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Autore: Adeia Di Elferas    07/03/2017    2 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Caterina aveva predisposto che il funerale di Giacomo fosse fissato il giorno seguente.

Il suo cancelliere le aveva fatto notare come sarebbe stato opportuno dare risalto a quella celebrazione e aveva anche, in accordo con la Contessa, inviato alcuni inviti ufficiali ai nobili delle terre vicine.

In più si era deciso di creare un monumento funebre temporaneo, che sarebbe stato esposto durante le esequie e la Contessa aveva già pensato alla creazione di una statua bronzea da far preparare il prima possibile.

Non solo sarebbe stata un ricordo degno della memoria di un re, ma avrebbe contribuito a mantenere viva, nella popolazione, la consapevolezza di quello che era stato fatto e delle pene che era state inflitte ai colpevoli. Si sarebbe trattato di un deterrente come un altro, che avrebbe unito la glorificazione dell'immagine di Giacomo, al ribadire il potere pressoché assoluto di colei che era stata sua moglie.

Cardella aveva sorpreso positivamente Caterina, ma la donna non aveva avuto abbastanza lucidità per lodarlo più di tanto.

Si stava per scivolare nel pomeriggio e gli arresti proseguivano senza sosta, come una processione di incatenati diretti alla rocca di Ravaldino.

“Mia signora – disse a un certo punto Cesare Feo, quando la Contessa, congedatasi da Cardella, si presentò ai piani bassi per controllare come stessero andando le cose – non c'è quasi più posto nelle celle.”

Caterina allora aveva guardato il castellano, che si era quasi spaventato nel vederne gli occhi ottenebrati e distanti.

Qualunque cosa stesse tenendo in piedi la sua signora, attenuandone visibilmente le esternazioni classiche di dolore, di certo si trattava di qualcosa di diabolico, in grado di trasformare il cordoglio in sete di sangue.

“Cominciate a fare spazio, allora.” disse Caterina, accigliandosi: “I figli degli Orsi sono ancora rinchiusi, non è così?”

Cesare Feo annuì appena, chiedendosi se fosse possibile che la Contessa volesse liberarli proprio in quel momento.

“Allora cominciate uccidendo loro. Hanno già passato fin troppo tempo a farsi mangiare dai ratti, non credete?” fece la donna, impassibile.

Il castellano chinò appena il capo, chiedendosi per quanto ancora sarebbe stato capace di obbedire a simili ordini, dati con tanta leggerezza: “Come desiderate, mia signora.”

Caterina a quel punto fece una rapida ispezione delle carceri, che erano davvero sovraffollate.

Rivedere così tanti volti che aveva considerato amici e sentire le voci, che così spesso le avevano dato buoni consigli, implorarla di avere clemenza non fece altro che adirarla ancora di più.

Incolpava tutta quella di gente di essere ancora viva, quando invece il suo Giacomo era morto.

Si rendeva conto dell'assurdità della sua accusa, ma non riusciva a fare a meno di riversare su quella gente il suo dolore che si era effettivamente tramutato, prima che lei potesse evitarlo, in folle sete di sangue.

Riattraversando il cortile d'addestramento, mentre alcuni soldati si affrettavano a spostare delle munizioni, la Contessa si rese conto che il momento di andare da Giacomo era giunto e che per farlo avrebbe prima dovuto trovare il vestito da consegnare ai Battuti Neri.

Si aggirava come uno spettro, gli occhi verdi cerchiati di nero, le labbra tese, ridotte a una linea pallida, eppure tutti quanti i suoi uomini, non appena si imbattevano in lei, le dedicavano un mezzo inchino o un saluto colmo di rispetto e timore.

La dedizione delle forze armate aveva qualcosa di commovente, ma Caterina si sentiva a malapena sfiorata da quel caldo sentimento.

Per quanto la riguardava, era troppo poco, troppo tardi.

Raggiunse il Paradiso senza che nessuno la fermasse, per quanto nel suo intimo l'avesse sperato.

Si fermò davanti alla porta e appoggiò una mano sulla maniglia. La confusione della rocca, alle sue spalle, pareva lontana, quasi irreale.

Con un respiro profondo, schiuse l'uscio e fece un passo dentro, chiudendosi subito la porta alle spalle.

La stanza era illuminata dal sole che filtrava dalla finestra, il letto era ancora sfatto, perché la sua cameriera personale, l'unica ad avere il permesso di entrare al Paradiso, non era più tornata a Ravaldino dalla sera di due giorni addietro, e l'aria era permeata dal sentore di Giacomo.

Caterina si sentì mancare il fiato, il cuore perse un colpo e le gambe si fecero malferme.

Non riusciva a creder che fino a poche ore – perché di fatto erano passate poche ore, non settimane, né mesi, né anni – prima in quella stessa stanza ci fosse stato Giacomo, vivo, con un cuore che pulsava fremente nel petto e gli occhi accesi dalla luce dei suoi ventiquattro anni.

Non riusciva ad alzare gli occhi sulle cose che erano state di suo marito, tanto meno sul loro giaciglio, che le stava davanti, beffardo e muto, come a ricordarle che le lunghe notti passate stretti l'una all'altra erano ormai sol un granello di tempo passato e che non sarebbero tornate mai più.

Ancora ferma sulla porta, la Contessa si sforzò di allungare una mano verso il cassettone che conteneva alcuni dei vestiti preferiti di Giacomo, ma il suo braccio restò a mezz'aria, incapace di colmare la distanza tra sé e il mobile.

Con una fretta che sapeva di fuga, Caterina riaprì subito la porta e scappò fuori dal Paradiso, piangendo a dirotto.

Corse senza rispondere a nessuno di quelli che, vedendola in quello stato, cercavano di chiederle che fosse accaduto di nuovo, la donna raggiunse l'interno della rocca, fino a rintanarsi nello studiolo del castellano.

Ci mise qualche tempo, ma poi ebbe il coraggio di chiamare a sé uno dei servi e gli ordinò di prendere nel guardaroba personale del Barone il suo miglior vestito, quello di broccato d'oro, di impacchettarlo al meglio e di portarglielo.

Il servo eseguì con solerzia l'ordine e in un battito di ciglia il vestito fu pronto per essere consegnato nelle mani della Contessa.

Caterina sapeva di non avere più scuse e così prese il pacchetto e ringraziò il servo.

Prima di uscire dalla rocca, avvisò il castellano della sua sortita e lo pregò di aspettare a interrogare gli Orcioli, giacché se ne sarebbe occupata personalmente non appena ne avesse avuto il tempo.

La Contessa attraversò la città senza paura di essere attaccata. La logica le avrebbe detto, per lo meno, di farsi accompagnare da un paio di soldati, invece lei andò da sola.

Non si curò del pericolo tangibile di venir aggredita dai parenti di quelli che erano stati imprigionati o già giustiziati, né temette di cadere per mano di qualche congiurato sfuggito alle retate.

I forlivesi che incontrò lungo la via la fissarono basiti, increduli nel vederla camminare tanto liberamente per strada, con un pacco sotto al braccio e lo sguardo dritto davanti a sé.

Finalmente, quando giunse a Porta Schiavonia, intravide la chiesa di San Bernardino, dove le avevano detto che era stato temporaneamente deposto il corpo di suo marito.

Sentì un fremito nel petto e comprese che il suo animo anelava e temeva quell'istante in egual misura. Voleva rivederlo e, al contempo, non voleva, perché sapeva che quella sarebbe stata l'ultima volta in cui i suoi occhi si sarebbero posati sul corpo dell'uomo che le aveva fatto scoprire l'amore.

 

“Come sarebbe a dire che è uscita dalla rocca?” la voce di Tommaso Feo era quasi irriconoscibile a suo zio Cesare, che gli aveva appena detto che la Contessa aveva momentaneamente lasciato Ravaldino.

“Vorrà dire che la aspetteremo.” fece Lucrezia Landriani, con maggiore calma, guardando in modo eloquente il genero, che tuttavia non accennava a quietarsi.

“Le ho portato dei prigionieri.” spiegò Tommaso, indicando i malcapitati ancora legati ai rispettivi cavalli.

Il viaggio era durato più del previsto. Il Governatore di Imola aveva deciso di tagliar fuori Faenza, passando dai boschi, ma aveva sottovalutato il coraggio – o, meglio, la disperazione – di Rosaria, moglie di Gian Antonio Ghetti, che a metà strada aveva provato a scappare, a costo di abbandonare i figli, e per poco non ci era riuscita, malgrado fosse guardata a vista da ben più di un soldato capace.

Per riprenderla, avevano dovuto fare una deviazione e quindi erano arrivati a Forlì che si era già fatto pomeriggio.

“Li sistemeremo nelle celle...” suggerì il castellano, mentre i suoi occhi si posavano con pena sui bambini che accompagnavano la vedova di Ghetti: “Deciderà la Contessa che farne, anche se, andando avanti così, probabilmente farà uccidere subito anche loro.”

Lucrezia si accigliò: “Quanti prigionieri ci sono? Quanti ne ha fatti giustiziare?”

La donna era rimasta molto impressionata dalla confusione che riempiva le vie di Forlì, ed era stata altrettanto colpita dalla vista dei due cadaveri appesi all'arco del palazzo dei Riario.

Voleva sapere fino a che punto si stesse spingendo la vendetta di Caterina. Voleva capire se le sue mosse fossero alla cieca o se stesse colpendo davvero gli assasini di Giacomo.

Tommaso, però, parlò prima che il castellano potesse rispondere alla madre della Contessa: “Li deve interrogare, prima. Se non altro la donna! Dice di avere dei nomi, di sapere chi...”

Cesare Feo scosse il capo: “Proverò a dirlo a lei – concesse, bloccando sul nascere l'invettiva del nipote – ma dubito che lo farà. Abbiamo già avuto due piene confessioni e credo che le siano sufficienti.”

“Non ci resta che aspettarla, allora.” concluse Lucrezia, mentre nella sua testa si faceva strada un dubbio nuovo, che riguardava i figli di Caterina.

Nemmeno lungo la strada aveva pensato ai suoi nipoti e un po', con il senno di poi, se ne vergognò, dato che erano quasi tutti ancora troppo piccoli per aver capito bene cosa stesse accadendo.

Se Caterina era già impegnata a far rispettare la legge, punendo gli assassini di Giacomo, chi stava rincuorando i suoi figli in quelle ore di caos?

“Dove sono i miei nipoti?” chiese Lucrezia, appoggiandosi al castellano.

L'uomo sentì le mani, fattesi ossute e nodose, della donna contro il suo avambraccio e avvertì un peso nel cuore nell'ammettere: “I signorini Galeazzo Maria, Sforzino e Livio sono nelle loro stanze, qui alla rocca, madonna Bianca è appena stata ritrovata e portata dal medico di corte, perché molto provata, mentre il Conte Ottaviano e messer Cesare non sono qui.”

“E dove sono?” chiese Lucrezia, temendo già il peggio.

Il castellano guardò teso Tommaso, le cui narici si aprivano e fremevano come froge di un cavallo imbizzarrito e preferì mentire: “Li stiamo ancora cercando.”

In realtà, quando le guardie erano arrivate a Ravaldino con Bianca – due minuti dopo che la Contessa si era inoltrata in città – gli era stato riferito che Cesare e Ottaviano si erano rifugiati a casa di Paolo Denti, ma il castellano aveva preferito far finta di nulla, dando a vedere che era così che la Contessa voleva.

In effetti la sua signora gli aveva fatto capire di preferire così. Non voleva sapere dove fossero i suoi due figli maggiori e forse non aveva tutti i torti.

Dunque nemmeno Tommaso avrebbe dovuto saperlo, altrimenti, sicuro quando era vero Iddio, sarebbe filato a prenderli e avrebbe fatto ciò che la loro madre non aveva avuto per il momenton il cuore di fare: passarli entrambi a filo di spada.

“E Bernardino?” chiese Lucrezia, stringendosi le mani al petto.

Cesare Feo aggrottò la fronte. Dunque anche la madre della Contessa sapeva la vera identità di quel bambino...

“Anche lui è qui al sicuro.” disse, cercando di sorridere in modo rassicurante.

“Quando la Contessa torna, mandatela allo studiolo.” fece Tommaso all'improvviso, aspro: “Io l'aspetto là.”

Lucrezia stava per congedarsi pure lei dal castellano, quando uno dei soldati della rocca arrivò dal Feo per chiedere: “Con gli altri bambini dobbiamo fare come col piccolo Ghetti?”

Cesare parve in difficoltà, poi sbottò, messo troppo a dura prova dalla tensione: “Io di bambini non ne vorrei far ammazzare più, ma aspettate Mongardini, che decida lui! La Contessa su qusto abominio con lui si intende, no?!”

Il soldato girò sui tacchi, un po' risentito per il tono aggressivo del suo superiore, e Lucrezia spalancò gli occhi: “Ha fatto uccidere dei bambini?”

Il castellano sospirò e annuì in silenzio, prima di aggiungere: “Fatela ragionare voi, ve ne prego. È mio nipote che è stato ammazzato, dovrei capire, forse, ma quello che so è che nemmeno una madre vendicherebbe a tal modo l'unico figlio, seppur fosse stato fatto a pezzo davanti ai suoi occhi.”

 

Caterina avanzava lentamente lungo la navata della chiesa e l'odore dell'incenso le faceva pizzicare il naso.

Rispetto a fuori, dove il caldo estivo era una presenza costante e appiccicosa, là dentro faceva molto fresco e si respirava un'aria quasi ascetica.

Davanti all'altare, sopra a un tavolo da canonica, era stato sistemato un feretro, ma da dove stava la Contessa non si poteva vedere chi contenesse. Non che ci fosse bisogno di avere conferme.

Accanto al sarcofago improvvisato, stavano due figure alte, a capo chino, che Caterina riconobbe come due membri della Confraternita dei Battuti Neri.

Uno di loro la notò e, dopo aver scambiato un rapido sguardo con l'altro, le andò incontro: “Mia signora, penso sia meglio per voi non vederlo. Ve ne prego. Non credo sia un genere di spettacolo adatto a una donna.”

Caterina si irritò subito nel sentirsi dire una cosa simile. Per quanto apprezzasse il lavoro che i Battuti Neri avevano fatto per lei, prima con Girolamo e poi con Giacomo, non accettava di sentirsi dire certe cose neppure da loro.

“Questo è l'abito che ho scelto per lui.” disse la Contessa, porgendo il pacchetto all'uomo: “È un vestito degno di un principe, quindi vi prego di fare del vostro meglio per metterglielo indosso in modo decoroso.”

Il Battuto Nero prese il pacco e provò un'ultima volta a fermare Caterina, che aveva ripreso a camminare: “Davvero, mia signora... Non è una cosa che si debba guardare... Non lo riconoscerete nemmeno...”

“Lasciatemi sola.” ordinò allora la donna, la voce ferma, ma più acuta del solito.

Se quello che il religioso le aveva detto era vero, allora non voleva avere testimoni, nel caso in cui non avesse retto la vista del corpo disfatto di Giacomo.

I due Battuti Neri eseguirono l'ordine, rivolgendo un ultimo segno della croce all'altare e raggiungendo l'uscita. Si chiusero il portone alle spalle e la Contessa se li immaginò mentre si mettevano uno per lato, come due soldati di guardia a un castello.

Con un respiro profondo, Caterina fece gli ultimi metri che la dividevano da quel che restava delle spoglie terrene di suo marito.

Il feretro consisteva in una cassa grezza di legno chiaro dai bordi molto alti, quindi non vide il corpo finché non vi fu proprio accanto.

Il Battuto Nero non aveva esagerato. Giacomo era irriconoscibile.

Non c'era praticamente più nulla dell'uomo che Caterina aveva amato. Anche se i Battuti Neri lo avevano ripulito e ricomposto, nulla avevano potuto fare per rimettere insieme il suo viso, orrendamente aperto e spezzato, né il suo addome, quasi inesistente, né, tanto meno, la sua gamba sinistra, la cui coscia era un fascio di sangue, muscoli sfilacciati e frammenti di osso spezzato.

Le mani della Contessa, senza che lei se ne avvedesse, si erano avvinghiate al bordo della bara e stringevano con tanta forza da piegare appena il legno.

La rabbia e il senso di perdita si mescolarono nel fondo del suo stomaco e un rantolo, simile all'urlo di un'anima dannata, le salì alla gola.

Privata delle forze, lasciò la presa sulla bara e si lasciò cadere in terra, in ginocchio.

Pianse a lungo, fino a perdere la cognizione del tempo.

Vederlo era stato qualcosa di crudele, ma si rese subito conto di aver fatto la cosa giusta. Se non l'avesse visto coi suoi stessi occhi, non si sarebbe mai davvero arresa alla verità.

Sentiva l'effetto dell'oppio e del vino svanire, mentre si rimetteva in piedi a fatica. Le ginocchia le dolevano, per la prolungata posizione scorretta e tutti gli altri acciacchi del fisico tornarono a farsi sentire assieme.

Si sentì improvvisamente vecchia. Davvero vecchia. Come se avesse vissuto cento vite e ne fosse rimasta scottata altrettante volte.

Mandando giù a fatica un po' di saliva, raccolse in sé quel poco coraggio che le restava per guardare di nuovo l'ammasso informe di carne e sangue che fino al giorno prima era stato il corpo del suo Giacomo e sussurrò, la voce roca e le lacrime che ancora scendevano silenziose dai suoi occhi arrossati: “Perdonami.”

Tirò su col naso, l'incenso le riempì i polmoni e contribuì a farle scendere ancor più lacrime: “Io dovevo proteggerti, e non ci sono riuscita.”

Dicendo quelle parole, Caterina ricordò tutte le volte in cui Giacomo le aveva fatto notare certi atteggiamenti di Ottaviano, accusandolo di essere un pericolo. Lui aveva sempre detto che Ottaviano lo odiava, che non era tranquillo quando l'aveva attorno, e aveva avuto ragione fin dall'inizio.

“Che stupida che sono stata...” bisbigliò tra sé la Contessa, riappoggiandosi alla bara e costringendosi a guardare il risultato della sua cecità.

“Come farò adesso senza di te?” chiese al cadavere muto del suo amatissimo Giacomo.

Restò ancora un po' a fissare il corpo martoriato che le stava davanti, fino a che non fu sicura che i suoi occhi si fossero asciugati, e poi, una volta certa che quell'immagine non sarebbe mai sbiadita dalla sua memoria, voltò le spalle al feretro e lasciò la chiesa, senza nemmeno provare a prendersi qualche momento di raccoglimento per pregare.

“Portatelo nella chiesa di San Girolamo – disse la Contessa ai due Battuti Neri, quando li raggiunse fuori dalla chiesa di San Bernardino – so che è la sede dei Battuti Rossi, ma è là che sta la cappella privata della famiglia Feo e credo che lui vorrebbe essere sepolto lì.”

Uno dei due Battuti Neri sospirò: “Come desiderate.”

“Domani terremo i funerali.” continuò Caterina: “Vi prego, sistematelo come meglio potete e poi chiudetelo. Voglio che nessuno lo veda in questo stato.”

I due religiosi si inchinarono e Caterina si rimise in cammino verso la rocca.

Era ormai quasi sera e il cielo stava volgendo al cremisi, verso il tramonto. L'aria era ancora tiepida e si potevano sentire le ultime temerarie cicale frinire nell'erba che cresceva a ciuffi poco lontana.

La Contessa si voltò e guardò verso il ponte dei Moratini, dove Giacomo era stato ucciso. Era lì a pochi metri, dunque non riuscì a resistere e vi si recò.

Guardò il punto dove, più o meno, suo marito era stato trascinato giù dalla sella del suo cavallo e poi cercò di capire, dalle tracce spesse di sangue in terra, che cosa fosse accaduto dopo.

Comprese senza troppo sforzo che il corpo di Giacomo era stato gettato nel fossato e che poi, probabilmente, qualche anima buona lo aveva recuperato e portato in chiesa.

Con le spine nel cuore, la donna voltò le spalle anche al ponte dei Moratini e fece per ritornare in città.

Non c'era nessuno, vicino a Porta Schiavonia. Tutti quanti erano assembrati nel cuore della città, poco, ma sicuro.

La rocchetta aveva le finestrelle illuminate, ma non c'era neanche una sentinella di ronda.

Solo quando vi passò proprio sotto, però, Caterina si rese conto di quella grande stranezza.

Come mai nessuno faceva da guardia alla rocchetta di Porta Schiavonia?

E, soprattutto, perché nessuno era accorso dalla suddetta rocchetta, in loro aiuto, quando Giacomo era stato barbaramente trucidato a pochi metri di distanza?

Come mai Caglianello, il castellano, non aveva dato ordine di intervenire all'istante?

Accompagnata da quelle domande, Caterina passò tutta Forlì, fino alla rocca di Ravaldino.

Attraversò con lentezza il ponte levatoio, ormai di nuovo calato in pianta stabile, vista l'assenza di rischio di una rivoluzione imminente, e si imbatté subito nel castellano Cesare Feo: “Fate perquisire immediatamente la rocchetta di Porta Schiavonia – ordinò, senza lasciare il tempo all'uomo di dire nulla – soprattutto le stanze private del castellano Caglianello. Controllate ogni lettera, ogni pezzo di carta. Se anche solo in uno comparirà il nome del Cardinale Sansoni Riario, arrestate Caglianello e portatelo qui affinché io possa interrogarlo.”

Quando la Contessa ebbe terminato, Cesare Feo spostò il peso da un piede all'altro: “Mentre eravate via – disse – sono arrivati alla rocca mio nipote Tommaso e vostra madre, scortando dei prigionieri da Imola.”

“Dove sono adesso?” chiese Caterina, con il fiato che le moriva in gola per l'agitazione.

“Vostra madre è coi vostri figli più piccoli, mentre Tommaso è nello studiolo.” rispose prontamente il castellano.

La Contessa lo ringraziò con un cenno del capo: “E i prigionieri chi sono?”

“Rosaria, la moglie di Gian Antonio Ghetti, e i loro figli.” fece Cesare.

Caterina si accigliò. Aveva dato preciso ordine a Tommaso di ucciderli subito, perché invece li aveva condotti fino a lì?

“Va bene. Preparatevi a giustiziarli tutti – disse la Contessa – ma vi farò sapere a breve quando e come.”

Il castellano annuì, greve, e poi guardò la Tigre correre via, nell'aria fresca della sera, diretta senza ombra di dubbio allo studiolo, dove l'attendeva Tommaso.

   
 
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