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Autore: CHAOSevangeline    01/03/2017    1 recensioni
{ School days! AU | 5927 | G02 }
Tsunayoshi Sawada è uno studente delle scuole medie che sembra incapace di considerare la propria vita normale perché costantemente baciato dalla sfortuna. Giotto è il suo consigliere di fiducia e il compagno di lui, G., riesce quantomeno a farlo ridere un po’ con le proprie battute.
Quello che gli serve è una svolta.
Hayato Gokudera è uno studente delle scuole medie proprio come Tsuna, ma forse è ancora meno normale di lui: solitario, irascibile e temuto dagli altri; nessuno ha idea di cosa gli passi per la testa, né conosce il suo passato.
Il tipo di persona a cui Tsuna non rivolgerebbe mai la parola, se non costretto.
Ma ciò di cui ha bisogno Hayato è esattamente ciò che serve a Tsuna: una svolta.
Invece di cercare tanto lontano, avrebbero soltanto dovuto guardare a qualche banco di distanza.
Genere: Commedia, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: G, Giotto, Hayato Gokudera, Tsunayoshi Sawada, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Ciao a tutti!
Finalmente torno a pubblicare nel fandom di Reborn – e in generale, in realtà – con questa AU.
Non l’ho segnalato negli avvertimenti, ma considerando che ciò che accade nella fan fiction non ricalca quasi in nessun modo gli elementi del manga o dell’anime, in alcuni punti i personaggi potrebbero, forse, risultare un po’ OOC. Secondo il mio modesto parere in modo molto lieve, perciò spero che la cosa non vi disturbi.
Ne approfitto per ringraziare Rika che mi ha spronata a scrivere e a cui ho rotto per giorni con questo progettino e Barri, che mi ha servito su un piatto d’argento il titolo.
Sperando che il primo capitolo vi piaccia e vi vada di dirmi cosa ne pensate, vi auguro buona lettura!


 

COMPLEMENTARY
 

Capitolo primo



 
C’erano diversi motivi per cui la scuola media di Namimori – l’unica scuola media di Namimori – veniva guardata da tutti con un occhio di sospetto.
Che la stragrande maggioranza dei delinquenti di età compresa fra i dodici e i diciotto anni avesse deciso di proseguire lì la propria carriera scolastica era uno dei principali.
Se non altro ad una grande quantità di delinquenti corrispondeva anche una grande quantità di sorveglianza per salvaguardare gli studenti rispettabili: il preside della scuola sembrava avere piuttosto a cuore la serenità all’interno del proprio istituto e qualsiasi episodio non conforme alle regole veniva punito con severità pari alla gravità del gesto compiuto.
E poi le madri degli studenti riuscivano a chiudere un occhio: sembravano adorare il preside, lui come i professori.
Se alle scuole del Giappone mancavano avvenenti insegnanti di età inferiore ai quarant’anni doveva essere perché erano stati portati tutti, per un motivo o per l’altro, ad insegnare alle scuole medie di Namimori.
Alle volte sembrava quasi che il corpo insegnanti fosse stato riunito per sbaglio, come se un richiamo avesse condotto lì ogni suo elemento strappandolo ad altre mansioni che si sarebbero rivelate più adatte a lui, almeno in base all’aspetto esteriore.
Per esempio, G. si sentiva ancora dire dal più dei suoi studenti che invece di economia domestica avrebbe dovuto lasciare tutto per darsi al motociclismo.
Il fatto che avesse un tatuaggio non meglio identificato che occupava metà del volto – e chissà fino a dove si estendeva, questo si chiedevano tutti –, che vestisse in maniera abbastanza trasandata e che fosse stato visto, di tanto in tanto, segregato nell’area fumatori dedicata agli studenti, lo aveva fatto percepire in qualsiasi modo meno che come un professore. La linea che lo separava degli alunni era molto breve, oltre che sottile.
« Bentornati, ragazzi », cominciò, sistemandosi sulla sedia dietro alla cattedra.
Era il primo giorno di lezione.
« Spero che le vostre vacanze estive siano andate bene. Meglio delle mie, almeno: il vostro amato preside ha voluto ritinteggiare il soggiorno. »
Una risata generale animò la classe.
Altro elemento che faceva percepire G. meno lontano dagli studenti di quanto sarebbe dovuto essere un professore: il fatto che la sua relazione con il preside non fosse affatto un segreto. Ne parlava come ne avrebbe parlato ad un gruppo di amici.
All’inizio c’era stato qualche tentativo di mantenere una certa riservatezza, che però G. aveva malamente calpestato lasciandosi sfuggire un’indiscrezione su quanto il preside – che aveva citato espressamente per nome – fosse indeciso tra il legno di betulla e quello di ciliegio per i pensili della cucina del loro nuovo appartamento.
Non era così impensabile che due uomini nella fascia dei trenta condividessero la casa, forse. Ma che arrivassero sempre insieme alla mattina, si lanciassero sguardi e battibeccassero come una coppietta sposata aveva destato sospetti, soprattutto tra le studentesse.
Dei passi fuori dall’aula attirarono l’attenzione di G.
Il trillo della campanella aveva già fatto affrettare gli studenti nelle loro aule, perciò poteva trattarsi solamente di lui.
« Parli del diavolo… »
Si udì un leggero bussare e quando la porta si aprì tutti gli studenti erano già in piedi. La figura di un uomo alto, biondo e rigorosamente vestito di gessato fece la propria comparsa.
Un tempo era il sogno proibito di diverse studentesse; poi, con la scoperta della sua relazione con il professore di economia domestica, quel sogno era diventato anche sepolto, oltre che proibito.
« Buongiorno, ragazzi », salutò con un sorriso cortese sul volto.
Guardò G.
« G. »
Non lo rimproverava più, ma probabilmente gli scocciava ancora il fatto che l’uomo non accennasse neanche lontanamente ad alzarsi per salutarlo, quando entrava.
« Ti ho già salutato dieci minuti fa. »
Gli alunni già si pregustavano il battibecco che avrebbe preso vita, con conseguente ritardo di discorso motivazionale post-vacanze.
« Sarebbe stato scortese salutare tutti meno che te, no? » sospirò.
G. scrollò le spalle.
Il biondo tornò a voltarsi verso la classe, pronto a cominciare.
« Cosa vuoi per pranzo, Giotto? »
L’uomo dovette fare appello a tutto il proprio autocontrollo per riuscire a far notare all’altro che avrebbe anche potuto rimandare quella domanda. Il tutto con la dovuta calma e serenità.
« Non possiamo parlarne all’intervallo? »
« All’intervallo me ne sarò scordato. »
Giotto decise di ignorarlo, perché era l’unica cosa che poteva fare in quel momento per rispettare la tabella di marcia della mattinata e non fare qualcosa di cui si sarebbe potuto pentire, o che l’avrebbe fatto rimanere senza un compagno.
G. aveva quell’innato desiderio di farlo sembrare meno perfetto e rigido di fronte agli studenti.
« Allora, ragazzi… »
« Ho capito, decido io per dopo. »
G. era sempre stato visto come il professore burbero, antipatico e “che ti avrebbe messo un’insufficienza anche non meritata pur di abbassare la tua media e farti sgobbare sui libri per recuperare i debiti”.
In realtà era molto più di questo, sia in senso positivo che negativo.
Partendo dagli aspetti peggiori, alle volte aveva davvero usato il proprio potere per farla pagare a qualche – citando testuali parole rivelate solo a Giotto per evitare di beccarsi una denuncia dalle madri dei suoi alunni – “stronzetto che credeva di poter dettare legge di fronte a lui”.
Giotto era più per la diplomazia; se fossero esistite ancora le bacchettate sulle mani, invece, G. le avrebbe usate. Come avrebbe usato qualsiasi altro elemento d’arredo papabile come oggetto contundente, e non solo sulle mani.
Anche se forse era più violento e mostrava il proprio lato minaccioso molto più velocemente di Giotto, questo non voleva dire che il signor preside fosse meno severo di lui, anzi: era G. quello che si serviva più spesso della frase “sono solo ragazzi”, facendo saltare molte punizioni.
Se poi sentiva nei corridoi battute circa che parte del corpo avesse promesso a Giotto per farlo calmare era un altro paio di maniche: allora si infuriava e i suddetti spiritosi avrebbero con ogni probabilità passato mesi d’inferno fino alla fine del proprio percorso alle scuole medie.
Da quando la sua storia con Giotto era emersa, comunque, il professore aveva dimostrato un lato giocoso che nessuno sarebbe stato in grado di presagire. Rimaneva piuttosto riservato e anche se ormai i suoi studenti, incrociando le informazioni ottenute in una classe piuttosto che in un’altra, avrebbero potuto disegnare una piantina di casa sua con tanto di mobilio e tinta delle pareti, G. non raccontava mai troppo della propria vita privata.
Sembrava quasi che volesse accontentare le aspettative degli studenti, come se stesse dando spettacolo, senza però esagerare.
Per questo probabilmente era ancora vivo.
Se avesse spiattellato ogni dettaglio della loro convivenza, Giotto lo avrebbe ucciso.
E G. meglio di chiunque altro sapeva quanto potesse diventare spaventoso.
Fargli notare con una pacca ben assestata quanto bene gli cadessero i pantaloni, nel corridoio vuoto davanti al suo ufficio, era una delle cose che più lo rendeva spaventoso.
Per questo, nonostante Giotto gli avesse dato le spalle per tutto il tempo del discorso che era finalmente riuscito a cominciare, G. si era costretto a tenere le mani ben piantate sulla cattedra.
Eppure i palmi gli prudevano.
 
Tsuna era convinto senza alcuna ombra di dubbio che la sua vita fosse strana.
Doveva esserci qualcuno da qualche parte che si divertiva a condividere anche le sue piccole fortune in disgrazie.
Disgrazie in senso lato, dopotutto non erano poi così gravi. Però che fosse un imbranato cronico, sfortunato in amore e con una media tendente allo zero era frustrante. Che fosse ancora un adolescente convertiva tutte quelle sfortune in disgrazie.
Lui si impegnava, lo faceva davvero, ma non riusciva ad ottenere nulla. E se ci riusciva, ci riusciva comunque con delle riserve. L’ambito non importava.
Gli sembrava ancor più una beffa assurda che nemmeno una volta suo cugino, con cui era in ottimi rapporti nonostante la differenza d’età, e che era il preside della scuola che frequentava ormai da anni, non facesse qualcosa per aiutarlo.
Un sacco di volte era stato preso di mira, all’inizio delle medie, sentendosi dire che avrebbe avuto una media folle e sarebbe stato il pupillo di tutti i professori.
In realtà non aveva una media folle, non era il pupillo di nessun professore e Giotto stesso, se doveva scegliere tra una spintarella e un corso di recupero, lo obbligava a fermarsi a scuola più degli altri.
Però Tsuna sapeva che era per il suo bene, che Giotto cercava di aiutarlo e non l’aveva mai odiato per questo.
Quel giorno, all’intervallo speso come al solito chiacchierando insieme a Takeshi, Haru, Kyoko e suo fratello, Tsuna era stato convocato nell’ufficio di Giotto. Certo, convocato era una parola grossa, dato che si era trattata più che altro di un’informazione telegrafica che gli era pervenuta mediante G.
“Giotto ti vuole vedere, dopo le lezioni. E dato che sei lì digli che non sono la sua segretaria, magari a te ascolta.”
Ed eccolo lì, di fronte alla scrivania ordinatissima di Giotto.
Il suo proprietario lo stava scrutando in silenzio.
Tsuna aveva diversi incentivi per impegnarsi, in primis perché avrebbe dovuto – o voluto? – reggere il confronto con Giotto stesso: era sempre stato bravo a scuola, brillante nelle relazioni sociali, si era laureato ed era diventato preside di una scuola che nonostante il comportamento di alcuni suoi studenti andava a gonfie vele. Aveva anche un compagno e beh, Tsuna non poteva negare che G fosse un bel ragazzo.
Lui invece cosa aveva? Un gruppetto di amici, una cotta per cui Yamamoto lo perseguitava ancora senza sapere che ormai gli era passata e poche prospettive per il futuro.
Era frustrante.
Aveva già pensato che lo fosse, quel giorno?
Giotto piaceva a tutti, lui invece si sentiva solamente uno sfigato.
« Cosa c’è, Tsuna? »
Il ragazzo si riscosse, guardando negli occhi il biondo e sedendosi: non si era nemmeno reso conto di essere rimasto in piedi come un perfetto idiota.
« Non è niente. »
Tsuna si accorse subito del lievissimo cambio di espressione sul volto di Giotto: aveva aggrottato impercettibilmente le sopracciglia, indice che aveva appena appuntato nella propria mente che qualcosa stava disturbando il cuginetto e che avrebbe assolutamente dovuto indagare.
Però quello non doveva essere il momento opportuno per quel particolare discorso, dato che passò oltre.
« Volevo parlarti dei tuoi voti », cominciò.
Oh-ho.
Tsuna sapeva già dove aveva intenzione di andare a parare.
« Sai che hai evitato il corso di recupero per un soffio? »
Il più piccolo annuì.
Era forse la prima volta nella vita che non aveva nessun pomeriggio occupato da corsi integrativi. Doveva trattarsi di un miracolo.
« Penso davvero che dovresti trovare qualcuno a cui appoggiarti, Tsuna. So che ti impegni, ma magari studiare con un amico potrebbe tornarti più utile. E poi amplieresti le tue conoscenze. »
Tsuna non era un asociale. Il suo problema era che la maggior parte delle persone sembrava odiarlo: vedeva di lui solo i difetti, non voleva stargli vicino per paura che la sua sfortuna si appiccicasse come colla e meno che meno voleva essere bollata con l’appellativo di “sfigato”.
Le uniche eccezioni appartenevano al piccolo gruppo di ragazzi con cui Tsuna trascorreva il proprio tempo e che Giotto definiva “cari” o “intelligenti”. G. gli aveva fatto notare che i nomi Ryohei o Yamamoto vicino alla parola “intelligente” stonavano, ma Giotto aveva ribattuto intimandogli che aveva capito cosa intendeva.
Ci voleva pazienza con lui, Giotto glielo aveva sempre detto, perché era insicuro e si demoralizzava, ma si potevano avere grandi soddisfazioni.
Tsuna si chiedeva da diverso tempo se l’uomo avesse già ottenuto da lui qualcuna di quelle soddisfazioni di cui parlava sempre, o se reiterasse quel discorso solo per tentare di motivarlo un po’.
« Ci proverò, Giotto. »
Il biondo lo guardò intensamente.
Il sospiro sconsolato con cui aveva esalato la risposta non gli bastava, come non gli bastava mai una replica poco convinta o incerta.
« Devi esserne sicuro, però », gli fece notare. « Sei stato tu a dirmi che senti il bisogno di un cambiamento, nella tua vita. »
“Già, ma te ne ho parlato ad una serata tra adulti, dopo tre dei cocktail miracolosi che G. ha preparato perché secondo lui era ora che diventassi grande. Peccato solo che non mi fossi sbronzato abbastanza da dimenticare, perché so perfettamente di essermi messo a fissare il vuoto mentre il tuo amico Cozart, l’unico ospite che doveva effettivamente partecipare, mi tirava pacche sulla schiena dicendomi che l’adolescenza è dura per tutti.”
Tsuna lo pensò tutto d’un fiato e pensò anche di dirlo a Giotto, ma si trattenne: sarebbe suonato antipatico e ingrato, e non voleva.
Abbozzò un sorriso tirato.
« Ci proverò? » tentò ancora, ma il suo tono suonò interrogativo.
Gli occhi di Giotto lo scrutarono, mentre rimaneva in silenzio.
Tsuna conosceva quello sguardo: era lo sguardo poco convinto che l’altro sfoderava mentre tentava di capire le reali intenzioni di una persona.
« Davvero? »
« Davvero. »
« Gli hai già fatto firmare un contratto vincolante, Giotto? Sia mai che faccia come gli pare. »
G. aveva fatto il proprio ingresso, al solito con una battuta scenica.
Ogni tanto Tsuna si chiedeva se sapesse in qualche modo prevedere il futuro e ragionasse di conseguenza su cosa dire, perché gli sembrava assurdo che dai pochi frammenti raccolti ascoltando l’ultima parte della loro conversazione, prima di entrare, potesse inventarsi una tale battuta.
Sempre ammesso che non stesse origliando da molto prima.
In realtà G. sapeva perfettamente di che cosa Giotto volesse parlare a Tsuna: il ragazzo era uno dei loro argomenti principali, come potevano esserlo chi sarebbe andato a pagare le bollette o i tanti interessi che accomunavano Giotto e G., come ad esempio vagliare le conoscenze di Cozart per trovargli un buon partito, o discutere su quanto Daemon – che per gli studenti della Namimori era il professore di scienze naturali – fosse o non fosse un bastardo.
G. non aveva mai fatto presente a Tsuna quanto popolasse i loro discorsi per paura che si sentisse in imbarazzo. In fin dei conti ogni confidenza che il ragazzo aveva fatto a Giotto era stata automaticamente spiattellata a G., e in realtà alcuni dei consigli non immediati che Giotto dava al cuginetto erano anche farina del suo sacco. Non che gli dispiacesse: amare Giotto voleva dire accettare ogni parte di lui, compresa la sua adorazione per Tsuna.
Perciò G. sapeva esattamente a che ora il compagno avrebbe convocato il più piccolo, che cosa gli avrebbe detto e anche bene o male con quali parole: lo aveva visto provare di fronte allo specchio, sottovoce, convinto che lui fosse già sotto la doccia.
Non poteva essere certo che il discorso si fosse già concluso, o che Giotto avesse rispettato la propria tabella di marcia – ma sarebbe stato strano il contrario. E comunque G. non aveva poi così paura di essere fuori luogo: se la sua frase si fosse rivelata inadatta al momento probabilmente l’avrebbe spacciata per una massima che si sarebbe rivelata utile in un contesto futuro.
Dal modo in cui Tsuna gli sorrise capì che doveva aver appena messo fine ad un discorso piuttosto pesante. Si era guadagnato anche il ruolo di salvatore, così.
Giotto scoccò a G. un’occhiata di fuoco, a cui ormai il suo compagno era diventato immune: ne aveva ricevute così tante che riuscì a continuare a muoversi nella stanza con estrema nonchalance, dirigendosi verso la giacca – con cui quasi sempre partiva da casa e che altrettanto spesso rimaneva abbandonata o nell’ufficio di Giotto o in sala insegnanti perché non gli andava di continuare ad indossarla. Frugò nelle tasche ed estrasse un pacchetto di sigarette.
« Non nel mio ufficio. »
G. sostenne lo sguardo del biondo, raggiunse la finestra e la aprì. Si piegò, reggendosi con i gomiti sul davanzale, accese la sigaretta e inspirò. Si prese il suo tempo anche per espirare, sotto lo sguardo inquisitore di Giotto e quello incuriosito di Tsuna. Poi si voltò.
« Sto fumando fuori dal tuo ufficio. »
Giotto si massaggiò gli occhi. Non c’era neanche più motivo di chiedersi se G. lo prendesse in giro: era ovvio che lo facesse e che si divertiva parecchio.
E che vederlo uscire di testa divertiva anche gli altri, dato che le labbra di Tsuna erano tese in una smorfia che aveva tutta la volontà del sorriso e la consapevolezza di non poterlo diventare, pena la furia di Giotto.
« Tsuna, puoi andare se vuoi. Non volevo trattenerti troppo. »
Una volta interpellato, Tsuna tornò sull’attenti e si alzò in piedi.
Quando Giotto e G. gli regalavano quei siparietti da coppia sposata faceva di tutto pur di goderseli, ma in quel momento non gli sarebbe dispiaciuto eclissarsi per fare in modo che Giotto non riprendesse la sua ramanzina.
« Nessun problema. »
Afferrò la propria cartella e andò verso la porta.
« Allora io vad-… »
« Tsunayoshi. »
Deglutì.
Il nome intero. Era qualcosa di importante allora.
« Sì? »
« Mi raccomando. »
Probabilmente lo avrebbe monitorato con ogni mezzo per essere certo che si stesse impegnando.
« Sono sicuro che ti fossi già raccomandato », intervenne G., che sporse un braccio nella stanza e fece un cenno di saluto con la mano a Tsuna.
Il ragazzo capì che quello era il segnale. Il segnale che significava “presto, scappa: qui me ne occupo io”.
Tsuna si rese conto che non aveva mai ringraziato G. per quei suoi interventi miracolosi solo quando ormai aveva già chiuso la porta dello studio alle proprie spalle.
 
Era arrivato a metà del proprio tragitto verso casa con la mente ancora annebbiata dalle parole di Giotto.
Tsuna sapeva di avere dei doveri a cui tentava di adempiere senza riuscirci come avrebbe dovuto e, anche, voluto.
Chi non si sarebbe sentito frustrato nel non vedere neanche una volta i propri sforzi riconosciuti?
L’unica soddisfazione che Tsuna riusciva a contare, da qualche tempo a quella parte, era il non dover frequentare il corso di recupero nominatogli da Giotto.
Sentirsi ricordare di avere degli obblighi però non lo aiutava: si sentiva sotto pressione, non incentivato a fare del proprio meglio.
Giotto gli forniva sempre consigli e soluzioni, e Tsuna gli era grato per questo. Ciò che Giotto non voleva capire era che molti dei suggerimenti che gli dava erano possibilità su cui Tsuna aveva già riflettuto e che aveva già tentato di attuare, senza però ottenere risultati.
La questione era semplice: Tsuna era uno sfigato. Lo sfigato, ad essere precisi; era certo che fosse stata stilata una classifica degli elementi con meno fortuna della scuola, forse della città, e che in cima a quella classifica ci fosse proprio il suo nome.
Era un caso così disperato che non sapeva nemmeno se sarebbe riuscito a liberarsi di quell’etichetta entro una decina d’anni.
Però non voleva smettere di essere “sfigato” comportandosi come gli altri.
Non gli interessava entrare nelle grazie di un gruppo popolare, come non gli interessava diventare il più bravo nella scuola.
La sua ambizione era la normalità.
Voleva una casa normale, non popolata perennemente dai figli delle amiche di sua madre, che la usavano come babysitter dodici ore al giorno; voleva che il suo gruppo di amici rimanesse com’era perché, a conti fatti, era la cosa più normale della sua vita. Alla famiglia da pubblicità, allegra e spensierata, aveva già rinunciato, perché suo padre gli aveva già lasciato intendere diverse volte che non sarebbe mai stato una sua priorità. Lui come sua madre.
Già, sua madre. Era così innamorata di quell’uomo che Tsuna non aveva mai avuto il coraggio di parlarle di come si sentiva nei suoi confronti, di come per anni avesse percepito una parte di sé mancare a causa dell’assenza di quel rapporto che il più dei suoi coetanei vantava.
Così, Tsuna si era rassegnato all’idea che le poche volte in cui suo padre era in casa, lui non sarebbe riuscito a trattenere il proprio risentimento e sua madre, senza provare a immedesimarsi nei suoi panni, avrebbe difeso a spada tratta quell’uomo.
“Ci mantiene, Tsuna!”, “Tuo padre è un brav’uomo, non saresti dove sei ora senza di lui, Tsuna!”
Per citare le parole che suo zio G. aveva scelto poco prima, quando era entrato nell’ufficio di Giotto, lui non aveva firmato nessun contratto vincolante per trovarsi dov’era grazie a suo padre.
Credeva di avere tutto il diritto di essere almeno un po’ arrabbiato con l’uomo, sia per il suo comportamento – perché lavoro o non lavoro, almeno una telefonata alla settimana avrebbe anche potuto farla –, sia perché era un adolescente e poteva ancora permettersi di essere arrabbiato con il mondo.
Giotto era l’unico che davvero lo capiva, l’unico a cui sapeva di poter parlare dei propri sentimenti nei confronti di suo padre senza timore che andasse a riferire tutto a quella che sarebbe diventata una furiosa signora Sawada.
Forse capiva un po’ meno la sua necessità di essere arrabbiato con il mondo, ma per quello c’era G., che a trent’anni era ancora furioso con l’umanità come a diciotto. Aveva regalato a Tsuna una perla, una volta, dicendogli che non poteva dargli una mano nell’immediato perché se gli avesse suggerito di fare “le cose che faceva lui alla sua età” Giotto lo avrebbe ucciso, ma lo aveva anche rincuorato dicendogli che sarebbe andato tutto molto meglio quando avrebbe preso la patente: a detta sua c’era qualcosa di terapeutico nel trascorrere il proprio tempo stipato in una scatola di lamiera ad inveire contro dei perfetti sconosciuti.
Non ricordava perché fosse arrabbiato quella volta, ma ricordava distintamente di aver riso nonostante la serietà di G. Così nell’immediato era stato meglio e dal giorno successivo aveva iniziato a fare il conto alla rovescia per prendere la patente.
Come c’era una parte divertente di battute che lo faceva sorridere almeno un po’ per dargli la giusta voglia di riprendersi, ce n’era anche una che doveva effettivamente servirgli a ragionare. Quelle erano le ramanzine di Giotto.
Tsuna le ascoltava da anni e anni: aveva sentito una filippica sul perché dovesse riflettere almeno tre volte sulle proprie scelte, durante l’adolescenza – una per escludere le altre opzioni, una per capire se lo stava facendo solo per gli ormoni e una perché poteva sempre venirgli un’idea diversa –; cento erano state le prediche sullo studio e doveva essercene stata anche una sull’evitare di scegliere un compagno di vita che fosse come suo zio G.
Ma l’ultima Giotto gliel’aveva fatta da ubriaco, dopo un litigio, quindi dubitava che contasse.
Cambiava il tema, cambiava l’ora di notte che riuscivano a raggiungere parlando e parlando se Tsuna aveva bisogno di sfogarsi, ma c’era una cosa che non cambiava: il loro effetto.
Tsuna pensava che con gli anni sarebbe dovuto diventare immune come G. lo era diventato alle occhiatacce di Giotto, ma le sue parole sembravano essere sempre in grado di innescare una catena di pensieri infinita nella sua mente, esattamente come quella che si stava concludendo con quel ragionamento.
Probabilmente era quello l’effetto che dovevano sortire, dato che Giotto non faceva mai nulla senza uno scopo.
Sicuramente tra gli obiettivi dell’uomo non doveva esserci il renderlo abbastanza pensieroso da fargli sfogare la propria tensione prendendo a calci una lattina. Certamente non era previsto che calciasse quella lattina con una forza e precisione mai mostrate prima. Sempre che di precisione si potesse parlare, dato che la sua intenzione non era affatto quella di colpire la gamba di uno dei tre ragazzi che camminavano pochi metri davanti a lui.
Tsuna viveva a Namimori e, da suo bravo cittadino, frequentava la scuola di Namimori. Frequentava quindi la scuola che vantava il più alto numero di adolescenti delinquenti – avrebbe saputo recitare una lista di nomi infinita, volendo – e per quanto Giotto si preoccupasse di trattenerli mentre si trovavano tra le mura di sua competenza, incutendo un timore che aveva del reverenziale, non poteva nulla fuori dal cancello delle sue scuole medie.
E non poteva fare nulla per Tsuna, che pur essendo suo parente ancora non aveva mostrato neanche un decimo dell’autorevolezza che obbligava gli altri ad ascoltare lui.
Tsuna sentì i sudori freddi lungo il collo ancora prima di vedere gli occhi del ragazzo che era stato colpito trapassarlo da parte a parte.
« È tua questa lattina, Sawada? »
Se il suo nome detto per intero corrispondeva a guai grossi durante le prediche, forse il suo cognome, Sawada, corrispondeva a guai grossi con i bulli.
Lui era Imbrana Tsuna, in condizioni normali.
« Mi dispiace, non… ti volevo colpire. »
La sua voce tremò e dopo essersi guardati tra loro, i tre risero in coro.
Tsuna sapeva già come sarebbe andata a finire: il suo gilet si sarebbe sgualcito, la borsa si sarebbe sporcata a terra e avrebbe dovuto passare la notte a riparare i libri usando lo scotch.
Andò come da copione, ma diversamente dal solito, Tsuna si ritrovò a fissare con una certa noia mista a rassegnazione i suoi tre avversari.
« Se avete finito io andrei. »
« Se avete finito? »
Pessima scelta di parole.
Pessima scelta di parole che gli costò un labbro spaccato e un volo per terra.
Non era mai arrivato a ricevere un pugno, ma era abbastanza fantasioso da poter immaginare il seguito.
Vide un’ombra stagliarsi davanti a sé e si coprì il viso con le braccia.
Uno, due, tre secondi. E nessun colpo.
Tsuna socchiuse un occhio, poi l’altro, chiedendosi perché in quel lasso di tempo nessuno avesse detto più nulla.
Guardò davanti a sé.
Divisa della sua scuola, maniche della camicia arrotolate sopra il cardigan, fino al gomito; catene che pendevano dalla cintura, un braccialetto con le borchie al polso e dei capelli argentati.
Oh, no.
« Da quand’è che sei diventato un paladino della giustizia, Gokudera? »
Oh, diamine no.
Quello che aveva davanti era Hayato Gokudera.
Stessa scuola, stessa età e stessa classe. Differenza fondamentale: era uno dei primi nomi che Tsuna avrebbe elencato parlando dei delinquenti che frequentavano il suo stesso istituto.
Il ragazzo schioccò la lingua, come era solito fare quando un professore lo chiamava alla lavagna. Ogni volta si dimostrava talmente preparato da privare ogni insegnante della soddisfazione di dargli un’insufficienza. Tranne G., G. poteva dargli tutte le insufficienze che voleva, dato che buona parte di economia domestica consisteva nel cucinare e che Gokudera Hayato sembrava incapace di mischiare degli ingredienti senza che questi si autodistruggessero.
Come del resto sembrava incapace di provare interesse verso qualsiasi cosa. Appariva perennemente scocciato, annoiato, furioso. Nessuno lo approcciava, tranne Yamamoto: aveva cercato di “farlo inserire” e in risposta aveva ricevuto un grugnito, delle urla e una minaccia di morte. Lui aveva riso, Tsuna invece aveva preso quella reazione come un monito.
Gokudera non voleva essere disturbato? Ottimo, non sarebbe di certo stato lui a stuzzicare i suoi nervi.
Peccato che in quel momento fosse seduto sull’asfalto e il ragazzo si fosse messo tra lui e quei bulli. Già immaginava i suoi ultimi anni di medie trascorsi a fargli da lacchè per estinguere quel debito.
Magari faceva anche parte di qualche gang. No, no, gli piaceva troppo stare da solo. Magari era un mafioso.
La sua fantasia stava galoppando alla stessa velocità del suo cuore, che pareva voler esplodere all’interno della sua cassa toracica.
« Ohi, ti hanno mangiato la lingua? Rispondi! »
Gokudera non aveva ancora parlato, in effetti.
« Paladino della giustizia un cazzo. »
Sì, era davvero Hayato Gokudera.
Tsuna si chiese se fosse giusto, dato che lo stava aiutando, rimanere seduto comodamente a terra, guardandolo mentre menava pugni e calci contro i tre ragazzi. Non sembrava che avesse bisogno di aiuto e dubitava che proprio lui sarebbe stato in grado di dargliene.
Chissà dove aveva imparato a fare a pugni in quel modo.
Pochi minuti e i tre furono a terra. Gokudera non era illeso, ma sembrava stare bene.
Fatta eccezione per lo zigomo arrossato e la schiena leggermente ricurva per il pugno alle costole che aveva ricevuto quasi a fine scontro.
Tsuna aprì la bocca per parlare, ma rimase in silenzio. Aveva davvero troppa paura dello sguardo di quel ragazzo: l’aveva incrociato un paio di volte in classe e gli era sembrato che volesse ucciderlo.
Sorprendentemente lo vide voltarsi. Sorprendentemente perché era convinto che se non avesse attirato la sua attenzione, se ne sarebbe andato del tutto incurante di lui.
Gokudera lo fissò in silenzio e le sue sopracciglia si aggrottarono in maniera impercettibile per un secondo.
Doveva aver notato il modo in cui lo guardava.
« G-… »
L’albino alzò un sopracciglio.
« Grazie. »
Tsuna si affrettò a raccattare i propri i libri e ad infilarli nella cartella: voleva evitare di spendere lì abbastanza tempo da permettere a quei ragazzi di svegliarsi ancor più arrabbiati di prima.
« Non l’ho fatto per te. »
Oh, grazie al cielo.
O forse no, perché adesso era curioso di scoprire le sue motivazioni.
Perché era tanto masochista, quel giorno? Cosa c’era in lui che non andava?
« E perché allora? »
Gokudera, che già si era voltato per andare via, sussultò e tornò a guardare Tsuna.
« Avevo degli “affari miei” in sospeso con loro. Hai presente cosa sono? »
Tsuna capì che avrebbe fatto meglio a rimanere in silenzio, se non voleva finire svenuto sull’asfalto insieme agli altri ragazzi.
Annuì rapidamente e riprese a camminare.
Nella stessa direzione di Gokudera.
C’era un difetto che Tsuna aveva, chiamato “necessità patologica di riempire il silenzio”. Qualsiasi situazione in cui nessuno parlava gli rendeva quasi obbligatorio scegliere l’argomento anche più idiota con cui colmare il vuoto acustico.
Quella volta a dire il vero aveva qualcosa di serio da dire.
« Ti… ti hanno colpito… le costole, no? Sicuro che non siano rotte? »
« Mi hanno già rotto le costole, una volta: un colpetto come quello di poco fa non mi ha fatto nulla », lo liquidò.
Tsuna provò ad immaginare a quante risse avesse già partecipato quel ragazzo e giunse alla conclusione di non voler conoscere la risposta.
« Non sapevo… che abitassi da questa parte. »
« Non sei obbligato a parlarmi », gli fece notare seccamente Gokudera. « Anzi, gradirei che ti obbligassi da solo a non farlo. »
Bene, aveva provato ad essere gentile. Lo aveva ringraziato, l’altro gli aveva dato prova di non volergli parlare e Tsuna aveva deciso che i suoi tentativi di essere cordiale si sarebbero fermati lì.
Ad un certo punto della loro tesa camminata, il ragazzo svoltò in una stradina. Tsuna non sapeva se fosse perché doveva davvero farlo, o se fu per seguire un percorso alternativo in modo da non fare un solo metro di strada in più con lui.
Ebbe la conferma di essere masochista, però, perché si rese conto di aver parlato con Gokudera Hayato più per curiosità, che per bisogno.
 
Nana Sawada era una persona dal cuore d’oro.
Faceva regali preparati con le sue stesse mani a chiunque, anche a chi non li meritava. Tsuna sapeva che quella donna era troppo buona e sapeva anche che molte persone ne approfittavano dandole in cambio neanche la metà dell’affetto che meritava.
Però in quel momento la stava odiando con tutto se stesso.
La logica della donna era inattaccabile: se anche chi non meritava nulla da lei riceveva dei pensierini artigianali, perché il ragazzo che aveva salvato suo figlio da un pestaggio doveva essere da meno?
Per questo Tsuna era andato a scuola con una scatola piena zeppa di biscotti. Ne avrebbe mangiati anche lui per settimane, dato che non sapendo che tipologia piacesse a Gokudera, la donna aveva infornato teglie di ogni sorta.
Quindi nel contenitore c’erano biscotti semplici, con le gocce di cioccolato, quelli al cacao e addirittura quelli al cacao con gocce di cioccolato!
Peccato che Tsuna, riflettendo su ciò che era accaduto il giorno prima, aveva deciso di non voler più rivolgere la parola a Gokudera: l’altro era infastidito dal suo semplice respiro, lui si era reso conto che la sua compagnia era poco gradita.
Perché rischiare di essere pestato di nuovo, questa volta dal suo salvatore?
Avrebbe potuto svuotare la scatola insieme a Ryohei e Yamamoto e… gettarla? Riportarla a casa qualche giorno dopo dicendo che Gokudera aveva voluto lavarla? Inventarsi una scusa, comunque.
Però sapeva che sua madre, quella donna tanto dolce e cara, sarebbe riuscita a rivolgergli uno sguardo talmente penetrante da costringerlo a confessare senza nemmeno chiederglielo.
Aveva atteso la pausa pranzo, aveva atteso che Yamamoto e gli altri andassero sul tetto e si era alzato.
Nell’aula c’erano soltanto lui e Gokudera.
Strinse la scatola tra le mani.
Aveva lo stomaco sottosopra da metà lezione e non vedeva l’ora che tornasse al proprio posto.
Prese un respiro e si alzò, andando verso il banco di Gokudera. Si appostò davanti ad esso, osservando la figura del ragazzo china sulla propria borsa, intenta a cercare il pranzo.
« Gokudera. »
Il ragazzo si voltò, sorpreso che qualcuno fosse rimasto lì per parlargli. Quando vide Tsuna parve quasi essere deluso.
« Ah, sei tu », disse semplicemente. « Che vuoi? »
Tsuna pensò seriamente di tenersi i biscotti, o di rovesciarglieli sulla testa e poi correre come un fulmine nello studio di Giotto.
Aprì la bocca per parlare.
“Non fare come ieri, idiota!”
Appoggiò la scatola di biscotti sul banco ormai libero di Gokudera. L’albino aveva già notato il contenitore e gli sembrava in realtà anche abbastanza interessato.
« Per te », spiccicò.
“Oh, avanti, Tsuna!”
Per qualche assurdo motivo gli venne in mente la ramanzina di Giotto. Doveva farsi dei nuovi amici. Amici per Giotto significava “persone che non ti considerano un imbranato senza conoscerti”. Gokudera rispettava quel prerequisito, dato che sembrava odiarlo come odiava tutti senza apparente motivo: era coerente con se stesso e abbastanza equo, in quel senso.
E poi era bravo a scuola. Yamamoto e Ryohei riuscivano a bastare a se stessi a malapena, in fatto di voti, era ovvio che non riuscissero a portarlo ad un livello sufficiente. Gokudera forse ci sarebbe riuscito.
Probabilmente Tsuna voleva suicidarsi. Doveva volersi suicidare. Era l’unica spiegazione per voler tentare di diventare suo amico.
« Li ha fatti mia madre », spiegò. « Per ringraziarti… di avermi aiutato. »
« Ti ho già detto che non stavo aiutando te. »
“Ah, ma davvero?”
« Grazie. »
« Eh? »
« Grazie per i biscotti. »
Tsuna avrebbe voluto avere su un nastro quella conversazione per riavvolgerla ed ascoltare almeno un altro centinaio di volte quella parola, per convincersi che Gokudera l’avesse effettivamente pronunciata.
« Ah… oh… di nulla. »
« Ringrazia anche tua madre. »
« Sì... sicuramente! Spero che ti piacciano, allora. »
 
Non andava bene.
Non andava affatto bene.
Aveva detto “amico”, aveva detto “bravo a scuola”. Non aveva detto Hayato Gokudera!
Giotto aveva ricevuto una soffiata da Knuckle, che aveva tenuto l’ultima lezione prima di pranzo alla classe di Tsuna. Sembrava aver ritenuto particolarmente importante che il signor preside sapesse del dialogo che il suo adorato Tsuna stava avendo con uno degli elementi peggiori della scuola.
E Giotto aveva reputato di fondamentale importanza correre a controllare, seminando gelo intorno a sé lungo tutti i corridoi che aveva dovuto percorrere per arrivare a destinazione.
« Non va bene… » si lasciò sfuggire sottovoce, osservando la scena da fuori.
« Cosa non va bene? »
G. era lì più o meno per lo stesso motivo di Giotto: Daemon Odioso Spade aveva ritenuto particolarmente importante riferirgli che “il suo biondo” – amava chiamare Giotto in quel modo, ma odiava quando Daemon lo faceva: gli metteva i brividi – si era diretto verso la classe di Tsuna con un incedere degno della Cavalcata delle Valchirie.
Giotto rischiò l’infarto e si voltò verso di lui.
« Fai piano! »
« Sei tu che stai facendo casino, Giotto », rispose, gettando un’occhiata nella stnaza.
Giotto non si agitava mai. L’ultima volta che l’aveva fatto era stato perché a Cozart era caduto un martello sulla testa mentre li aiutava ad appendere dei quadri. Le dinamiche di quell’incidente erano ancora misteriose, ma considerando che erano corsi al pronto soccorso supponeva che anche la questione che riguardava Tsuna fosse grave.
« Oh, guarda un po’ che accoppiata », scherzò, divertito.
« Non va bene, G. »
« Cos’è che non va bene, di preciso? »
« Ho detto a Tsuna di farsi dei nuovi amici, ma lui non va bene. »
G. alzò un sopracciglio.
« Perché non va bene? Volevi che facesse amicizia con qualcuno di bravo a scuola, no? Ecco qui. Solo, non può contare su di lui in economia domestica, o rischia di far esplodere la cucina di casa sua. »
« È un delinquente, G. Non so neanche quanti coltelli abbia nella sua giacca. »
« Nah, ho sentito dire che preferisce le bombe. Sai, accende le micce con le sigarette. »
G. sapeva che la situazione era grave in base al numero di volte che Giotto lo stava chiamando per nome e anche che quella sua constatazione, più che alleggerire la situazione, l’avrebbe peggiorata. Giotto lo guardò allarmato, senza prendere quell’affermazione come uno scherzo.
Sarebbe stato esilarante se la storia che G. si era inventato fosse giunta da fonti certe alle orecchie di Giotto.
Sospirò e prese il biondo per le spalle, allontanandolo dall’aula per potergli parlare liberamente, senza timore di essere ascoltato.
« Giotto, avanti. Stanno solo parlando, mica devono sposarsi », cercò di consolarlo. « Tsuna gli ha portato dei biscotti perché ieri stavano per pestarlo e Gokudera lo ha aiutato, n-… »
« Stavano per pestare Tsuna?! »
Gli avvolse le braccia intorno al busto, facendogli affondare il viso sul proprio petto.
« La parte funzionale al discorso era che Gokudera l’ha aiutato, tralascia il pestaggio », proseguì. « Se Gokudera gli lancerà la scatola dei biscotti in faccia cominceremo a preoccuparci e continueremo a farlo se vedremo Tsuna vestirsi come un metallaro. Ma l’hai tirato su bene, è un bravo ragazzo. Li terremo d’occhio, mh? Tanto probabilmente te ne parlerà lui stesso. E poi sia mai che Gokudera lo aiuti ad essere più sciolto. »
Giottò mugugnò. Non era convinto. Non era convinto di quella situazione e nemmeno di Gokudera, ma le parole di G., almeno, erano sempre in grado di renderlo più sicuro.
« D’accordo. »
« E poi, Giotto... »
Il biondo alzò lo sguardo, ritrovandosi di fronte al sorrisetto beffardo di G.
« Devo ricordarti quale altro santarellino si è fatto deviare da un teppista, all’età di Tsuna? »
Giottò lo guardò.
Conosceva già la risposta.
« Tu. »
   
 
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