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Frammenti di Memoria
Il Prezzo del Silenzio
Era passato del
tempo ormai e nella prigione era calata una quiete ovattata, interrotta
solo dal familiare e sporadico cigolio della porta e dai passi
strascicati della vecchia che le portava da mangiare. Caillean aveva
imparato a riconoscere la sua presenza, il suo modo di imboccarla e di
tenerle la testa quasi con gentilezza. Non le parlava,
d’altronde era già strano che la trattasse con un
minimo di riguardo, ma questo a lei non importava, non più.
Molte cose in quel lasso di tempo avevano perso significato, persino la
sua coscienza si era come disgregata in tanti minuscoli frammenti, che
sempre meno spesso le pungevano il cervello risvegliandola
dall’intorpidimento mentale in cui era caduta.
L’unica cosa che sembrava scuoterla era proprio il rumore
della porta che si apriva e l’ombra sfocata della vecchia.
Caillean ispirò profondamente, cercando di
ricordarsi quand’era stata l’ultima volta che
l’aveva vista, ma perse la concentrazione quasi
all’istante.
- Mamma… papà… -
mormorò.
La voce le raschiò la gola secca, piegandola in un
eccesso di tosse che le tolse il fiato. Solo quando il dolore si
attenuò e l’aria tornò nei polmoni,
Caillean fece forza sulle braccia per raddrizzarsi. Il freddo della
pietra a contatto con la pelle le provocò un brivido lungo
la spina dorsale, che la strappò al torpore.
Da quando il capo villaggio le aveva versato
l’acido negli occhi non era più tornato,
abbandonandola in quella stanza da sola, con quell’incendio
che le divorava il viso, le orecchie, il collo; un’agonia
lenta e straziante che l’aveva annichilita nel corpo e
nell’anima.
All’inizio, i suoi carcerieri avevano continuato a
portarle l’acqua con regolarità, mattina,
pomeriggio e sera. Le arrivavano vicino, la vecchia e un uomo dalle
mani ruvide come il cuoio, e le tappavano la bocca con un bicchiere o
un mestolo, che poi riportavano fuori senza premurarsi di farglielo
vuotare tutto. La lasciavano lì, incuranti delle sue grida e
delle lacrime che l’acido non aveva ancora bruciato. Pian
piano, però, le visite si erano diradate, fino a quando non
era rimasta che la vecchia, la quale una volta al giorno apriva la
porta e si premurava di mantenerla in vita, anche se Caillean aveva
cercato in tutti modi di opporsi. Per un po’ c’era
anche riuscita, la donna non aveva abbastanza forza per infilarle il
mestolo tra le labbra, ma successivamente la paura della morte aveva
risvegliato il suo istinto di sopravvivenza e, alla fine, quando la sua
carceriera le accostava alla bocca un pezzo di pane stantio, si era
trovata a divorarlo senza proferire parola. Faceva fatica a mangiare,
con le labbra piene di tagli e il sapore nauseante del proprio sangue
che le impestava la gola.
Quando l’uomo con le mani callose aveva sciolto le
cinghie che la legavano alla sedia per serrarle i polsi nella morsa
delle catene, l’infezione e la febbre erano già
sopraggiunte da molto, quasi alla stessa velocità con cui la
realtà circostante si era trasformata in una massa pulsante
di sangue raggrumato. In quei giorni, Caillean aveva continuato a
urlare, chiamando il nome del padre e della madre sempre più
forte, implorandoli di venirla a salvare, di tornare da lei, mentre la
luce svaniva dai suoi occhi e il mondo piombava
nell’oscurità. Ma nessuno venne mai in suo aiuto,
nessuno a parte l’uomo e la vecchia che si occupavano di lei.
In seguito, neppure loro tornarono per molti giorni, almeno
così le parve. Non ebbe più acqua, né
cibo, né il conforto di una presenza umana al suo fianco. I
suoi lamenti disperati rimbalzarono inascoltati contro le mura di
pietra della sua prigione, finché non si spensero in un
rantolo agonizzante.
Un po' di tempo dopo, impossibile calcolare quanto,
udì un rumore di passi in avvicinamento e lo stridio della
chiave che girava nella toppa. Caillean non dovette nemmeno alzare la
testa per capire chi fosse. La vecchia litigava sempre con la serratura
borbottando tra i denti e solo dopo uno o due tentativi riusciva ad
aprire. Doveva essere davvero molto anziana. L'uomo, invece, era
possente e forte. Non aveva mai compiuto alcuno sforzo per sollevarla
e, anche quando l’obbligava a mangiare, la bambina non era
riuscita a opporre mai resistenza.
In quel momento, egli entrò nella cella imprecando
per la puzza e con malgarbo le mise tra le mani una ciotola.
L’argilla di cui era fatta era ancora fresca, trasudava
umidità. Le dita di Caillean affondarono nel materiale
morbido e, guidate da un riflesso incondizionato, condussero il
recipiente alle labbra. Bevve a lungo e avidamente, ingollando quanta
più acqua potesse, prima che il suo carceriere se ne
riappropriasse.
- Non capisco perché ti tengano in vita, strega.
-sbuffò seccato.
Era la prima volta che Caillean sentiva la sua voce. Era
carica di risentimento, rabbia, disprezzo, tutte emozioni che ricordava
di aver provato anche lei un tempo. Percepì la sua presenza
incombente su di lei e quasi le parve di vederlo, con la bocca
atteggiata in una smorfia disgustata e i pugni serrati lungo i fianchi.
- Verrà il giorno in cui il nostro capo villaggio
si stancherà di te. - il calore del suo fiato caldo le
accarezzò la pelle a pochi pollici dall’orecchio,
- Allora avrai davvero la punizione che meriti, figlia di Aesir. -
La porta venne chiusa di schianto. Caillean cadde
raggomitolata sul fianco sinistro e si raccolse sulla paglia. Non
percepiva più il fetore di escrementi né di
urina, il suo olfatto aveva perduto la sensibilità. Le
catene che pendevano dal soffitto gemettero in una lamentosa ninna
nanna che la cullò, accompagnandola nel sonno.
I giorni si susseguirono uguali, scanditi dalle visite del
suo carceriere e da quelle della vecchia. Caillean si
ritrovò a domandarsi sempre più spesso cosa ne
sarebbe stato di lei, se davvero l'avrebbero lasciata lì
dentro a marcire finché del suo corpo non sarebbero rimaste
solo che polvere e ossa. Un paio di volte tentò nuovamente
di chiedere cosa le sarebbe accaduto, ma in risposta ricevette solo
silenzio e calci.
Fu durante una di quelle giornate che il capo villaggio
andò a trovarla. La sua visita venne annunciata dal
tintinnare delle catene e dall'ormai familiare cigolio della porta.
Caillean si appoggiò con la mano alla parete viscida
d'umidità e strisciò lungo di essa fino a quando
le manette di metallo non la bloccarono.
- Puoi lasciarci da soli. - ordinò il capo
villaggio alla guardia.
Dopo un momento, la porta si chiuse. Caillean aveva
riconosciuto quell'uomo ancor prima che parlasse. Radovan –
così aveva appreso chiamarsi il suo carceriere –
aveva un timbro baritonale, una voce profonda che la faceva tremare fin
nelle ossa, mentre l'anziana aveva un passo claudicante, come se fosse
zoppa. Il capo villaggio, invece, non aveva niente di particolare,
nemmeno una caratteristica che Caillean potesse sfruttare per
riconoscerlo. Semplicemente, sentiva che era lui, lo avvertiva in un
modo istintivo.
- Ti trovo sciupata. - osservò e la bambina se lo
immaginò mentre sorrideva, beffandosi delle sue condizioni,
- Forse dovrei dire a Dana di portarti delle porzioni più
abbondanti. Non voglio che tu muoia, non troppo in fretta, almeno. -
Si inginocchiò davanti a lei e le tirò
su il mento, poi Caillean lo udì armeggiare con qualcosa,
forse una sacca.
- Ti ho portato un po' di vino da bere. Penso che sia molto
meglio dell'acqua sporca. -
La bambina tentò di allontanarsi, ma la presa
dell'uomo era ferrea. Quando sentì il sapore amaro del vino
in bocca, lo stomaco le si contorse dolorosamente e credette di essere
sul punto di vomitarlo.
- Ecco, brava bambina, così. - le
asciugò le labbra col dorso della mano e le
accarezzò i capelli sudici, - Allora, questo periodo qui
nelle segrete ti ha fatto riflettere? Pensi di poter accettare la mia
offerta? -
La bambina aprì lentamente gli occhi. Anche se non
poteva vedere, percepiva la vicinanza del suo viso da quello dell'uomo.
- Fottiti. - esalò, stringendo debolmente i pugni.
- Oh, che parole! Non si addicono a una signorina. - la mano
del capo villaggio scivolò lungo il collo, sfiorando il
tessuto lacero della casacca, - Mi si spezza il cuore a ricevere un
altro tuo rifiuto. -
- Dove... dove sono gli altri? -
- Gli altri abitanti di Merite? Di loro non ti devi
preoccupare ormai, sono già stati giudicati. -
Caillean aprì la bocca per ribattere, ma dalle sue
labbra uscì solo un rantolo sommesso. Si sentiva la testa
pesante e i pensieri fuggivano prima che lei potesse esprimerli. Era
stato il vino, quel vino troppo forte preso a stomaco vuoto le aveva
appannato la mente.
- Cosa... cosa significa? Li avete uccisi? -
- Uccisi... - sospirò l'uomo, spostandole una
ciocca dietro l'orecchio, - Diciamo che, semplicemente, la giustizia ha
fatto il suo corso. Chi era dalla parte dei figli di Aesir ha ricevuto
la punizione che meritava, mentre chi si è pentito della sua
stolida alleanza ha ricevuto una seconda possibilità. -
“Il che significa che li avete torturati
finché non hanno detto quello che volevate sentirvi
dire.”
L'ennesimo accesso di tosse la fece accartocciare su se
stessa. Passò qualche minuto, prima che riuscisse di nuovo a
parlare.
- Non sarò mai la tua sposa. Piuttosto preferisco
morire. -
La mano che le accarezzava il viso tremò appena.
Subito dopo, Caillean sentì il sapore del proprio sangue
esploderle in bocca, mentre un dente le scivolava fuori dalle labbra
spaccate e la guancia offesa iniziava a bruciare. Una lacrima, forse
l'unica che le era rimasta, le rigò la pelle lurida.
- Schifosa ragazzina... -
Un altro colpo, più forte del precedente, la
mandò a terra. La bambina tentò di raggomitolarsi
nel tentativo di ripararsi dalla scarica di calci che la
investì, ma non aveva abbastanza forza per difendersi.
Tremò, cercando di trattenere i singhiozzi, anche se i suoi
occhi erano asciutti.
“Kale...”
Il nome del padre le si affacciò alla mente,
assieme al viso sorridente di sua madre Iola. Il pensiero di mostrarsi
così debole la riempì di vergogna, una sofferenza
ancor più straziante di quella causata dalle percosse e
dalle ferite ancora aperte. Pregò che non la stessero
guardando, che non udissero i suoi singulti.
- Piccola stronza ingrata... farai la fine di tuo padre! -
ringhiò furioso il capo villaggio.
Un colpo le arrivò alla spalla. La clavicola si
ruppe di netto e Caillean urlò con la poca voce che aveva in
gola. Ne seguì un lungo momento di tregua, interrotta solo
dal respirare concitato dell'uomo e dagli ansiti rantolanti della
bambina. Il suo corpo era un grumo pulsante di dolore, così
insopportabile da renderle difficile persino respirare. Non si accorse
del peso dell'uomo sopra di lei finché l'aria non le si
incastrò in gola e qualcosa di duro non le premette contro
la coscia.
- Non mi vuoi come marito? Bene, mi prenderò
ciò che voglio con la forza, allora. - le sibilò
all'orecchio.
- No! -
Si dimenò come poté, lottando per
strisciare via, ma non servì a nulla. Il manrovescio che la
colpì la lasciò riversa sulla pietra, incapace di
muoversi, senza fiato. Poi le mani dell'uomo si infilarono nei
pantaloni di pelle, le dita affondarono feroci nella pelle e la sua
bocca si chiuse sul suo collo con violenza. La riempì di
morsi e quando la baciò, Caillean non riuscì a
far altro che ricambiare, mentre lui armeggiava con i lacci dei
pantaloni.
- Se avessi accettato sarebbe stato molto più
dolce. - le sussurrò, la mano che era scivolata nella
casacca a cercare forme che non c'erano, - Ora mi sembra giusto che
pag... -
Un grido di allarme, seguito da altri, coprì le
ultime parole. Il capo villaggio alzò la testa e si
tirò su di scatto.
Uno scalpiccio frenetico di passi, poi la porta si
aprì di schianto.
- Signore! Signore, ci attaccano! -
- Cosa? Chi? -
- Elfi, signore, elfi! -
- Non è possibile, siamo lontani dal confine! -
Un altro grido vibrò nell'aria, rimbalzando sulle
pareti della prigione. Qualcuno berciò un ordine da qualche
parte e il clangore di armi e spade divenne il suono dominante.
- Signore, dovete mettervi in salvo, non c'è tempo
da perdere. -lo incitò il soldato, palesemente agitato.
Il capo villaggio non ribatté. D'altronde,
pensò vagamente Caillean, era in gioco la sua vita. Lo
sentì allontanarsi di corsa, seguito dai passi rapidi della
guardia. Nessuno dei due si premurò di liberarla dalle
catene e lei non si mosse, troppo stanca per tentare di liberarsi,
troppo spaventata anche solo per pensare con lucidità, il
vino che ancora le scorrev nelle vene ottenebrandole i sensi.
Fuori da lì la battaglia infuriava, ma ogni suono
le arrivava lontano, ovattato. Forse al vino era stata mischiata
qualche strana sostanza per stordirla. La testa le girava e il suo
corpo disertava gli ordini della mente, incurante dell'istinto di
sopravvivenza che smaniava per convincerlo ad alzarsi e a correre verso
la libertà. La porta era stata lasciata aperta, era la sua
occasione. Eppure, nonostante finalmente avesse una via di fuga, i suoi
muscoli si rifiutarono di obbedire. Il terrore, come fango gelido, la
paralizzava e le serrava la gola, incatenandola al pavimento sporco.
Con le ultime forze rimaste, riuscì solo a rannicchiarsi
contro il muro e a tirarsi su i pantaloni.
Un rumore concitato di passi attirò la sua
attenzione. Qualcuno fece il suo ingresso nella cella e cadde accanto a
lei in uno sferragliare assordante.
- N-no, no ti prego, no! -
Caillean si fece più piccola, appiattendosi contro
la parete più che poté. L'uomo prese a strisciare
verso il fondo della stanza, raschiando il pavimento con uno stridore
metallico. Qualcun altro entrò. Aveva un passo leggero,
sembrava quasi non sfiorare terra mentre avanzava verso il suo
bersaglio.
- Ti prego, no... -
L'intruso passò accanto a Caillean come se non la
vedesse.
- Giuro... giuro che se ti avvicini ancora ti ammazzo. -
ringhiò in lacrime l'uomo, annaspando disperato fino al
muro, - Non mi farò uccidere come un cane da un elf... -
La frase morì in un gorgoglio, un suono strozzato
simile al risucchio di un imbuto. Qualcosa scivolò vicino
alla bambina. La mano si mosse d'istinto e le dita sfiorarono la
consistenza dell'oggetto. Era freddo, tagliente. Un lampo di
consapevolezza la riscosse dal torpore.
“Un pugnale.”
Lo strinse con forza, facendo leva sulle catene per tirarsi a
sedere, gli occhi che saettavano nel punto dove sapeva essere l'intruso.
Improvvisamente percepì una presenza al suo
fianco. Si impietrì col cuore in gola. Non si era accorta
che l'elfo le si era accostato. Non riusciva nemmeno a percepirne il
respiro.
“Forse... forse non vuole che capisca che
è qui, accanto a me.”
Si rese immediatamente conto di quanto fosse stupida
quell'ipotesi. Perché avrebbe dovuto essere cauto? Lei era
solo una bambina e lui un guerriero che poteva sopraffarla facilmente.
Con l'aria bloccata tra sterno e diaframma, girò lentamente
la testa alla sua destra e, anche se nei suoi occhi non c'era altro se
non tetra oscurità, Caillean ebbe la sensazione che l'elfo
la stesse fissando. Per un istante pensò d'essersi
sbagliata, che la paura le stesse giocando un altro brutto scherzo, ma
più il tempo passava, più quell'incertezza
prendeva una connotazione reale. Poteva sentirne lo sguardo addosso
mentre la studiava, osservandola con qualcosa che la bambina avrebbe
definito curiosità. Chissà, forse gli piaceva,
forse... forse l'avrebbe risparmiata.
- Anairë lapse. - mormorò l'elfo,
allungando la mano verso di lei.
“Stupida.”
Quel pensiero le rimbombò nella testa,
riversandole nelle membra intorpidite una scarica di adrenalina che la
riscosse. La sua mano corse rapida all'elsa del pugnale e
colpì alla cieca.
La pelle cedette con sconcertante facilità. La
lama penetrò nella carne fino alla guardia e il sangue
zampillò sulle sue mani. Un odore nauseabondo le
permeò le narici e le fece contrarre le viscere, ma non la
fermò. Tutto il dolore e la rabbia accumulati in quei giorni
fluirono nelle dita e continuò a colpire ancora e ancora,
urlando e piangendo. All'ennesimo affondo, il corpo dell'elfo cadde a
terra e lei gli si gettò addosso, conficcando il pugnale
fino a quando la punta non colpì il pavimento. Allora il
tempo parve fermarsi. Caillean rimase ferma, il respiro affannato e uno
strano gelo nelle ossa. Dopo un'eternità lasciò
la presa sull'arma, si scansò bruscamente e si
piegò in due per vomitare quel poco che aveva nello stomaco.
Non seppe quanto rimase in quella posizione, così come non
si rese conto della presenza di altri due intrusi finché non
le si avvicinarono. Tentò di tirarsi indietro, ma stavolta
nessun muscolo si mosse. Il caos di pensieri che si affastellavano
nella sua testa si congelò, cristallizzandosi in un'unica e
nitida consapevolezza.
“Sto per morire.”
Allungò la mano alla cieca alla ricerca del
pugnale, ma qualcuno se ne impossessò nel momento in cui
sfiorò coi polpastrelli il filo tagliente della lama.
- Non avere paura, siamo qui per aiutarti. - le disse una
donna dalla voce gentile.
Un gemito metallico e le catene si afflosciarono a terra.
Caillean non capiva cosa stesse succedendo, chi o cosa l'avesse
liberata e da dove provenisse quel calore rassicurante che le scaldava
la pelle dei polsi. Poi si sentì sollevare da braccia
maschili e stringere al pettorale di un'armatura. Trasalì a
quel contatto, ma non si ribellò, perché quella
presa salda e sicura la faceva sentire protetta. Anche se percepiva la
consistenza dura dell'acciaio contro la guancia e non poteva dare un
volto ai suoi salvatori, non ne aveva paura.
- Andiamo, Fijit, qui abbiamo finito. - la esortò
un uomo in tono concitato.
“Un soldato.”
Cullata dal dondolio, Caillean si concesse di chiudere gli
occhi e abbandonarsi alla stanchezza. Si sentiva esausta, sfiancata, ma
l'odore del sangue, che le si era appiccicato addosso violentandole il
naso, le ostruiva anche la gola, rendendole difficile respirare e
rilassarsi completamente.
“Sono un'assassina.”
Quella constatazione le fece contrarre le viscere e, se non
fosse stata sicura di non avere più niente nello stomaco,
avrebbe vomitato di nuovo.
- M... mi... mi dispiace. - pigolò e di riflesso
si portò le mani al viso per frenare lacrime che non c'erano.
- Non avevi scelta. - rispose pacato l'uomo, stringendo la
presa attorno al suo corpo, - Era in gioco la tua vita, non potevi fare
altro. -
Caillean questo lo sapeva, eppure non riusciva a smettere di
tremare. Si tirò piano le gambe al petto, facendosi sempre
più piccola contro il torace del soldato.
- Non avevi scelta. - ripeté costui e la bambina
percepì la sua convinzione come se fosse la propria.
Il cuore rallentò la sua corsa nel petto e l'aria
le riempì i polmoni, sciogliendo in parte il peso che
sentiva nella testa e nell'anima. Quando il sole le baciò la
pelle, il sonno l'aveva già avvolta nel suo delicato
abbraccio.
Quando si destò, con sorpresa Caillean si accorse
che il dolore era scomparso. Di riflesso si guardò intorno,
ma subito si ricordò che non poteva più vedere. A
fatica, lottando contro la coperta che la copriva fino al mento, si
mosse cercando di capire dove fosse, tastando con le mani intorno a
sé.
- Finalmente ti sei svegliata. -
Associò subito quella voce alla donna che si
chiamava Fijit. Aveva lo stesso timbro dolce della prima volta che
l'aveva udita parlare, permeata da una sicurezza che le conferiva
un'aura autorevole. Doveva essere giovane.
Caillean girò la testa, cercando di sollevarsi sui
gomiti.
- Non muoverti, sei ancora debole e ti ho appena cambiato le
medicazioni. - Fijit le si sedette accanto e le posò una
mano sulla fronte, - Ah, meno male, la febbre è passata. -
- Dove... dove mi trovo...? Chi siete? - rantolò
spaesata la bambina.
- Ci troviamo a Merite, precisamente nell'ospedale da campo
che abbiamo allestito dopo l'attacco. Noi siamo un distaccamento
dell'esercito che era stanziato a nord, stavamo tornando a Sershet
quando abbiamo ricevuto una soffiata su un possibile attacco degli elfi
in questa zona. - sospirò.
Caillean se la immaginò mentre si mordeva le
labbra con un'espressione amareggiata.
- Abbiamo cercato di arrivare in fretta, ma non è
stato sufficiente. -
- Sono morti in tanti? -
Fijit rimase un attimo in silenzio. Probabilmente si era
accorta del suo tono freddo, di quel “sono” che
metteva una certa distanza tra lei e gli abitanti del villaggio dove
aveva sempre vissuto, ma a Caillean non importava. Non si sentiva
più di appartenere a quel posto, non dopo tutto quello che
era accaduto.
- Sì. - rispose cauta, allungandosi per
cospargerle una crema dal profumo di ginepro sotto gli occhi, - Mi
dispiace per quello che ti è accaduto. -
La bambina non rispose. Strinse le mani a pugno, come se quel
gesto bastasse a respingere il dolore opprimente che le si era
conficcato nel cuore.
- C'è una persona che ti vuole vedere. Te la senti
di incontrarla? - disse dopo un momento Fijit.
Caillean esitò. Da fuori poteva udire il
chiacchiericcio del soldati e un perpetuo rumore di passi e zoccoli. Il
vento le portò alle orecchie il suono di qualcosa che
bolliva in una pentola, sicuramente minestrone di verdure a giudicare
dall'odore, quello che stavano servendo ai soldati e ai cittadini
sopravvissuti.
- Va bene. - acconsentì.
- Allora lo vado a chiamare. Tu aspetta qui e non sforzarti,
intesi? -
Caillean se la figurò sorridere. Mentre sentiva
tintinnare le fibbie della sua bisaccia, la fantasia le
plasmò un viso a cuore, incorniciato da capelli corti e
neri, riccissimi, delicate onde color ebano che sfuggivano da una
fascia colorata.
“Chissà se è davvero
così.”
Trascorse meno di qualche minuto tra l'uscita di Fijit e
l'entrata dell'uomo che l'aveva portata in braccio. Probabilmente
doveva trovarsi nei paraggi o, più probabilmente, aveva
aspettato che la sua compagna gli desse il permesso di introdursi nella
tenda.
- Tu devi essere Caillean. - cominciò, prendendo
posto su uno sgabello di legno accanto al giaciglio della piccola.
Aveva la stessa voce profonda e distaccata di quando era
venuto a prenderla. La bambina immaginò che dovesse essere
un uomo davvero alto e grosso.
- Sì... - confernò timorosa.
- Come ti senti? -
Come si sentiva? La verità era che nemmeno lei
avrebbe saputo dirlo con certezza. Le ferite sul corpo non bruciavano
più, persino la mandibola aveva cessato di pulsare. Seppur
limitata nei movimenti dalle bende, riuscì a puntellarsi sui
gomiti e a mettersi a sedere. Eppure, sentiva un peso sul petto, un
martellare sordo che le sgretolava i pensieri e scoloriva ogni cosa.
- Sto bene. Mi sento solo un po' stanca. - si
sforzò di sorridere per sembrare più convincente.
Il soldato la osservò per un po', poi
sospirò e Caillean percepì la sua presenza farsi
più vicina. Istintivamente si ritrasse, anche se sapeva che
non voleva farle del male, ma per il suo corpo il solo fatto che fosse
un uomo costituiva una minaccia.
- Mi diresti perché eri stata rinchiusa
là dentro? Iola era molto confusa quando mi ha parlato e... -
- Mia madre è... è viva? -
balbettò incredula.
- Sì. L'abbiamo incontrata sulla strada mentre
marciavamo fino a qui. Ho dato ordine che la scortassero a Caewen.
É lì che ti aspetta. -
Caillean quasi stentava a crederci. Sua madre quindi non
l'aveva abbandonata, era semplicemente scappata per cercare aiuto. Il
sollievo che la pervase alleggerì il peso che le gravava sul
petto e gli artigli che le stritolavano lo stomaco allentarono la presa.
- Come fate a conoscere mia madre? -
- In realtà conoscevo tuo padre. -
- Quindi voi siete il Generale Lullabyon? -
- Davsten, solo Davsten, niente formalismi. Immagino che Kale
ti abbia già parlato di me. -
La bambina annuì. Sì, suo padre le
aveva raccontato tutto del grande Generale Lullabyon, del suo valore e
del suo coraggio in battaglia. Ogni volta che menzionava il suo nome, i
suoi occhi si illuminavano e un'espressione fiera si disegnava sulle
sue labbra. Aveva sempre avuto solo parole di stima per quell'uomo e
Caillean aveva capito quanto lo riempisse d'orgoglio l'aver combattuto
al suo fianco.
Il viso sorridente di suo padre fece capolino dalla sua
memoria. Lo rivide alto, forte, con in testa l'elmo sbeccato che
conservava nella sua cassa sotto il letto, la spada in pugno e indosso
l'armatura pesante, quella che le aveva proibito di toccare. Le parve
di udire la sua risata come quando l'allenava e i suoi occhi brillavano
di felicità, intensi, verdi come i primi steli d'erba. Poi
la visione scomparve e al suo posto apparvero le mura di Merite e la
picca con la sua testa in bella mostra, cosparsa di catrame e divorata
dai corvi.
- Mi dispiace per quello che gli è accaduto, non
meritava quella fine ingloriosa. - commentò dispiaciuto il
Generale, ma non si avvicinò per consolarla, - Per questo
vorrei mi raccontassi cosa è successo negli ultimi dieci
giorni. -
Caillean si morse le labbra e cominciò a
tormentarsi le dita. Non voleva parlare, desiderava soltanto
abbandonarsi sul letto e dormire fino a non svegliarsi più.
- Non te la senti ancora? -
Silenzio.
- Puoi almeno dirmi chi è stato a farti
rinchiudere e perché? -
- Il capo villaggio, mi ha accusata di aver ucciso Elyn, la
figlia della fruttivendola. -
Davsten tacque, in attesa che lei continuasse. Forse, si
disse Caillean, avrebbe dovuto aggiungere altro, raccontargli cos'era
successo in quelle segrete, ma le parole rimasero lì,
intrappolate in un bolo di angoscia e dolore.
- Stimavo molto tuo padre. - disse di punto in bianco
Davsten, - Era un uomo che aveva carattere e forza d'animo a
sufficienza per resistere nell'esercito, ma, a differenza di molti, non
ha mai perso la pietà e la gentilezza che lo
contraddistinguevano. È un particolare che ho sempre
apprezzato di lui, assieme al suo coraggio e al suo spirito di
sacrificio. Come molti, fu costretto a diventare un soldato quando la
guerra al nord divenne più violenta. Ci furono dei
reclutamenti di massa, così che nello stesso contingente,
mescolati agli allievi dell'Accademia e ai veterani, trovavi contadini,
maniscalchi, ladri, assassini. Le città al nord cominciavano
a cadere e c'era un urgente bisogno di uomini, poco importava la loro
capacità di combattere o il loro ceto sociale. Kale
all'epoca aveva più o meno la mia stessa età, ma
ebbe la fortuna di potersi allenare, prima di essere buttato in
battaglia. Combattemmo spalla a spalla e riuscimmo a tornare al campo
sani e salvi. Vedere i nostri compagni morire come mosche sotto le
frecce degli avversari aveva lasciato un segno indelebile nella nostra
memoria, ma non potemmo permetterci il lusso di piangerli. Li
seppellimmo nelle tante fosse comuni fuori dal campo e poi tornammo ad
allenarci per prepararci ai prossimi attacchi. Furono il tempo e il
dolore della perdita ad avvicinarci. Io ero un ragazzino vanaglorioso,
con in testa solo l'onore e il desiderio di distinguermi. Ero stato
reclutato con molti altri miei compagni circa due anni prima che
terminassi l'Accademia e, quando il mio Comandante mi spedì
ad allenarmi assieme a tutti gli altri, mi sentii offeso nell'orgoglio.
Cosa avrei mai potuto imparare io, il figlio di uno dei più
grandi Generali del re, da quel branco di straccioni? -
La bambina rimase interdetta. Quell'immagine non
corrispondeva per niente a quella che emergeva dai racconti di suo
padre. Davsten ridacchiò.
- Sì, diciamo che Kale mi stimava troppo per
riportare certi aneddoti, ma ti posso assicurare che ero tutto
furché l'uomo che sono adesso. Il tempo e la guerra mi hanno
cambiato, ma, soprattutto, l'amicizia con tuo padre. Ancora oggi mi
dispiaccio di essere stato l'unico a essere insignito del titolo di
Cavaliere. Lui ne aveva tutte le capacità e il diritto, e
mio padre era disposto a dargli il suo appoggio, ma Kale non volle
comunque. Sai perché rifiutò? -
Caillean scosse la testa. Davsten le mise una mano sulla
spalla e la strinse leggermente.
- Per lo stesso motivo per cui io ho deciso di entrare
nell'Ordine del Lupo: perché amava la sua famiglia, amava te
e Iola e desiderava proteggervi, e sapeva che se fosse stato nominato
Cavaliere non avrebbe potuto restarvi accanto come avrebbe voluto. -
Caillean sentiva addosso il suo sguardo, le sue mani calde
sulla pelle le trasmettevano un calore rassicurante.
- Lui ti amava, Caillean, ti amava così tanto da
andare al fronte per te. Tu hai ereditato la sua stessa forza d'animo.
Non sei una sopravvissuta, non sei come le persone là fuori.
Sei una guerriera, un lupo. Ti hanno picchiata, spezzata, umiliata, ma
nonostante questo hai combattuto, conservando la tua dignità
e la tua fierezza, anche se adesso ti sembrano perdute. -
- Sono cieca... non vedo più niente... -
esalò con voce rotta, abbassò lo sguardo e scosse
la testa, ricacciando indietro le lacrime, - Anche volendo, non
potrò più diventare una guerriera. -
- Solo se sei convinta che è impossibile, lo
sarà. Ricorda che in questo mondo non esiste niente di
più potente della volontà. Se lo desideri
davvero, se questo è ciò che vuoi, io ti
aiuterò. Ma prima devi perdonare te stessa per quello che ti
hanno fatto. Solo allora potrai tornare a vedere. -
Rimasero così, lei con gli occhi spenti puntati in
quelli vivi dell'altro e il Generale con la mano ben ferma sulla sua
spalla. Quando la presa si allentò, Caillean
trasalì.
- Pensaci e quando sarai pronta dimmi la tua risposta. -
aggiunse Davsten, per poi alzarsi e uscire dalla tenda, lasciandola a
riflettere.