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Autore: Adeia Di Elferas    10/03/2017    2 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Caterina arrivò allo studiolo del castellano e si fermò un istante dinnanzi alla porta chiusa.

La spaventava l'idea di ciò che l'attendeva oltre quel pezzo di legno. Rivedere Tommaso, con ogni probabilità, avrebbe solo reso tutto quanto più doloroso e reale.

Però era necessario incontrarlo. Doveva chiedergli spiegazione della sua mancanza con la moglie e i figli di Ghetti e voleva anche spiegargli meglio cosa fosse accaduto a Giacomo. Glielo doveva.

Dopo un'espirazione molto profonda, la Contessa abbassò la maniglia ed entrò nella stanza.

Tommaso stava guardando fuori dalla finestra aperta, le mani dietro la schiena, la testa appena inclinata di lato.

Per una frazione di secondo, a Caterina quell'immagine parve tanto familiare da farle passare tutto il dolore in un colpo solo. Era come essere stata catapultata nel mezzo di una giornata qualsiasi del periodo in cui suo cognato era ancora castellano a Ravaldino, in attesa di parlamentare con lei per discutere gli ordini per il giorno successivo.

Quando il Governatore di Imola si voltò, però, il suo volto grigio e segnato ridiede alla Contessa l'assurdo senso di vertigine che l'aveva accompagnata fin dalla morte di suo marito.

Prima che uno dei due riuscisse ad aprire la bocca e dire qualcosa, entrambi si mossero in fretta l'uno verso l'altra e si strinsero con urgenza in un silenzioso abbraccio.

Si aggrapparono l'uno all'altra come due naufraghi in un mare in tempesta, cercando vicendevolmente un conforto che per primi sapevano di non poter offrire.

“Noi eravamo gli unici a volergli un po' di bene...” sussurrò Tommaso, appena prima che Caterina si allontanasse dalle sue braccia.

Seguì un interminabile minuto di mutismo, durante il quale il Governatore fissò la Contessa, incerto se fosse il caso o meno di fare domande su quanto accaduto, mentre ella si sforzava di dar voce ai suoi pensieri senza scoppiare a piangere come le era capitato poco prima in chiesa.

Schiarendosi rumorosamente la voce, alla fine Caterina riuscì a chiedere: “Come mai non avete ucciso subito la moglie di Ghetti e i suoi figli, come vi avevo ordinato?”

Tommaso, irrigidito dalla piega con cui era iniziato il discorso, rispose: “Rosaria Ghetti dice di avere dei nomi. Volevo che voi la interrogaste.”

Caterina sbuffò: “Di nomi ne ho già anche troppi. Se dessi retta a quel maledetto prete e alla mia cameriera dovrei far uccidere mezza Forlì.”

Il Governatore strinse il morso e i pugni lungo i fianchi e commentò: “E perché mai non dovreste farlo? Qualcuno ve lo può impedire?”

La Contessa sollevò un sopracciglio: “No, non me lo impedirebbe nessuno.”

“Com'è successo?” chiese Tommaso, non riuscendo più a trattenersi.

Caterina comprese bene cosa volesse sapere il cognato, perciò tentò di raccontare quelle ore di delirio nel modo più coerente possibile, ma si dovette fermare più di una volta per mantenere la calma apparente di cui si era ammantata per riuscire a parlare.

Il Governatore ascoltò tutto in silenzio e poi chiese ragione anche delle confessioni di cui la sua signora aveva parlato poco prima.

La donna riprese per sommi capi quello che era riuscita a estorcere a Don Domenico e glissò abbastanza sul suo scambio di battute con la moglie di Bernardino Ghetti, dicendo semplicemente che la serva aveva riconfermato tutti i sospetti che già si avevano.

Nella sua dissertazione, Caterina non si rese conto di quanto gli occhi iniettati di sangue di suo cognato si fossero spalancati nel sentire il nome di Ottaviano quale mandante principale e apparentemente certo dell'omicidio.

Ancora troppo scosso per reagire, Tommaso restò in silenzio fino a che la Contessa non ebbe finito di parlare e solo allora stava per schiudere le labbra, senonché appena fuori dallo studiolo si era acceso un fervente dibattito.

“E invece io vi dico che deve saperlo!” aveva appena gridato la voce di Mongardini.

“E io dico di no!” si era opposto Cesare Feo.

“Tutti i colpevoli vanno puniti! Vi dico che dobbiamo dirlo subito alla Contessa!” ribatté con ferocia il Capitano.

Accigliandosi, Caterina andò alla porta e la spalancò, trovandosi di fronte Mongardini e il castellano che si guardavano in cagnesco, entrambi con una mano sull'elsa delle rispettive spade, come se fossero pronti a sfidarsi a duello da un momento all'altro.

“Che accidenti avete voi due?!” sbottò la donna, convogliando l'attenzione dei due litiganti su di sé.

“Abbiamo trovato vostro figlio Ottaviano, sappiamo dove si nasconde!” dichiarò il Capitano, prima che Cesare Feo potesse zittirlo.

Caterina ebbe un lieve fremito che le attraversò le mani senza più lasciarle. L'effetto delle droghe che la tenevano insieme stava svanendo per davvero, quella volta, e trovarsi di fronte a una simile prospettiva l'atterriva e la rendeva desiderosa di vendetta allo stesso tempo.

“Lo portiamo alla rocca?” chiese Mongardini, i piccoli denti bianchi che luccicavano sinistri sotto la luce della torcia del corridoio, rimasta accesa dalla notte precedente.

“Sì!” ululò Tommaso, facendosi largo di malagrazia fino al Capitano, spostando di peso Caterina che stava in mezzo alla porta.

“No!” lo contraddisse la Contessa, rimettendo il cognato al suo posto con uno spintone: “È mio figlio!” aggiunse, quando si accorse che il Governatore di Imola aveva già estratto la spada dalla fodera, come se fosse intenzionato a correre subito da Ottaviano per tagliargli la gola da parte a parte.

“Ha ucciso mio fratello!” ruggì Tommaso, parandosi di nuovo davanti alla sua signora, svettando su di lei con evidente intenzione di intimidirla.

Ben lungi dal farsi impensierire dalle spalle larghe del cognato, Caterina sollevò l'indice e glielo puntò sotto al naso: “Attento a voi, Tommaso! Siete un mio suddito, non dimenticatelo mai. Una parola di troppo o un gesto inconsulto e vi butto in cella assieme a tutti gli altri!”

Sotto lo sguardo attonito del castellano e a quello confuso di Mongardini, che si sarebbe aspettato tutta un'altra reazione da parte della Contessa, Tommaso sollevò il mento e sentenziò: “Oh! Eccola qui, la Tigre di cui tutti parlano! Finalmente la vedo anche io.”

“Ritiratevi nelle vostre stanze.” gli ordinò Caterina, ferita dalle sue parole, ma riuscendo a mantenere il suo sguardo: “È un ordine. Siete in consegna fino a domani, quando ci sarà il funerale.”

Fu solo un'impressione, forse, ma alla Contessa parve che, mentre rimetteva la spada al suo posto e chinava un po' il capo prima di ritirarsi come da ordine ricevuto, Tommaso avesse avuto un attimo di profondo smarrimento, tanto che i suoi occhi si erano velati di lacrime.

Se avesse poi pianto o no, però, Caterina non lo scoprì, perché l'uomo si allontanò troppo in fretta per poterlo appurare.

“Fategli preparare una stanza.” disse la Contessa al castellano: “E assicuratevi che non la lasci fino a domani. Se disubbidirà ai miei ordini, la punizione sarà severa, fateglielo presente.”

Cesare Feo annuì, perplesso, mentre Mongardini attendeva ancora una risposta chiara della sua signora.

Caterina sospirò e gli disse: “Non voglio sapere dov'è mio figlio. Per me, Ottaviano è morto il giorno in cui ha deciso di uccidere mio marito.”

“Quindi non volete punirlo?” chiese il Capitano, sconcertato.

“Lo farò a tempo debito. Non ora.” rispose secca la Contessa, cominciando ad allontanarsi.

“Dove vi posso trovare, se avessi bisogno?” chiese il castellano, inseguendola per un paio di metri.

“Sarò con mia madre. Non disturbatemi, a meno che non sia davvero necessario.” fece la donna, accelerando per non farsi seguire più.

Mentre attraversava rapida la rocca, Caterina si chiese perché con Tommaso avesse agito a quel modo. Avrebbe voluto trovare compassione, in lui, affetto. Avrebbe voluto poter piangere Giacomo assieme a lui, sentire il suo appoggio, la sua vicinanza.

E invece si erano scontrati, tanto in fretta e tanto aspramente da sembrare due nemici giurati.

Arrivata alla stanza dei figli, la Contessa si prese un momento per asciugarsi la guancia, su cui era scivolata una lacrima di rabbia e frustrazione, e poi, invece di aprire – temeva troppo di doversi specchiare nelle pupille interrogative dei suoi figli più piccoli, soprattutto in quelle ignare e innocenti di Bernardino – bussò e disse: “Ti aspetto nella mia stanza.” e sperò che sua madre capisse.

 

Andrea Bernardi si fece il segno della croce e abbassò lo sguardo in segno di rispetto, mentre il feretro gli passava davanti, trasportato a spalla da sei Battuti Neri.

Il corteo si stava dirigendo alla chiesa di San Girolamo, dove stava la cappella privata dei Feo. Il funerale sarebbe stato il giorno dopo, ma, a quel che pareva, la veglia, quella notte, non sarebbe più stata alla chiesa di San Bernardino.

In molti, tra quelli che camminavano dietro al corteo, piangevano, ma probabilmente non per sincero cordoglio, ma per paura. Paura di essere uccisi, di essere fraintesi, incolpati, accusati senza giusta causa.

Di certo, pensò Bernardi, nessuno era affranto per il povero Giacomo Feo, che se ne stava muto e cieco in una cassa di legno scelta e preparata dai Battuti Neri, i confratelli che davano sepoltura ai ladri, agli assassini e agli stranieri a cui nessuno voleva riconoscere un minimo di dignità almeno nella morte.

Il Novacula seguì il feretro fino a destinazione con aria cupa, e poi si mise a camminare per la piazza, passando sotto al palazzo dei Riario.

Nessuna guardia aveva osato fermarlo o interrogarlo. Avevano setacciato il suo negozio e le sue carte, ma alla fine si erano convinti che fosse del tutto estraneo alla faccenda e lo avevano lasciato in pace.

L'unica cosa che impensieriva ancora il barbiere, in merito alla propria incolumità, era il fatto che mezza Forlì sembrava pronta a denunciare l'altra metà, tacciandola di essere traditrice solo per porre rimedio a torti personali accumulatisi nel tempo.

Così come le liste di proscrizione avevano reso, in epoca sillana, Roma schiava delle vendette private, così ora l'editto della Contessa rischiava di fare altrettanto con Forlì.

I corpi di Don Domenico e di Gian Antonio Ghetti oscillavano sinistri sotto al porticato del palazzo, appesi a un ferro che spuntava dalla muratura. Il prete era un ammasso di carne bruciacchiata e strappata, mentre la testa dell'altro stava insieme per puro miracolo grazie a delle bende che le erano state strette attorno per permetterne l'impiccagione.

Il Novacula rabbrividì nel vedere due ragazzini passare accanto ai corpi, a passo veloce, seguendo la loro madre. Gli occhi dei giovanissimi forlivesi si erano posati sui cadaveri, ma dai loro volti non era trasparito nulla. Né orrore, né inquietudine, né rabbia. Erano come svuotati. Era come se quella vista fosse ormai la prassi. Nulla per cui stupirsi o risentirsi. Nulla di strano, né di sbagliato. Solo una scena come tante altre.

Era quello, il risultato della guerra e delle punizioni esemplari che la Contessa aveva sempre dato a coloro che le si erano in qualche modo opposti nel corso del suo governo?

Quando si decise a tornare a casa, Bernardi intravide degli uomini dei Riario portare dei materiali proprio nel centro della piazza, così, incuriosito, restò a guardare per qualche momento.

Il clima era spettrale, con poca gente in giro, e quei rari forlivesi che osavano vagare per le strade o erano di fretta o piangevano per qualche congiunto ucciso o incarcerato, o anche solo per la paura di essere i prossimi.

Nemmeno durante la guerra, la città era stata tanto funerea e preda del terrore.

Il Novacula sospirò, e intanto gli operai della Contessa iniziavano ad allestire un cataletto, coprendolo con un panno d'oro. Era chiaro quale fosse l'intento di chi aveva deciso per quell'opera provvisoria.

Si trattava di un monumento funebre che, per quanto temporaneo, avrebbe dovuto sembrare degno di un re.

Scuotendo piano il capo, sentendosi molto vecchio e stanco, Bernardi perse ogni interesse in quella novità e, voltando platealmente le spalle agli uomini della Tigre, si avviò mesto alla sua barberia, dove avrebbe aggiornato le sue cronache, in attesa delle esequie.

 

Caterina non era riuscita a trovare requie, da quando si era messa in attesa nella sua stanza. L'oppio e il vino l'avevano lasciata una volta per tutte e già le sembrava di impazzire.

Se non fosse stato per la speranza di trovare conforto almeno in sua madre, la Contessa sarebbe corsa immediatamente alla sua spelonca da strega in cerca di un nuovo sollievo illusorio e non risolutivo, ma pur sempre tangibile.

Accolse così con un sospiro pesante il rumore della porta che si apriva per lasciare entrare sua madre Lucrezia.

Come da attese, la donna corse subito dalla figlia e la strinse a sé, accarezzandole lentamente la testa. Per quanto, però, il tentativo di rincuorarla fosse palese, Caterina avvertì una nota di freddezza nei gesti di sua madre e così, spinta com'era dalla tensione e dalla fatica a vedere in ogni cosa un pericolo, si discostò subito da lei.

Come un animale ferito quasi a morte che non riesce a fidarsi nemmeno dei membri del suo stesso branco, la Contessa fece mezzo passo indietro e scrutò la madre in modo penetrante, cercando di vedere oltre la sua espressione di affranto cordoglio.

“Che cosa orribile che è successa... Anche i tuoi figli sono sconvolti... Il povero Bernardino è disperato...” prese a dire Lucrezia, spiazzata dalla donna che si trovava davanti, così dissimile dalla figlia che ricordava.

Caterina era sulla difensiva, le spalle un po' curve, il volto appena girato di lato, e sul suo viso si leggevano senza problemi le ore insonni trascorse nelle ricerca di una pronta e ferina vendetta.

“Hai mangiato qualcosa?” chiese Lucrezia, non trovando di meglio da dire.

La Contessa fece segno di no, rendendosi conto solo in quel mentre che era dal giorno prima che non metteva nulla sotto i denti. Forse il dolore allo stomaco era dovuto anche a quello.

“Non hai altro da dire?” chiese Caterina, la voce ridotta a un sussurro strozzato.

Desiderava più di ogni altra cosa che qualcuno la capisse e l'appoggiasse in modo incondizionato e aveva sperato che sua madre potesse essere la persona giusta, eppure aveva compreso fin dal primo istante che perfino Lucrezia aveva paura di lei.

“Caterina...” cominciò la donna, stringendosi le spalle nello scialle scuro di lana che la copriva quasi per intero: “È vero quello che mi hanno detto? Che stai facendo uccidere anche dei bambini molto piccoli?”

“Le colpe dei padri ricadono sui figli, lo dice anche Santa Madre Chiesa, non dovresti stupirti così tanto.” ribatté la Contessa, quasi ruggendo come una leonessa in difesa il proprio territorio.

“È una cosa orribile.” dichiarò Lucrezia, scuotendo il capo e guardando altrove.

“Sono figlia di mio padre.” le ricordò Caterina, che ben conosceva gli eccessi in cui il defunto Duca Galeazzo Maria Sforza aveva saputo scivolare nel corso della sua breve vita.

Lucrezia sporse in fuori le labbra, mentre gli occhi color del ghiaccio passavano in rassegna la stanza, quasi alla ricerca di un appiglio: “Nemmeno tuo padre sarebbe stato capace di azioni tanto crudeli.”

La Contessa sbuffò, trovandosi in disaccordo con quella superficiale valutazione. Possibile che sua madre difendesse ancora così suo padre, malgrado tutto?

“Me l'hanno ucciso – disse, lasciando perdere il discorso sul dipartito Duca – a pochi metri da me, me l'hanno ucciso. In un modo orribile. Tu non puoi capire cosa signif...”

“Ah, davvero?” il tono improvvisamente autoritario di Lucrezia zittì Caterina, e così la madre poté proseguire senza interruzioni: “Davvero credi che io non sappia che significhi veder trucidare l'uomo che si ama davanti ai propri occhi? Forse non avrò visto personalmente la lama che ha tagliato il collo di tuo padre, ma so benissimo cosa stai provando in questo momento, credimi!”

La Contessa, ostinata, deglutì e si appoggiò all'intelaiatura del letto: “Non è la stessa cosa. Mio padre è stato ucciso per motivi politici. Mio marito è stato ucciso solo perché io lo amavo.”

Seguì un silenzio lunghissimo durante il quale le due donne si chiusero nei propri pensieri escludendo l'altra in modo categorico. Solo a un certo punto Lucrezia si rese conto che quella era l'occasione per placare Caterina. Se non vi fosse riuscita, sfruttando la sua momentanea debolezza, probabilmente nessuno sarebbe più stato in grado di placarne la furia.

“Ti prego, non uccidere più. Hai già dato prova della tua forza. Hai punito molti dei colpevoli. Ma adesso non uccidere più.” disse Lucrezia, afferrando con decisione la figlia per le spalle.

“E perché?” chiese Caterina, alla sincera ricerca di una motivazione valida, di un balsamo di saggezza che lenisse una volta per tutte le ferite che portava dentro di sé.

“Per la tua anima.” rispose Lucrezia: “Tu sei sempre la mia bambina, ricordatelo.”

“La tua bambina è morta a nove anni.” controbatté con astio la Contessa, liberandosi all'istante dalla presa della madre.

Lucrezia spalancò le labbra, in cerca di qualcosa da dire per difendersi, ma Caterina fu più rapida e cominciò a dire, a voce molto alta, con il fervore di un predicatore, come pazza: “Che senso ha, per me, non uccidere più? Eh, sai dirmelo? E poi, non lo vedi? Gli assassini sono ovunque! Mio padre era un assassino! Mio nonno era un assassino! Mio zio, mia sorella, mio figlio, io stessa..! Persino tu!”

“Ma che stai dicendo?” chiese Lucrezia, tentando a più riprese e senza fortuna di afferrare le mani della figlia con le sue: “Io non ho mai ucciso nessuno...”

“Tu hai ucciso me il giorno in cui hai permesso a mio padre di vendermi a quel mostro di Girolamo Riario!” sbraitò Caterina, avventandosi contro la madre che si scansò per puro caso appena prima di essere agguantata.

“Io non ne sapevo nulla!” si schermì Lucrezia, andando a riparare dietro al letto, sperando che mettere un po' di spazio e mobilia tra lei e la figlia bastasse a sfuggire a un suo eventuale secondo scatto di rabbia violenta.

“Sei mia madre!” la riproverò Caterina, restando al suo posto, ma fremendo dalla voglia di saltar via il letto e alzare le mani: “Era tuo preciso dovere proteggermi e non l'hai fatto!”

“Se avessi saputo...” tentò Lucrezia, sbiancata per il timore che il comportamento della figlia le aveva messo addosso.

“Ah!” l'esclamazione salì alla gola della Contessa come una pugnalata: “Non provare a dire che se avessi saputo o che se potessi tornare indietro faresti qualcosa per difendermi, perché sappiamo entrambe che alla fine avresti comunque lasciato fare a mio padre quel che voleva! Non sai quanto ho invidiato la figlia di Gabriella Gonzaga... Sua madre ha lottato per lei, e ha vinto. Io di madri credevo di averne due, eppure nessuna di loro ha alzato anche solo un dito per me!”

“Non dire altro. La tua natura violenta ti fa straparlare.” la redarguì Lucrezia, nella speranza di riprendere le redini del discorso.

“Io non ero di indole violenta.” ribatté la Contessa, mentre il tono della sua voce si abbassava sensibilmente: “Mi ci avete fatta diventare così.”

La madre restò in silenzio e per Caterina quella fu una mezza ammissione di colpa e tanto le sarebbe bastato per calmarsi quel poco che bastava per recuperare un minimo di controllo.

Tuttavia Lucrezia aggiunse: “I tuoi fratelli non sono come te. Dunque è la tua natura a farti agire a questo modo, non è colpa mia o di tuo padre se sei così.”

“Sei sicura che gli altri tuoi figli siano di così specchiata umanità?” la interrogò Caterina, sentendo le braci dell'ira riaccendersi: “Di Carlo non dico nulla perché è morto, poveraccio, ma vogliamo parlare degli altri? Alessandro, che tu hai sempre difeso a spada tratta dicendo che è pacato e sensibile, è solo un vigliacco che si è messo al soldo di Napoli e dopo aver detto a mio zio Ludovico di essergli fedele, ha dimenticato persino com'è fatta, Milano! E Chiara...” la Contessa non trattenne un ghigno beffardo nel rivelare: “Per la morte del suo adorato Pietro ti sei data tanta pena, senza nemmeno accorgerti che era stata lei stessa ad ammazzarlo con il veleno, come l'ultima delle codarde!”

“Tu stai mentendo.” fece Lucrezia, gli occhi lucidi e le labbra tremule.

“No, non sto mentendo. Ti direi di chiederlo direttamente a lei, ma mi risulta che non si faccia sentire più nemmeno da te da anni.” sibilò Caterina, col preciso intento di gettare sale sulla ferita aperta.

Tirando su col naso, Lucrezia lasciò il suo mezzo rifugio e, aggirato il letto, andò alla porta. Si strinse le mani ad altezza della vita e guardò la figlia con qualcosa negli occhi che assomigliava alla più cocente delusione.

“Tu non hai più un cuore.” le disse, allungando le dita ossute verso la maniglia.

“Quanto vorrei che fosse vero.” ribatté Caterina.

Lucrezia strinse le labbra e lasciò la stanza della figlia senza aggiungere altro.

La Contessa restò sola e, dopo un momento di profondo smarrimento durante il quale si rese conto di quello che era appena stato detto e fatto, si diresse di nuovo al suo laboratorio da alchimista.

Forse avrebbe fatto meglio a mangiare qualcosa, ma una lunga notte l'attendeva. Doveva interrogare alcuni prigionieri e doveva prepararsi al funerale del giorno dopo. Non aveva tempo né per mangiare, né per dormire, tanto meno per pensare alla sua anima fatta a pezzi.

Quando fu alla sua spelonca, ingerì una dose più che generosa della sua pozione e attese che facesse un po' effetto.

Rinfrancata e di nuovo avulsa dalla realtà, si riconsegnò al vortice di violenza con cui sperava di poter ottenere la consolazione almeno di una piena vendetta.

 
   
 
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