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Autore: FRAMAR    08/03/2017    29 recensioni
Mi spaventava il silenzio che avrei trovato a casa: lo stesso vuoto, la stessa solitudine del parco, in quel pomeriggio d'inverno, panchine deserte, il vento che spettinava i miei capelli.
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Racconto partecipante al concorso "Io donna" Dedicato a tutte le donne in occasione della Festa della donna
Genere: Commedia, Generale, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Che bel donnino



 
Sentii il vento che si alzava sollevando foglie secche e terra, mentre i rami degli alberi si abbassavano sbattendo gli uni contro gli altri e provai un senso di fastidio e di tristezza.

Mi strinsi addosso il cappotto con un brivido, ma non mi alzai dalla panchina anche se mi rendevo conto di essere poco coperta per la rigida temperatura di quella giornata.

Pensavo che presto avrei compiuto cinquant’anni e questo non poco mi sgomentava. Tutto era passato così in fretta, la giovinezza e il tempo in cui, pur non essendo più giovanissima, ero ancora abbastanza giovane da pensare di avere ancora tanto margine avanti a me.

Adesso, se mi voltavo indietro, mi sembrava quasi impossibile avere  vissuto già tanto. Che cosa mi restava? Ogni età è bella, ogni stagione può essere bella, sentivo ripetere spesso, ma a me sembravano slogan abbastanza ermetici.
Ero una donna di mezza età e non importava che, poco prima, entrando nel parco un uomo abbastanza giovane mi avesse detto compiaciuto: «Che bel donnino».

Bel donnino. A cinquant’anni e con tutte le angosce , le paure, le rabbie, o problemi e i dubbi che mi portavo dentro irrisolti e tormentosi non mi faceva alcun effetto sentirmi definire «bel donnino».

Non mi importava più, era da molto tempo al di là di certe atmosfere, certe necessità di gratificarmi scoprendo il piacere. Forse non mi era importato mai molto, nel senso strettamente femminile, o forse si,  ma mi ero soprattutto affannata a piacere e a essere accettata per le mie idee, il mio pensiero, il mio bisogno di dialogo, di tenerezza, di fiducia.

 
Forse mi ero davvero affannata troppo perché, se era vero che diverse persone m’avevano capita, amata , accettata e forse anche considerata insostituibile, era altrettanto vero che questo obiettivo io lo avevo fallito proprio con chi mi stava a cuore.

Il vento. Lo sentivo contro la nuca, lungo la schiena, sul viso e ne provavo un fastidio sempre più intenso, ma non volevo lasciare quella panchina, quel parco pieno di ricordi per me. Più precisamente non volevo tornare a casa.
Mi spaventava il silenzio che avrei trovato, il buio, l’assenza totale di voci, di risate, di pianti, tutte cose che più di una volta avevo considerato spasmodicamente quando la musica veniva messa a tutto volume e le voci di mio figlio, di mia nuora, del mio nipotino, mi trapanavano il cervello impedendomi di concentrami nella lettura di un libro, nelle mie fantasticherie, nei rari e preziosi momenti di relax.

Non avevo intenzione di fare un bilancio della mia vita, di tirare le somme. Tutto questo, quando lo sentivo dire o dare dagli altri, mi procurava una sensazione profonda di tristezza, di fuga, come se la vita fosse un libro maestro con tanto di “entrate” e “uscire”, il “dare” e “avere”, una mesta bilancia dei profitti e delle perdite.

Alle ditte poteva anche servire, ma io non avevo mai gestito la mia vita come una ditta, probabilmente ero stata una pessima contabile, lo sarei stata comunque e dovunque per incompatibilità con le cifre, con i rendiconti, con la realizzazione e forse anche con la logica.

Niente bilanci dunque e del resto guardare indietro sarebbe stato come rincorrere momenti irripetibili, tuffarsi in un mondo di nostalgie, di struggimenti, di dolcezze e, più che di fatti, di atmosfere irrimediabilmente perdute.

Forse, a guardarmi indietro, avrei soltanto scoperto  che tutta la mia vita non era stata altro che una corsa verso qualcosa che era dentro di me non fuori, e quindi irraggiungibile, perché anche quando l’avessi raggiunta non sarei stata altro che una proiezione di me stessa.

Allora non restava che guardare avanti, ma questo purtroppo mi faceva ancora più paura. Mi sembrava di avere esaurito le mie risorse, di essere improvvisamente diventata inutile, senza scopo.

Un tempo avevo lavorato e lo avevo fatto volentieri, ma mi ero ritirata quando era nato mio nipote perché avevo ritenuto di essere più utile come nonna che come impiegata perché  e perché mi era sembrato giusto dare spazio e possibilità ai giovani, nel caso specifico a mio figlio e mia nuora che avevano più bisogno di trovare un lavoro stabile che gli consentisse di costruirsi una vita autonoma, di affittare un appartamento per conto loro, di sentirsi sganciati  dalla famiglia, vivere interamente secondo le loro idee e i loro sistemi, senza sentirsi condizionati da tutto quello che la convivenza, anche tra le persone care, fatalmente comportava.

Avevo accettato con assoluta convinzione questi concetti e avevo cambiato ruolo  senza troppa fatica. Avevo continuato a vedere qualche amica, ad andare di tanto in tanto al cinema con Alfredo, mio marito, a mantenere la corrispondenza con le persone lontane, ad ascoltare musica, ma avevo soprattutto concentrato il massimo del mio tempo, delle mie energie, della mia potenzialità affettiva e vitale, sul nipotino.

Le passeggiate avevano avuto come meta il parco, le ore in casa, quando, mia nuora e mio figlio erano al lavoro, le avevo dedicate al nipotino  che aveva esigenze affettive molto forti e che in fondo era così facile amare.

Quando Alfredo era disponibile, divideva con me gli impegni familiari e mi aiutava molto, ma ormai ci eravamo calati in pieno nel ruolo di nonni, come forse prima eravamo stati soprattutto genitori, con tutte le confusioni, i conflitti, le contraddizioni che mi ero trovata di fronte alla necessità di rivedere tutti o quasi i valori che mi erano stati inculcati.
Valori, educazione, ideologie, modo di vivere e di affrontare la vita. Il significato della vita stessa.

Col nipotino era stato molto più facile, perché non avevamo fatto altro che seguire il tracciato che mio figlio e la nuora preparavano, senza interferire senza tentare di imporre il nostro modo di vedere, anche perché il loro sembrava molto più idoneo a condurre un bambino.

Eppure qualcosa era accaduto, perché nel frattempo io e Alfredo ci eravamo persi di vista come uomo e donna e ora che il momento tanto auspicato per il bene di tutti, il momento del distacco, era arrivato, mi sentivo aggredire dalla paura, dal vuoto. “Tornare a casa” pensavo . E poi?  Che cosa ci saremmo detti io e Alfredo,  quella sera, una volta che ci fossimo seduti a tavola, io di fronte a lui, con quei posti vuoti accanto a noi?

Eppure quei posti erano rimasti vuoti tante altre volte, specialmente la sera, perché i ragazzi rientravano dal lavoro piuttosto tardi, non si erano visti per tutta la giornata ed era quindi naturale che desiderassero cenare per conto proprio.

Sì, tutto questo era vero, ma era anche molto diverso perché comunque vivevamo nella stessa casa e, se uscivano, prima o poi tornavano e c’era il bambino che dormiva nella sua stanza, il bambino che ero io a mettere a letto.
Tornare a  casa e non trovare più il lettino, i giocattoli sparsi un po’ dovunque, il seggiolone, il box e riavere la casa tutta in ordine, con i mobili che occupavano il posto di un tempo, niente briciole di biscotti sul tappeto, nessuna traccia  di manine sugli specchi, nessuno con cui giocare. E lui era ancora così piccolo, così tenero e affettuoso, così deciso nel chiedere amore e nel darlo.

Da quel bambino mi sentivo amata e accettata e tutti i lati del carattere rimasti infantili nonostante l’età trovavano sfogo e appagamento in quel rapporto così vivo e così privo di ombre.

Il vento. L’inverno. Gli alberi che si scrollavano dai rami foglie secche e screpolate. Le voci dei bambini più rade negli ultimi giochi. Il parco si andava svuotando del suo materiale umano e diventava sempre più silenzioso e statico con la sua giostra ferma, il bar con la saracinesca abbassata, le panchine libere,  non rimanevano che il vento e l’eco degli ultimi passi che si allontanavano stropicciando foglie e ghiaia.

Le giornate si erano molto allungate, ma ormai era quasi buio. Non potevo restare, avevo freddo e la mia solitudine  nel parco ora deserto non era certo meno pesante di quella  che avrei sofferto nella mia casa.

Mi alzai. Le gambe stentavano a trovare un ritmo preciso, intorpidite dal freddo e dall’immobilità. Ero una donna di mezza età, magari ancora di bell’aspetto, ma irrimediabilmente di mezza età.

Avevo cinquant’anni. Mezzo secolo. Faceva impressione. Mezzo secolo. Quanto mi restava ancora da vivere? Del tempo che mi era destinato? E come l’avrei speso? Mi sembrava di avere veramente il vuoto davanti a me e ne ero atterrita.

Affrettai il passo. Al di là del parco c’erano le luci dei negozi, delle case, della strada,  non aveva più senso indugiare, inoltre provavo il desiderio di bere qualcosa di caldo. Un buon tè forte.

«Nonna, ne dai un poco anche a me?»

Entrai in casa portandomi dentro quella vocina e quella richiesta e l’illusione momentanea che il mio nipotino fosse davvero là ad aspettarmi. Ma in casa non c’era proprio nessuno.

Avevo accumulato tanto freddo che neppure mi tolsi il cappotto prima di entrare in cucina a mettere la teiera con l’acqua sul fuoco.

Una volta mio figlio mi aveva detto: «Nella vita non bisognerebbe  mai calarsi interamente in un ruolo preciso. Mai essere tutta moglie o tutta madre o tutta nonna, così si rischia di perdere di vista se stessi, si finisce col proiettare tutta la ricchezza interiore, l’emotività, i sentimenti, l’interesse sugli altri col rischio di soffocarli. I ruoli non dovrebbero esistere, bisogna lasciare spazio a se stessi e agli altri».

Avevo creduto di averlo fatto, ma mi ero sbagliata, non era vero, e quello di mio figlio era un rimprovero o forse una semplice constatazione o un modo affettuoso di suggerirmi qualcosa. Di aiutarmi a vivere anche per me stessa.
E Alfredo? Avevo perso di vista anche lui e adesso temevo veramente il momento in cui sarebbe tornato a casa, paura dei silenzi, degli sguardi, dei gesti. Fino a quella mattina c’era stato il mio nipotino a unirci, a renderci quasi complici, ma adesso, senza il bambino, avremmo scoperto di essere due estranei che non avevano più niente da dirsi.

«Eppure ci siamo amati», pensai. «Siamo stati felici insieme, abbiamo pianto e riso e discusso e sperato e desiderato e vissuto e diviso momenti difficili e momenti lieti sentendoci quasi sempre uniti».

Tutto questo finché il nostro  unico figlio non era diventato un adolescente con mille problemi e poi un ragazzo e poi un uomo e poi un padre di famiglia, coinvolgendoci di volta in volta, magari senza volerlo, in tutto quel faticoso processo di crescita.

Così avevamo finito col concentrare la maggior parte del tempo e delle energie nel tentativo di seguirlo, di capirlo, di aiutarlo. Ma durante tutto quel tempo noi, io e Alfredo, l’uomo e la donna, dove eravamo?

L’acqua bolliva. Versai il tè nella teiera e in quel momento il telefono squillò. I ragazzi, pensai, e mi precipitai fuori della cucina, verso l’apparecchio.

«Annina, ti ho chiamato tante volte nel pomeriggio, dov’eri?»

La voce di Alfredo. «Al parco», risposi.

«Credevo ne avessi abbastanza», disse lui.

«Non capisco che cosa tu voglia dire», ribattei sulla difensiva, «Non riesci a immaginare perché sono stata al parco?
«Si certo», rispose lui con impazienza. «ne parleremo più tardi se vuoi. Annina, ho preso due biglietti per il teatro, pensa c’è Billy Elliot  ti ricordi ci è piaciuto tanto il film, sono secoli che non  andiamo al teatro.»

«A teatro?»

«Annina, ascolta non ti sto proponendo niente di pazzesco», disse Alfredo. «Abbiamo bisogno di fare qualcosa, di stare insieme, di ritrovarci, di parlare, di comunicare tra noi. Siamo rimasti troppo tempo senza farlo, non te ne rendi conto? Adesso è il momento giusto, adesso che siamo rimasti soli e possiamo dedicarci a noi stessi, finalmente.  Abbiamo ancora molti anni davanti a noi, Annina, almeno lo spero, non gettiamoli via, mi sembra sia giunto proprio il momento di pensare un poco a noi stessi, ma sul serio».

«Vuoi dire che sei contento che i ragazzi e il piccolo se ne siano andati?», chiesi.

«Sì, sì», quasi urlò lui, «loro stanno benissimo dove sono e hanno il pieno diritto di vivere la loro vita senza interferenze e anche d’imparare a sbrogliarsela sa soli e noi abbiamo il dovere di ricordarci  che non siamo soltanto genitori e nonni, ma marito e moglie e che ci amiamo». Ci fu una breve pausa, «o almeno io ti amo, Annina, non ho mai smesso», concluse. Alfredo.

Non dissi “nemmeno io ho mai smesso” perché in quel momento non riuscivo a esprimermi in quei termini, ma una cosa, grazie alle parole di mio marito, adesso mi era chiaro: Io e Alfredo avevamo ancora la possibilità di vivere insieme senza sentirci due estranei, potevamo finalmente fare tutto quello che per anni non ci era stato possibile fare, e questo senza togliere niente ai ragazzi e al bambino.

Non c’era stata  nessuna frattura tra noi e adesso, finalmente liberi, quando ci fossimo ritrovati, avremmo gioito molto di più della reciproca presenza, perché sarebbe stato un qualcosa di veramente spontaneo e voluto.


Cinquant’anni non era poi un’età così terribile e non era affatto detto che non potendo più fare la nonna dalla mattina  alla sera non mi restasse proprio altro, Oh no davvero.
Intanto adesso, subito, potevo cominciare a prepararmi per andare a teatro. Quanti anni erano passati dall’ultima volta che…

«Annina», disse Alfredo, «passo a prenderti, andiamo a cena e poi a teatro. D’accordo?»

«D’accordo», dissi e mi venne da sorridere. Il primo sorriso di quella giornata. Improvvisamente mi ero ricordata dell’uomo che vedendomi camminare nel parco mi aveva detto: «Che bel donnino». A cinquant’anni. E perché no?
 
 

   
 
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