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Autore: LilituDemoneAssiro    09/03/2017    1 recensioni
Sebastian Stan, al suo primo contratto importante, cerca di farsi forza nell'universo Hollywoodiano e a testa alta, prova a combattere le paure che lo rendono un ragazzo introverso. Fino a che un incontro inaspettato, sconvolge le sue certezze e lo costringe a guardare il mondo da un'altra prospettiva. Forse, migliore.
Genere: Fluff | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Altri, Chris Evans
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Non ricordo quanto tempo abbiamo trascorso in quella stanza. Minuti, ore, forse l’intero pomeriggio.
Non ne ho memoria. La memoria distorce il tempo e lo spazio quando la felicità ti sfiora, rendendo i ricordi simili ad una stanza piena di piume, che sollevi, soffi via, e lasci cadere sul viso come neve: e ti fa sentire al sicuro, coccolato… non intimorito, ma amato. Accarezzato.
Erano anni che non ricordavo l’ultima volta in cui mi ero sentito al sicuro, e non solo. Forse è per questa ragione che l’unica cosa che ricordo con chiarezza di quel pomeriggio, era il calore. Il vento caldo d’estate spostava la tenda dalla finestra socchiusa, e mi accarezzava i capelli: dovevo tenerli lunghi nonostante le riprese fossero finite da un pezzo, il mio agente sottolineava l’importanza della figura del Soldato d’Inverno dentro e fuori dal set. Io pensavo solo a quanto la mia voce tremava quando lui spostava la solita ciocca ribelle dall’occhio destro, la spostava dietro l’orecchio, e mi sorrideva; quei capelli gli piacevano, lo portavano da me, e io non potevo far altro che sgretolarmi tra le sue mani ancora un po’, ad ogni tocco, ad ogni carezza, ad ogni abbraccio.
Quando lui mi chiamava “Winter Boo bear”, il mondo scompariva. La mia pelle e la sua, la distanza tra il battito del mio cuore ed il suo, perdevano forma, ed io affondavo tra i colori, nei suoni e la musica che dolce suonava nell’aria. Perché tutto quello che lui era con me, ed io con lui, diventava un canto delle sirene a cui nessun marinaio avrebbe potuto mai resistere. Io per primo.
Quella vita, nonostante tutto, nonostante gli sforzi fatti per ottenere quel contratto, il sudore nelle palestre per cambiare dato che ero “gracilino” ed uno come me non poteva ottenere un gran successo -la moda richiedeva altro -, lasciava trascorrere i giorni uguali e distanti, come se non si fosse realizzato il sogno di una vita, ma avessi imboccato la strada per il mio personale inferno in terra.
Volti uguali, corpi uguali, e sotto la maschera nulla. Mi stavo perdendo in un mondo vuoto, stavo diventando vuoto; le luci non mi riscaldavano e sentivo sempre più freddo, ma non mi importava.
Finchè il destino ha colpito così forte le fondamenta delle mie certezze da lasciarmi quasi stordito…Il destino l’ha voluto esattamente dov’era, combatterlo non sarebbe servito. Ricordo ancora la firma del primo contratto con la major, l’esultanza, la voglia di fare e strafare, perché no. Ora che anche il mio nome era lì, avrei fatto sì che tutti l’avessero ricordato per molto tempo, quindi la cosa più importante era il primo impatto con il cast, ricorda: simpatia, sorrisi a profusione, offri da bere ai colleghi uomini, e flirta senza esagerare con le donne. Ti adorano sempre quando fingi così: e almeno stavolta, ne sarà valsa la pena. Io ero nel film di Capitan America accanto al protagonista, avrei interpretato la parte dell’amico d’infanzia, l’unico che non lo aveva mai lasciato letteralmente fino alla fine, e avrei fatto di tutto per rendermi benvoluto da cast e troupe intera: le occasioni quando arrivano devono essere prese al volo e strette, spremute fino al midollo…perché non tornano. Solo i rimpianti restano.

Avevo i crampi a furia di stringer mani ed abbracciare estranei: ormai mancava solo lui, il protagonista. Avevo stretto la mano anche ai cameraman, avevo offerto ciambelle e caffè, mi sentivo come una matricola idiota al college, pronta a stendersi davanti l’ingresso della confraternita pur di compiacere i senior. Solo il protagonista ancora non si vedeva neppure arrivare.
Ah, la solita prima donna che pretende il mondo ai suoi piedi, pensai. Va bene, finchè non pesta i miei di piedi, buon viso a cattivo gioco. Tutto è utile. Tutti sono utili. Finchè da dietro la porta dell’ufficio degli executives, mi giunge all’orecchio una conversazione in cui chiedevano spaventati cosa stesse accadendo a Mr.Evans, se fosse nulla di grave, come mai ancora al pronto soccorso, e quando sarebbe stato in grado di raggiungerci nonostante la crisi.

Crisi? …ancora al pronto soccorso? Mmm. Forse la prima donna è più interessante di quanto sembra: devo saperne di più, osserva e ascolta mi ripetevo, le cose si fanno intriganti. Al che, dopo un’altra ora, quando oramai eravamo tutti pronti a lasciare gli studios, lo vedo arrivare. Trafelato si getta addosso al gruppo tra mille scuse, inchini riverenti nei confronti dei producer, e abbracci da copione per tutti. Tranne che per il sottoscritto: mi stava ignorando? Cercava di imporre la sua posizione di protagonista al nuovo arrivato? Perché diavolo non si prendeva la briga di salutarmi?
Perché per salutare me, era rimasto immobile nell’attimo in cui aveva posato gli occhiali da sole...Io non capivo, mi faceva sentire a disagio e la cosa non mi piaceva. Mi fissava senza una parola, e per quei secondi di odioso silenzio avevo il timore che tutto fosse rovinato ancora prima di iniziare. Poi, quel sorriso ha fatto capolino.

Conoscerlo, stringergli la mano la prima volta, sentire il suo odore… o mio dio, il suo odore. Pelle così candida sfiorata da un tenue aroma di vaniglia, portava il soffio della vita tra le mani, e io non ho potuto non sorridergli a mia volta. Aveva occhi gentili che lasciavano sorridere tutto il mondo attorno a lui: quegli occhi gentili non pretendevano nulla, e tagliavano la mia nebbia come un’alba che relega gli incubi nel limbo, lasciando il posto al sole. Il mio sole… Non sapevo come difendermi da occhi così innocenti, ero nudo.

Arrossire. Abbassare lo sguardo. In fretta, non lasciar trasparire il momento di confusione. Cosa diavolo mi stava passando per la testa...
Avrei voluto scomparire, se non fosse che nel peggior frangente, lui mi abbraccia. Quasi rimango senza fiato, mentre mi sussurra “Non mordo, tranquillo”. Sbarro gli occhi. Come. Vorrei solo capire come è arrivato fin lì. Io rispondo con un sorriso che doveva sembrare più una smorfia di dolore, ora che mi torna alla memoria, ma lui noncurante proseguiva appoggiandomi il braccio sulla spalla davanti a tutti e dicendo che non vedeva l’ora di conoscermi meglio; dato il tempo che avremmo passato insieme, fare amicizia era importante. Non potevamo essere due perfetti estranei fuori dal set se sulla pellicola dovevamo essere l’uno il prosieguo dei ricordi dell’altro.
Nonostante il tuffo al cuore che mi fermava il fiato in gola, balbettai un “va bene” quasi come una condanna a morte: tutta la tracotanza iniziale era stata spazzata via da un profumo. E, mentre cercavo di riprendere un contegno, lui mi strappa il cellulare dalla mano e digita veloce un numero, un altro telefono squilla. Era il suo. Si era appena preso il mio numero.

Ma cosa diavolo stava accadendo, e soprattutto perché trovavo piacevole tutta quella invadenza. Perché. Ok Sebastian, torna in te, smettila di far domande, non servono a nulla, non ora, ricorda la prima regola: sempre buon viso a cattivo gioco, sfrutta ogni occasione, e sii forte dei tuoi propositi, quindi va bene Mr.Evans, vuoi un amico? Eccomi. Sarò la tua ombra, e finchè mi vorrai attorno, troverai miele ad aspettarti. Nonostante alla fine non fossi uscito sconfitto da quel primo meeting, la sera mi ritrovai a prender sonno a fatica, un pensiero mi formicolava dietro l’orecchio, e non riuscivo ad individuarlo nonostante gli sforzi: alla fine dovetti ricorrere ad una tisana per riuscire a rilassarmi, e il buio pose fine a quella giornata assurda.
La prima telefonata non si fece attendere, e il giorno dopo, all’ora di pranzo, una voce nota: “Un aperitivo, dai, e due chiacchiere. Alle 7 ti vengo a prendere davanti il tuo appartamento, e sii puntuale, per prendere una birra non ti occorre la make up artist. A dopo occhi belli”.
Come mi aveva appena chiamato…? Addirittura i nomignoli inventa? Va bene. Vediamo quanto è profonda la tana del bianconiglio, pensavo, mentre le mie guance, di testa loro, erano diventate rosse come un tramonto estivo, e una fiammata aveva confuso i sensi. I miei occhi lo avevano colpito, a quanto pare il momento di smarrimento non aveva colto solo me il giorno prima. Sorrisi tra me e me, compiaciuto. Quella sensazione piacevole mi accompagnò tutto il giorno fino a che, armato di tuta, berretto calato sul viso, e portafoglio in tasca, scesi le scale del mio appartamento qualche minuto in anticipo, giusto per fargli sentire chi aveva il controllo della situazione.

Ovviamente lui, dato che era fermo lì ad aspettarmi.
“Ciao Sebastian, come stai? Non vedevo l’ora di rivederti, ieri sono stato un maleducato a tardare in quel modo. Non accadrà mai più.”  E di nuovo quel profumo a confondermi i sensi…
Il tutto ovviamente condito dal sorriso disarmante che il giorno prima mi aveva lasciato quasi a terra, nemmeno un gancio alla mascella. Cominciamo bene dissi tra me e me, non hai fatto in tempo ad incrociarlo che già perdi l’uso della parola: al che tentai di riempire quei secondi di imbarazzante silenzio con un “Tranquillo, avrai avuto i tuoi buoni motivi, e io non sono ancora nessuno per poterti dire nulla per un semplice ritardo”, ammiccai.

Aspetta, cos’ho detto? ANCORA? Ti prego fa che non abbia sentito, o prevedo guai: ma da dove è partito quell’ “ancora” …Sei un ragazzino Sebastian, hai ancora molto sì, da imparare. 
Fortunatamente lui sorvolò la piccola gaffe, aprì lo sportello del passeggero invitandomi ad entrare ed ingranò la marcia. Durante il tragitto, non parlò molto, mi chiese solo se apprezzavo la musica e, da un mio cenno di approvazione, dal lettore mp3 della vettura iniziò a suonare una chitarra che conoscevo bene, molto bene.
Era Jeff Buckley. Poco prima di restare in piedi davanti casa mia ad aspettarmi come una statua greca, impassibile ed eterno, lui stava ascoltando Hallelujah. Il sangue smise di scorrere, lo sguardo cercava di fissare un punto del cruscotto per non lasciar trasparire l’emozione nel sentire quella voce, stavano per scendere le lacrime.

Ed una non riuscii a trattenerla.
Era la mia canzone preferita da quando avevo memoria: nei momenti più bui, nelle giornate più spente, quando l’abisso sembrava circondarmi, l’amore che mi trasmetteva mi permetteva di piangere e lavare via il male. Perché il destino voleva che la ascoltassi proprio lì, maledizione! I nervi scoperti non vanno mostrati in pubblico, le corde tese che nascondono si spezzano facilmente e non voglio più farmi spezzare. Ma quella maledetta lacrima era scesa, e non avevo la più pallida idea del cosa fare. Lo sapeva lui per me. Senza che me ne fossi neppure reso conto aveva accostato, si era girato verso di me, e con le dita l’aveva raccolta ed asciugata. “Suppongo piaccia anche a te, eh? Questa canzone ha il potere di ricordarmi che alla fin fine, non siamo mai soli. Qualcosa nell’universo ci aspetta sempre, basta trovarlo. “E di nuovo quel sorriso incorniciato.
“Hai proprio ragione. Sono un ragazzino, ma quando la ascolto, tutto prende un’altra piega e la parte più sentimentale del sottoscritto si fa vedere. Tu non raccontarlo in giro però, eh! Sono il baldanzoso James Buchanan Barnes, sciupafemmine, combattente di prim’ordine e cattivissimo futuro Soldato d’Inverno, ho una pessima reputazione da difendere”; tentai l’ironia. Di solito funziona. Anche questa volta, fortunatamente: lui irruppe con una risata cristallina, dolcissima…che quasi non trattenne per un minuto e giù io con lui. Aveva le lacrime agli occhi. Perfetto, aveva funzionato. Credo che mi farò un gin-tonic dopo questo exploit, altro che birra.
Arrivammo al locale dopo quasi 20 minuti di guida tranquilla, in cui Jeff accompagnava i miei pensieri tormentati. Il locale era in periferia, nulla di vistoso ed eclatante, un tranquillo pub dove andare a prendere qualcosa con un amico -per fortuna pensai-, almeno nessun tiro mancino dalla star Mr.Evans-Capitan American idol. Il gin-tonic scendeva in gola facendo terra bruciata, scaldando le pareti di uno stomaco massacrato dalla tensione; ma parlare con lui fu molto più facile di quello che avevo pianificato e non ebbi necessità di affogare la mia inettitudine nell’alcool. Parlammo, ridemmo, e ci ascoltammo per ore. Lui sembrava davvero interessato a ciò che avevo da dire, anzi oserei dire che alle volte sembrava pendere dalle mie labbra quasi in adorazione. Impossibile. Non hai mai retto l’alcool Sebastian, e quella volta non differiva dalle altre.
Però, come illusione, non era affatto male. Lui mi sedeva davanti raccontando della passione per la recitazione nata da poco più che ragazzo quando, nonostante intorno gli chiedevano di essere solo una bella figura da esposizione, lui urlava al mondo che aveva così tanto da fare, da offrire, da vivere, che rifiutava con tutto se stesso di rimanere solo un’altra presenza destinata a brillare e scomparire.
E mi vuoi dire che con quest’aspetto, ti sei davvero posto il problema? Davvero ti sei fatto tanto male?


E continuava sull’argomento poi, parlando di quanto ora fosse contento di aver ascoltato i consigli di un buon amico per interpretare Capitan America; gli ultimi erano stati anni davvero difficili, la pressione lo stava logorando e guardare ciò che poteva, ciò che voleva, ma ancora non sentiva, lo feriva intimamente. Alle volte aveva l’orrenda sensazione che un fantasma di lacrime gli rimanesse in gola pronto a soffocarlo, tanto era il male che sentiva ma non riusciva a lenire. Avrebbe preferito non darlo a vedere, ma sembrava che con me parlare gli fosse davvero facile: ridere e scherzare, imprecare pensando a ricordi spiacevoli, rabbuiarsi riportando alla mente quelli dolorosi lo rendevano immensamente umano. Io, davvero, non capivo.
Nel vederlo così sincero, quasi mi sentivo in colpa ad avergli dato della prima donna, il giorno prima. Mi sorrideva come se da tempo non aspettasse altro che l’occasione di essere se stesso, per cui ora non era più necessario lasciare la parte migliore di sé stipata in un ripostiglio: magra consolazione, almeno non ero l’unico a pensarla in questo modo. Forse poteva davvero nascere un’amicizia, vedremo. Le ore intanto volavano; era caldo nel pub e la leggera umidità che trasudava dal mobilio in legno, rendeva il tutto meno sterile, la chiacchierata più confortevole, e la presenza di un essere umano nella mia giornata decisamente meno spiacevole del solito.

Era bello trovarmi lì con lui. Non avrei mai voluto che la serata finisse in fretta, ma l’orario di chiusura del locale si avvicinava e il gestore fu costretto a chiederci di prendere l’uscita. Lui saldò il conto per entrambi, e con la promessa di ricambiare quanto prima, mi avviai alla vettura. Il viaggio di ritorno sembrò durare un battito di ciglia mentre mi lasciavo trasportare dal vento che scorreva forte sulla mano fuori dal finestrino aperto, e volavo alto. Scesi lesto dalla macchina, nonostante l’ora tarda, quando mi volsi verso di lui e feci per stringergli la mano; ringraziarlo della serata appena trascorsa era il minimo. Ma senza avere neppure il tempo di proferire parola, prese la mano e mi trascinò a se. Letteralmente. E mi abbracciò.

Di nuovo quel profumo, maledizione…Vorrei affondare il viso nella tua spalla, chiudere gli occhi e dissolvermi in quel profumo. Mi fai sentire a casa, e non capisco il perché.

Cercai di consolare con qualche pacca sulla spalla quella che sembrava una disperata richiesta d’affetto, assicurandogli che non doveva temere, il suo coprotagonista era meno stronzo di quel che pensava e non vedeva l’ora di conoscerlo meglio. Gli strappai un sorriso nonostante avesse le lacrime agli occhi, cosa che mi faceva quasi sentire a disagio, perché in quel contesto tutto avrei voluto tranne che vederlo triste. In fondo hai o potresti avere tutto ciò che un essere umano può desiderare, la bellezza, l’intelligenza, il talento, e la sensibilità per chiedere agli altri cosa pensano, di curarti della loro opinione; perché invece sembri sempre guardare altrove verso qualcosa che non c’è? Sei strano Mr. Evans. Sei piacevolmente, freneticamente, vorticosamente strano, Mr. Evans. E io sono curioso.

Lo abbracciai di nuovo a mia volta, presi il telefono dalla tasca dove lo vedevo sporgere e feci un selfie, centrando un primo piano degli occhi : ” Quando ti senti perso e non hai modo di raggiungermi per fare due chiacchiere, guardami e respira. Non mordo nemmeno io, tranquillo.” E gli restituii il telefono, col sorriso più leggero e spensierato di cui ero capace.

Aveva l’espressione di un bambino che corre davanti l’albero la mattina di Natale, e lo trova pieno di doni.
Strinse il telefono con entrambe le mani e sussurrò, voltandosi verso la vettura “Non lo dimenticherò…”. E sparì in quelle che erano le prime luci dell’alba. Io non avevo letteralmente la più pallida idea del perché avessi appena fatto ciò che avevo fatto, avevo solo seguito l’istinto stavolta e avevo guadagnato una profonda leggerezza d’animo. Un sacco di mattoni era appena caduto dalla spalla, mi sentivo più leggero, e contento di me; presi sonno non appena toccate le lenzuola.
   
 
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