Nel
soggiorno del 221B di Baker Street era calato il silenzio. Emily era
impietrita, sconvolta dalla rivelazione che John le aveva fatto così, a
bruciapelo. Si era lambiccata il cervello per tre ore, aveva sopportato uno
Sherlock annoiato alle prese con una pallina da tennis e una pistola - una
pistola! - e poi, proprio quando si sentiva vicina a ottenere un primo e
meritato successo in un campo che l'affascinava sempre di più, il migliore
amico del suo coinquilino rovinava tutto.
John,
dal canto suo, non era in grado di capire cosa avesse bloccato così la ragazza,
né tantomeno perché Sherlock lo stava guardando a quel modo. Aveva detto
qualcosa di sbagliato, quella era la sua unica certezza.
«Ben
fatto, John» si complimentò sarcastico Sherlock.
«Cos...
Ho detto qualcosa che non dovevo dire, vero?»
Gli
sguardi di entrambi gli uomini si posarono su Emily e lì rimasero, in attesa di
una sua reazione. Lei si riprese dopo diversi, lunghi, secondi di silenzio.
«La
domestica» esclamò. «Ovvio! Ecco com'è stato possibile che la lettera venisse
recapitata. È talmente banale che è paradossale che Scotland Yard non ci sia
arrivata» disse, tutto d'un fiato.
«Ah,
allora convieni con me che Scotland Yard si trova in difficoltà su cose da
nulla» cercò improvvisamente manforte Sherlock.
John
continuava a guardarli senza capire bene cosa fosse accaduto. Dopo il suo lungo
silenzio Emily si era ridestata e pareva essere più energica e coinvolta che
mai. Oltretutto lo stava completamente ignorando, cosa che gli risultò
improvvisamente strana, sebbene gli diede modo di convincersi del fatto che,
forse, non aveva fatto uno sbaglio tanto grande.
«Posso…
posso sapere cosa succede?» domandò infine, avvicinandosi ai due inquilini del
221B.
«Stavo
lavorando a quel caso» rispose Emily, alzando serenamente lo sguardo sul
medico. «Quello del Vice Primo Ministro» aggiunse poi.
«Come,
scusa? Perché ci stai lavorando tu? Vuoi dire che in realtà non è stato
risolto?»
«No,
no, niente del genere. È stato risolto, è stato Sherlock.»
Il
detective si esibì in un’espressione piuttosto esaustiva, come a ricordare a
John che molto spesso c’era lui dietro a certi articoli di giornale.
«Io
stavo semplicemente cercando di risolverlo da sola, giusto per la soddisfazione
di poter dire di essere riuscita a risolvere un caso» proseguì la ragazza,
sempre in direzione del medico. «Solo che, adesso, serve a poco.»
John
si sentì a disagio a quelle parole. Era vero che non aveva smascherato il
colpevole di proposito, così come non poteva sapere che Emily stesse lavorando
a quel caso – anche se solo per il piacere di farlo – eppure non poté fare a
meno di sentirsi in colpa, come se avesse sottratto la ragazza a qualcosa che
la faceva stare bene.
Tuttavia,
come spesso capitava, Emily era tranquilla, senza la minima traccia di
irritazione in volto per quello che era appena accaduto. Era ancora seduta alla
scrivania, le carte sparpagliate sul piano, i capelli rossi spettinati,
malamente raccolti sopra la testa. Alle sue spalle Sherlock era in piedi, una
specie di elegante protettore dietro di lei.
«Mi
dispiace molto» si scusò infine John, realmente dispiaciuto.
La
ragazza, di tutta risposta, gli regalò uno dei suoi sorrisi più dolci. «Ti
perdono. Ma solo perché non potevi saperlo.» Gli puntò contro la matita e
assunse un’espressione fintamente minacciosa. «La prossima volta, però,
gliel’ha farò pagare cara dottor Watson.»
John
le sorrise. Quella ragazza gli piaceva davvero molto, più la conosceva, più si
convinceva di ciò.
Emily
riprese a guardare i suoi appunti, rivolgendosi a Sherlock: «Come posso avere
conferma del fatto che la colpevole sia stata la domestica? A parte per il
fatto che ha aggiunto la lettera alla posta ordinaria ricevuta dal Vice Primo
Ministro e questo spiega come sia riuscita a evitare la sorveglianza con tanta
semplicità.»
Il
detective cercò alcune informazioni sul plico di carte puntate fra loro e,
trovato ciò che cercava, lo indicò alla giovane. Anche John si mise in ascolto,
interessato.
«Questo»
disse il detective. «Ammonium oleate. Lo hai cercato su internet?»
Emily
frugò fra i suoi appunti, trovando ciò che cercava. «Vagamente» rispose,
incerta.
«Beh,
è uno degli elementi che sta alla base della stragrande maggioranza di prodotti
per lucidare l’argenteria. È risaputo che il Vice Primo Ministro ha la bizzarra
fissazione per i fermacarte in argento, ne ha una collezione intera.»
Indicò
con l’indice sulla lettera, seguendo una scia invisibile. «Tracce di quella
sostanza sono state trovate qui, lievi. Si riescono a intravedere a luce
radente.»
«Un
fermacarte pulito male» mormorò la ragazza sovrappensiero. «Deve aver lasciato
tracce di quella sostanza sul primo foglio di un gruppo di carte, forse una
risma, e quando la domestica lo ha preso non se n’è accorta e ha comunque usato
quel foglio.»
«Molto
bene» si complimentò Sherlock, davanti a un colpito John.
«E
ora questo» proseguì, indicando un’altra cosa sul plico delle analisi.
«Amido
di mais» lesse Emily. «Nella colla?» tentò.
«No.
Il collante è di natura sintetica. L’amido di mais è stato trovato sparso solo
in alcuni punti, quindi proveniva da un’altra fonte.»
La
ragazza ci pensò, a lungo. Tuttavia non le venne in mente nulla di attendibile.
«Non
saprei» si arrese infine.
«L’amido
di mais è usato come polvere lubrificante nei guanti in lattice» le rivelò
Sherlock. «Ne sono stati trovati pochi residui, in corrispondenza di alcuni
punti di colla al di sotto dei ritagli di giornale. Considerando, però, che la
colla è industriale non può essere amido presente nel legante, perciò viene da
qualcos'altro, i guanti ad esempio.»
«Guanti che deve aver usato per evitare di lasciare
impronte sul foglio» concluse la ragazza.
«Esatto.
Peccato per lei che invece delle impronte abbia lasciato molti altri elementi
per permettere di essere individuata. Alcune lettere, ad esempio, sono tratte
da giornali costosi come dimostra la qualità della carta e della stampa, il che
vale a dire che deve aver preso qualche pagina utile alla sua lettera
direttamente dai giornali di cui il Vice Primo Ministro aveva deciso di
sbarazzarsi.»
«Sorprendente,
Sherlock» si complimentò Emily.
«Hai
capito anche tu le cose più importanti. Se John non avesse sbandierato tutto ci
saresti riuscita da sola. Te lo avevo detto che non era difficile» tagliò corto
l'uomo, dirigendosi verso la cucina.
La
ragazza lo guardò incuriosita, non capendo se aveva appena ricevuto – nuovamente
nel giro di poche ore – un complimento da parte del detective. Decise da sola
di sì, che le parole pronunciate da Sherlock in quell'ordine e con quel tono
disinvolto, quasi annoiato, valevano come complimento.
Raccolse
le carte che aveva sparpagliato in giro, ammonticchiandole in una piccola pila
e lasciandole in vista affinché si ricordasse di conservarle. Infine si rivolse
a John, che la stava guardando con un confortante sorriso paterno; gli sorrise
di rimando, afferrando la calibro 22. «A proposito, John, temo tu abbia
dimenticato questa, non so quando. Io e Sherlock abbiamo già avuto modo di
appurare che funziona perfettamente, sebbene ora sia scarica.»
Lo
disse tranquillamente, leggermente divertita a ripensare alla scena di poco
prima, quando lei e Sherlock si erano contesi una pistola carica come due
bambini si contendono una macchinina.
John
afferrò la semiautomatica e la sfiorò delicatamente, guardando Emily con lo
sguardo preoccupato di chi aveva capito tutto.
«Dimmi
che non è successo niente» supplicò, nonostante fosse consapevole del fatto che
fosse avvenuto il contrario.
Sherlock
si affacciò dalla cucina, un paio di biscotti in una mano e uno rosicchiato
nell'altra. I due amici si guardarono e il detective sollevò un indice per
indicare un punto sulla parete accanto alla finestra. «Abbiamo inaugurato un
altro muro» sintetizzò.
John
rimase spiazzato da quella nuova rivelazione. Osservò il punto incriminato,
dopodiché si concentrò su Emily. Gli parve sorprendentemente tranquilla, come
se fosse abituata a spari, pistole e pareti. Continuò a guardarla senza che
nessuno dei due dicesse nulla mentre Sherlock, in cucina, cominciava a lavorare
con la sua attrezzatura scientifica. John si sentì confuso alle prese con tutto
quell'insieme di elementi acquisiti dal suo ultimo arrivo nella casa. Sempre
osservando Emily, che ancora rispondeva rilassata al suo sguardo, si pose una
sola domanda: era il 221B di Baker Street a rendere inconsuete le persone o
tutti loro si erano ritrovati in quel soggiorno proprio per il loro essere inconsueti?
*
Finire
l'ultima lezione settimanale prima dello stop per le vacanze natalizie era
sempre piaciuto particolarmente a Emily, ma non questa volta. Di solito,
infatti, significava abbandonare le lezioni per concedersi un po' di sano ozio
nella propria casa di Newport, senza bisogno di raggiungere ogni mattina la
capitale Cardiff. Ora, invece, per la prima – e ultima, dato che si parlava del
master – volta la sospensione delle lezioni stava lasciando dentro la ragazza
un senso dolceamaro, legato non tanto al fatto di dover interrompere gli studi
nel settore – dopotutto quando si scrive una tesi non si può mai parlare di
interruzione – quanto più che altro all'idea di lasciare Londra, Baker Street, Sherlock
Holmes e John Watson, sebbene per pochi giorni.
Il
mattino seguente, infatti, sarebbe partita per tornare a Newport e trascorrere
le vacanze natalizie insieme alla propria famiglia, lasciando Sherlock nella
sua casa.
Aveva
passato buona parte di quell’ultima mattina di lezione pensando a come
trascorrere il tempo una volta rientrata a casa, stabilendo che avrebbe
comunque proseguito con il proprio lavoro, magari cominciando a dare un senso
compiuto a quell’ammasso di appunti di ogni genere preso nei primi tre mesi di
convivenza con Sherlock.
Si
avviò verso la caffetteria per concedersi anche un ultimo caffè prima delle
vacanza – trovava incredibilmente buono quello del bar del campus – continuando
a rimuginare sul da farsi.
Si
trattava solo di due settimane, lo sapeva perfettamente, eppure non riusciva a
fare a meno di dispiacersi della cosa. Adorava il 221B di Baker Street, adorava
il suo caos, il disordine; adorava le persone che vi entravano e seguire
Sherlock in giro per la città alla ricerca di qualcosa invisibile a tutti
tranne a lui. Sapeva che tutto ciò le sarebbe mancato, ma si ricordò anche che
si trattava pur sempre di poco tempo e che, tutto sommato, la sua famiglia le
mancava.
Superò
l’ingresso del caffè sempre pensando a tutto ciò, cercando di riordinare
l’accozzaglia di sentimenti che le si accavallavano dentro. Arrivata al bancone
si fermò, si sistemò un momento i capelli e prima che potesse guardare negli
occhi uno del personale per poter ordinare, qualcuno la raggiunse.
Istintivamente si voltò, trovandosi davanti il ragazzo che aveva incontrato in
quella stessa caffetteria tempo prima, quando lei si era convinta che lui
volesse fare conversazione mentre, invece, voleva semplicemente sedersi al suo
posto. Da quel loro primo incontro Emily lo aveva intravisto con frequenza
sempre maggiore nel locale e sempre da solo. Prendeva posto dopo che lei
arrivava e non lo vedeva mai andare via prima. Le capitava di tanto in tanto di
soffermarsi a guardarlo, al punto che era riuscita a registrare quasi
perfettamente i suoi lineamenti sfuggenti, e la sfumatura di bruno dei suoi
occhi, trovandolo ogni giorno sempre più carino.
Rimase
spiazzata quando lui, in quel preciso momento, le sorrise, tendendole uno dei
bicchieri di carta in cui venivano abitualmente servite le bevande in quel
posto. Leggermente titubante – più per la sorpresa che per la diffidenza – la
ragazza afferrò il bicchiere, sentendo il calore propagarsi fino alle sua mani.
Dopodiché sollevò lo sguardo sul ragazzo e rispose al suo sorriso.
*
L’avvicinarsi
del natale era da sempre un motivo di stress aggiuntivo per Sherlock. Era
riuscito a declinare l’invito a trascorrere le festività con i propri genitori,
tuttavia gli era stato impossibile impedire a Mrs. Hudson di mettere in
ghingheri perfino il suo appartamento con ghirlande, lucine varie e fiocchi di
neve.
Rannicchiato
sulla sua poltrona, il detective teneva gli occhi fissi sulla porta di casa, in
attesa del rientro di Emily. La ragazza era in ritardo rispetto al solito e lui
si ritrovò a sperare che rientrasse in fretta giusto per avere qualcuno da
analizzare, movimentando un po’ il proprio cervello. Erano giorni che non gli
passava fra le mani un caso eccitante e la cosa cominciava a renderlo
irascibile. Il caso Horvat era stato accantonato poiché non era accaduto
nient’altro di riconducibile a esso e sebbene Lestrade gli avesse sottoposto un
paio di volte qualcosa di succulento, appena trovato l’elemento discordante
Sherlock aveva sempre risolto la questione con eccessiva semplicità. Perché
doveva essere così difficile, ogni volta, riuscire a trovare qualcosa che non
fosse scontato, prevedibile e banale? Cos’era successo ai criminali realmente
interessanti?
Si
mise a sedere sulla poltrona con un gesto fluido, tirando a sé la vestaglia e
fasciandosi meglio il corpo, gli occhi sempre puntati verso l’ingresso. D'improvviso
sentì la porta aprirsi. Vide nitidamente nella mente Emily varcare la soglia, avvicinarsi
alla porta di Mrs. Hudson e salutare la padrona di casa: «Salve Mrs. Hudson» e
avviarsi, infine, lungo le scale. Sherlock controllò l'ora, scorse mentalmente
gli orari della metropolitana e formulò già una prima idea. Non appena Emily
arrivò nel soggiorno salutò l'uomo, sorridendo e si sfilò il cappotto. Lui
rispose monosillabico a quel saluto, continuando a scandagliare attentamente la
sua coinquilina in cerca di elementi in grado di conformare i suoi sospetti.
Prima ancora che lei potesse raggiungere le scale per salire in camera sua ne
trovò diversi, ma non fu abbastanza rapido per individuare la prova definitiva.
Emily, infatti, con la naturalezza di chi sa come muoversi, salì lungo le scale
diretta alla sua stanza, sparendo alla vista di Sherlock.
Nel
tempo che impiegò per tornare nel soggiorno l’uomo ebbe modo di far lavorare
ulteriormente il proprio cervello, giungendo a una conclusione. Non poteva
certo dire che fosse stata un'indagine avvincente, ma era arrivato a un tale
livello di noia che qualsiasi cosa gli sarebbe andata bene, pur
di tenere in moto la mente.
Appena
Emily scese le scale e rientrò nel soggiorno Sherlock la raggiunse e le afferrò
il polso destro, sollevandole la mano. Analizzò rapidamente le sue dita, infine
guardò la ragazza con l'espressione di chi aveva già capito tutto.
«Come
si chiama?» le chiese.
Lei
guardò la propria mano, sollevando le sopracciglia. Era piuttosto certa di aver
capito dove l'uomo volesse arrivare, ma dato che non ne era così convinta
preferì evitare di esporre spontaneamente tutto quanto.
«Mano?»
disse con tono incerto e poco convito, in risposta alla domanda di poco prima.
Sherlock
alzò gli occhi al cielo, nella perfetta imitazione di un se stesso esasperato
dalla stupidità umana – espressione che divertiva sempre molto Emily.
«Lui come si chiama. Non fare la finta
tonta, per favore.»
Le
lasciò andare il polso, erigendosi poi in tutta la sua statura, le braccia
dietro alla schiena.
«Da
cosa lo avresti capito?» chiese Emily, realmente incuriosita. Sherlock aveva
indovinato – cosa scontata, dopotutto – tuttavia, come ogni altra volta, il come interessava terribilmente alla
ragazza.
«Ti
sei mai resa conto di avere un leggero tic nervoso quando ti senti in
imbarazzo?» le chiese.
Con
grande sorpresa della ragazza, la risposta era no.
«Tendi
a tormentare con le unghie quello che hai fra le mani, indipendentemente da ciò
che sia. Sotto le unghie della tua mano destra ci sono minuscoli residui di
carta, il che mi lascia intendere che te la sei presa, appunto, con della
carta. Non un foglio normale, ma con qualcosa che devi per forza esserti
trascinata da sinistra verso destra. Sapevi che, se insisti sul punto di
giunzione nei bicchieri di carta, questi si strappano? Direi di sì, perché è
proprio quello che hai fatto prima. È da uno di quei bicchieri che vengono i
pochi residui di carta che hai sotto le unghie.»
Si
voltò, cominciando a passeggiare lungo la stanza. «Il punto è: perché hai
tormentato un povero bicchiere di carta? Perché di fronte a te c'era qualcuno
che era in grado di metterti in imbarazzo. Considerando, però, che sei una
ragazza sicura delle proprie capacità e che si trova a proprio agio anche con
gli uomini, la sola cosa che può averti creato imbarazzo in questa circostanza
può essere un ragazzo che ti piace, nient'altro.»
Concluse
voltandosi vittorioso in direzione di Emily, la quale, non volendo dargliela
vinta tanto facilmente, incrociò le braccia e lo guardò con sufficienza. «E se
avessi tormentato quel bicchiere per rabbia verso il mio docente di psicologia?»
chiese, con una tale sicurezza da lasciar intendere che quella fosse la verità.
Sherlock
rispose al suo sguardo alla stessa maniera, consapevole della sua farsa. «Hai
anche un leggero rossore alle gote, che non può essere dovuto al fatto che sei
rientrata di fretta. Sei arrivata qui otto minuti dopo l'arrivo della metro in
stazione, il che significa che hai percorso il tragitto con molta calma, forse
addirittura sovrappensiero.»
«Forse
ho corso per prendere la metropolitana dall'università.»
Sherlock
sollevò un sopracciglio, guardandola come si guarda un bugiardo quando si
conosce la risposta. «Quando passa puntualmente ogni tre minuti? Per favore,
non lo avresti mai fatto.»
Emily
lasciò cadere il silenzio, colpita ed eccitata di fronte all'ennesima
dimostrazione del genio che era l'uomo che aveva deciso di studiare.
«Ti
stai annoiando, vero?» domandò poi, consapevole che lui aveva appena dato prova
di sé proprio perché non lo faceva più da un po' e non perché fosse realmente
interessato a sapere chi avesse offerto un caffè a lei e, soprattutto, se a lei
quel chi piacesse o meno.
«Terribilmente»
sbuffò in risposta il detective.
«Beh,
ti tocca avere un po' di pazienza. Vedrai che ci sarà un bel omicidio di natale
su cui potrai indagare, non disperare» cercò di consolarlo lei, in un modo
abbastanza grottesco.
Sherlock
la guardò con un sopracciglio inarcato, un leggero sorriso a solcargli il
volto.
«Non
cercare di deviare l'argomento, so di aver indovinato. Allora, chi ti ha
offerto da bere?» la incalzò.
Emily
si arrese. Sapeva che a Sherlock non importava niente del suo incontro in
caffetteria, nonostante tutto, però, si ritrovò a sperare che in realtà lui
continuasse a chiederglielo perché almeno un po' gli interessava.
«Richard»
sospirò infine. «Si chiama Richard.»
Si
scoprì a sorridere al pensiero del ragazzo, del caffè bevuto insieme e della
loro conversazione, al punto da non accorgersi del fatto che Sherlock era
diventato improvvisamente serio al solo sentire quel nome. Non avrebbe potuto sospettarne
l’esatto motivo, non in quel momento, perciò quando lo guardò e lo trovò lì,
pensieroso, si disse che la cosa, come aveva creduto, non gli interessava
affatto.
«Comunque,»
disse, cambiando argomento, «c'era questa sotto la porta. È indirizzata a te,
sospetto siano auguri di natale. Da un’ammiratrice, probabilmente» concluse,
sorniona.
Allungò
a Sherlock una piccola busta in carta marrone, chiusa con un sigillo in ceralacca
rossa. Non vi era scritto alcun indirizzo, se non il nome del detective con
precisa calligrafia e inchiostro blu.
L’uomo
afferrò la piccola busta che Emily gli stava tendendo, accigliandosi
ulteriormente. Appena l’ebbe fra le mani la osservò attentamente in ogni sua
angolazione, facendosi aiutare dalla luce affinché ogni possibile segreto
racchiuso sulla carta potesse affiorare.
La
ragazza si accorse dell’improvviso cambiamento di Sherlock. Da annoiato che era
si era fatto improvvisamente taciturno, concentrato, addirittura cupo.
«Qualcosa
non va?» gli chiese infine, improvvisamente preoccupata.
Lui
si voltò a guardarla. Teneva ancora la busta in carta fra entrambe le mani,
come se fosse vitale. Lei portò istintivamente gli occhi su di essa,
costringendo il suo cervello a lavorare. Doveva esserci qualcosa in essa, anche
solo un collegamento, qualcosa di infinitesimale ma ugualmente in grado di far
scattare la mente del detective al punto di fargli recepire un messaggio
impossibile da comprendere per chiunque altro. Emily continuò a fissare con
insistenza quella busta, sentendo sempre lo sguardo vigile e serio di Sherlock
su di sé.
Come
se avesse letto nella mente della ragazza, all’improvviso l’uomo strinse con
forza maggiore la busta marrone e lo fece nel momento esatto in cui lei capì
quando Sherlock Holmes e John Watson avevano già incrociato qualcosa di simile.