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Autore: Himenoshirotsuki    08/03/2017    6 recensioni
[Seguito di "Fuoco nelle Tenebre"] [La stori è un pausa un mesetto, ma non sospesa. Finisco Fighting Fire e riprendo ad aggiornare!]
Dopo gli ultimi eventi, il destino di Esperya sembra ancora più incerto. Lyssandra muove i fili da dietro le quinte, Mirya e i bambini sono rintanati ad Alabastria, mentre Ledah è stato catturato. Sembra che il ritorno di Aesir e della sua era dell'oscurità sia inevitabile, ma c'è ancora qualcuno che si oppone, qualcuno che ha pagato un prezzo di sangue per diventare ciò che è. Con un nuovo corpo e un solo anno a disposizione, Airis dovrà adempiere al suo compito di Guardiano affinchè i drow e il dio dell'oscurità non facciano di nuovo piombare Esperya in un caos di morte e distruzione.
Battaglia dopo battaglia, incontro dopo incontro, in un lungo viaggio attraverso lande desolate e città e regni meravigliosi, Airis scoprirà così i dettagli di una macchinazione destinata a cambiare le sorti del mondo, ma, soprattutto, la verità sul suo passato, una verità che potrebbe distruggerla.
Genere: Avventura, Fantasy, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lemon | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Guardiani'
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Fuoco 2

5

Frammenti di Memoria


Il Prezzo del Silenzio

Era passato del tempo ormai e nella prigione era calata una quiete ovattata, interrotta solo dal familiare e sporadico cigolio della porta e dai passi strascicati della vecchia che le portava da mangiare. Caillean aveva imparato a riconoscere la sua presenza, il suo modo di imboccarla e di tenerle la testa quasi con gentilezza. Non le parlava, d’altronde era già strano che la trattasse con un minimo di riguardo, ma questo a lei non importava, non più. Molte cose in quel lasso di tempo avevano perso significato, persino la sua coscienza si era come disgregata in tanti minuscoli frammenti, che sempre meno spesso le pungevano il cervello risvegliandola dall’intorpidimento mentale in cui era caduta. L’unica cosa che sembrava scuoterla era proprio il rumore della porta che si apriva e l’ombra sfocata della vecchia.
Caillean ispirò profondamente, cercando di ricordarsi quand’era stata l’ultima volta che l’aveva vista, ma perse la concentrazione quasi all’istante.
- Mamma… papà… - mormorò.
La voce le raschiò la gola secca, piegandola in un eccesso di tosse che le tolse il fiato. Solo quando il dolore si attenuò e l’aria tornò nei polmoni, Caillean fece forza sulle braccia per raddrizzarsi. Il freddo della pietra a contatto con la pelle le provocò un brivido lungo la spina dorsale, che la strappò al torpore.
Da quando il capo villaggio le aveva versato l’acido negli occhi non era più tornato, abbandonandola in quella stanza da sola, con quell’incendio che le divorava il viso, le orecchie, il collo; un’agonia lenta e straziante che l’aveva annichilita nel corpo e nell’anima.
All’inizio, i suoi carcerieri avevano continuato a portarle l’acqua con regolarità, mattina, pomeriggio e sera. Le arrivavano vicino, la vecchia e un uomo dalle mani ruvide come il cuoio, e le tappavano la bocca con un bicchiere o un mestolo, che poi riportavano fuori senza premurarsi di farglielo vuotare tutto. La lasciavano lì, incuranti delle sue grida e delle lacrime che l’acido non aveva ancora bruciato. Pian piano, però, le visite si erano diradate, fino a quando non era rimasta che la vecchia, la quale una volta al giorno apriva la porta e si premurava di mantenerla in vita, anche se Caillean aveva cercato in tutti modi di opporsi. Per un po’ c’era anche riuscita, la donna non aveva abbastanza forza per infilarle il mestolo tra le labbra, ma successivamente la paura della morte aveva risvegliato il suo istinto di sopravvivenza e, alla fine, quando la sua carceriera le accostava alla bocca un pezzo di pane stantio, si era trovata a divorarlo senza proferire parola. Faceva fatica a mangiare, con le labbra piene di tagli e il sapore nauseante del proprio sangue che le impestava la gola.
Quando l’uomo con le mani callose aveva sciolto le cinghie che la legavano alla sedia per serrarle i polsi nella morsa delle catene, l’infezione e la febbre erano già sopraggiunte da molto, quasi alla stessa velocità con cui la realtà circostante si era trasformata in una massa pulsante di sangue raggrumato. In quei giorni, Caillean aveva continuato a urlare, chiamando il nome del padre e della madre sempre più forte, implorandoli di venirla a salvare, di tornare da lei, mentre la luce svaniva dai suoi occhi e il mondo piombava nell’oscurità. Ma nessuno venne mai in suo aiuto, nessuno a parte l’uomo e la vecchia che si occupavano di lei. In seguito, neppure loro tornarono per molti giorni, almeno così le parve. Non ebbe più acqua, né cibo, né il conforto di una presenza umana al suo fianco. I suoi lamenti disperati rimbalzarono inascoltati contro le mura di pietra della sua prigione, finché non si spensero in un rantolo agonizzante.
Un po' di tempo dopo, impossibile calcolare quanto, udì un rumore di passi in avvicinamento e lo stridio della chiave che girava nella toppa. Caillean non dovette nemmeno alzare la testa per capire chi fosse. La vecchia litigava sempre con la serratura borbottando tra i denti e solo dopo uno o due tentativi riusciva ad aprire. Doveva essere davvero molto anziana. L'uomo, invece, era possente e forte. Non aveva mai compiuto alcuno sforzo per sollevarla e, anche quando l’obbligava a mangiare, la bambina non era riuscita a opporre mai resistenza.
In quel momento, egli entrò nella cella imprecando per la puzza e con malgarbo le mise tra le mani una ciotola. L’argilla di cui era fatta era ancora fresca, trasudava umidità. Le dita di Caillean affondarono nel materiale morbido e, guidate da un riflesso incondizionato, condussero il recipiente alle labbra. Bevve a lungo e avidamente, ingollando quanta più acqua potesse, prima che il suo carceriere se ne riappropriasse.
- Non capisco perché ti tengano in vita, strega. -sbuffò seccato.
Era la prima volta che Caillean sentiva la sua voce. Era carica di risentimento, rabbia, disprezzo, tutte emozioni che ricordava di aver provato anche lei un tempo. Percepì la sua presenza incombente su di lei e quasi le parve di vederlo, con la bocca atteggiata in una smorfia disgustata e i pugni serrati lungo i fianchi.
- Verrà il giorno in cui il nostro capo villaggio si stancherà di te. - il calore del suo fiato caldo le accarezzò la pelle a pochi pollici dall’orecchio, - Allora avrai davvero la punizione che meriti, figlia di Aesir. -
La porta venne chiusa di schianto. Caillean cadde raggomitolata sul fianco sinistro e si raccolse sulla paglia. Non percepiva più il fetore di escrementi né di urina, il suo olfatto aveva perduto la sensibilità. Le catene che pendevano dal soffitto gemettero in una lamentosa ninna nanna che la cullò, accompagnandola nel sonno.
I giorni si susseguirono uguali, scanditi dalle visite del suo carceriere e da quelle della vecchia. Caillean si ritrovò a domandarsi sempre più spesso cosa ne sarebbe stato di lei, se davvero l'avrebbero lasciata lì dentro a marcire finché del suo corpo non sarebbero rimaste solo che polvere e ossa. Un paio di volte tentò nuovamente di chiedere cosa le sarebbe accaduto, ma in risposta ricevette solo silenzio e calci.
Fu durante una di quelle giornate che il capo villaggio andò a trovarla. La sua visita venne annunciata dal tintinnare delle catene e dall'ormai familiare cigolio della porta. Caillean si appoggiò con la mano alla parete viscida d'umidità e strisciò lungo di essa fino a quando le manette di metallo non la bloccarono.
- Puoi lasciarci da soli. - ordinò il capo villaggio alla guardia.
Dopo un momento, la porta si chiuse. Caillean aveva riconosciuto quell'uomo ancor prima che parlasse. Radovan – così aveva appreso chiamarsi il suo carceriere – aveva un timbro baritonale, una voce profonda che la faceva tremare fin nelle ossa, mentre l'anziana aveva un passo claudicante, come se fosse zoppa. Il capo villaggio, invece, non aveva niente di particolare, nemmeno una caratteristica che Caillean potesse sfruttare per riconoscerlo. Semplicemente, sentiva che era lui, lo avvertiva in un modo istintivo.
- Ti trovo sciupata. - osservò e la bambina se lo immaginò mentre sorrideva, beffandosi delle sue condizioni, - Forse dovrei dire a Dana di portarti delle porzioni più abbondanti. Non voglio che tu muoia, non troppo in fretta, almeno. -
Si inginocchiò davanti a lei e le tirò su il mento, poi Caillean lo udì armeggiare con qualcosa, forse una sacca.
- Ti ho portato un po' di vino da bere. Penso che sia molto meglio dell'acqua sporca. -
La bambina tentò di allontanarsi, ma la presa dell'uomo era ferrea. Quando sentì il sapore amaro del vino in bocca, lo stomaco le si contorse dolorosamente e credette di essere sul punto di vomitarlo.
- Ecco, brava bambina, così. - le asciugò le labbra col dorso della mano e le accarezzò i capelli sudici, - Allora, questo periodo qui nelle segrete ti ha fatto riflettere? Pensi di poter accettare la mia offerta? -
La bambina aprì lentamente gli occhi. Anche se non poteva vedere, percepiva la vicinanza del suo viso da quello dell'uomo.
- Fottiti. - esalò, stringendo debolmente i pugni.
- Oh, che parole! Non si addicono a una signorina. - la mano del capo villaggio scivolò lungo il collo, sfiorando il tessuto lacero della casacca, - Mi si spezza il cuore a ricevere un altro tuo rifiuto. -
- Dove... dove sono gli altri? -
- Gli altri abitanti di Merite? Di loro non ti devi preoccupare ormai, sono già stati giudicati. -
Caillean aprì la bocca per ribattere, ma dalle sue labbra uscì solo un rantolo sommesso. Si sentiva la testa pesante e i pensieri fuggivano prima che lei potesse esprimerli. Era stato il vino, quel vino troppo forte preso a stomaco vuoto le aveva appannato la mente.
- Cosa... cosa significa? Li avete uccisi? -
- Uccisi... - sospirò l'uomo, spostandole una ciocca dietro l'orecchio, - Diciamo che, semplicemente, la giustizia ha fatto il suo corso. Chi era dalla parte dei figli di Aesir ha ricevuto la punizione che meritava, mentre chi si è pentito della sua stolida alleanza ha ricevuto una seconda possibilità. -
“Il che significa che li avete torturati finché non hanno detto quello che volevate sentirvi dire.”
L'ennesimo accesso di tosse la fece accartocciare su se stessa. Passò qualche minuto, prima che riuscisse di nuovo a parlare.
- Non sarò mai la tua sposa. Piuttosto preferisco morire. -
La mano che le accarezzava il viso tremò appena. Subito dopo, Caillean sentì il sapore del proprio sangue esploderle in bocca, mentre un dente le scivolava fuori dalle labbra spaccate e la guancia offesa iniziava a bruciare. Una lacrima, forse l'unica che le era rimasta, le rigò la pelle lurida.
- Schifosa ragazzina... -
Un altro colpo, più forte del precedente, la mandò a terra. La bambina tentò di raggomitolarsi nel tentativo di ripararsi dalla scarica di calci che la investì, ma non aveva abbastanza forza per difendersi. Tremò, cercando di trattenere i singhiozzi, anche se i suoi occhi erano asciutti.
“Kale...”
Il nome del padre le si affacciò alla mente, assieme al viso sorridente di sua madre Iola. Il pensiero di mostrarsi così debole la riempì di vergogna, una sofferenza ancor più straziante di quella causata dalle percosse e dalle ferite ancora aperte. Pregò che non la stessero guardando, che non udissero i suoi singulti.
- Piccola stronza ingrata... farai la fine di tuo padre! - ringhiò furioso il capo villaggio.
Un colpo le arrivò alla spalla. La clavicola si ruppe di netto e Caillean urlò con la poca voce che aveva in gola. Ne seguì un lungo momento di tregua, interrotta solo dal respirare concitato dell'uomo e dagli ansiti rantolanti della bambina. Il suo corpo era un grumo pulsante di dolore, così insopportabile da renderle difficile persino respirare. Non si accorse del peso dell'uomo sopra di lei finché l'aria non le si incastrò in gola e qualcosa di duro non le premette contro la coscia.
- Non mi vuoi come marito? Bene, mi prenderò ciò che voglio con la forza, allora. - le sibilò all'orecchio.
- No! -
Si dimenò come poté, lottando per strisciare via, ma non servì a nulla. Il manrovescio che la colpì la lasciò riversa sulla pietra, incapace di muoversi, senza fiato. Poi le mani dell'uomo si infilarono nei pantaloni di pelle, le dita affondarono feroci nella pelle e la sua bocca si chiuse sul suo collo con violenza. La riempì di morsi e quando la baciò, Caillean non riuscì a far altro che ricambiare, mentre lui armeggiava con i lacci dei pantaloni.
- Se avessi accettato sarebbe stato molto più dolce. - le sussurrò, la mano che era scivolata nella casacca a cercare forme che non c'erano, - Ora mi sembra giusto che pag... -
Un grido di allarme, seguito da altri, coprì le ultime parole. Il capo villaggio alzò la testa e si tirò su di scatto.
Uno scalpiccio frenetico di passi, poi la porta si aprì di schianto.
- Signore! Signore, ci attaccano! -
- Cosa? Chi? -
- Elfi, signore, elfi! -
- Non è possibile, siamo lontani dal confine! -
Un altro grido vibrò nell'aria, rimbalzando sulle pareti della prigione. Qualcuno berciò un ordine da qualche parte e il clangore di armi e spade divenne il suono dominante.
- Signore, dovete mettervi in salvo, non c'è tempo da perdere. -lo incitò il soldato, palesemente agitato.
Il capo villaggio non ribatté. D'altronde, pensò vagamente Caillean, era in gioco la sua vita. Lo sentì allontanarsi di corsa, seguito dai passi rapidi della guardia. Nessuno dei due si premurò di liberarla dalle catene e lei non si mosse, troppo stanca per tentare di liberarsi, troppo spaventata anche solo per pensare con lucidità, il vino che ancora le scorrev nelle vene ottenebrandole i sensi.
Fuori da lì la battaglia infuriava, ma ogni suono le arrivava lontano, ovattato. Forse al vino era stata mischiata qualche strana sostanza per stordirla. La testa le girava e il suo corpo disertava gli ordini della mente, incurante dell'istinto di sopravvivenza che smaniava per convincerlo ad alzarsi e a correre verso la libertà. La porta era stata lasciata aperta, era la sua occasione. Eppure, nonostante finalmente avesse una via di fuga, i suoi muscoli si rifiutarono di obbedire. Il terrore, come fango gelido, la paralizzava e le serrava la gola, incatenandola al pavimento sporco. Con le ultime forze rimaste, riuscì solo a rannicchiarsi contro il muro e a tirarsi su i pantaloni.
Un rumore concitato di passi attirò la sua attenzione. Qualcuno fece il suo ingresso nella cella e cadde accanto a lei in uno sferragliare assordante.
- N-no, no ti prego, no! -
Caillean si fece più piccola, appiattendosi contro la parete più che poté. L'uomo prese a strisciare verso il fondo della stanza, raschiando il pavimento con uno stridore metallico. Qualcun altro entrò. Aveva un passo leggero, sembrava quasi non sfiorare terra mentre avanzava verso il suo bersaglio.
- Ti prego, no... -
L'intruso passò accanto a Caillean come se non la vedesse.
- Giuro... giuro che se ti avvicini ancora ti ammazzo. - ringhiò in lacrime l'uomo, annaspando disperato fino al muro, - Non mi farò uccidere come un cane da un elf... -
La frase morì in un gorgoglio, un suono strozzato simile al risucchio di un imbuto. Qualcosa scivolò vicino alla bambina. La mano si mosse d'istinto e le dita sfiorarono la consistenza dell'oggetto. Era freddo, tagliente. Un lampo di consapevolezza la riscosse dal torpore.
“Un pugnale.”
Lo strinse con forza, facendo leva sulle catene per tirarsi a sedere, gli occhi che saettavano nel punto dove sapeva essere l'intruso.
Improvvisamente percepì una presenza al suo fianco. Si impietrì col cuore in gola. Non si era accorta che l'elfo le si era accostato. Non riusciva nemmeno a percepirne il respiro.
“Forse... forse non vuole che capisca che è qui, accanto a me.”
Si rese immediatamente conto di quanto fosse stupida quell'ipotesi. Perché avrebbe dovuto essere cauto? Lei era solo una bambina e lui un guerriero che poteva sopraffarla facilmente. Con l'aria bloccata tra sterno e diaframma, girò lentamente la testa alla sua destra e, anche se nei suoi occhi non c'era altro se non tetra oscurità, Caillean ebbe la sensazione che l'elfo la stesse fissando. Per un istante pensò d'essersi sbagliata, che la paura le stesse giocando un altro brutto scherzo, ma più il tempo passava, più quell'incertezza prendeva una connotazione reale. Poteva sentirne lo sguardo addosso mentre la studiava, osservandola con qualcosa che la bambina avrebbe definito curiosità. Chissà, forse gli piaceva, forse... forse l'avrebbe risparmiata.
- Anairë lapse. - mormorò l'elfo, allungando la mano verso di lei.
“Stupida.”
Quel pensiero le rimbombò nella testa, riversandole nelle membra intorpidite una scarica di adrenalina che la riscosse. La sua mano corse rapida all'elsa del pugnale e colpì alla cieca.
La pelle cedette con sconcertante facilità. La lama penetrò nella carne fino alla guardia e il sangue zampillò sulle sue mani. Un odore nauseabondo le permeò le narici e le fece contrarre le viscere, ma non la fermò. Tutto il dolore e la rabbia accumulati in quei giorni fluirono nelle dita e continuò a colpire ancora e ancora, urlando e piangendo. All'ennesimo affondo, il corpo dell'elfo cadde a terra e lei gli si gettò addosso, conficcando il pugnale fino a quando la punta non colpì il pavimento. Allora il tempo parve fermarsi. Caillean rimase ferma, il respiro affannato e uno strano gelo nelle ossa. Dopo un'eternità lasciò la presa sull'arma, si scansò bruscamente e si piegò in due per vomitare quel poco che aveva nello stomaco. Non seppe quanto rimase in quella posizione, così come non si rese conto della presenza di altri due intrusi finché non le si avvicinarono. Tentò di tirarsi indietro, ma stavolta nessun muscolo si mosse. Il caos di pensieri che si affastellavano nella sua testa si congelò, cristallizzandosi in un'unica e nitida consapevolezza.
“Sto per morire.”
Allungò la mano alla cieca alla ricerca del pugnale, ma qualcuno se ne impossessò nel momento in cui sfiorò coi polpastrelli il filo tagliente della lama.
- Non avere paura, siamo qui per aiutarti. - le disse una donna dalla voce gentile.
Un gemito metallico e le catene si afflosciarono a terra. Caillean non capiva cosa stesse succedendo, chi o cosa l'avesse liberata e da dove provenisse quel calore rassicurante che le scaldava la pelle dei polsi. Poi si sentì sollevare da braccia maschili e stringere al pettorale di un'armatura. Trasalì a quel contatto, ma non si ribellò, perché quella presa salda e sicura la faceva sentire protetta. Anche se percepiva la consistenza dura dell'acciaio contro la guancia e non poteva dare un volto ai suoi salvatori, non ne aveva paura.
- Andiamo, Fijit, qui abbiamo finito. - la esortò un uomo in tono concitato.
“Un soldato.”
Cullata dal dondolio, Caillean si concesse di chiudere gli occhi e abbandonarsi alla stanchezza. Si sentiva esausta, sfiancata, ma l'odore del sangue, che le si era appiccicato addosso violentandole il naso, le ostruiva anche la gola, rendendole difficile respirare e rilassarsi completamente.
“Sono un'assassina.”
Quella constatazione le fece contrarre le viscere e, se non fosse stata sicura di non avere più niente nello stomaco, avrebbe vomitato di nuovo.
- M... mi... mi dispiace. - pigolò e di riflesso si portò le mani al viso per frenare lacrime che non c'erano.
- Non avevi scelta. - rispose pacato l'uomo, stringendo la presa attorno al suo corpo, - Era in gioco la tua vita, non potevi fare altro. -
Caillean questo lo sapeva, eppure non riusciva a smettere di tremare. Si tirò piano le gambe al petto, facendosi sempre più piccola contro il torace del soldato.
- Non avevi scelta. - ripeté costui e la bambina percepì la sua convinzione come se fosse la propria.
Il cuore rallentò la sua corsa nel petto e l'aria le riempì i polmoni, sciogliendo in parte il peso che sentiva nella testa e nell'anima. Quando il sole le baciò la pelle, il sonno l'aveva già avvolta nel suo delicato abbraccio.
 
Quando si destò, con sorpresa Caillean si accorse che il dolore era scomparso. Di riflesso si guardò intorno, ma subito si ricordò che non poteva più vedere. A fatica, lottando contro la coperta che la copriva fino al mento, si mosse cercando di capire dove fosse, tastando con le mani intorno a sé.
- Finalmente ti sei svegliata. -
Associò subito quella voce alla donna che si chiamava Fijit. Aveva lo stesso timbro dolce della prima volta che l'aveva udita parlare, permeata da una sicurezza che le conferiva un'aura autorevole. Doveva essere giovane.
Caillean girò la testa, cercando di sollevarsi sui gomiti.
- Non muoverti, sei ancora debole e ti ho appena cambiato le medicazioni. - Fijit le si sedette accanto e le posò una mano sulla fronte, - Ah, meno male, la febbre è passata. -
- Dove... dove mi trovo...? Chi siete? - rantolò spaesata la bambina.
- Ci troviamo a Merite, precisamente nell'ospedale da campo che abbiamo allestito dopo l'attacco. Noi siamo un distaccamento dell'esercito che era stanziato a nord, stavamo tornando a Sershet quando abbiamo ricevuto una soffiata su un possibile attacco degli elfi in questa zona. - sospirò.
Caillean se la immaginò mentre si mordeva le labbra con un'espressione amareggiata.
- Abbiamo cercato di arrivare in fretta, ma non è stato sufficiente. -
- Sono morti in tanti? -
Fijit rimase un attimo in silenzio. Probabilmente si era accorta del suo tono freddo, di quel “sono” che metteva una certa distanza tra lei e gli abitanti del villaggio dove aveva sempre vissuto, ma a Caillean non importava. Non si sentiva più di appartenere a quel posto, non dopo tutto quello che era accaduto.
- Sì. - rispose cauta, allungandosi per cospargerle una crema dal profumo di ginepro sotto gli occhi, - Mi dispiace per quello che ti è accaduto. -
La bambina non rispose. Strinse le mani a pugno, come se quel gesto bastasse a respingere il dolore opprimente che le si era conficcato nel cuore.
- C'è una persona che ti vuole vedere. Te la senti di incontrarla? - disse dopo un momento Fijit.
Caillean esitò. Da fuori poteva udire il chiacchiericcio del soldati e un perpetuo rumore di passi e zoccoli. Il vento le portò alle orecchie il suono di qualcosa che bolliva in una pentola, sicuramente minestrone di verdure a giudicare dall'odore, quello che stavano servendo ai soldati e ai cittadini sopravvissuti.
- Va bene. - acconsentì.
- Allora lo vado a chiamare. Tu aspetta qui e non sforzarti, intesi? -
Caillean se la figurò sorridere. Mentre sentiva tintinnare le fibbie della sua bisaccia, la fantasia le plasmò un viso a cuore, incorniciato da capelli corti e neri, riccissimi, delicate onde color ebano che sfuggivano da una fascia colorata.
“Chissà se è davvero così.”
Trascorse meno di qualche minuto tra l'uscita di Fijit e l'entrata dell'uomo che l'aveva portata in braccio. Probabilmente doveva trovarsi nei paraggi o, più probabilmente, aveva aspettato che la sua compagna gli desse il permesso di introdursi nella tenda.
- Tu devi essere Caillean. - cominciò, prendendo posto su uno sgabello di legno accanto al giaciglio della piccola.
Aveva la stessa voce profonda e distaccata di quando era venuto a prenderla. La bambina immaginò che dovesse essere un uomo davvero alto e grosso.
- Sì... - confernò timorosa.
- Come ti senti? -
Come si sentiva? La verità era che nemmeno lei avrebbe saputo dirlo con certezza. Le ferite sul corpo non bruciavano più, persino la mandibola aveva cessato di pulsare. Seppur limitata nei movimenti dalle bende, riuscì a puntellarsi sui gomiti e a mettersi a sedere. Eppure, sentiva un peso sul petto, un martellare sordo che le sgretolava i pensieri e scoloriva ogni cosa.
- Sto bene. Mi sento solo un po' stanca. - si sforzò di sorridere per sembrare più convincente.
Il soldato la osservò per un po', poi sospirò e Caillean percepì la sua presenza farsi più vicina. Istintivamente si ritrasse, anche se sapeva che non voleva farle del male, ma per il suo corpo il solo fatto che fosse un uomo costituiva una minaccia.
- Mi diresti perché eri stata rinchiusa là dentro? Iola era molto confusa quando mi ha parlato e... -
- Mia madre è... è viva? - balbettò incredula.
- Sì. L'abbiamo incontrata sulla strada mentre marciavamo fino a qui. Ho dato ordine che la scortassero a Caewen. É lì che ti aspetta. -
Caillean quasi stentava a crederci. Sua madre quindi non l'aveva abbandonata, era semplicemente scappata per cercare aiuto. Il sollievo che la pervase alleggerì il peso che le gravava sul petto e gli artigli che le stritolavano lo stomaco allentarono la presa.
- Come fate a conoscere mia madre? -
- In realtà conoscevo tuo padre. -
- Quindi voi siete il Generale Lullabyon? -
- Davsten, solo Davsten, niente formalismi. Immagino che Kale ti abbia già parlato di me. -
La bambina annuì. Sì, suo padre le aveva raccontato tutto del grande Generale Lullabyon, del suo valore e del suo coraggio in battaglia. Ogni volta che menzionava il suo nome, i suoi occhi si illuminavano e un'espressione fiera si disegnava sulle sue labbra. Aveva sempre avuto solo parole di stima per quell'uomo e Caillean aveva capito quanto lo riempisse d'orgoglio l'aver combattuto al suo fianco.
Il viso sorridente di suo padre fece capolino dalla sua memoria. Lo rivide alto, forte, con in testa l'elmo sbeccato che conservava nella sua cassa sotto il letto, la spada in pugno e indosso l'armatura pesante, quella che le aveva proibito di toccare. Le parve di udire la sua risata come quando l'allenava e i suoi occhi brillavano di felicità, intensi, verdi come i primi steli d'erba. Poi la visione scomparve e al suo posto apparvero le mura di Merite e la picca con la sua testa in bella mostra, cosparsa di catrame e divorata dai corvi.
- Mi dispiace per quello che gli è accaduto, non meritava quella fine ingloriosa. - commentò dispiaciuto il Generale, ma non si avvicinò per consolarla, - Per questo vorrei mi raccontassi cosa è successo negli ultimi dieci giorni. -
Caillean si morse le labbra e cominciò a tormentarsi le dita. Non voleva parlare, desiderava soltanto abbandonarsi sul letto e dormire fino a non svegliarsi più.
- Non te la senti ancora? -
Silenzio.
- Puoi almeno dirmi chi è stato a farti rinchiudere e perché? -
- Il capo villaggio, mi ha accusata di aver ucciso Elyn, la figlia della fruttivendola. -
Davsten tacque, in attesa che lei continuasse. Forse, si disse Caillean, avrebbe dovuto aggiungere altro, raccontargli cos'era successo in quelle segrete, ma le parole rimasero lì, intrappolate in un bolo di angoscia e dolore.
- Stimavo molto tuo padre. - disse di punto in bianco Davsten, - Era un uomo che aveva carattere e forza d'animo a sufficienza per resistere nell'esercito, ma, a differenza di molti, non ha mai perso la pietà e la gentilezza che lo contraddistinguevano. È un particolare che ho sempre apprezzato di lui, assieme al suo coraggio e al suo spirito di sacrificio. Come molti, fu costretto a diventare un soldato quando la guerra al nord divenne più violenta. Ci furono dei reclutamenti di massa, così che nello stesso contingente, mescolati agli allievi dell'Accademia e ai veterani, trovavi contadini, maniscalchi, ladri, assassini. Le città al nord cominciavano a cadere e c'era un urgente bisogno di uomini, poco importava la loro capacità di combattere o il loro ceto sociale. Kale all'epoca aveva più o meno la mia stessa età, ma ebbe la fortuna di potersi allenare, prima di essere buttato in battaglia. Combattemmo spalla a spalla e riuscimmo a tornare al campo sani e salvi. Vedere i nostri compagni morire come mosche sotto le frecce degli avversari aveva lasciato un segno indelebile nella nostra memoria, ma non potemmo permetterci il lusso di piangerli. Li seppellimmo nelle tante fosse comuni fuori dal campo e poi tornammo ad allenarci per prepararci ai prossimi attacchi. Furono il tempo e il dolore della perdita ad avvicinarci. Io ero un ragazzino vanaglorioso, con in testa solo l'onore e il desiderio di distinguermi. Ero stato reclutato con molti altri miei compagni circa due anni prima che terminassi l'Accademia e, quando il mio Comandante mi spedì ad allenarmi assieme a tutti gli altri, mi sentii offeso nell'orgoglio. Cosa avrei mai potuto imparare io, il figlio di uno dei più grandi Generali del re, da quel branco di straccioni? -
La bambina rimase interdetta. Quell'immagine non corrispondeva per niente a quella che emergeva dai racconti di suo padre. Davsten ridacchiò.
- Sì, diciamo che Kale mi stimava troppo per riportare certi aneddoti, ma ti posso assicurare che ero tutto furché l'uomo che sono adesso. Il tempo e la guerra mi hanno cambiato, ma, soprattutto, l'amicizia con tuo padre. Ancora oggi mi dispiaccio di essere stato l'unico a essere insignito del titolo di Cavaliere. Lui ne aveva tutte le capacità e il diritto, e mio padre era disposto a dargli il suo appoggio, ma Kale non volle comunque. Sai perché rifiutò? -
Caillean scosse la testa. Davsten le mise una mano sulla spalla e la strinse leggermente.
- Per lo stesso motivo per cui io ho deciso di entrare nell'Ordine del Lupo: perché amava la sua famiglia, amava te e Iola e desiderava proteggervi, e sapeva che se fosse stato nominato Cavaliere non avrebbe potuto restarvi accanto come avrebbe voluto. -
Caillean sentiva addosso il suo sguardo, le sue mani calde sulla pelle le trasmettevano un calore rassicurante.
- Lui ti amava, Caillean, ti amava così tanto da andare al fronte per te. Tu hai ereditato la sua stessa forza d'animo. Non sei una sopravvissuta, non sei come le persone là fuori. Sei una guerriera, un lupo. Ti hanno picchiata, spezzata, umiliata, ma nonostante questo hai combattuto, conservando la tua dignità e la tua fierezza, anche se adesso ti sembrano perdute. -
- Sono cieca... non vedo più niente... - esalò con voce rotta, abbassò lo sguardo e scosse la testa, ricacciando indietro le lacrime, - Anche volendo, non potrò più diventare una guerriera. -
- Solo se sei convinta che è impossibile, lo sarà. Ricorda che in questo mondo non esiste niente di più potente della volontà. Se lo desideri davvero, se questo è ciò che vuoi, io ti aiuterò. Ma prima devi perdonare te stessa per quello che ti hanno fatto. Solo allora potrai tornare a vedere. -
Rimasero così, lei con gli occhi spenti puntati in quelli vivi dell'altro e il Generale con la mano ben ferma sulla sua spalla. Quando la presa si allentò, Caillean trasalì.
- Pensaci e quando sarai pronta dimmi la tua risposta. - aggiunse Davsten, per poi alzarsi e uscire dalla tenda, lasciandola a riflettere.

  
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