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Autore: Crilu_98    03/03/2017    4 recensioni
Secondo capitolo de "The Walker Series" - non è necessario aver letto la prima storia.
Mark ed Elizabeth Walker sono fratelli ma non si vedono da dieci anni, da quando un terribile incidente ha cambiato per sempre le loro vite. Elizabeth è una ragazza insicura e tormentata dai sensi di colpa che all'improvviso è costretta a lasciare la cittadina di campagna dove ha sempre vissuto e a raggiungere San Francisco per salvare il fratello. Aiutata da uno scontroso gentiluomo dalle origini misteriose, da una risoluta ereditiera poco convenzionale e da un impacciato pescatore italiano, Elizabeth dovrà fronteggiare un intrigo molto più grande di lei. Un complotto che potrebbe diventare la miccia di un'incontrollabile rivolta operaia...
Genere: Azione, Romantico, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate, Triangolo | Contesto: Il Novecento
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'THE WALKER SERIES '
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Quando scesi dal treno e mi lasciai alle spalle la nebbia soffocante della stazione mi ritrovai in un ambiente a me totalmente estraneo, sconosciuto… Ed incredibilmente affascinante.
Se sulle prime i nuovi odori e la straordinaria moltitudine di scenari che mi si presentarono davanti mi stordirono, il mio istinto sospettoso mi fece riprendere in fretta: San Francisco era molto diversa da Rosenville, ma le regole basilari di sopravvivenza erano le stesse dappertutto.
Scacciai con uno sguardo truce i bambini che mi si accalcavano attorno per chiedere l’elemosina e derubarmi di qualche spicciolo, poi mi infilai nella folla di persone e carrozze che invadeva la strada principale, sicura di attirare così meno attenzioni indesiderate di quante ne avrei ricevute se fossi rimasta ferma a bocca aperta sui gradini della stazione.
Mi osservai intorno stringendo a me la borsa che costituiva il mio unico bagaglio: credo di non essermi mai sentita così piccola come in quel momento!
Non sono altissima e le mie curve formose, totalmente opposte a quelle aggraziate di mia madre, contribuiscono a farmi sembrare più bassa; ma davanti agli immensi edifici che si stagliavano contro il cielo terso incassai istintivamente la testa nelle spalle, comprendendo d’un tratto lo stato d’animo delle formiche.
Non erano solo i palazzi ad impressionarmi: San Francisco offriva una varietà di personaggi molto pittoresca. Quelli che, come me, venivano da fuori città si riconoscevano subito per la perenne scintilla di meraviglia che gli illuminava lo sguardo; c’erano poi comuni accattoni e mendicanti, ma anche dame ingioiellate e uomini eleganti che mi sfioravano nel passarmi accanto. I venditori ambulanti esponevano merci mai viste e rischiai seriamente di cadere a terra quando notai dei lunghi pali conficcati sul bordo del marciapiede, sormontati da una raffinata gabbia di metallo.
Erano lampioni, un oggetto ancora sconosciuto a Rosenville.
-Sa dirmi dov’è Fisherman’s Wharf?- chiesi gentilmente ad un signore che vendeva frutta candita ad un angolo della strada, mostrandogli la lettera. Cercai di non lasciar trapelare il mio desiderio per quei dolci deliziosi, sebbene fosse difficile: non ne assaggiavo uno da quasi vent’anni, ma ricordavo la dolcezza dello zucchero che si scioglieva in bocca… Mi riscossi appena in tempo per sentire la risposta perplessa alla sua domanda.
-Fisherman’s Wharf non è un indirizzo, signorina, è un quartiere. Uno dei più poveri, malandati e sporchi quartieri che questi occhi stanchi abbiano mai avuto il dispiacere di vedere!-
“Incoraggiante, come descrizione!”
-Come ci si arriva?-
Il vecchio strabuzzò gli occhi ed azzardò una risata divertita, ma divenne mortalmente serio quando capì che non stavo scherzando.
-Non vada laggiù da sola, signorina: è pieno di pescatori alcolizzati e di immigrati che non esiterebbero ad assalirla!-
Avvertii sulla mia pelle la pressione di un paio di mani ruvide e tremai al pensiero di dover sopportare una seconda volta il tocco di un uomo, ma scrollai le spalle come se la cosa non mi importasse. Il venditore sospirò:
-Va bene, allora. Guardi, trovi un omnibus che la porti al Civic Center, più in là non ci arriva nessuno: ci sono solo le case di russi e cinesi, cinesi e russi! Quando inizierà a sentire qualcuno che parla italiano e sentirà l’odore del mare impregnare tutta l’aria che respira, allora sarà arrivata a Fisherman’s Wharf.-
Lo ringraziai e mi allontanai ancora più scoraggiata, chiedendomi come avrei fatto a trovare Connor Price in un ambiente tanto ostile.
 
Il venditore non aveva esagerato: una volta che mi fui lasciata alle spalle i fasti del centro – il teatro dell’Opera, il municipio, i musei e le biblioteche – mi ritrovai d’improvviso a camminare in mezzo a case sorte a casaccio, grigie ed uniformi come funghi. Sentivo su di me gli sguardi curiosi e sospettosi di gente di cui non capivo la lingua: i russi avevano occhi e capelli di colori sbiaditi, pelle pallidissima e lineamenti spigolosi, ma li trovavo stranamente rassicuranti perché mi ricordavano Kasper Nowak, marito di Annabeth e amico di mio padre; non avendo mai visto un cinese, invece, rimasi impressionata dalla pelle gialla e dagli occhi obliqui che mi scrutavano indagatori.
In breve, però, anche le case grigiastre e i loro esotici occupanti si diradarono per lasciare spazio ad un ambiente completamente diverso dalla moderna città che avevo attraversato: il mare si dispiegò davanti ai miei occhi all’improvviso, non appena girai un angolo di strada, illuminato dal sole che si avviava al tramonto. La brezza marina, potente e dall’odore salmastro, mi scompigliò la crocchia e mi fece stringere nel pesante cappotto mentre scandagliavo con occhi curiosi e preoccupati Fisherman’s Wharf. Sembrava un gigantesco molo costruito interamente in legno, che si elevava sopra le acque grazie a robusti pali piantati sul fondale, a cui erano attraccate numerose piccole barche, senza dubbio destinate alla pesca. Sopra alcune di esse c’erano ancora dei pescatori intenti a rovistare tra le reti, nonostante l’ora fosse tarda e la giornata nuvolosa.
Alcune case in mattoni, con l’intonaco scrostato dal vento, seguivano il percorso dei moli fino alla lingua di terra più lontana, poi si interrompevano ed iniziava una banchina arida e disabitata; più in là ancora si potevano intravedere i palazzi del lato est di San Francisco, costruita su una piccola penisola e perciò circondata per gran parte dall’Oceano. Si era levata una nebbia leggera e umida che mi impediva di osservare per bene il mare, che vedevo per la prima volta: sapevo che al di là della baia c’era un’altra striscia di terra e nel mezzo un’isola disabitata, ma tutto ciò che riuscivo a vedere era l’oscurità densa e minacciosa dell’acqua agitata.
Mi riscossi e mi guardai intorno, chiedendomi in che modo avrei potuto trovare Connor Price in quel posto deserto: oltre a me e agli ultimi pescatori c’era solo qualche cane randagio e scheletrico che adocchiava la mia borsa con sguardo famelico.
Rimasi a lungo ferma tra le case del molo, mentre brividi incontrollati scuotevano il mio corpo: fino ad allora quel viaggio mi era sembrato abbastanza semplice da affrontare, avevo parlato con poche persone e sempre con una naturalezza che non lasciava intendere nulla di ciò che avevo passato. Ma l’avvicinarsi della notte, il luogo desolato e il chiacchiericcio brusco dei pescatori… Beh, mi dava quasi la nausea.
-Mark.- borbottai, chiudendo gli occhi e ricacciando indietro i conati di vomito -Mark, Mark, Mark…-
Dopo quella che mi sembrò un’eternità riacquistai una relativa calma e mi avvicinai con passo deciso ai pescatori che, una volta assicurate le cime delle barche al molo, stavano camminando verso casa.
Non appena furono a portata d’orecchio capii che non parlavano inglese, ma una lingua piena d’intonazioni: sembrava quasi che cantassero, invece di chiacchierare.
Un ragazzo alzò gli occhi dalla strada, incrociò il mio sguardo spaesato e fece un fischio nella mia direzione, sorridendo; poi disse qualcosa che fece scoppiare a ridere i suoi compagni ed io fui tentata di voltare loro le spalle e mettermi a correre. Qualche segno di inquietudine dovette trapelare sul mio viso, perché il ragazzo alzò le mani e si avvicinò a passi lenti, senza perdere il sorriso:
-Non si preoccupi, signorina!- esclamò con un accento piuttosto marcato -Non deve avere paura di noi!-
Socchiusi gli occhi, studiandolo assorta. Non era molto alto, ma aveva un fisico robusto e allenato, probabilmente frutto di una vita di fatica; il sorriso e gli occhi bruni e luminosi lo facevano sembrare un ragazzino, ma alcune rughe intorno agli occhi e sulla fronte indicavano che doveva avere almeno la mia età. I capelli erano ricci, folti e di un gradevole color cioccolato che si confondeva con la pelle bruna. Allora capii perché quella lingua cantilenante mi fosse familiare: la parlata di Jacob Fano, uno dei colleghi di mio padre, ne conservava l’eco.
-Italiani?- chiesi, un po’ tranquillizzata ma non ancora pronta a rilassarmi. Il ragazzo allargò il sorriso e chinò il capo in una sorta di buffo inchino:
-Antonio Iaconi, molto piacere!- disse, avvicinandosi mentre il resto del gruppo proseguiva per la sua strada.
-Ma gli americani mi chiamano Tony!- aggiunse con un occhiolino.
Neanche la mia naturale diffidenza poté resistere alla spensieratezza di Tony che dopo aver saputo chi stavo cercando, senza troppe cerimonie mi prese sottobraccio e si incamminò verso la casa di Connor Price. Una tale confidenza da parte di chiunque altro sarebbe apparsa scandalosa e mi avrebbe fatto innervosire, ma quell’italiano sembrava capace di mettermi a mio agio anche in una situazione così tesa. Nonostante il suo inglese fosse molto scarso e pieno di intercalari italiani intraducibili riuscì a intrattenermi piacevolmente con la sua parlantina nel tempo che impiegammo a raggiungere un palazzo anonimo e buio. Solo da alcune finestre in alto penetrava un sottile spiraglio di luce.
-Tony, è sicuro che sia la casa giusta?-
-Sì, signorina, il signor Price vive qui!-
-Come fa a conoscerlo?-
Tony ammiccò in un modo strano e affermò:
-E’ impossibile non conoscerlo, signorina. Lei dovrebbe saperlo!-
Aggrottai la fronte, chiedendomi seriamente chi diamine fosse il mittente della lettera:
-Che mestiere fa il signor Price?-
Il ragazzo perse all’improvviso ogni traccia di allegria:
-Quindi lei non conosce personalmente il signor Price?-
Non feci in tempo a rispondere che lui già mi stava tirando via per un braccio:
-Ma cosa fa?- strillai, indignata. Tony si passò una mano tra i capelli, spostando all’indietro i ricci che gli coprivano gli occhi; sembrava molto più anziano e maturo di quanto non fosse pochi minuti prima.
-Il signor Price non è americano, signorina. E’ un nobile inglese.-
-Un… Nobile?- ripetei, sbigottita. -E vive qui?-
“Mark, in che guaio ti sei cacciato stavolta?”
-Un nobile in disgrazia.- precisò allora Tony, lanciando occhiate preoccupate alle finestre illuminate all’ultimo piano -Non ne so molto, signorina, ma non sono stupido: basta vedere la vita che fa per capire perché la sua famiglia l’ha mandato qua in America. Femmine, vino, locali poco raccomandabili… E dicono che da qualche tempo abbia anche iniziato a frequentare gli operai e i sindacati, sebbene sia disoccupato!-
-Se non ha un lavoro, come fa a mantenersi?-
Tony si strinse nelle spalle:
-Non lo sa nessuno. E’ uno dei motivi per cui non voglio che lei salga da lui, signorina. Credevo che lei lo conoscesse… Ma se non è così non posso proprio lasciarla salire da sola! Sarebbe da irresponsabili lasciare una femmina nelle mani del signor Price!-
Iniziai nuovamente a tremare, ma sperai che l’italiano credesse fossero brividi per il freddo della sera; la brezza marina, infatti, si era trasformata in un vento gelido e pungente. Scossi la testa, lusingata e al tempo stesso preoccupata per l’eccessiva premura del ragazzo:
-Grazie, Tony, ma credo proprio di dover salire. Ne va della salvezza di una persona a me molto cara.-
Non mi fidavo abbastanza per fare il nome di Mark. Tony sembrò molto combattuto, ma alla fine lasciò andare la manica del cappotto:
-Va bene, signorina, vedo che è convinta di quello che fa. Lei adesso sale, però io rimango un po’ qua sotto, va bene? Se c’è qualche problema faccia un fischio e sono da lei!-
Sorrisi e lo ringraziai con calore, prima di entrare nell’androne buio e freddo del palazzo. Sarebbe apparso disabitato, se non fosse stato per i rumori e la luce che provenivano dall’appartamento di Connor Price. Mentre mi affaticavo lungo le scale rimuginai su questo misterioso individuo: un nobile inglese diseredato, libertino e poco raccomandabile… Mi sembrava impossibile che potesse aver preso a cuore la situazione di Mark. Tony aveva anche parlato di sindacati ed operai, aumentando così la mole di domande che mi ronzava in testa; speravo davvero che l’inquilino dell’ultimo piano avesse qualche risposta.
Una volta giunta davanti alla porta d’ingresso dell’unico appartamento dell’ultimo piano esitai, udendo il suono delle risate – alcune sicuramente femminili – e il tintinnare dei bicchieri. Il sole era calato da poco e sembrava che lì dentro fossero intenti a fare festa. Storsi il naso:
“Strani, gli inglesi!”
Fiduciosa sulla presenza di Tony davanti al palazzo, mi feci coraggio e bussai.
 
 
Angolo Autrice:
Ecco qua una prima occhiata d'insieme a San Francisco :) ho cercato di descriverla in maniera verosimile nonostante la scarsità delle fonti: era ovviamente meno estesa di oggi, ma i quartieri citati esistevano già allora. L'isola nominata da Elizabeth è Alcatraz, al tempo ancora sconosciuta, in quanto la famosa prigione non era stata ancora costruita.
Vi piace Tony? Lo rivedremo presto, visto che è rimasto così colpito da Lizzie! Nel frattempo lei dovrà affrontare il misterioso Connor Price…
Alla prossima e grazie a tutti voi che seguite questa storia :D
 
Crilu 
   
 
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