano era altrettanto silenzioso e decisamente più solerte, tanto che il minimo rumore sapeva metterlo in allarme.
“Cosa succede?” Gli domandai, vedendolo aggrottare la fronte, ma lui evitò accuratamente di rispondermi. Stavo per ripetere la domanda quando sentii battere sullo stipite, ed il mio guardiano schiuse piano la porta coprendo lo spiraglio con la sua mole.
“Spostati, ragazzo.” Ingiunse una voce secca che ben conoscevo, e quando il soldato si fece da parte vidi Ioreth ritta sull'uscio. La mia cameriera mi rivolse solo una rapida riverenza, rivolgendo subito la propria attenzione all'uomo seduto dietro alla scrivania. “Jorleif, c'è bisogno di te ai piani inferiori. Sifnar ti aspetta ai piedi delle scale per farti strada.”
Il Sovrintendente mi lanciò un'occhiata di scusa prima di riporre il calamo, e dopo essersi arricciato i folti baffi si alzò dalla scrivania senza commentare; nell'ultimo periodo mio marito aveva domandato la sua presenza ogni singolo giorno.
“Jorleif sta già aiutando me.” Mi intromisi, ed al suono della mia voce vidi l'uomo fermarsi con aria perplessa. “Lo manderò da Sifnar quando avremo finito.”
“E' Lord Ulfric che richiede la sua presenza, Signora.” La mia coriacea cameriera spostò lo sguardo immoto su di me, tenendo le mani giunte in grembo. “E' bene non farlo aspettare.”
Davanti ad una simile richiesta Jorleif non poteva trattenersi oltre. Mi rivolse allora un inchino frettoloso, borbottò una scusa a mezza voce e si affrettò fuori dalla porta, svanendo alla mia vista.
Speravo che dopo quell'interruzione avrei potuto essere lasciata nuovamente in pace, sola ad esclusione della silenziosa presenza del mio guardiano e dei miei pensieri; ma Ioreth doveva aver deciso che un soldato a tenermi d'occhio non fosse sufficiente, e così si sistemò su uno sgabello con le mani in grembo; avevo l'impressione che la sua sorveglianza si fosse fatta ancor più serrata dal giorno dell'esecuzione, e la sensazione di essere sempre tenuta d'occhio non contribuiva certo a rendermi la sua presenza più piacevole.
Sospirando stancamente mi diressi verso la scrivania e presi il posto del Sovrintendente, pronta ad affrontare i libri contabili; non volevo che mi si vedesse stare con le mani in mano, ma in breve mi fu chiaro che non mi sarebbe stato facile trovare il punto del suo lavoro interrotto: Jorleif era dotato di una memoria prodigiosa e rimandava a mente tutto quello che gli era possibile, così che i calcoli e le cifre appuntate confusamente con un pezzo di carboncino sulla costa dei registri risultavano incompleti.
Mi sforzai per qualche minuto di far ordine, facendo scorrere con le dita le perle di legno dell'abaco, ma alla fine mi ritrovai costretta a desistere. Fintanto che il Sovrintendente era impegnato con mio marito, dovevo trovarmi un'altra occupazione.
“Vorrei uscire a passeggiare.” Esordii, posando il calamo accanto al registro contabile.
“Sta piovendo.” I verdissimi occhi di Ioreth saettarono con disapprovazione verso la finestra, e poi tornarono su di me. “Se volete camminare, potete farlo nei corridoi.”
“Io non voglio...”
“I corridoi vanno bene.” Interloquì il mio guardiano, appostandosi vicino alla porta come se si preparasse a scortarmi.
Li osservai incredula, mentre Ioreth si alzava a sua volta e lo raggiungeva, appostandosi sul lato opposto dell'uscio. Parevano due carcerieri pronti a scortare la loro detenuta.
La sensazione di essere in trappola mi assalì all'improvviso, ma inaspettatamente, dopo il senso di oppressione, nel mio animo sentii nascere un barlume di ribellione e mi affrettai ad afferrarlo prima che svanisse.
“Almeno non darò loro soddisfazione.” Pensai, sollevandomi e rassettandomi le gonne con ostentazione.
Che decidessero pure dove portarmi.
Io potevo ancora scegliere in che modo muovermi.

 

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Il cortile interno destinato all'allenamento dei soldati era un pantano gelato.
Attraverso la porta aperta della guardiola, Ulfric osservava l'allenamento dei soldati che si azzuffavano nel fango, sotto la pioggia che tintinnava sopra gli elmi e le cotte di maglia, e che rendeva scivolose le impugnature delle armi. Da lontano giungeva invece la voce del Capitano degli Arcieri, che con grida secche comandava il suo esiguo corpo di guerrieri; ad ogni urlo seguiva il ronzio ed il tonfo attutito delle frecce, che si piantavano o rimbalzavano contro i bersagli di paglia fradicia ed annerita.
Nonostante il maltempo, l'addestramento e l'allenamento di uomini e reclute non aveva subito rallentamenti; destreggiarsi in condizioni avverse poteva rappresentare un vantaggio in battaglia, e per tenere lontani i raffreddori e le febbri gli uomini di Windhelm potevano contare sulla tempra della propria razza e sulle pozioni rinvigorenti fornite dal mago di corte.
In tutta Skyrim erano pochi i feudi che potevano disporre di un simile esercito, ed Ulfric riteneva che solo lo Haafingar di Istlod ed il regno di Whiterun potessero eguagliarlo.
Ma se fossimo costretti a difenderci dai Thalmor, non basterebbero tre schieramenti” Rimuginò tra sé, aggrottando la fronte.
Pochi giorni prima era giunto un cavaliere da Winterhold, con un messaggio di suo cugino Korir: un Altmer vestito alla maniera degli Aldmeri si era sistemato tra i maghi dell'Accademia.
La notizia poteva apparire irrilevante, ma Ulfric non era dello stesso avviso.
Secondo la sua esperienza, quando i Thalmor si muovevano non era mai per ragioni di poca importanza.
“Wuunferth.” Sbottò all'improvviso senza voltarsi, rompendo il silenzio che regnava nella guardiola. “Ho bisogno che tu vada a Winterhold. Appena hai finito manderò qualcuno a farti sellare un cavallo. ”
“Ci sono appena stato, a Winterhold.” Ribatté la voce secca e graffiante del mago di corte. “Tornare ora con questo tempo è un suicidio. Vuoi uccidermi?”
“Tanto sei già morto.” Interloquì pigramente Galmar, da qualche parte dietro le spalle dello Jarl.
“Certo, ed è una condizione interessante. Intendi provare?” Il tono minacciosamente pungente del Non-Morto non era mai facile da interpretare, e tanto bastò a spingere lo Jarl a voltarsi, per evitare ulteriori battibecchi.
Tu taci, una buona volta.” Ingiunse al proprio secondo puntandogli contro un dito, prima di rivolgersi al mago. “E tu andrai a Winterhold. Questo è quanto.”
Wuunferth strinse le labbra esangui. Da sotto l'orlo del cappuccio scuro i suoi occhi brillarono di una luce indispettita, ma accettò l'ordine diretto senza opporsi e tornò silenziosamente ad occuparsi di Yrsarald.
Seduto su uno sgabello ai piedi del mago, il giovane Capitano osservava la scena con muta sopportazione; aveva interrotto l'allenamento da pochi minuti, a causa di una ferita che il bordo di uno scudo gli aveva aperto sulla fronte, ed attorno ai suoi stivali si stavano lentamente formando delle piccole pozze d'acqua mentre attendeva che gli venisse ricucita.
“Il vento sta spingendo da Est.” Fece notare il giovane, stringendo i denti quando Wuunferth gli tirò indietro i capelli umidi di pioggia per scoprire lo squarcio vicino all'attaccatura. “Tra qualche giorno si potrà viaggiare agevolmen ...”
“Sta' zitto e non ti muovere.” Gracchiò Wuunferth, posandogli una mano scheletrica sulla fronte per riaccostare i lembi della ferita. E non appena l'ago per la sutura che reggeva tra le dita sfiorò la cute, Yrsarald si irrigidì e contrasse la mascella, zittendosi.
“Manderò degli uomini a battere i sentieri.” Disse Ulfric, osservando con approvazione il modo in cui il suo giovane Capitano resisteva al dolore della medicazione. “Così sapremo se il passo di Forte Kastav è ancora praticabile. Dirò loro di rompere il ghiaccio che troveranno sulla strada”
“Non è necessario.” Brontolò Wuunferth, con quella sua voce gracchiante che pareva arrivare dritta dall'oltretomba. “Andrò a Winterhold, ma non mi muoverò prima della luna nuova. Allora le piogge saranno cessate e tutti i passi saranno praticabili.”
Ulfric sbuffò e gli rivolse un cenno d'assenso. Sapeva che dal mago di corte non avrebbe ottenuto altro, e tralasciò di chiedergli da cosa derivasse la sua certezza sulla fine del maltempo; il Non-Morto era un alchimista, un abilissimo guaritore ed un incantatore, ma per quanto lo si potesse conoscere c'era una parte di lui che sfuggiva ad ogni comprensione. Wuunferth sapeva predire con largo anticipo l'entità dei raccolti prima ancora che iniziasse la stagione, era in grado di indicare l'esito di molte imprese prima che avessero luogo, e conosceva diversi segreti senza che gli fossero stati svelati. Forse era solo perspicace, o forse, pensò lo Jarl, la gente non aveva tutti i torti quando affermava che avesse a che fare con potenze occulte.
Un movimento di Galmar lo strappò alle sue riflessioni, e seguendo la direzione del suo sguardo scorse attraverso il vano della porta la figura di Jorleif, che attraversava il cortile con la testa china sotto la pioggia.
“Guarda un po' chi è arrivato!” Lo accolse il vecchio guerriero, quando il Sovrintendente fu sull'uscio con i baffi gocciolanti.
“Sire.” Disse accennando un inchino, e quando entrò nella guardiola le suole di cuoio dei suoi stivali scricchiolarono sul pavimento di pietra.
“Vieni avanti e chiudi la porta.” Gli ingiunse Ulfric seccamente, e quando il battente fu richiuso aggrottò la fronte, muovendosi nervosamente verso il braciere posto in un angolo. “Hai novità dal Rift?”
“No, Signore.”
“Dal Pale?”
“Nessuna notizia, Sire.”
“Bene.” Borbottò Ulfric, allacciando le mani dietro la schiena.
La comparsa dell'Altmer a Winterhold, proprio nella città dove si era riunito insieme ad altri Jarl per discutere sulla presenza dei Thalmor, gli aveva fatto temere che gli Elfi fossero venuti a conoscenza di quella riunione.
Ma l'assenza di lettere da parte di Laila e Skald gli suggeriva che i loro feudi non avevano ricevuto visite simili; se era in atto qualcosa, perlomeno non era imminente: aveva ancora tempo per contattare gli Jarl più recalcitranti, ed al prossimo Consiglio Istlod non avrebbe potuto ignorare la voce di tanti sovrani, che chiedevano insieme l'allontanamento dei Giudici Thalmor da Skyrim.
“Voglio che invii una lettera a Jarl Dengeir, di Falkreath.” Continuò, osservando la cresta incandescente delle braci che faceva capolino sotto la cenere. “Informati sulla salute del suo regno ed inviagli una cassa del nostro migliore idromele. Fa in modo che si rassicuri sull'amicizia dell'Eastmarch.” E che si ricordi che il Cervo e l'Orso sono vecchi alleati, aggiunse tra sé.
Decenni prima, Dengeir aveva stretto rapporti con Skald ed il vecchio Jarl di Windhelm, ma era ormai anziano, ed il suo trono era insediato da un nipote tanto sconsiderato quanto arrogante, che non si curava degli antichi giuramenti; meglio rammentare loro le alleanze passate: con parole per l'uno e vino per l'altro li avrebbe rabboniti entrambi, assicurandosi il loro appoggio.
“Credi che i Thalmor siano arrivati fino a Falkreath?” Gli domandò Galmar, ma lo Jarl scosse la testa.
“No. Il popolo di Dengeir adora Arkay, mentre quelle faine dalle orecchie a punta cercano di soffocare Talos.” Grugnì Ulfric, stringendo la mascella in un moto d'irritazione.
Dedicò alle braci un'ultima occhiata di fuoco prima di voltarsi di nuovo verso i propri sottoposti, ma il suo sguardo non fece certo più benevolo.
“Altro?” Domandò, raddrizzando le spalle con fare marziale. “Non è giunto nulla dallo Hjaalmarch? Dallo Haafingar?”
“Nessuna nuova, Sire.” Replicò pacatamente Jorleif. Si era tolto dal capo il suo berretto di pelo, ed ora strizzava l'acqua in eccesso torcendolo tra le mani.
Lo Jarl lanciò un'occhiata al mago di corte, ancora chino sulla figura del giovane Capitano. L'ago che reggeva mandava bagliori rossastri, e le sue pallide dita artigliate tiravano lentamente il filo nero con cui stava ricucendo la ferita. Dal canto suo, Yrsarald sopportava quel trattamento in stoico silenzio. Teneva i pugni serrati sulle ginocchia ed il volto era contratto in una smorfia, ma dalle labbra serrate non usciva un solo lamento.
Nel vederlo, Ulfric provò un moto di orgoglio. Quello era un vero soldato, un vero guerriero dell'Orso: un uomo i cui padri potevano andare fieri.
Non come certe serpi, che si insidiavano subdolamente in ogni anfratto e guastavano tutto con il loro fiele...
“Parlami dei conti.” Ringhiò lo Jarl, strappandosi con irritazione dai propri pensieri.
Mentre Jorleif elencava le ultime economie del castello, Ulfric si diresse verso le rastrelliere addossate ad una parete; il suo sguardo passò con disinteresse sopra i legni ricurvi degli archi, con le loro corde incerate mollemente avvolte attorno ad una delle estremità, in attesa che uno degli arcieri le tendesse.
La voce del Sovrintendente divenne presto un rumore di fondo mentre lo Jarl, dopo avergli prestato attenzione per pochi istanti, tornava immergersi nei propri pensieri. Non aveva chiamato Jorleif per discutere di conti e di corrispondenze, ma aveva bisogno di qualcosa che lo tenesse occupato finché la guardiola non si fosse liberata da orecchie indiscrete.
Mentre rimuginava, divenendo di umore sempre più cupo, teneva d'occhio l'operato di Wuunferth. Il mago di corte era fidato, ma vi erano affari che era meglio non discutere troppo apertamente.
E così, non gli restava che attendere.
Negli ultimi giorni, la sua intera esistenza sembrava dipendere dalle attese.
Di tanto in tanto la voce di Jorleif faceva breccia nel suo muro di pensieri, portandogli parole slegate tra loro. Un paio di volte gli parve persino di sentirlo pronunciare il nome di sua moglie, ma Ulfric non vi dette peso. La ragazza era al sicuro: le aveva messo accanto uno degli uomini di Asbjorn, e si era assicurato personalmente che Ioreth la sorvegliasse più strettamente.
Non c'era motivo di preoccuparsene.
“Hai finito?” Sbottò all'improvviso, interrompendo bruscamente le chiacchiere del Sovrintendente per rivolgersi a Wuunferth.
Il mago sollevò lentamente il capo, puntandogli addosso quegli occhi che parevano l'unica cosa viva nel suo volto incavato.
“Quasi.” Gracchiò, ruotando il polso per fissare lentamente un altro punto. Lo Jarl corrugò la fronte, osservando impaziente il modo in cui l'ago attraversava la pelle del suo sottoposto, seguito dal filo nero della sutura.
“Non c'è bisogno che tu lo torturi ancora con i tuoi attrezzi.” Gli disse. “Fascialo o dagli qualcuno dei tuoi intrugli, e poi torna a palazzo.”
Il mago levò un sopracciglio, e con cinica indolenza abbassò nuovamente la mano pallida sulla fronte di Yrsarald.
“Preferisco non rischiare.” Commentò, con una tale sfrontata indifferenza che Ulfric, già irritato dalla piega degli eventi, sentì la il barlume della rabbia riaccendersi nel suo animo.
“Se ti piace tanto ricamare” Ringhiò “Dirò a mia moglie che le ho trovato una nuova dama di compagnia.”
Wuunferth gli rivolse una rapida occhiata da sotto le folte sopracciglia, e con una mossa abile del polso fissò con un piccolo nodo il filo della sutura, recidendolo poi sbrigativamente con una lama spuntata. Dalla scarsella di cuoio che portava alla cintura estrasse una scatoletta di legno odoroso non più grande del suo palmo, e dopo aver fatto ruotare il coperchio sui suoi perni vi tuffò due dita, estraendo una grossa noce di unguento dall'odore intenso, tanto pungente da far venire le lacrime agli occhi.
“Puoi tornare alle tue occupazioni, se proprio devi.” Gracchiò con fare indisponente verso Yrsarald, spalmandogli la generosa dose di pomata sulla ferita irregolare e fasciandogli il capo con fare sommario. “Questa sera ti manderò nelle caserme una pozione e delle bende pulite.”
Il giovane Capitano borbottò un ringraziamento a denti stretti, ancora indolenzito dalla medicazione, e quando il mago fece un passo indietro si rialzò cautamente.
Ulfric attese con impazienza crescente che la guardiola venisse liberata, e solo quando si fu assicurato di non essere udito da altri che da Galmar e Jorleif si rivolse a quest'ultimo.
“Parlami del ragazzo.” Esordì bruscamente, andando finalmente a toccar l'argomento che più gli premeva. Erano passati giorni da quando aveva recapitato al suo primogenito un messaggio ufficioso, con il quale accettava la sua richiesta di udienza e gli dava piena disponibilità; il giovane Halfdan però non gli aveva più fatto pervenire risposta, rifiutandosi di fissare una data.
Jorleif annuì come se non si aspettasse altro che quella domanda, ed allacciò le mani dietro la schiena.
“Ancora nessuna nuova, Sire.”
“Impossibile.” Sbottò Ulfric, scuotendo il capo. “Lui non ha mai perso l'occasione per farsi sentire, quando voleva ottenere qualcosa.”
“Te l'ho detto.” Interloquì Galmar, spostando con indolenza la sua possente mole attraverso la piccola stanza circolare. “Vorrà solo lamentarsi. E ti sta tenendo sulle spine perché sa quanto ti infastidisce.”
A quella considerazione lo Jarl si incupì, fissando lo sguardo su un punto imprecisato della parete di pietra. Rimuginò per lunghi istanti, ed alla fine raddrizzò le spalle.
“Convocalo.” Ordinò a Jorleif. “Inviagli una convocazione ufficiale per il terzo giorno a partire da oggi, alla seconda ora dall'alba. Non ho intenzione di aspettare oltre.”
“Sì, Sire.”
“E sottolinea che la data è improrogabile. Che sappia che, se intende accampare qualche scusa, non otterrà altre occasioni.”
“Certamente, Sire.”
“Ed assicurati che mia moglie quel giorno sia occupata in un'altra ala del palazzo. Non voglio dargli spunto per colpirmi nuovamente attraverso di lei.”
“Sarà fatto.” Assicurò ancora una volta il Sovrintendente, congedandosi con un rapido inchino quando Ulfric gli fece cenno di andare.
Rimasto solo con il suo secondo, lo Jarl di Windhelm tornò ad occupare il vano della porta, incrociando le braccia al petto con fare meditabondo; alle sue spalle Galmar prese a fischiettare il motivo di una canzonetta da taverna, accompagnando i rumori che venivano dall'esterno.
“Credi che verrà?” Domandò Ulfric dopo un lungo silenzio, con un tono così casuale che chiunque non lo conoscesse a fondo avrebbe potuto pensare alla sua totale estraneità al problema.
“Hai paura che non si presenti?” Commentò Galmar con una nota bonaria nella voce. “Verrà.” Aggiunse in fretta, prima che lo Jarl potesse dire altro. “Quel tuo ragazzo sarà anche uno spiantato senza un briciolo di senno, ma sa fino a che punto tirare la corda. In fondo, non è molto diverso da t...”
Non una parola!” Scandì Ulfric, ed il suo ruggito si perse nel rumore della pioggia, insieme alla risata di Galmar.

 

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L'ampia sala del sotterraneo odorava di muffa, polvere e cuoio bagnato.
Trattenendo il respiro con timore reverenziale feci scorrere le dita sulle coste dei volumi e dei codici stipati ordinatamente sugli scaffali di legno. Alcune rilegature avevano i colori vividi del cuoio appena lavorato, ed erano morbide ed elastiche al tatto, altre erano viscide di muffa, e molte apparivano secche, decrepite, e minacciavano di sfaldarsi al mio tocco.
Mi trovavo nella Biblioteca del Palazzo dei Re.
Avevo scoperto quel luogo esattamente tre giorni prima, quando Jorleif mi aveva abbandonata in balia di Ioreth e della mia Guardia, ed io avevo cercato sollievo con una triste passeggiata nei corridoi. In realtà non era stata propriamente una scoperta: sapevo dell'esistenza di un simile luogo all'interno del castello, ma ancora non ero mai riuscita a visitarlo, né conoscevo la sua posizione.
Era stata la mia cameriera a portarmici.
Quando avevo abbandonato l'ufficio del Sovrintendente mi ero promessa di muovermi a mio piacimento e di far rimpiangere ai miei due guardiani l'idea di seguirmi, e così avevo fatto.
Avevo passeggiato per i corridoi lentamente, muovendo un solo passo ogni minuto, dando un'attenzione esagerata ai corni o ai candelabri che illuminavano il percorso, o ai disegni delle venature della pietra sulle pareti; a tratti avevo marciato quasi a passo di corsa, obbligando Ioreth a sollevare le gonne per starmi dietro, e mi ero fermata spesso di punto in bianco, cambiando direzione o tornando sui miei passi.
Il mio divertimento era durato poco più che mezz'ora, perché presto, con gli occhi brillanti di irritazione, la mia cameriera mi aveva suggerito di visitare la Biblioteca. Ed io avevo acconsentito.
Sollevai lo sguardo verso l'alto, strizzando gli occhi per cercar di decifrare i titoli dei tomi in antiche lettere scrostate. Quella sala non aveva nulla a che vedere con la bella Biblioteca della corte di Daggerfall.
Laggiù vi erano ampie stanze ariose, dai soffitti alti ed illuminate da ampie vetrate; negli angoli più luminosi erano disposte piccole panche foderate di velluto blu e rosso, dove noi fanciulle della corte potevamo sederci insieme e passare il tempo leggendo poesie o romanze d'amore, stando attente a non alzare troppo la voce per non disturbare i vecchi studiosi dalle lunghe barbe, che invece preferivano austere seggiole di legno dalle gambe ricurve.
I miei ricordi formavano un contrasto violento con quella che era la realtà di Windhelm. Qui la luce era offerta da piccoli fuochi di origine magica, che non emettevano calore ed ardevano senza consumare la loro candela, e da numerosi cristalli grandi quanto la mia mano, che spandevano un bagliore azzurro o di un pallido violetto montati su semplici candelabri.
I soffitti erano bassi, poiché ci trovavamo sotto il livello del suolo, e tutti i volumi erano ammassati su solide librerie affiancate, che correvano da un lato all'altro della lunghissima sala formando passaggi sufficienti ad ospitare non più di tre persone.
Abbandonai il volume illeggibile, incapace di decifrarne il titolo rovinato, e passai oltre.
Avevo avuto poco tempo per familiarizzare con le varie sezioni, e sebbene dalla mia scoperta fossi tornata alla Biblioteca ogni giorno, in ogni istante disponibile, avevo potuto individuare solo a grandi linee i settori in cui erano suddivise le opere, in modo appena sufficiente per orientarmi.
Per mia fortuna gli argomenti trattati non erano molti; a differenza della corte in cui ero cresciuta, a Windhelm si trovavano prevalentemente manuali di guerra e strategia, registri secolari che raccontavano gli avvenimenti nei territori dell'Eastmarch, mappe rilegate, raccolte di opere epiche e trascrizioni di canzoni degli scaldi.
Lasciai sullo scaffale “Annali di Windhelm: 3E403 – 3E433” e “Pietra di Shor ed i suoi territori”, e proseguii finché finalmente non scorsi quello che cercavo.
Afferrai il volume con cautela, inclinandolo un poco verso il basso per smuoverlo dalla sua posizione; nel corso degli anni il cuoio con cui era rivestito aveva aderito ai due libri adiacenti, e quando lo smossi produsse un leggero scricchiolio; mentre lo facevo scivolare fuori dalla sua sede una polvere scura e sottile mi piovve sulle maniche dell'abito.
“Ouff.” Sbuffai, facendo un rapido passo indietro sotto il peso improvviso. Il volume era più pesante di quanto avessi immaginato, ed a giudicare dal modo in cui sentivo muoversi le parti che lo costituivano, i punti della rilegatura dovevano essere sul punto di cedere.
Ad intervalli regolari, parzialmente incassate nelle librerie, erano state ricavate piccole nicchie fornite di un leggio; non erano niente più che brevi tratti sgombri di mensole e delimitati da austere cornici squadrate, ma permettevano di appoggiare un volume e consultarlo senza doverlo reggere tra le braccia.
Fu in una di quelle nicchie che portai il mio tomo scricchiolante, posandolo con cautela sul leggio. Non c'erano panche né sgabelli: i volumi andavano consultati in piedi, o prelevati e portati nelle stanze superiori.
Avrei letto in piedi.
Aprii cautamente il libro accompagnata dal crepitio della rilegatura, ed un penetrante sentore di polvere e cartapecora mi invase le narici. Cominciai a voltare le vecchie pagine di pergamena, ed alla vista del contenuto sorrisi trionfante.
Davanti ai miei occhi avevo l'intera città di Windhelm.
Vecchie linee di inchiostro si inseguivano sulla pergamena tracciando i contorni di vie, abitazioni, palazzi, mentre tratti più brillanti e recenti caratterizzavano le aggiunte e le correzioni che si erano susseguite nel corso dei secoli. Tra le mani reggevo le mappe della città.
Sfogliando le pagine mi saltavano agli occhi nomi più o meno conosciuti, talvolta vergati accanto ad una scritta cancellata; dove ora sorgeva la casa dei Frantuma-Scudi, in apparenza un tempo vi era l'abitazione, più piccola, di un certo "Rod Acquaforte", e la bottega dello speziale era stata un alloggio per soldati ed un magazzino, prima di ottenere la destinazione attuale. Era tutto così affascinante!
L'idea di cercare le mappe mi era venuta il giorno prima, quando avevo sorpreso mio marito e Galmar impegnati in una discussione che sembrava preoccuparli entrambi.
“E dove lo vorresti mandare?” Stava dicendo il vecchio soldato. “Nel Quartiere Grigio?”
“Non dire assurdità.” Mio marito era sembrato quasi offeso dalla prospettiva, ed aveva scosso il capo. “Nella zona commerciale. O nel quartiere del porto. In un posto dove possa essere tenuto d'occhio.”
“Capisco. Lo vedi domani, quindi?”
“Domani.”
Non avevo potuto scoprire chi o cosa mio marito avesse intenzione di vedere, perché in quel momento mi aveva scorta sulla porta e mi aveva chiesto di mandargli del vino e delle fette di pane con fette di lardo.
Quel breve scambio di battute mi aveva fatto però sorgere la curiosità di scoprire quel quartiere di cui avevo già sentito parlare e che ancora non avevo mai visto, ed avevo deciso che l'avrei cercato sulle mappe della biblioteca. Non temevo di essere interrotta: mio marito aveva il suo misterioso impegno, mentre Ioreth e la mia guardia preferivano aspettarmi all'entrata della sala, dove era sempre acceso un bel fuoco in quello che somigliava più ad un buco nella roccia che un camino.
Passai la mano sulla pagina che avevo davanti, sentendo i rilievi d'inchiostro sotto le punta delle dita. Accanto ad un'abitazione qualcuno aveva cancellato il vecchio nome dei proprietari, ed una grafia che mi era vagamente familiare aveva tracciato la parola “Hjerim”. Sotto la cancellatura si indovinavano ancora alcune lettere; “Ma..t..” Lessi in un sussurro.
Ero quasi certa che stesse per “manto”, perché era una delle parole che più di frequente componevano i nomi di famiglia tra i Nord. Solo la sera prima, per esempio, alla nostra tavola si erano seduti due Mantogrigio ed un Biancomanto venuti da una città oltre le montagne.
Voltai ancora alcune pagine, osservando scorrere santuari, magazzini divenuti case di famiglie numerose, bettole e botteghe, finché non trovai quello che cercavo.
Sulla pergamena era stata tracciata un'unica strada, che piegava leggermente verso Sud.
Vi si aprivano diverse porte, e sembrava una via che in passato avesse visto molti cambiamenti; i nomi accanto alle botteghe erano stati corretti diverse volte, eppure qualunque cosa vi fosse scritta le ultime parole ormai visibili non erano di origine Nord, ma avevano un sentore esotico, straniero, diverso. Al centro della via un'unica, impeccabile linea dritta sbarrava l'elegante indicazione “Quartiere della Neve”; il nuovo nome campeggiava a lettere dure e nette, come uno sfregio in mezzo ad un bel disegno.
Non è poi così distante dal palazzo.” Pensai, guardando la mappa. “E' più vicino di quanto pensassi. Potrei arrivarci anche a piedi.
Mi lasciai sfuggire uno sbuffo divertito, e scrollai la testa di fronte all'assurdità della mia considerazione.
Andarci a piedi. Certo.
Come se io non avessi due guardiani disposti a seguire ogni mio singolo passo.

 

******




Infine, il giorno era arrivato.
Ulfric si sedette al tavolo, ma quasi all'istante si rialzò e mosse qualche passo nella stanza.
Aveva scelto di incontrare Halfdan in una delle sale smesse del palazzo, situate in una zona un po' discosta nei pressi dei locali usati come magazzini. Quella in particolare era stata sgombrata quasi completamente dal vecchio Sifnar nei giorni precedenti, ed ora non restavano altro che due vecchi tavoli imbarcati, segnati da così tante tacche che sembravano essere stati usati come bersaglio dai soldati durante le esercitazioni, qualche sgabello zoppo, alcuni polverosi e pesanti rotoli di stoffa ed un paio di bauli troppo voluminosi per essere svuotati e spostati.
Con aria tesa lo Jarl si avvicinò alla catasta di tessuti, ciascuno avvolto con cura attorno ad un bastone di legno di quercia fino a formare un rullo spesso quanto il torace di un uomo. Allungò una mano, saggiando tra le dita la qualità di un lembo di stoffa dall'aria elaborata, ed esalò uno sbuffo. Dall'ammontare di polvere e dalla foggia dei ricami, dovevano essere lì dai tempi di sua madre.
Avrebbe ordinato a qualcuno di toglierli da quel magazzino, ripulirli e portarli a sua moglie.
Lei certamente avrebbe saputo utilizzarli in qualche modo.
Si spolverò le dita sull'orlo della casacca e fece qualche nervoso passo nella stanza. Era il ragazzo ad essere in ritardo, o era lui ad essere arrivato in anticipo? Avrebbe dovuto scegliere una stanza dotata di finestre, così avrebbe potuto rendersi conto del passare del tempo.
Sovrappensiero si massaggiò le guance ispide, soffermandosi coi polpastrelli sulle cicatrici che gli sfregiavano il lato sinistro del volto. Un vecchio ricordo minacciò di affiorargli alla mente, ma Ulfric si affrettò ad aggrapparsi al pensiero dell'imminente colloquio, e quella sua vecchia memoria tornò ad assopirsi.
L'attesa era la rivalsa preferita di Halfdan; di fatto, una delle poche che ancora lui non gli aveva tolto.
Il fruscio di un passo dietro l'uscio lo fece voltare di scatto, e per un brevissimo attimo, in cui vide la porta aprirsi ed una sagoma ancora in ombra delinearsi dietro il battente, pensò si trattasse di un servitore che veniva a comunicargli qualcosa di catastrofico - gli Altmer avevano attaccato l'Eastmarch, sua moglie aveva perso un altro figlio, Halfdan si era rifiutato di venire all'appuntamento.
Ma poi la figura fece un passo avanti ed Ulfric riconobbe quel viso dai tratti duri e spigolosi, il naso aquilino come era stato il suo prima che si rompesse contro il bordo metallico di uno scudo, la mascella squadrata coperta da una simile peluria bionda, e gli occhi chiari di un colore un poco più intenso dei suoi.
“Ragazzo.” Lo salutò, sentendo la voce indurirsi più di quanto avrebbe voluto.
Il nuovo arrivato prese tutto il tempo necessario per richiudersi la porta alle spalle, e dopo avergli lanciato un'occhiata sprezzante si inchinò profondamente, esibendosi nella caricatura di una riverenza con un sorriso arrogante.
“Salute a voi, Padre.”







 


Siamo in un momento di passaggio: il clima a Windhelm sta cambiando, Lirael si sta facendo un poco più intraprendente, ed un poco alla volta le varie tessere del puzzle della guerra civile si inseriscono al proprio posto (qualcuno avrà sicuramente colto l'accenno ad Ancano ed ai Compagni di Whiterun).
Troverete un piccolo estratto dal passato di Ulfric, così come ho fatto qualche capitolo fa per Lirael; solitamente l’uso dei flashback è utile per raccontare il trascorso dei personaggi, ma nel mio caso ho voluto inserirli come episodi legati ad un avvenimento presente (il “brava bambina” detto da Mirala, per esempio, o il povero Galmar sempre portatore di brutte notizie), e conto di inserirne altri più avanti.
 

  
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