siccome all’inizio non avevo un account
mio una mia amica l’ha postato sul suo. Adesso è sul mio, la
storia comunque è la stessa..
Bella come nessuna, fa invidia anche alla luna
“Oddio…”
Fu la prima parola che pronunciai guardandomi allo specchio quella
mattina.
“Non è possibile…”
Strizzai gli occhi, cercando di scacciare quell’orribile
visione. Per un minuto buono non feci altro che guardarmi i piedi al di sotto del lavandino, mentre
lo stupore lasciava spazio alla rabbia; la debole luce che precede l’alba
lasciava la stanza immersa in una leggera penombra.
Avevo voglia di urlare.
Poi, con lo sguardo torvo, osservai di nuovo il mio riflesso, come
sperassi d’aver visto male poco prima.
Ovviamente, vidi ancora la mia faccia.
“Certo, cosa speravi di trovarci, brutto idiota?”
pensai fra me “La tua stupida faccia!”
Serrai i denti, trattenendo a malincuore il fiume di parole
rabbiose che mi sentivo in
pieno diritto di gridare a pieni polmoni
all’immagine virtuale di me stesso.
“1…2…3…4…5…” contai
mentalmente, mentre il sangue mi ribolliva dentro.
Dovevo calmarmi.
Tanto prima o poi
sarebbe dovuto succedere.
Repressi a stento il forte desiderio di spaccare a martellate la
lastra riflettente che avevo di fronte e di nuovo mi ostinavo a non guardare:
l’avevo già fatto tre mesi fa purtroppo.
Non era stato piacevole fare la figura del pazzo davanti a mia
madre, senza peraltro poterle spiegare nulla, quando entrando in bagno un
sabato mattina mi aveva
trovato in piedi con la specchiera divelta dal muro in frantumi sul
pavimento…
Feci un respiro profondo, mentre il mio cuore impazzava.
Stava succedendo un’altra volta.
Mi tremavano violentemente le mani.
Deglutii rumorosamente.
“Abbi almeno il coraggio
di guardarti in faccia un’altra volta, mostro.”pensai
I miei occhi castani mi osservavano con profonda disperazione.
Erano tutti cerchiati, delle profonde occhiaie li segnavano, facendomi
assomigliare ad un cadavere.
E fin qui nulla di strano. Al loro interno, brillava una luce diversa da quella
che ero abituato a vedere ogni giorno, come qualcosa di mistico, nascosto e
misterioso.
Il volto dai lineamenti duri e marcati era reclinato in avanti, la
punta del naso quasi toccava la sottile superficie trasparente. Spostai lo
sguardo leggermente più in basso, trattenendo il respiro. Sotto il
mento, si poteva distinguere una strana ombra anomala, in contrasto con il mio
naturale colore della pelle. La mia solita abbronzatura era come velata da una sottile sfumatura
scura, che dal mento proseguiva fin sotto la gola e nell’incavo e ai lati
del collo. Portai i palmi al viso: tastando con i polpastrelli avvertii anche
lì la stessa presenza estranea, che oltre le guance si fondeva
completamente nella mia chioma castano-scura. Sospirai di rassegnazione.
E questo era solo quello che si vedeva…
Mi sembrava già di sentire mie madre se gliel’avessi fatta vedere:
“Hiram,
ti è solamente cresciuta la barba.”
“La barba cresce alla tua età, Hiram.”
“Non dire sciocchezze Hiram,
è solo barba.”
Ma non c’era nulla di normale in tutto quello che mi stava
capitando.
Insomma, quella “roba” era spuntata fuori nel giro di
una notte.
“Bella giornata…”borbottai
Poi, improvvisamente mi bloccai.
Forse stavo sbagliando tutto.
Un barlume di speranza si fece largo tra i miei pensieri
tormentati.
Esisteva forse una remota possibilità che stessi
sbagliando?
Questa conclusione mi colpì dritto in faccia come uno
schiaffo.
Forse non era come pensavo.
Lanciai un’occhiata dubbiosa e allo stesso tempo indagatrice
al mio doppio nello specchio.
Forse.
Non era che da verificare. Davvero era così semplice?
A passi pesanti e allo stesso tempo veloci e carichi di aspettativa, uscii dal bagno. Il
corridoio era ancora immerso nel buio. Non ci badai.
Un minuto dopo, alla fredda luce al neon della mia stanza, stavo osservando con aria grave
qualcosa appeso al muro: il calendario.
Con l’indice tremante scorsi lentamente il foglio.
“Forza…”sussurrai “…togliamoci il
pensiero…”
Poi mi arrestai.
Ormai ero in apnea totale.
“12 Dicembre.” Oggi.
Un respiro.
“Il sole sorge alle 7.56, tramonta alle 16.38.”
Un respiro.
“Plenilunio.”
Il mio cuore si fermò.
“Merda…”sibilai
“Hiram!”
“Mmmmmmmmmm…”
Dal basso, mia madre mi chiamò.
Io, sdraiato sul letto, un cuscino in faccia, speravo di
soffocare.
“Hiram!”
“Che c’è...?”domandai
scocciato
“Sono le sette e un quarto! Farai tardi a scuola! Alzati!”
Sbuffai. “Non ci vado oggi!...”gridai, e nel farlo, alzai un braccio.
Repressi un gemito: lì la peluria scura era molto
più fitta ed evidente.
Alzai l’altro. Idem.
Non persi tempo nemmeno a strabuzzare gli occhi, e tornai al mio
progetto suicida, premendomi ancora più forte il cuscino sulla bocca.
Peccato che avessi lasciato scoperto il naso di proposito.
“Sei un codardo…”pensai
Dalla cucina al primo piano un invitante profumo di pane tostato
permeava l’aria.
Io avevo solo voglia di vomitare.
Finalmente, mi chiedevo come mai non l’avesse già
fatto prima, mia madre obiettò:
“Come mai? Non ti senti
bene?”
Percepii una nota ansiosa nel suo tono di voce. Non risposi.
Nell’ultima mezz’ora
i denti avevano cominciato a farmi così male che meno
parlavo, meglio stavo.
Denti doloranti: altro segno che tentavo disperatamente di
ignorare, preparandomi al peggio.
“Peccato…”continuò dopo un po’ mia
madre
“Già, è quel che dico
anch’io…”pensai
“Peccato davvero. Non mi avevi detto che oggi la tua classe
sarebbe andata per tutta la mattina giù al pattinaggio?”
Mi tirai su di scatto. La pista di pattinaggio. Me n’ero
completamente dimenticato.
“È un’ottima occasione per fare pratica, Hiram. E poi il ghiaccio dev’essere perfetto con questo tempo!”
Con un gesto lanciai via il cuscino all’altro capo della
stanza.
Almeno stamattina dovevo rimanere vivo.
Ci sarebbe stato altro tempo per morire.
“Quando eri piccolo
ti piaceva molto pattinare. Non la capisco proprio questa tua avversione per lo
sport. Mi stai ascoltando, Hiram?”
“Sì!”gridai
Avevo solo mezz’ora. Dovevo fare in fretta.
Lanciai il mio metro e settanta d’altezza nel corridoio,
fiondandomi in bagno.
Stavolta il mio alter ego dello specchio era totalmente diverso:
gli occhi gli brillavano di un’eccitazione profonda, sul viso un grande
sorriso gli illuminava lo sguardo.
Non persi nemmeno un secondo per i capelli: erano già a
posto così.
Risoluto, afferrai il rasoio.
“Sono pronto ad
usare anche il tosaerba purchè
te ne vada, stupida barbaccia…”mormorai “…non
avrò pietà!”
Dopo cinque minuti ero già vestito. Avevo un bel taglio
sulla guancia, ma almeno non sembravo un prigioniero di guerra reduce da un
isolamento forzato.
Guanti, cappotto, sciarpa, raggiunsi
di corsa le scale.
“Hiram?
Non mi sembra il caso di marinare la scuola solamente perché non sei
particolarmente bravo sui pattini! Hai
sentito?”
Ma io ero già davanti alla porta di casa.
“E chi ha detto che non ci vado?” sorrisi
“Ma…”
Mia madre era sconvolta.
“Ora ho fretta, ma’, ci vediamo a pranzo, ok? Ciao!”
Scivolai in fretta fuori.
Tutto all’esterno era ricoperto da una candida coltre di
neve: gli alberi dai rami scheletrici, i giardini delle case
dell’isolato, anche la strada, perché lo spazzaneve sarebbe
passato solo più tardi.
Ma io non la sentivo nemmeno. Il freddo, la brezza leggera che mi
soffiava sul viso. Ero insensibile.
La mia gioia era incontenibile.
Imboccai il marciapiede sulla strada per la scuola di corsa, un
metro ogni falcata.
Non avevo nessuna voglia di fermarmi. Non sentivo il bisogno di
fermarmi.
Avrei potuto correre per tutto il giorno, per mari e per monti.
Continuai così fino a che non raggiunsi la scuola, a
quattro isolati di distanza, un puntino scuro che correva nel mare di neve,
illuminato solo dal rosso disco solare nascente all’orizzonte.
Il mio sconvolgente risveglio era dimenticato.
Guardai distrattamente Zeke
sfrecciare a tutta velocità sulla lastra ghiacciata e, dopo aver
compiuto qualche passo incrociato, spiccare un salto a mezz’aria, per poi
ricadere compostamente sulla gamba destra. Un sorriso di trionfo gli comparve
sul viso rosso per il freddo.
“Come ti sembrava questa,
Hi? Forte, eh?”
Il mio sguardo era perso nel vuoto.
“Sì, sì. Forte.”
“È un anno che io
e la mia squadra ci alleniamo per lo spettacolo, Hi. Qualche parola in più la potresti sprecare.”
Sembrava improvvisamente seccato.
Ma anch’io avevo i miei problemi.
Osservai il mio migliore amico che si avvicinava: di media
statura, il corpo non troppo slanciato, equilibrato. Insomma, l’immagine
del pattinatore perfetto.
I corti capelli corvini risplendevano alla luce del sole, e gli
occhi, grigi, erano celati dietro un nuovissimo paio di occhiali scuri a
specchio.
Sembrava un’idiota.
Ma non glielo dissi.
Si arrestò a pochi centimetri da me, spazzando una piccola
nuvola di polvere di ghiaccio sui miei pattini. Poi, come se niente fosse, con
uno scatto, scivolò sulla superficie ghiacciata, e incrociate le gambe
per sedersi, mi squadrò
pensieroso.
“Che buffone…”pensai
Ma in realtà, in quel momento lo invidiavo profondamente.
“Qual è il problema?” domandò
Intanto, poco lontano da noi, altri ragazzi pattinavano.
Li odiai tutti per un lungo, intenso istante.
Sbuffai. Tentai di alzarmi in piedi, ma le ginocchia mi cedettero
all’improvviso. Mi ressi forte al bordo della pista. Zeke non disse nulla.
“Questo…”dissi indicandomi i piedi
“…questo è il problema!”
“Ah.”
Con un balzo fu
i piedi e cominciò a girarmi davanti. Mi innervosiva molto non poterlo fissare dritto negli
occhi.
“Non che l’altezza aiuti…”borbottò sogghignando
Lo ignorai. Ero disposto a pregarlo purchè mi aiutasse.
“Mi devi aiutare…”lo implorai
“…fammi stare in piedi!”
“Per quale motivo dovrei?..”
“Ricattatore…”mugugnai “…lo sai
benissimo…”
Mi sorrise malefico.
“C’entra per caso…”
“Zitto!”
Non ero mai stato bravo in nessuno sport, figuriamoci pattinare.
Era divertente vedere me e Zeke
assieme: lui, l’acrobata, il virtuoso; io il gorilla, nemmeno buono di
fare un passo senza inciampare…
Ma dovevo resistere.
Trascorsi la prima ora alla pista tra cadute, voli fenomenali per
terra e rozzi tentativi di reggermi in piedi. Alla fine ero in grado di farlo
senza carambolare sul ghiaccio.
Poi la vidi.
Non l’avevo neanche notata entrare in pista: si muoveva con
una grazia innata, pareva un raggio di luce, che colpite le mille sfaccettature di una pietra preziosa
si ripete all’infinito, e la sua bellezza non resta immutata, ma aumenta.
Mi accasciai al bordo ghiacciato con lo sguardo inchiodato su di
lei.
Ero imbambolato.
“Hi?”
“Che c’è...?”
“Hiram! Sveglia!” gridò
Zeke
Ma io avevo già fuso. Nella testa una piccola voce mi
sussurrava:
“Il videogame
è andato in tilt. Il tuo cervello è andato in tilt, Hiram.”
Non ricordavo più che giorno fosse, che ora fosse. Del
resto non mi importava molto.
Per me esisteva solo un concetto.
“È bellissima…”mormorai tra le labbra
Zeke taceva. Lui non aveva mai amato nessuno, e il suo ego gigantesco
gli toglieva la visuale sul resto del mondo. Forse in quel momento mi stava
compatendo.
Io il mondo però lo volevo guardare. Fin nei minimi dettagli,
come ora stavo facendo. E che dettagli…
Non c’erano parole precise per descrivere quello che mi
sentivo dentro: freddo e caldo, caldissimo e freddissimo. Un fuoco gigantesco
mi avvolgeva e poi una valanga di fresca neve bianca mi sommergeva.
“Hiram?”
Zeke mi si parò davanti, togliendomi la vista per un attimo.
“Hai uno sguardo idiota. Dimmi che non mi devo preoccupare.”
“Sì, sì. Grazie.” E lo spostai con un braccio.
Lui però puntò i piedi. “Grazie di che?!” strillò “Mi
stai ascoltando?!”
“Sì. Bel salto, amico. Rifallo un’altra volta.”
“Sei cotto, ragazzo…”pensai subito dopo
“…più cotto di uno spiedino…”
Sospirai.
L’energia, il turbine che sentivo pulsare sempre di
più al mio interno mi avrebbe fatto esplodere. Se in quel momento mi
avesse rivolto la parola…volevo solo sentire la sua voce, non chiedevo
altro.
Qualunque sua richiesta l’avrei esaudita, mi sarei fatto in
pezzi per lei.
Ero suo.
E che acrobazie faceva sui pattini!
Uno, due, tre
salti di seguito ed un atterraggio che era tutto uno spettacolo!
Non avrei mai osato entrare in pista ed azzardare anche solo un passo in sua presenza.
Solamente degli angeli avrebbero retto il confronto.
Improvvisamente compresi che gli insegnamenti di Zeke in fatto di pattinaggio non mi sarebbero mai stati utili quella
mattina.
Era bastato vedere il suo sorriso per mandarmi il cuore a mille.
Avevo un peso sullo stomaco, ma non stavo male.
Mai stato meglio: toccavo il cielo con un dito e mi sembrava di
galleggiare sulle nuvole…
Poteva fare invidia a tutti gli astri del cielo, perfino alla
luna.
Le osservai ancora il viso dolce lievemente arrossato: aveva il
tipico sguardo da persona che non si piace mai
ma in realtà è una meraviglia.
Era meravigliosa.
“Meravigliosa…”
Per un attimo abbassai gli occhi, e violenta mi ripiombò addosso la terribile consapevolezza
che per quel mattino mi ero lasciato alle spalle, ma che non potevo fingere non
esistesse. Chi ero io per dire certe cose?
Fissai la sottile superficie ghiacciata ai miei piedi.
Un mostro.
E quella sera ne avrei avuto
l’ennesima riprova.
Sorrisi.
Era qualcosa di abbastanza forte da potermi fermare?
Quello che mi sarebbe successo al calar delle tenebre avrebbe
arrestato il mio amore pazzo?
Dovevo smettere di sognare?
Perso com’ero nelle mie riflessioni, non mi accorsi nemmeno
che Zeke, nel frattempo,
dopo avermi spintonato
inutilmente per almeno mezz’ora, si era misteriosamente dileguato.
Non me ne resi conto almeno fino a quando una voce inattesa
pronunciò il mio nome:
“Ciao, Hiram.”
Il cuore mi balzò in gola.
Di colpo abbassai ancora di più la testa.
Quella voce.
L’avrei riconosciuta tra mille.
La sua voce.
Scattai in piedi, colto alla sprovvista, tanto che quasi precipitai a terra.
Cercai di assumere una postura dignitosa, ,mentre con una mano mi lisciavo i capelli.
Dopo un primo attimo di smarrimento, riuscii ad alzare lo sguardo.
E lei era lì, davanti a me.
Il mio io interiore mi insultò
all’improvviso:
“E certo, dove credevi che fosse, rincitrullito! Per aria,
tra le nuvole forse? Vedi di toglierti quell’espressione ebete dalla
faccia e di’ qualcosa!”
“Dici a me?” domandai nervoso. Mi indicai.
Sembrò improvvisamente molto divertita.
“Dovrei conoscere un altro Hiram oltre a te?”
Sorrise. Il sangue mi volò immediatamente alle guance e mi
sentii piuttosto stupido.
“Non ti senti solo
stupido. Lo sei.” continuò la voce nella mia testa
“Giusto.” riuscii a dire dopo un secondo “Scusa.
Ciao.”
Non ero ancor pronto ad
un incontro così ravvicinato. Che codardo.
“Ciao.”ripetè “Da quando tu
pattini?”
“Da mai.” avrei voluto rispondere
“Da un po’.”
“Ah.” Mi squadrò dubbiosa, ma senza dare a
vedere se avesse compreso la mia bugia.
“Non mi sembra che tu ti sia ancora mosso da quando sei
arrivato…”
Abbassò lentamente gli
occhi a terra, poi arrossì leggermente.
“Perlomeno da quando sono qui io…”si
affrettò ad aggiungere
Si era accorta che l’avevo guardata per tutto quel tempo?
Pregai di no.
“Non mi sento…ecco…non sto molto
bene…”mentii
Per un lungo, imbarazzante, interminabile momento, nessuno di noi
disse una parola.
Non osavo alzare la testa per paura di incrociare lo sguardo con
il suo.
Quando finalmente lo feci, mi ritrovai perso nei suoi occhi.
Sussultai visibilmente.
Le iridi argentate parevano veramente frammenti di pietra lunare,
che la luce del sole illumina fino a far risplendere come un brillante.
Che capogiro.
Che occhi.
Come avevo fatto a non accorgermene prima?
Ero di nuovo sospeso nel cosmo. Vedevo le stelle, le galassie, i pianeti, ma
attraverso i suoi occhi.
Poi fu un dardo a trapassarmi il cuore, che partì
all’impazzata come un cavallo selvaggio in una prateria sconfinata.
Mi sentivo come se un terremoto mi avesse ricoperto di macerie.
“Fa quello che vuoi di me, ti prego…”vaneggiavo
“…sono il tuo schiavo…ma non distogliere lo sguardo…”
Un minuto stavo
meravigliosamente male e un attimo dopo terribilmente bene.
Non avevo mangiato nulla di strano a colazione?
“Va be’
allora.” la sentii come un leggero sottofondo nella mia testa “Ci
vediamo in giro!”
Scrollai la testa. “Cosa?!”
Lei sogghignò. “Oppure sulla pista…”
Si allontanò danzando. “Ciao!”
Ero rimasto a bocca aperta. Se n’era già andata?
Abbassai il braccio che inconsapevolmente tenevo teso, dritto
davanti a me, tastando l’aria come per capacitarmi della sua simultanea
sparizione.
“Ciao…”
Ero una statua.
All’improvviso, al mio fianco si materializzò il mio
amico.
Con quel ghigno sotto gli occhiali sembrava ancora di più
un cretino.
Mi sgomitò continuando a ridacchiare.
“Allora…”mi fissava con l’aria di chi la
sa lunga “…di cosa stavate parlando? Dillo al tuo amichetto…”
Restai immobile.
“Il mio sedicenne preferito si decide a parlare o è
già in orbita su Saturno?..”
Forse sì. Forse invece ero ancora solo su Marte. A Saturno
sarei arrivato più tardi.
Sospirai.
“Pronto? Sei in casa? Hiraaaaaaam!”
Issandomi con le braccia scavalcai del tutto la transenna.
Tolsi i pattini e infilai gli stivali.
“Che fai?”
Zeke mi tirò una manica
“Che fai?”
Lo scrollai via e mi incamminai
nella neve.
L’altro mi osservava attonito.
“Hiram! Sei scemo?! Dove stai andando?!”
Quant’era semplice ignorarlo…più che altro mi
chiedevo ancora come mai poco prima ero riuscito a non cadere davanti a lei.
Ero talmente instupidito…non capivo più cosa mi
accadesse attorno.
“Hiram!”
Mamma mia quanto rompeva quando ci si metteva…
In pochi minuti raggiunsi l’inizio del boschetto che da
dietro delimitava il parco con la pista sul ghiaccio; gli abeti erano carichi
di neve, i rami parevano dovessero spezzarsi da un momento all’altro.
Un secondo dopo, crollai a sedere su di un grande cumulo bianco.
“Sei perduto Hiram…”mormorai
“…reagisci o rimarrai qui tutto il giorno…”
Quanto mi sarebbe piaciuto perdermi così più
spesso…
Però dovevo riprendere contatto con la realtà.
Tuffai una mano nella fredda coltre e, afferratane una manciata,
me la portai al viso.
Aaaaah…ghiaccio…
Sbattei più volte le palpebre. Bene. Ora ero sveglio.
O perlomeno più lucido di prima.
Portai lo sguardo alla pista.
Dove avevo scavalcato,
uno sbalordito Zeke mi
stava facendo dei segni con le mani.
Lo ignorai ancora.
Lei, infuocata di passione come sempre, stava pattinando.
Non l’avrei mai confusa con qualcun’altra.
Era troppo perfetta.
Gli occhi mi si aprivano davanti a lei.
La osservai di nuovo compiere un volteggio fenomenale.
Sorrisi.
Ero contento che mia madre stamattina mi avesse salvato.
Nevicava. Il mio respiro era affannoso. Deglutii a fatica, mentre
i primi spasmi mi agitavano braccia e gambe. Ebbi solo un debole percezione del freddo sotto le
piante dei piedi prima di crollare in ginocchio, dolorante sul manto
ghiacciato.
Le fiamme mi bruciavano il cervello, e strinsi forte la testa fra
le mani.
Gemetti, mentre le vene sul collo, quasi a fior di pelle,
pulsavano convulsamente.
Il mio respiro si mozzò all’improvviso, e annaspai,
cercando l’aria.
Oltre le cime degli abeti, nella radura in cui mi trovavo, la
fredda luce dell’astro lunare fece capolino, avanzando lentamente.
Tentai di alzarmi, ma una fitta lancinante mi costrinse piegato in
due, il fiato corto.
Non respiravo.
Il dolore alla testa crebbe.
Rantolai.
Portai una mano al volto: sentii la mia pelle flettersi, le ossa,
i muscoli tendersi, allungarsi sotto le mie dita. Il pelo sulle guance
cominciò ad
infittirsi.
Con un verso strozzato, caddi riverso al suolo, mentre il mio
corpo si contorceva in preda al dolore più atroce.
Per un attimo il buio mi avvolse.
Poi un’altra fitta, e i muscoli in tutto il corpo si
gonfiarono, la pelle tesa su di essi.
Il battito cardiaco aumentò, respirare si fece sempre
più difficile.
Mi ripiegai su me stesso, straziato.
La vista mi si fece improvvisamente opaca.
Strizzai gli occhi, inutilmente, mentre un sapore ed un odore acri mi impregnarono il
palato.
Scosso dal tremore, cercai di trattenere i conati.
Sentivo un peso opprimermi il petto, la peluria dalle spalle e la
schiena che si diffondeva agli arti.
Uno strappo incredibile mi fece gridare di dolore, come se un
coltello mi avesse aperto uno squarcio nel torace.
Sentii le mani e le dita allungarsi, le falangi scricchiolare
assieme ai polsi.
I muscoli del collo mi strattonarono violentemente la testa con
uno scatto.
Poi con uno sforzo sovrumano, fui
in piedi, ritto in tutta la mia altezza, il capo reclinato all’indietro,
le braccia tese lungo i fianchi.
Il mio grido inumano squarciò la notte.
Il paesaggio imbiancato mi scorreva veloce ai lati, percorrevo
l’immensa distesa ghiacciata a folle velocità.
Il mio corpo agile e scattante, ma allo stesso tempo massiccio
lasciava profonde impronte nella neve: impronte
di mani e piedi semi-umani.
Sentivo il respiro pesante, il mio cuore battere velocemente come
una sorta di cupo brontolio nel petto.
Un vento gelido spazzava senza pietà la sterminata piana in
cui mi trovavo, ma io non lo sentivo nemmeno: una folta peluria bruna mi
ricopriva, e la dura pelle del petto, dei palmi, delle piante, era
inattaccabile.
Lo avvertivo solamente scompigliarmi la pelliccia e mulinarmi
attorno sollevando polvere di ghiaccio ovunque.
Il terreno non era soffice, la temperatura rigida l’aveva
quasi completamente congelato, al punto che non si vedevano alberi, se non ai
lati della spianata, di fronte e alle mie spalle, da dove venivo.
Davanti a me, sulla linea dell’orizzonte, fitta e oscura si
stendeva una vasta distesa di alberi.
Un’abetaia: lo capivo dall’odore, che portato dal
vento mi colpiva intenso il tartufo in fondo al muso. Oltre la foresta,
cominciavano le montagne.
Non ricordavo perché avessi deciso improvvisamente quella
direzione.
Dovevo averci pensato prima della trasformazione.
Ora a guidarmi c’erano solo l’istinto, e questa
fortissima sensazione: il presentimento di dover, per un motivo che ora m era oscuro, correre verso le montagne.
Senza fermarmi, perché sapevo che non avrei mai potuto
smettere di correre.
Dovevo correre, come se da esso fosse dipesa la mia stessa vita.
Stavo correndo per difendere un pezzo della mia vita, anche se in
quel momento non ricordavo quale.
Dovevo correre e basta.
Dalla bocca aperta fuoriuscivano ad intervalli brevissimi nuvole di vapore acqueo, la
mia lingua penzolava di lato, coprendo alcune delle mie bianche zanne
splendenti.
Com’era bello sentirsi ghiacciare il respiro in gola e
percepire ogni singolo odore nei dintorni!
Con un ultimo scatto, raggiunsi il limitare della foresta, e i
primi abeti nascosero la luce argentata della luna.
Mi inoltrai in fretta, senza rallentare l’andatura.
Il buio era quasi totale: a sprazzi, un debole chiarore penetrava
tra le fronde, e solo grazie ai miei sensi acuti riuscivo a muovermi con
facilità anche in quella situazione.
Il terreno cambiò.
Iniziai a percepire qualcosa di morbido sotto mani e piedi,
qualcosa di diverso dalla neve…
Mi arrestai un secondo ad annusare il suolo, per poi ripartire a
tutta velocità in quel labirinto di tronchi l’uno vicinissimo
all’altro, interrotti solo da qualche rado cespuglio ghiacciato.
Tutt’intorno, lo strato nevoso era ricoperto da uno spesso
letto di aghi che diffondeva nell’aria un piacevole aroma boschivo.
Io me ne inebriavo, euforico.
Chissà dove sarei arrivato?
Poi, il terreno, da pianeggiante mutò in un declivio, gli
alberi si diradarono, riducendosi a poche decine addossati ad una parete rocciosa leggermente in pendenza.
Senza esitazioni, puntellandomi sui tanti massi che spuntavano
dalla coltre ghiacciata, la percorsi, ritrovandomi di nuovo circondato da
abeti, larici e pini.
Drizzai le orecchie e annusai l’aria.
Le montagne erano sempre più vicine.
Ripresi a correre.
Dopo quello che
mi parve un tempo interminabile, la boscaglia finì, e mi trovai illuminato in pieno dalla luce
biancastra.
Non mi ero accorto di essere salito sempre di più; immobile
come una statua, stavo su di una grossa sporgenza rocciosa circondata da un
anello di vegetazione, che terminava in uno strapiombo piuttosto scosceso.
Sotto si apriva una gola, nella quale continuava la foresta vera e
propria, a perdita d’occhio, tutta ammantata di bianco.
Ai lati, le montagne spazzate dal vento notturno proseguivano
oltre l’orizzonte.
E in cielo, la luna.
E che luna.
Piena.
Bellissima.
Poi, improvvisamente, mentre osservavo quello spettacolo una frase si formò
nell’anticamera del mio cervello e lì si impresse:
“Lei è bella come nessuna. Fa invidia anche alla luna.”
Quanto avevo ragione…e lo avrei dimenticato.
Dovevo aver pensato questo quando ero ancora un umano.
L’Hiram che ora si trovava intrappolato nel corpo di un mezzo-lupo era
venuto allo scoperto.
Per quello ero corso fin lassù.
Compresi al volo.
Dandomi una spinta
con le braccia, mi tirai su, in posizione pressochè eretta.
L’ombra del mio corpo umano trasformato si stagliò
alle mie spalle.
Fissai ancora più intensamente il disco argentato sospeso
nel nero cielo stellato: quando il sole fosse sorto, avrei dimenticato tutto.
Ma nel mio cuore sarebbe rimasta una certezza.
Per me ci sarebbero state unicamente lei e la luna.
Cantando alla luna avrei cantato
anche per lei, e viceversa.
Ricaddi a quattro zampe e mi abbandonai in un lungo, appassionato
ululato.
Poi un altro, e un altro ancora.
Mi avrebbero udito fino ai confini più estremi del mondo.
Fine